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"DEUS CARITAS EST": LA VERITA’ RECINTATA!!!
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
FLS
LA CHIESA CATTOLICA-COSTANTINIANA (NICEA 325-2025) E IL SUO DIFFICILISSIMO COMPITO ANTROPOLOGICO E FILOLOGICO:
PENSARE LA "RICAPITOLAZIONE" NON PIù SECONDO LA #LOGICA TEANDRICA DEL #PAOLINISMO RIAFFERMATA DA BENEDETTO XVI, NEL SUO TESTAMENTO ("Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita - e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo.") E RIORGANIZZARE LA RELAZIONE DI #AMORE ("#CHARITAS") TRA LE FIGURE DEL #PRESEPE (#GRECCIO, 1223). #BuonAnno, #Buon2024
SCIOGLIERE I NODI, PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI: SE NON ORA, QUANDO?
NELL’ANNO DELL’#INCARNAZIONE DEL 2024 O DI #NICEA (325-2025)?! A 800 anni dal #presepe di #Greccio di Francesco di Assisi, è ancora difficile fare chiarezza sull’#androcentrismo cristologico e sul #corpo #mistico della #cosmoteandria di Paolo di Tarso (1 Cor. 11, 1-3: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio")?!
Se non ora, quando?! Non è ora di ammirare l’#alba della Terra ( https://it.wikipedia.org/wiki/Sorgere_della_Terra ), il #sorgeredellaTerra? (Federico La Sala)
Se in quest’ora tarda della mia vita guardo indietro ai decenni che ho percorso, per prima cosa vedo quante ragioni abbia per ringraziare. Ringrazio prima di ogni altro Dio stesso, il dispensatore di ogni buon dono, che mi ha donato la vita e mi ha guidato attraverso vari momenti di confusione; rialzandomi sempre ogni volta che incominciavo a scivolare e donandomi sempre di nuovo la luce del suo volto. Retrospettivamente vedo e capisco che anche i tratti bui e faticosi di questo cammino sono stati per la mia salvezza e che proprio in essi Egli mi ha guidato bene.
La teologia di Joseph Ratzinger
di Massimo Borghesi (Insula europea, 2 gennaio 2023)
Nei commenti che si succedono sulla figura di papa Benedetto l’attenzione cade sulla sua persona, il suo stile, la sua umanità dolce e gentile. Tutto ciò è importante. Ratzinger ha saputo, nonostante il suo riserbo, conquistarsi la stima e l’affetto di milioni di uomini. E tuttavia colui che ha governato la Chiesa per otto anni, dal 2005 al 2013, è stato grande anche per il modo in cui ha percepito l’essenza del cristianesimo nel mondo contemporaneo. Un modo che si riflette nella sua scelta di scrivere tre encicliche dedicate alle tre virtù teologali: Deus caritas est (2005), Spe salvi (2007), Lumen fidei, del 2013 che esce sotto il nome del nuovo papa Francesco. Che si manifesta altresì nella decisione di scrivere e pubblicare tre volumi sulla vita di Gesù di Nazareth nel 2007, nel 2011, nel 2012. Ciò che si palesa, nelle encicliche e nei volumi è un modo storico di intendere la fede.
La teologia di Ratzinger è storica, questo è il lascito spirituale ed intellettuale che egli consegna alla Chiesa. Illuminante, da questo punto di vista, è la sua biografia, il documento che, più di altri, ci apre le porte sulla sua formazione. Qui Ratzinger chiarisce gli autori che, nei suoi studi giovanili, ha sentito affini, e quelli, invece, verso cui maturava una distanza. La teologia di Ratzinger è, da subito, una teologia esistenziale, personalistico-agostiniana, distante dai moduli astratti della neoscolastica dominante prima del Concilio: “L’incontro con il personalismo, che poi trovammo esplicitato con grande forza persuasiva nel grande pensatore ebreo Martin Buber, fu un evento che segnò profondamente il mio cammino spirituale, anche se il personalismo, nel mio caso, si legò quasi da sé con il pensiero di Agostino che, nelle Confessioni, mi venne incontro in tutta la sua passionalità e profondità umane. Ebbi, invece, delle difficoltà nell’accesso al pensiero di Tommaso d’Aquino, la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, troppo impersonale e preconfezionata. Ciò dipese probabilmente anche dal fatto che il filosofo del nostro seminario, Arnold Wilmsen, ci presentava un rigido tomismo neoscolastico, che per me era semplicemente troppo lontano dalle mie domande personali[1]“.
La distanza del giovane Ratzinger dall’intellettualismo neoscolastico non prelude ad un atteggiamento antimetafisico come documenta la sua insistenza, da Papa, sul nesso fondamentale tra fede e ragione. Indica, però, una sottolineatura particolare della dimensione storica della fede la cui attualità non può essere esaurita da nessuna trascrizione filosofica. Il primato della realtà sull’idea, che costituisce un principio fondamentale della gnoseologia di Jorge Mario Bergoglio, è un punto fermo anche in Ratzinger. Ciò implica, dal punto di vista cristiano, un accordo tra storia della salvezza e metafisica che non sacrifichi la prima alla seconda e questo senza acconsentire al fideismo tipico della posizione protestante.
Come scriverà l’autore nella prefazione americana del suo volume del 1959 San Bonaventura. La teologia della storia: “quando nell’autunno del 1953 iniziai il lavoro di preparazione per questo studio, una delle questioni che occupavano un posto di primo piano all’interno dei circoli teologici cattolici di lingua tedesca era la questione concernente la relazione tra storia della salvezza e metafisica.
Si trattava di un problema sorto soprattutto dai contatti con la teologia protestante che, sin dai tempi di Lutero, tendeva a vedere nel pensiero metafisico un allontanamento dall’istanza specifica della fede cristiana, la quale non indica semplicemente all’uomo la via verso l’eterno ma verso quel Dio che opera nel tempo e nella storia. A questo riguardo sorsero interrogativi di carattere differente e di diverso ordine.
Come può divenire storicamente presente ciò che è avvenuto? Come può avere un significato universale ciò che è unico e irripetibile? Ma, d’altra parte, la “ellenizzazione” della cristianità, che tentò di vincere lo scandalo del particolare attraverso una miscela di fede e metafisica, non ha forse portato ad uno sviluppo in direzione sbagliata? Non ha creato uno stile statico di pensiero che non è in grado di rendere giustizia al dinamismo dello stile biblico? Queste domande esercitarono su di me un forte influsso ed io intendevo dare il mio contributo per rispondere ad esse[2]“.
Il giovane Ratzinger partecipava qui ad una tendenza che qualificava la parte migliore del pensiero cattolico, unitamente a quello protestante, del Novecento. Come scriveva Hans Urs von Balthasar nel 1951: «È certamente vero che oggi la teologia cattolica è dominata dall’inarrestabile tendenza a comprendere la storicità nella sua ampiezza e profondità. Preparato in Germania dalla scuola di Tubinga, in Francia da Blondel e Laberthonnière, in Inghilterra dalla scuola di Oxford e da Newman, questo movimento è rappresentato da tutti i maggiori pensatori cattolici»[3].
Nel contesto di allora questa direzione doveva muoversi evitando due tendenze contrarie: quella modernista condannata da Pio XII con la Humani generis, che favoriva il disprezzo degli aspetti razionali e filosofici della teologia; lo scolasticismo arido e razionalistico di un certo tomismo ufficiale dimentico della storicità della Rivelazione. Fuori da questi estremi si muoveva la riflessione di colui che Ratzinger ha sempre considerato come suo «maestro»: Gottlieb Söhngen, professore di teologia fondamentale presso la facoltà teologica di Monaco di Baviera. In Germania Söhngen è uno dei primi che avvia un ripensamento della teologia come historia salutis, centrale poi nel Concilio Vaticano II.
In un saggio del 1967 Ratzinger osserverà come «non si è ancora studiato il problema di quando e dove precisamente abbia avuto luogo la ricezione dell’idea di storia della salvezza in ambito cattolico. A mio modo di vedere nell’ambito della lingua tedesca per primo fu Gottlieb Söhngen che individuò il problema nel dialogo con Karl Barth ed Emil Brunner»[4]. Per Söhngen, il quale sottolineava «con forza che la verità del cristianesimo non è quella di un’idea valida in generale, ma la verità di un fatto avvenuto una volta sola»[5], la complementarità tra modello metafisico-astratto e quello storico-concreto era la chiave del discorso cattolico. Sotto la guida del suo maestro anche il giovane Ratzinger avvertiva l’urgenza di una concezione storica della salvezza come correttivo di un modo di impostare le questioni eccessivamente dislocato sul terreno metafisico.
Il primo lavoro di Ratzinger, su suggerimento di Söhngen, è la dissertazione per il dottorato su Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino. Una ricerca preziosa in cui l’autore tentava «di approfondire il modo in cui la concezione storica è andata sempre più imponendosi in Agostino nei confronti di una posizione inizialmente quasi puramente ontologica»[6].
Agostino, quindi, come correttivo all’eredità della scolastica, contrassegnata da un pensiero astorico. Correttivo parziale, però, nella misura in cui «Agostino nel De civitate Dei interrompe la storia dello stato di Dio con la nascita di Cristo e non include la storia della Chiesa nella sua considerazione»[7]. Vero è che «una certa valenza propria della storia della Chiesa si afferma manifestamente nei noti racconti di miracoli del De civitate Dei, XXII 8 col 760-771. Teologicamente questi racconti significano senza dubbio un nuovo sviluppo del pensiero di Agostino»[8]. Una direzione feconda che, tuttavia, richiedeva una riflessione ulteriore.
È in questa prospettiva che si situa il secondo lavoro di Ratzinger, la tesi di abilitazione per la libera docenza in teologia, a Monaco, San Bonaventura. La teologia della storia. Il grande maestro francescano offriva, al giovane teologo, la possibilità di delineare una teologia della storia comprensiva della Chiesa, capace quindi di delineare la presenza di Cristo nel tempo. Un cristocentrismo, quello bonaventuriano, che non incorreva nella trasformazione della necessità fattuale in quella metafisica. Il che è quanto accade, nel Novecento, nella dottrina della creazione, radicalmente cristologica, di Karl Barth, e, nel Medioevo, nella teologia francescana - e qui Ratzinger pensa a Duns Scoto -, «la quale si presenta dapprima come rigorosamente storico-salvifica, cioè cristologica, poi però nella esasperazione di tale punto di partenza dà all’insieme un ruolo metafisico nell’idea della praedestinatio absoluta di Cristo e raggiunge così l’abbandono del progetto originariamente storico-salvifico»[9]. La cristologia metafisica corre costantemente il rischio di risolvere la verité de fait nella verité de raison, di schiacciare l’Evento nella struttura, l’Unico nel modello. Non così in Bonaventura, per il quale Cristo come «centro» è inizio di una storia nuova al cui culmine v’è, nel tempo a lui presente, la figura cristologica di Francesco d’Assisi, la figura della santità come dilatazione di Cristo nel tempo.
Il tragitto ideale da Agostino a Bonaventura diviene in tal modo, nel giovane teologo, la via di scoperta della teologia della storia, di un approccio storico al cristianesimo. È a questo livello che si pone la differenza tra la sua prospettiva teologica e quella di Karl Rahner: “La sua teologia [di Rahner] - malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni - era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e della sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui alla fin fine la Scrittura e i padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai padri, da un pensiero essenzialmente storico. In quei giorni [durante il Concilio, nel 1962] ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui ero passato, e quella di Rahner[10]“.
Una differenza essenziale, tra teologia trascendentale di ascendenza idealistico-kantiana e teologia realistico-storica, che attraverserà tutto il pensiero teologico post.conciliare e troverà la sua espressione dialettica nelle due riviste che qualificheranno due indirizzi ideali: «Concilium» da un lato e «Communio» dall’altro. La riflessione di Ratzinger si poneva al di là della frattura che segna la teologia cristiana odierna, divisa tra una storia della salvezza radicalmente contraria alla metafisica - come accade nella teologia protestante (Barth, Bultmann, Culmann, Moltmann) - e un cristocentrismo ontologico (trascendentale o cosmico), di matrice cattolica, che svuota la novità della storia della salvezza.
Il pensiero cristiano, secondo Ratzinger, se voleva avere un futuro doveva ritrovare la giusta «tensione fra ontologia e storia», la quale «ha il suo fondamento ultimo nella tensione dello stesso essere umano, che dev’essere fuori di sé per poter essere in sé»[11]. Si rende così manifesto come «salvezza in quanto storia dice proprio che l’uomo non trova la salvezza nel venire-a-sé della riflessione, ma nell’essere portato-via-da-sé che va oltre la riflessione»[12].
Con ciò viene in primo piano la categoria dell’extra, dell’evento, di ciò che sta fuori del cerchio dell’io. È qui che si apre la dimensione storica della fede: “La fede poggia sul fatto che ci viene incontro qualcosa (o qualcuno) a cui la nostra esperienza di per sé non riesce a giungere. Non è l’esperienza che si amplia o si approfondisce - come nel caso dei modelli rigorosamente “mistici” - ma è qualcosa che accade. Le categorie di “incontro”, “alterità” (alterité, Lévinas), evento, descrivono l’intima origine della fede cristiana e indicano i limiti del concetto di “esperienza”. Indubbiamente ciò che ci tocca ci procura esperienza, ma esperienza come frutto di un evento, non di una discesa nel profondo di noi stessi. È proprio questo che si intende col concetto di rivelazione: il non-proprio, ciò che non appartiene alla sfera mia propria, mi si avvicina e mi porta via da me, al di là di me, crea qualcosa di nuovo. Questo è ciò che determina anche la storicità della realtà cristiana, che poggia su eventi e non sulla percezione della profondità del proprio intimo[13]“.
Forte di questa prospettiva Ratzinger ha criticato, con profonda competenza, gli indirizzi razionalistici derivati da un uso improprio del metodo storico-critico in sede esegetica. Un metodo che, laddove non venga assunto con consapevolezza critica, soggiace al dualismo illuministico tra verità di ragione e verità di fatto. È quanto accade nella teologia kerygmatica di Rudolf Bultmann: “Per Dibelius, Bultmann e la corrente principale dell’esegesi moderna, l’evento è l’elemento irrazionale. Esso appartiene al dominio della pura fatticità, composta dal caso e dalla necessità. Come tale, il fatto non può essere portatore di senso. Questo senso non è che nella parola; e là dove gli avvenimenti stessi sembrano essere portatori di senso, bisogna piuttosto considerarli come illustrazioni della parola e ad essa occorre riferirli[14]“.
Questa impostazione, riducendo l’evento storico a fatto “particolare”, irrazionale, si vieta, apriori, la possibilità che Dio possa manifestarsi nella storia. L’invisibile non può farsi visibile, il Verbo non può farsi carne. Con ciò questo metodo dimostra di essere legato ad una pregiudiziale che condiziona il lavoro della ragione. Diversamente, secondo Ratzinger: “occorre considerare tanto la parola quanto l’evento come originali, se si desidera restare fedeli alla prospettiva biblica. Il dualismo tra la parola e l’evento, che relega l’evento in una regione «senza parola», cioè senza significato, in realtà toglie anche alla parola la sua forza significante, perché questa si trova allora in un mondo privo di senso. Questo dualismo conduce ad una cristologia docetista, in cui la realtà, cioè l’esistenza concreta e carnale del Cristo e quella dell’uomo in generale, è esclusa dall’ambito del significato. Ma in questo modo si perde l’essenza della testimonianza biblica[15]“.
Questa “testimonianaza biblica”, fondata sulla realtà storica, è al cuore della teologia di Ratzinger. Per essa, da teologo e da Papa, si è battuto contro le forme “docetiste”, gnostiche, che svuotano, oggi come ieri, il messaggio cristiano, che impediscono al Verbo di farsi “carne”. È il lascito che consegna alla Chiesa e al pensiero cattolico. Come ha scritto nel suo testamento spirituale: “Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita - e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo[16]“.
[1] J. RATZINGER, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 44.
[2] J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, Edizioni Porziuncola, Assisi 2008, pp. 9-10.
[3] H. U. VON BALTHASAR, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano 1977, p. 358.
[4] J. RATZINGER, Storia della salvezza ed escatologia, in ID., Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1971, p. 74.
[5] Op. cit., p. 75.
[6] J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, cit., p. 114, nota 88
[7] J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1971, p. 321, nota 27.
[8] Op. cit., p. 321, nota 29.
[9] Op. cit., p. 318, nota 15.
[10] J. RATZINGER, La mia vita. Autobiografia, cit., p. 95.
[11] J. RATZINGER, Salvezza e storia, in Storia e dogma, cit., p. 110.
[12] Op. cit., p. 109.
[13] J. RATZINGER, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, pp. 91-92
[14] J. RATZINGER, L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea, in AA.VV., L’esegesi cristiana oggi, Piemme, Casale Monferrato 1991, p. 118.
[15] Op. cit., p. 120.
[16] L’integrale. Ecco il testamento spirituale di Benedetto: “Grazie a Dio e famiglia” («Avvenire» 31-12-2022).
IL SENNO DI PRIMA ("PROMETEO"), IL SENNO DI POI ("EPIMETEO"), I DISASTRI E IL "DISPOSITIVO DI DERIVAZIONE KANTIANA" ...*
Il sociologo.
Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima
Dopo il ragionamento è il solito, col senno di poi: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto?
di Maurizio Fiasco (Avvenire, sabato 18 agosto 2018)
Come accadono i disastri? C’è un’espressione, all’apparenza banale ma ricorrente, quando siamo sconcertati per un evento dai costi umani incalcolabili. «Col senno di poi». Che equivale: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto? Quel che ha condotto al precipitare di una situazione - fisica, come un ponte, oppure comportamentale come una battaglia, un volo, il funzionamento di uno stabilimento industriale - aveva già emesso dei segnali.
I disastri - risulta quasi sempre agli investigatori ex post - hanno avuto una incubazione, più o meno lunga. Incubazione tutt’altro che muta, o col bavaglio, anzi spesso visibile per un complesso di segnali. Come ha insegnato, quarant’anni fa un illuminato e inascoltato Barry Turner, non sono prevenuti - ovvero fermati da decisioni pragmatiche - per le patologie della comunicazione tra gli attori di un sistema. Industriale, amministrativo, finanziario, politico: non importa la scala di grandezza. Le incompetenze si strutturano e agiscono come un sistema.
I segnali sono sfuggiti a un apparato cognitivo, a una mente capace di connetterli e perciò di abbattere le barriere che inibiscono il giudizio. È mancata la responsabilità di contrastare la universale ottusità dei sistemi, di tutti i sistemi organizzativi. Che squalificano la coscienziosità di chi abbia colto il segnale e si sia posto in modo attivo per spingere al provvedere.
Egli finisce per scontrarsi con la gerarchia, con i muri levati su dai rituali dell’organizzazione, per impattare con la squalificazione che si replica davanti all’umile operatore che sta sul terreno e lì ’vede’ qualcosa che non va. Oppure c’è il feticcio della responsabilità di vertice. Chi è in alto - pensa il testimone dei segnali che il disastro sta inviando - lo capirà più e meglio di me.
Ma il superiore guarda al consenso e alle conferme di chi siede ancora più in alto di lui. E quest’ultimo rivolge la sua mente al mandato di chi è il supremo detentore di quel bene, di quella situazione, di quel dato potere. E tutto questo complesso di fattori cambia la prospettiva, perché il conformismo è più potente della psicologia della responsabilità.
A meno che nella persona responsabile in situazione trovino nutrimento valori morali assoluti: che spingono ad assumersi il rischio personale di andare controcorrente, e di superare derisioni e ostracismo, di non farsi influenzare dal dispositivo di derivazione kantiana, «faccio quel che devo, accada quel che può».
Insomma, la responsabilità, invece di essere ispirata a valori trascendenti, si attesta alla procedura, al ’di fronte’, a quel che le regole gerarchiche - per esempio il mandato degli azionisti - hanno assegnato. E così si scambia la diversa posizione ricoperta nella piramide organizzativa con la diversità di valori etici e professionali di quanti operano in una struttura complessa: che invece, a rigore, sono unici e universali. Cioè per tutti. Nelle forze armate, dal piantone al generale; nelle autostrade, dall’operaio che passa il bitume all’amministratore delegato della infrastruttura. Unitarietà dei valori e trasparenza della comunicazione sono la speranza del «senno di prima». Potremmo dire l’intelligenza del Buon Samaritano che si prende carico della complessità della situazione e non trascura alcuna variabile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
IL NATALE DI GESU’: L’INCARNAZIONE SECONDO L’ IMMAGINAZIONE "TEANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO. Gianfranco Ravasi ne ripropone una sintesi e la presenta come "il realismo del nascere nella storia"!!!
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.... *
L’ORIZZONTE DELLA CIVILTÀ E I DRAMMI CON CUI CONVIVIAMO
di don Paolo Farinella (la Repubblica, 10 giugno 2018)
«Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, sono della stessa essenza. Quando il tempo affligge con il dolore una parte del corpo (anche) le altre parti soffrono. Se tu non senti la pena degli altri, non meriti di essere chiamato uomo». Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu.
Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran 1203 - 1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, « Adamo » non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa « Umanità - Genere Umano » , senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale. L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di « civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
Due giorni fa, di mattina presto, un’amica mi ha inviato due video ripresi nei pressi della Regione Liguria dove dormivano persone per terra, « figlie di Adamo » , carne e sangue « della sua essenza » . Mi sono chiesto se la nostra civiltà non stia regredendo verso la preistoria, verso il nulla.
Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: « Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova sarà restaurata la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz. Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti.
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile)
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
Il Papa, la fede e il primato sul marxismo
Dipendiamo da Dio, il marxismo sbaglia a negarlo
Francesco presenta il libro di Ratzinger su fede e politica
“Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo”
di papa Francesco (La Stampa, 06.05.2018)
Il rapporto tra fede e politica è uno dei grandi temi da sempre al centro dell’attenzione di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI e attraversa l’intero suo cammino intellettuale e umano. L’esperienza diretta del totalitarismo nazista lo porta sin da giovane studioso a riflettere sui limiti dell’obbedienza allo Stato a favore della libertà dell’obbedienza a Dio: «Lo Stato - scrive in questo senso in uno dei testi proposti - non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello Stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno Stato che si chiama Babilonia, ma per ogni genere di Stato. Lo Stato non è la totalità. Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale. Lo Stato romano era falso e anticristiano proprio perché voleva essere il totum delle possibilità e delle speranze umane. Così esso pretende ciò che non può; così falsifica ed impoverisce l’uomo. Con la sua menzogna totalitaria diventa demoniaco e tirannico».
Successivamente, anche proprio su questa base, a fianco di San Giovanni Paolo II egli elabora e propone una visione cristiana dei diritti umani capace di mettere in discussione a livello teorico e pratico la pretesa totalitaria dello Stato marxista e dell’ideologia atea sulla quale si fondava.
Il marxismo
Perché l’autentico contrasto tra marxismo e cristianesimo per Ratzinger non è certo dato dall’attenzione preferenziale del cristiano per i poveri: «Dobbiamo imparare - ancora una volta, non solo a livello teorico, ma nel modo di pensare e di agire - che accanto alla presenza reale di Gesù nella Chiesa e nel sacramento, esiste quell’altra presenza reale di Gesù nei più piccoli, nei calpestati di questo mondo, negli ultimi, nei quali egli vuole essere trovato da noi» scrive Ratzinger già negli anni Settanta con una profondità teologica e insieme immediata accessibilità che sono proprie del pastore autentico. E quel contrasto non è dato nemmeno, come egli sottolinea alla metà degli anni Ottanta, dalla mancanza nel Magistero della Chiesa del senso di equità e solidarietà; e, di conseguenza, «nella denuncia dello scandalo delle palesi disuguaglianze tra ricchi e poveri - si tratti di disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri oppure di disuguaglianze tra ceti sociali nell’ambito dello stesso territorio nazionale che non è più tollerato».
Il profondo contrasto, nota Ratzinger, è dato invece - e prima ancora che dalla pretesa marxista di collocare il cielo sulla terra, la redenzione dell’uomo nell’aldiquà- dalla differenza abissale che sussiste riguardo al come la redenzione debba avvenire: «La redenzione avviene per mezzo della liberazione da ogni dipendenza, oppure l’unica via che porta alla liberazione è la completa dipendenza dall’amore, dipendenza che sarebbe poi anche la vera libertà?».
E così, con un salto di trent’anni, egli ci accompagna alla comprensione del nostro presente, a testimonianza dell’immutata freschezza e vitalità del suo pensiero. Oggi infatti, più che mai, si ripropone la medesima tentazione del rifiuto di ogni dipendenza dall’amore che non sia l’amore dell’uomo per il proprio ego, per «l’io e le sue voglie»; e, di conseguenza, il pericolo della «colonizzazione» delle coscienze da parte di una ideologia che nega la certezza di fondo per cui l’uomo esiste come maschio e femmina ai quali è assegnato il compito della trasmissione della vita; quell’ideologia che arriva alla produzione pianificata e razionale di esseri umani e che - magari per qualche fine considerato «buono» - arriva a ritenere logico e lecito eliminare quello che non si considera più creato, donato, concepito e generato ma fatto da noi stessi.
I «diritti apparenti»
Questi apparenti «diritti» umani che sono tutti orientati all’autodistruzione dell’uomo - questo ci mostra con forza ed efficacia Joseph Ratzinger - hanno un unico comune denominatore che consiste in un’unica, grande negazione: la negazione della dipendenza dall’amore, la negazione che l’uomo è creatura di Dio, fatto amorevolmente da Lui a Sua immagine e a cui l’uomo anela come la cerva ai corsi d’acqua (Sal 41). Quando si nega questa dipendenza tra creatura e creatore, questa relazione d’amore, si rinuncia in fondo alla vera grandezza dell’uomo, al baluardo della sua libertà e dignità.
L’uomo e Dio
Così la difesa dell’uomo e dell’umano contro le riduzioni ideologiche del potere passa oggi ancora una volta dal fissare l’obbedienza dell’uomo a Dio quale limite dell’obbedienza allo Stato. Raccogliere questa sfida, nel vero e proprio cambio d’epoca in cui oggi viviamo, significa difendere la famiglia. D’altronde già San Giovanni Paolo II aveva ben compreso la portata decisiva della questione: a ragione chiamato anche il «Papa della famiglia», non a caso sottolineava che «l’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia» (Familiaris consortio, 86). E su questa linea anche io ho ribadito che «il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa» (Amoris laetitia, 31).
Così sono particolarmente lieto di potere introdurre questo secondo volume dei testi scelti di Joseph Ratzinger sul tema «fede e politica». Insieme alla sua poderosa Opera omnia, essi possono aiutare non solo tutti noi a comprendere il nostro presente e a trovare un solido orientamento per il futuro, ma anche essere vera e propria fonte d’ispirazione per un’azione politica che, ponendo la famiglia, la solidarietà e l’equità al centro della sua attenzione e della sua programmazione, veramente guardi al futuro con lungimiranza.
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’Espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
di Massimo Franco (Corriere della Sera, 11.11.2016)
Il Vaticano aveva scelto la strategia del «male minore». E alla fine sembrava così rassegnato alla vittoria di Hillary Rodham Clinton da pensare a lei come alla candidata meno sgradita: sebbene forse non ci credesse fino in fondo. Donald Trump era considerato «non votabile» per le rivelazioni sul suo maschilismo aggressivo, che si aggiungevano alle minacce di deportare oltre il confine sud undici milioni di messicani, di impedire l’entrata negli Usa agli islamici: cose ormai archiviate.
E invece, il presunto «male maggiore» Trump è emerso a furor di popolo come nuovo inquilino della Casa Bianca, a conferma di un’America arrabbiata e radicalizzata.
E per la Santa Sede si tratta di una sconfitta bruciante: culturale prima che politica. Tra l’altro, è il segno che la Chiesa cattolica non aveva captato i sommovimenti più profondi in atto nel maggiore Paese occidentale.
La cautela ufficiale e le parole di augurio rivolte al neopresidente dal segretario di Stato vaticano, cardinale Piero Parolin, sono state doverose e ineccepibili. Ma si affiancano a una preoccupazione palpabile. Va detto che sarebbe stata una sconfitta anche se avesse vinto la Clinton, considerata un bastione del laicismo più ideologico e indigesto alle gerarchie ecclesiastiche. Ma Trump è simbolicamente «l’uomo del muro» col Messico. È il cantore della sbrigativa associazione Islam-terrorismo. Ancora, ha vinto dopo essersi presentato come argine «bianco» contro l’invasione demografica degli immigrati latino-americani, di cui l’argentino papa Francesco è il sommo protettore.
Così, a Roma è stato percepito e raffigurato come una sorta di anti Papa, al di là dei suoi meriti e demeriti. Lui stesso, d’altronde, scelse questo ruolo quando il 18 febbraio scorso accusò Jorge Mario Bergoglio di essere «un agente del governo messicano per l’immigrazione». Il Papa tornava da un viaggio al confine tra Messico e Usa, dove aveva celebrato una messa proprio sul versante «povero» . E reagì con una durezza insolita. «Chi pensa che bisogna costruire muri e non ponti», scolpì, «non è cristiano».
«Nessuno sa cosa è rimasto nell’anima di Trump dopo le parole del Santo Padre...», ammette un influente cardinale italiano. Allora, il candidato repubblicano replicò a brutto muso. Oggi, quella domanda rimbalza nella Roma papale, perché il «cristiano non cristiano» Trump dal 20 gennaio sarà alla Casa Bianca. La sua «cultura dei muri» e l’islamofobia minacciano di legittimare tutti i populismi; e soprattutto di fare breccia nei circoli cattolici più conservatori, che diffidano dei toni inclusivi di Bergoglio verso i divorziati e gli omosessuali e della difesa dei migranti.
Non è un caso che il 22 settembre scorso Trump, protestante presbiteriano, abbia diramato una lista di «trentatré cattolici conservatori» come consiglieri elettorali: era un amo elettorale.
L’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, ha definito la campagna per le presidenziali «disgustosa», pur invitando i cattolici a non astenersi. E l’episcopato americano si è tenuto su una posizione di formale equidistanza che è suonata come presa di distanza da entrambi i candidati; ma alla fine è apparso disorientato.
Nelle pieghe buie dei sondaggi è cresciuto silenziosamente un «partito di Trump» affezionato al motto «Dio, patria, famiglia e armi», caro all’America profonda; e appoggiato da pezzi di organizzazioni cattoliche potenti come i Cavalieri di Colombo, in quanto contrario all’aborto e alle unioni gay.
Ultimamente, anche in Vaticano si parlava sottovoce dell’esistenza di frange della Curia affascinate da Trump in opposizione alla «laicista Hillary», e come nemico di un establishment logorato dal potere. Si tratta di settori minoritari che però adesso si sentono rafforzati. Capofila è il cardinale Raymond Leo Burke, critico coriaceo delle aperture di Bergoglio: Burke ha già benedetto il neopresidente come «difensore dei valori della Chiesa». Ma dietro di lui si indovinano invisibili benedizioni di cardinali e vescovi di peso, schierati da sempre per la «sacralità della vita»: «guerrieri culturali» contro il Partito democratico di Barack Obama e dei Clinton.
La lotta all’aborto è uno dei punti di incontro fra Trump e l’episcopato cattolico nordamericano, che teme una Corte Suprema e una legislazione troppo progressiste. In più, potrebbe emergere una sintonia con Francesco se fosse confermata una politica più conciliante con la Russia di Putin, che il Vaticano considera un alleato in Medio Oriente e nei rapporti col mondo ortodosso. Al fondo, tuttavia, la vera incognita per Bergoglio rimangono l’Occidente e la sua metamorfosi culturale. «Crediamo che a votare per Trump siano stati pochi vescovi», spiega un profondo conoscitore degli Usa dentro la Santa Sede. «Il problema è che lo hanno votato molti cattolici».
Significa evocare un’opinione pubblica percorsa da pulsioni che vanno in direzione opposta a quella indicata da Francesco: in America e in Europa, dove la categoria del populismo va declinata con meno sufficienza, perché coinvolge anche persone che populiste non sono. C’è chi prevede che, se Bergoglio non ricalibra la strategia, dal prossimo Conclave potrebbe spuntare un Papa ultraconservatore. Il texano col cappello da cowboy e il crocifisso al collo, felice per l’elezione di Trump, che mercoledì 8 novembre è stato intervistato dai media statunitensi all’udienza in piazza San Pietro, non era un’anomalia. Era l’emblema di un paradosso destinato a scuotere la Chiesa di Francesco.
di Aldo Maria Valli *
Noi cristiani lo sappiamo, o dovremmo saperlo: la nostra fede è all’insegna dell’et et, non dell’aut aut. Non siamo esclusivisti. Dio è uno e trino. È Padre e Figlio e Spirito Santo. Gesù è Dio e uomo, vero Dio e vero uomo. Per il cristiano, l’uomo è carne e spirito, corpo e anima. Al cristiano piace integrare, includere, non ergere barriere. Con l’incarnazione Dio si è fatto uomo. La Chiesa stessa vive all’insegna dell’et et.
È Chiesa di preghiera e di azione, di grandi asceti e grandi lavoratori, di contemplazione e di missione. Ora et labora, non ora aut labora. La Chiesa ha i predicatori e i confessori, i monaci e le monache di clausura e i preti di strada. La Chiesa accoglie tutti: poveri e ricchi, colti e incolti, giovani e vecchi. Da qualche tempo però sembra di notare che alla logica dell’et et si stia sostituendo nella nostra Chiesa una logica diversa: quella del non solum, sed etiam, cioè del «non solo, ma anche». Potrebbe sembrare che, tutto sommato, non vi siano differenze, ma non è così.
Pensiamo ad Amoris laetitia, nella quale la logica del «ma anche» si trova un po’ ovunque. Dando vita spesso ad affermazioni singolari. Prendiamo per esempio il punto 308, dove si dice: «I Pastori che propongono ai fedeli l’ideale pieno del Vangelo e la dottrina della Chiesa devono aiutarli anche ad assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti».
Dobbiamo dedurne che il modo più efficace per essere compassionevoli non è esattamente quello di proporre l’ideale pieno del Vangelo? Quanto poi alla vexata quaestio circa la comunione ai divorziati risposati, qual è la conclusione? Dopo aver letto e riletto il testo più e più volte, la risposta è: comunione sì, ma anche no. Oppure: comunione no, ma anche sì. Nel documento, in effetti, entrambe le conclusioni sono legittimate. A ciò conduce la logica del caso per caso, a sua volta figlia dell’etica della situazione. Mi devo considerare un peccatore? Sì, ma anche no. No, ma anche sì. Dipende.
I sintomi della logica del «ma anche» emergono qua e là, in occasioni diverse, ma sono sempre più frequenti.
Vado in ordine sparso.
Primo esempio. Quando papa Francesco si è recato in visita alla chiesa luterana di Roma e gli è stato chiesto se un cattolico e un luterano possono partecipare alla comunione, Bergoglio, attraverso una lunga risposta a braccio, ha detto in sostanza: no, ma anche sì, bisogna vedere caso per caso, perché «è un problema a cui ognuno deve rispondere».
Secondo esempio. Quando, nella sala stampa vaticana, il cardinale Schönborn, commentando Amoris laetitia, ha detto che il divieto di fare la comunione, per i divorziati risposati, non è stato revocato, ma, attraverso la via caritatis indicata da Francesco, «si può dare anche l’aiuto dei sacramenti in certi casi», in pratica ha detto: no, ma anche sì; sì, ma anche no.
Terzo esempio. Quando Francesco, prendendo parte a un video sul dialogo interreligioso (nel quale appaiono un musulmano, un buddista, un ebreo e un prete cattolico) ha detto che le persone «trovano Dio in modi diversi» e «in questa moltitudine c’è una sola certezza per noi: siamo tutti figli di Dio», chi eventualmente volesse avere un’altra certezza di un certo spessore (qual è la vera fede?) potrebbe arrivare alla conclusione che è la nostra, ma anche quella degli altri.
Quarto esempio. Quando eminenti esponenti della curia romana ci dicono che la Chiesa, dopo la rinuncia di Benedetto XVI, ha sì un unico papa legittimo, però ha in effetti due successori di Pietro, entrambi viventi ed entrambi pienamente papi, si vede anche lì all’opera la logica del «ma anche»: abbiamo un papa, ma anche due. E se qualcuno, inopportunamente, sostenesse che non possono essere entrambi pienamente papi, la risposta sarebbe assicurata: perché no? Lo è l’uno, ma anche l’altro.
Mi fermo con gli esempi e vengo al dunque. Attenzione: i cattolici sono pluralisti e non amano l’uniformità. Fin dall’inizio le comunità cristiane nascono all’insegna dell’inculturazione della fede e dunque sono multiformi. Tanto è vero che ancora oggi abbiamo riti diversi. La Chiesa si incultura in Occidente e in Oriente, al Nord e al Sud, in ogni contesto. In quanto cattolica, è opportuno ripeterlo, si rivolge a tutti e tutti accoglie: non seleziona a priori su base di censo o di conoscenza. Altrimenti sarebbe settaria, non cattolica. E fin qui siamo in pieno nella logica dell’et et.
La logica del «ma anche» però è un’altra cosa. È la pretesa di tenere uniti gli opposti o comunque qualcosa che insieme non ci può stare, o ci può stare solo a prezzo di forzature. C’è una differenza profonda tra la logica dell’et et e quella del «ma anche». Se l’et et unisce, il «ma anche» più che altro giustifica. Se l’et et rispetta la complessità e la riporta a unità, il «ma anche» cerca di superare la complessità attraverso qualche scorciatoia logica ed etica. Laddove l’et et unisce, il «ma anche» banalizza. Mentre l’et et punta alla verità, il «ma anche» si mette al servizio dell’utilità.
Qualcuno dirà: scusa tanto, ma che c’è poi di male nella Chiesa del «ma anche»? È così bello poter dire sì ma anche no, no ma anche sì. È umano. Noi siamo creature complesse, dunque perché andare alla ricerca di impossibili risposte nette e univoche? È tanto bello e buono non giudicare e prendere la realtà per quella che è, cioè complicata e contraddittoria. Perché dobbiamo sottoporre le persone a dure prove? Non è meglio smussare gli angoli e giustificare?
Ecco che cosa c’è di male: che la Chiesa del «ma anche» sposa esattamente la logica del mondo, non quella del Vangelo di Gesù. E infatti riceve gli applausi del mondo. Ma noi sappiamo che questo non è un buon segno. Il cristiano, quando è coerente, è perseguitato dal mondo, non applaudito.
D’altra parte, mentre suscita gli entusiasmi degli atei e dei laicisti, che vi trovano conferme e giustificazioni, la logica del «ma anche» lascia perplessi coloro che sono in cerca della fede. Chi cerca la Verità con la V maiuscola non vuole scorciatoie e parole ambivalenti. Ha desiderio di indicazioni di senso.
Lo scivolamento dalla logica dell’et et a quella del non solum, sed etiam avviene ogni giorno, in modo magari impercettibile, ma inesorabile. E coinvolge persone degnissime e buonissime, convinte in cuor loro di essere al servizio del Vangelo. Più che colpevoli, sono vittime. Perché la logica del «ma anche» è nell’aria che respiriamo.
Essere uomini e donne dell’et et significa non essere ambigui e non lasciare spazio alla confusione. La logica dell’et et sfocia nell’inclusione, non nella confusione. Gesù, campione dell’et et e non dell’aut aut, ha raccomandato che il nostro parlare sia «sì sì, no no». La confusione e la doppiezza sono specialità del diavolo, che in questo modo persegue il suo obiettivo: separare.
Personalmente, proprio perché so che, come tutti, respiro ogni giorno aria impregnata dalla logica del «ma anche», per cercare di stare in guardia uso un semplice espediente: ogni volta che in un’argomentazione trovo sintomi di «ma anche», lascio che un campanello squilli nella testa e nel cuore. Lì, mi dico, c’è qualcosa che non va.
Lì il soggettivismo è in agguato. E quando poi il soggettivismo, come il lupo della favola, si traveste e indossa l’abito della coscienza morale e, per giustificarsi, dice con voce suadente «ma io, in coscienza...», il campanello suona ancora più forte.
E mi viene in mente il cardinale Newman, per il quale la coscienza non era la scorciatoia verso l’etica della situazione, ma l’originario vicario di Cristo.
Sentiamo in proposito le cristalline parole di Benedetto XVI (20 dicembre 2010): «Nel pensiero moderno, la parola “coscienza” significa che, in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui “coscienza” significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza - religione e morale - una verità, “la” verità».
«La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità, e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza, un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell’obbedienza verso la verità che, a passo a passo, si apriva a lui».
Il che spiega perché, nella famosa Lettera al Duca di Norfolk, Newman scrisse che, nel caso avesse dovuto portare la religione in un brindisi, certamente avrebbe brindato per il papa, ma prima per la coscienza e poi per il papa. Ovvero: prima per la ricerca della verità, poi per l’autorità.
Ecco: coscienza è capacità di verità. Quando la coscienza del cristiano abbandona il sentiero stretto e impervio di questa ricerca e si incammina lungo i boulevard del «ma anche» (illuminati dai mass media e gratificanti, ma senza uscita), ho l’impressione che rischi fortemente di perdersi. E di finire dritta dritta nella tana del lupo.
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Aldo Maria Valli , 28.05.2016.
Un appello del teologo Hans Küng a Francesco per annullare il dogma
Aboliamo l’infallibilità del Papa
di Hans Küng (la Repubblica, 09.03.2016)
È difficile immaginare che papa Francesco avrebbe fortemente voluto una proclamazione della infallibilità papale come quella che nel diciannovesimo secolo venne sollecitata da Pio IX con ogni mezzo. Si può invece ritenere che Francesco (come fece a suo tempo Giovanni XXIII davanti agli studenti del collegio greco) dichiarerebbe sorridendo: «Io non sono infallibile». Di fronte allo stupore degli studenti, Giovanni aveva aggiunto: «Sono infallibile solo quando parlo ex cathedra, ma non parlerò mai ex cathedra». Questo tema mi è familiare da tempo. Ecco qualche importante dato storico, che ho acquisito di persona e ho meticolosamente documentato nel quinto volume delle mie opere complete.
1950: Il 1° novembre Pio XII proclama come dogma di fronte a una folla gigantesca: «L’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». Allora, studente ventiduenne di teologia, accolsi con entusiasmo questo evento. Fu dunque un primo infallibile pronunciamento ex cathedra del supremo maestro e pastore della Chiesa cattolica, il quale si appellò alla particolare assistenza dello Spirito Santo, in piena conformità alla proclamazione dell’infallibilità papale avvenuta nel Concilio Vaticano I!
1958: Con la morte di Pio XII giunge alla fine anche il secolo dell’eccessivo culto di Maria promosso dai papi “Pii“. Il suo successore Giovanni XXIII è contrario a nuovi dogmi e la maggioranza del Concilio decide con una votazione aperta di non promulgare un proprio decreto su Maria, anzi, mette in guardia da manifestazioni esagerate di devozione mariana. 1965: Nella costituzione pastorale sulla Chiesa si trova - capitolo III sulla gerarchia - l’articolo 25 sull’infallibilità, che però sorprendentemente non viene affatto discusso. Tanto più che di fatto il Vaticano II ha proceduto a un allargamento sconcertante, estendendo espressamente e senza motivazione all’episcopato quell’infallibilità che il Vaticano I aveva attribuito solo al papa.
1968: Appare l’Enciclica Humanae Vitae sulla regolazione delle nascite. L’enciclica, che vieta come peccato grave non solo la pillola e i mezzi meccanici, ma anche l’interruzione del rapporto sessuale per evitare una gravidanza, viene percepita come un’enorme provocazione. Con essa il papa si pone in contrasto, per così dire, con tutto il mondo civilizzato, richiamandosi al suo infallibile magistero e a quello dell’episcopato. Certo, le proteste formali e le obiezioni materiali sono importanti, ma questa pretesa di infallibilità delle dottrine papali non può proprio essere riesaminata a fondo? Ne faccio un tema di discussione nel mio libro Infallibile? Una domanda, del 1970.
1979/1980: Revoca della mia abilitazione alla docenza in teologia cattolica. Che si trattasse di un’azione segreta preparata nel minimo dettaglio, dimostratasi contestabile sul piano giuridico, infondata su quello teologico e controproducente su quello politico, è ampiamente documentato nel secondo volume delle mie memorie, Verità contestata. A quel tempo il dibattito si soffermò a lungo su questa revoca della mia missio e sulla infallibilità. Tuttavia, la mia considerazione nella comunità religiosa non poté essere distrutta. E, come avevo previsto, le discussioni sui grandi compiti della riforma non sono cessate. Mi riferisco al dialogo interconfessionale, al reciproco riconoscimento delle funzioni e delle celebrazioni eucaristiche, alle questioni del divorzio e dell’ordinazione sacerdotale delle donne, al celibato ecclesiastico e alla drammatica crisi delle vocazioni, e soprattutto alla guida della Chiesa cattolica. Posi la questione: «Dove state portando questa nostra Chiesa?».
Dopo 35 anni, questi interrogativi sono attuali ora come allora. Ma la ragione decisiva dell’incapacità di realizzare riforme a tutti questi livelli continua ad essere la dottrina dell’infallibilità del magisterio, che ha portato alla nostra Chiesa un lungo inverno. Come allora Giovanni XXIII, anche oggi papa Francesco cerca con tutte le forze di far soffiare un vento fresco sulla Chiesa. E deve scontrarsi con una forte resistenza, come in occasione dell’ultimo sinodo mondiale dei vescovi dell’ottobre 2015. Non ci si faccia illusioni, senza una “re-visione” costruttiva del dogma dell’infallibilità un reale rinnovamento sarà ben difficilmente possibile.
Tanto più sorprendente, allora, è che la discussione su questo tema sia scomparsa dallo schermo. Molti teologi cattolici, temendo sanzioni come quelle che hanno colpito me, hanno quasi rinunciato a esprimere posizioni critiche sull’ideologia dell’infallibilità, e la gerarchia cerca, per quanto possibile, di evitare un tema così impopolare nella Chiesa e nella società. Solo poche volte Joseph Ratzinger vi si è richiamato, nella sua veste di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ma, tacitamente, il tabù dell’infallibilità ha bloccato tutte le riforme che, a partire dal Concilio Vaticano II, avevano sollecitato una revisione di precedenti definizioni dogmatiche.
2016: È il mio ottantottesimo anno di vita, e posso dire di non essermi risparmiato per raccogliere i numerosi testi compresi nel quinto volume delle mie opere complete. Ora, con questo libro in mano, vorrei rivolgere di nuovo al papa un appello che ho più volte inutilmente lanciato nel corso di una discussione pluridecennale in materia di teologia e di politica della Chiesa. Imploro papa Francesco, che mi ha sempre risposto in modo fraterno: «Riceva questa ampia documentazione e consenta nella nostra Chiesa una discussione libera, non prevenuta e aperta su tutte le questioni irrisolte e rimosse legate al dogma dell’infallibilità. Non si tratta di banale relativismo, che mina i fondamenti etici della Chiesa e della società. E nemmeno di rigido e insulso dogmatismo legato all’interpretazione letterale. È in gioco il bene della Chiesa e dell’ecumene.
Sono ben consapevole che a lei, che vive “tra i lupi“, questa mia preghiera potrà sembrare poco opportuna. Ma lo scorso anno lei ha coraggiosamente affrontato malattie curiali e perfino scandali, e nel suo discorso di Natale del 21 dicembre 2015 alla curia romana ha ribadito la sua volontà di riforma: “Sembra doveroso affermare che ciò è stato - e lo sarà sempre - oggetto di sincera riflessione e decisivi provvedimenti. La riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza, perché Ecclesia semper reformanda”.
Non vorrei accrescere in modo irrealistico le aspettative di molti nella nostra Chiesa; la questione dell’infallibilità nella Chiesa cattolica non può essere risolta dal giorno alla notte. Ma per fortuna lei è più giovane di me di quasi dieci anni e, come tutti ci auguriamo, mi sopravvivrà.
E certamente comprenderà che io, da teologo alla fine dei miei giorni, sostenuto da una profonda simpatia per lei e per la sua azione pastorale, abbia voluto, finché sono in tempo, esporre la mia preghiera per una libera e seria discussione sull’infallibilità, motivata come meglio posso nel presente volume: non in destructionem, sed in aedificationem ecclesiae, “non per la distruzione, ma per l’edificazione della Chiesa“. Per me personalmente sarebbe la realizzazione di una speranza mai abbandonata». (Traduzione di Carlo Sandrelli)
Il Dogma dell’infallibilità
di Hans Küng (la Repubblica, 28.04.2016)
IL 9 MARZO è apparso su importanti giornali di diversi Paesi il mio appello a papa Francesco per avviare una discussione libera, non prevenuta, aperta sulla questione dell’infallibilità. Mi ha fatto molto piacere ricevere già subito dopo Pasqua, attraverso la nunziatura di Berlino, una lettera personale di papa Francesco datata la domenica delle Palme (20 marzo).
In questa lettera sono per me molto significativi i seguenti punti: che papa Francesco mi abbia risposto e che non abbia, per così dire, lasciato cadere nel vuoto il mio appello; che abbia risposto di persona e non attraverso il suo segretario privato o il cardinale segretario di Stato; che sottolinei il carattere fraterno della sua lettera in spagnolo con l’appellativo tedesco «lieber Mitbruder» («caro confratello»), scritto in corsivo; che abbia letto attentamente l’appello che gli avevo rivolto anche in traduzione spagnola; che tenga in grande considerazione le riflessioni che mi hanno indotto a pubblicare il quinto volume dei miei scritti, nel quale propongo di discutere sul piano teologico, alla luce della Sacra Scrittura e della tradizione, le diverse questioni sollevate dal dogma dell’infallibilità, allo scopo di approfondire il dialogo costruttivo della Chiesa del ventunesimo secolo, «semper reformanda», con l’ecumene e la società postmoderna.
Papa Francesco non pone alcuna limitazione. Egli ha così corrisposto al mio desiderio di dar luogo a una libera discussione del dogma dell’infallibilità. Ritengo, perciò, che occorra utilizzare questo nuovo spazio libero per portare avanti il chiarimento delle definizioni dogmatiche contestate nella Chiesa e nell’ecumene cattolica.
Allora non potevo immaginare quale spazio libero avrebbe aperto pochi giorni dopo papa Francesco nello scritto apostolico post-sinodale Amoris laetitia. Già nell’introduzione egli dichiara che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero».
Egli si volge contro una «una morale fredda da scrivania» e non vuole che i vescovi continuino a comportarsi come «controllori della grazia ».
Non vede l’eucarestia come un premio per i perfetti, ma come un «alimento per i deboli». Cita ripetutamente affermazioni del sinodo dei vescovi e delle conferenze episcopali nazionali. Non vuole più essere il portavoce solitario della Chiesa. Questo è il nuovo spirito che ho sempre atteso dal magistero.
Sono convinto che in questo spirito anche il dogma dell’infallibilità, questa fondamentale questione chiave della Chiesa cattolica, potrà alla fine essere discussa in modo libero, non prevenuto e aperto.
Per questo libero spazio rivolgo a papa Francesco un ringraziamento profondamente sentito.
Aggiungo l’aspettativa che i vescovi, le teologhe e i teologi facciano proprio senza riserve questo spirito in un dialogo collegiale e collaborino a questo compito nel solco della Scrittura e della grande tradizione ecclesiale.
* Hans Küng è teologo, presbitero e saggista svizzero
Francesco apre il caso dell’infallibilità del Papa
Il teologo Küng: «Mi ha risposto con una lettera fraterna, non ha posto limiti alla discussione sul dogma»
Il dogma dell’infallibilità del Pontefice è stato sancito dal Concilio Vaticano I e da Pio IX il 18 luglio 1870. Stabilisce che il Papa non può sbagliare quando parla come dottore o pastore universale della Chiesa.
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 28.04.2016)
CITTÀ DEL VATICANO Racconta Hans Küng che la lettera di Francesco, con la data del 20 marzo, gli è stata recapitata attraverso la nunziatura di Berlino. Una lettera «che risponde alla mia richiesta di una libera discussione sul dogma dell’infallibilità» del Papa. «Mi ha risposto in maniera fraterna, in spagnolo, rivolgendosi a me come Lieber Mitbruder, caro fratello, e queste parole personali sono in corsivo», ha fatto sapere Küng.
Il grande teologo svizzero «per la riservatezza che devo al Papa» non cita frasi del pontefice. Però dice che «Francesco non ha fissato alcun limite alla discussione», che ha «apprezzato» le sue considerazioni. E con malcelato stupore fa notare quanto sia «per me importante» il fatto che abbia risposto di persona e soprattutto «non abbia lasciato, per così dire, cadere nel vuoto il mio testo».
E in effetti il testo, rivolto ad un pontefice, era impegnativo: «Imploro papa Francesco, che mi ha sempre risposto in modo fraterno: riceva questa ampia documentazione e consenta nella nostra Chiesa una discussione libera, non prevenuta e aperta su tutte le questioni irrisolte e rimosse legate al dogma dell’infallibilità. Non si tratta di banale relativismo, che mina i fondamenti etici della Chiesa e della società. E nemmeno di rigido e insulso dogmatismo legato all’interpretazione letterale. È in gioco il bene della Chiesa e dell’ecumene».
Küng lo aveva reso pubblico, tradotto in più lingue, il 9 marzo. Giunto all’ottantottesimo compleanno, «da teologo alla fine dei miei giorni, sostenuto da una profonda simpatia per lei e per la sua azione pastorale», il pensatore svizzero aveva rilanciato «un appello che ho più volte inutilmente lanciato nel corso di una discussione pluridecennale».
Francesco non ha mai parlato del dogma dell’infallibilità, sancito dal Concilio Vaticano I e da Pio IX il 18 luglio 1870. Del resto nessuno Oltretevere ritiene abbia mai pensato di metterlo in discussione. Bergoglio è il Papa della sinodalità ma ha ben presenti le prerogative del pontefice, che elencò in un discorso memorabile il 18 ottobre 2014, alla fine del Sinodo, citando il Codice di diritto canonico: il Papa è «il garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa, mettendo da parte ogni arbitrio personale, pur essendo - per volontà di Cristo stesso - il “Pastore e Dottore supremo di tutti i fedeli” (canone 749) e pur godendo “della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa” (canoni 331-334)».
Diverso è dire che Francesco non abbia posto «alcun limite alla discussione», come riferisce Küng. Anche perché si tratta del dogma forse più frainteso, oltre che dibattuto. Il Concilio Vaticano I non disse affatto, come molti credono, che il Papa è infallibile tout court . Il Papa è un essere umano e la prima cosa che Bergoglio disse al conclave, subito dopo l’elezione, fu: «Io sono un peccatore». Dopo lunghe discussioni, nel 1870 si stabilì che il Papa è infallibile solo «quando parla ex cathedra , cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi».
Sono casi rarissimi, come quando nel 1950 Pio XII proclamò solennemente l’Assunzione di Maria in cielo. Ma l’estensione dell’infallibilità resta dibattuta tra i teologi. La posizione di Küng è netta: vorrebbe abolirla o almeno sottoporla ad una revisione radicale. Già il fatto che Francesco non abbia posto un limite alla discussione, scrive, è una bella notizia: «Penso che sia ora indispensabile utilizzare questa nuova libertà per portare avanti la riflessione sulle definizioni dogmatiche, che sono motivo di polemica all’interno della Chiesa cattolica e nel suo rapporto con le altre chiese cristiane».
VATICANO, COPYRIGHT, E CARO-PREZZO ("CARITAS"): "IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA" A PAGAMENTO!!!
LA "LUCE DEL MONDO" SONO "IO"!!! CHE SUCCESSO, QUANTI SOLDI CON I DIRITTI DI AUTORE!!! --- IL NOME DI DIO E’ MISERICORDIA. Il titolo del libro-intervista di Papa Francesco con il vaticanista Andrea Tornielli (EDIZIONI PIEMME - GRUPPO MONDADORI)
I due Francesco, quello dei media e quello reale
Sempre più distanti tra loro. La narrazione pubblica continua a dipingere il papa come un rivoluzionario. Ma i fatti provano il contrario
di Sandro Magister *
ROMA, 15 maggio 2015 - Di papa Francesco ce ne sono ormai due e sempre più distanti tra loro: il Francesco dei media e quello vero, reale.
Il primo è arcinoto ed è andato in onda fin dalla sua prima apparizione sulla loggia della basilica di San Pietro.
È il racconto del papa che rivoluzione la Chiesa, che depone le chiavi del legare e del sciogliere, che non condanna ma solo perdona, anzi, nemmeno più giudica, che lava i piedi alla carcerata musulmana e al transessuale, che abbandona il palazzo per tuffarsi nelle periferie, che apre i cantieri su tutto, sui divorziati risposati come sui denari del Vaticano, che chiude le dogane del dogma e spalanca le porte della misericordia. Un papa amico del mondo, di cui già si magnifica l’imminente enciclica sullo "sviluppo sostenibile" prima ancora di vedervi cosa ci sarà scritto.
In effetti c’è parecchio, nelle parole e nei gesti di Jorge Mario Bergoglio, che si presta a questa narrazione.
Il Francesco dei media è un po’ anche creazione sua, geniale, che nel volgere di un mattino ha miracolosamente capovolto l’immagine della Chiesa cattolica da opulenta e decadente a "povera e per i poveri".
Ma se appena si tocca con mano che cosa ha portato davvero di nuovo il pontificato di Francesco, la musica cambia.
La vecchia curia, a ragione o a torto così esecrata, è ancora lì tutta intera. Niente è stato smantellato o sostituito. Le novità sono tutte un di più: altri dicasteri, altri uffici, altre spese. I diplomatici di carriera, che il Concilio Vaticano II quasi stava per abolire, sono più al potere che mai, anche dove ci si aspetterebbe di trovare dei "pastori": come alla testa del sinodo dei vescovi o della congregazione per il clero. Per non dire dell’"inner circle" a contatto diretto col papa, privo di ruoli definiti ma influentissimo e con penetranti ramificazioni nei media.
Poi ci sono le questioni scottanti, che appassionano e dividono molto di più l’opinione pubblica. Il divorzio, l’omosessualità.
Papa Francesco ha voluto che se ne discutesse a viso aperto e lui per primo l’ha fatto, con poche, studiate, efficacissime battute, come quel "Chi sono io per giudicare?" che è diventato il marchio identificativo del suo pontificato, dentro e fuori la Chiesa.
Per mesi e mesi, tra le due estati del suo primo e secondo anno da papa, Bergoglio ha dato spazio e visibilità agli uomini e alle correnti favorevoli a una riforma della pastorale della famiglia e della morale sessuale.
Ma quando, nel sinodo dello scorso ottobre, ha verificato che tra i vescovi le resistenze a questa riforma erano molto più forti ed estese del previsto, ha corretto il tiro e da lì in poi non ha più detto una sola parola di sostegno ai novatori. Anzi, ha ripreso a martellare sui temi controversi, aborto, divorzio, omosessualità, contraccezione, senza più staccarsi di un millimetro dal rigido insegnamento dei suoi predecessori Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Da ottobre a oggi, Francesco è intervenuto su tali questioni non meno di quaranta volte, attaccando pesantemente soprattutto l’ideologia del "gender" e la sua ambizione di colonizzare il mondo, nonostante, ha detto, sia "espressione di una frustrazione e di una rassegnazione che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa". Passando dalle parole ai fatti, ha negato il "placet" al nuovo ambasciatore di Francia, perché omosessuale.
Anche sul divorzio Francesco si è irrigidito parecchio. "Con questo non si risolve nulla", ha detto recentemente riguardo all’idea di dare la comunione ai divorziati risposati, tanto meno, ha aggiunto, se loro la pretendono, perché la comunione "non è una coccarda, una onorificenza, no".
Sa che in questa materia le aspettative sono altissime e sa di averle lui stesso alimentate. Ma ne ha preso le distanze. "Aspettative smisurate", le definisce ora, sapendo di non poterle soddisfare. Perché dopo aver tanto annunciato un governo della Chiesa più collegiale, del papa con i vescovi insieme, è giocoforza che Francesco si allinei al volere dei vescovi, in grande maggioranza conservatori, e rinunci a imporre una riforma respinta dai più.
Nonostante tutto, i media continuano a vendere il racconto del papa "rivoluzionario", ma il vero Francesco ne è sempre più lontano.
«G8» vaticano e viaggio ad Assisi Settimana di svolta per la Chiesa
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 28 settembre 2013)
Con il primo incontro del «consilium» degli otto cardinali e il pellegrinaggio ad Assisi in calendario la prossima settimana papa Francesco attraverserà due appuntamenti decisivi per la fisionomia del suo pontificato. È vero, infatti, che Bergoglio ha già segnato con tratto sicuro i binari spirituali del proprio ministero. Trasformare lo Stato della Città del Vaticano in una parrocchia e diventarne parroco ha già legato il suo papato a quella cura animarum rimasta in ombra negli anni che egli stesso ha definito della «ingerenza spirituale».
L’aver indossato con lieta eleganza l’abito della povertà ha già oscurato i disastri che negli anni scorsi avevano disgustato la Chiesa. L’aver scelto Gesù come registro del suo discorso l’ha già reso invulnerabile sia alla stizza di chi s’inchina solo al suo «ruolo» sia alle patetiche adulazioni che punteggiano questi mesi.
Eppure nella prossima settimana Francesco si misura (e per sua scelta) con «la» questione del cattolicesimo romano dell’ultimo mezzo secolo: quella della collegialità. Questo è il senso del «G8» dei porporati che comincia il 1° ottobre. Essi si adunano senza una bolla, una lettera, un’omelia che ne definisca lo statuto.
Uno scarno comunicato istitutivo evocava una loro funzione di consiglio «ad gubernandam ecclesiam», che andava nella direzione della collegialità conciliare. In predica Francesco ha alluso al bisogno di sinodalità di cui sono la risonanza. Un accenno agostano sugli otto come outsider lasciava intendere che non era per cavar da lì dei prefetti di curia che il Papa li aveva scelti. Ma di specifico null’altro.
Quasi che Francesco volesse fare «con» gli otto e non «prima» di loro un passo che avrebbe, quello sì, una portata storica. Perché quando il Papa dice in aereo le cose che tutti i parroci dicono in confessionale, colpisce un immaginario e soprattutto quell’immaginario incolto che vede nella Chiesa l’ottusa custode di un assolutismo della verità. Ma quando si misura - e con gli otto ha deciso di misurarsi - con «la» questione della collegialità scrive davvero la sua pagina di storia: quella che deciderà se Francesco vuol obbedire ora al concilio, rinviare questa obbedienza o delegarla al successore.
Chi per interesse o diffidenza vuol minimizzare Francesco dice che gli otto saranno soltanto l’analogo dei consultori che i superiori gesuiti si mettono accanto. Cioè uno strumento vuoto, reso amabile dalla personalità di Francesco, ma incapace di esprimere la comunione. Chi ha fiducia pensa che convocando un organo con atto primaziale il Papa ha mostrato che non ha in mente di mettersi attorno dei potenti chiamati a diluire «democraticamente» un potere monarchico, ma dei vescovi, capaci di far sentire nella Chiesa universale la voce delle chiese locali, «nelle quali e dalle quali esiste la Chiesa una e cattolica». Come già sognavano i gesuiti, padre Tucci e padre Bertuletti alla fine del Vaticano II e poi Martini.
Da questa «obbedienza» dipenderà anche la riforma della curia. Una riforma della curia che migliori gli standard etico-culturali del personale (come il Papa ha iniziato a fare) o che ottimizzi le procedure decisionali, ma che rimanga all’interno di una ecclesiologia universalista sarà effimera come quelle che l’hanno preceduta nel secolo XX. Se la curia, come ha detto papa Francesco, deve servire le chiese locali e le conferenze episcopali, bisogna cambiarne la posizione, l’atteggiamento, la mentalità. In altri termini la concezione del potere.
Ed è qui che si inserisce l’andata del Francesco papa da Francesco mendicante, il 4 ottobre. Bergoglio è cristiano troppo limpido per salire ad Assisi con l’intento di appropriarsi del dialogo interreligioso, di polemizzare con le fantasie antiche e recenti sulla nazione cattolica, di elogiare «il più italiano dei santi» o di usare il palcoscenico di Assisi per un ennesimo exploit.
Se Francesco va da Francesco è per dire che quel papato che aveva cercato di imbrigliare nella «forma della santa Chiesa romana», come scrive il testamento del Poverello, la chiamata dell’Altissimo a vivere «secondo la forma del santo Vangelo», cerca oggi di compiere la sua spoliazione: sull’onda di una profezia di papa Giovanni XXIII sulla chiesa dei poveri del 1962, di un paragrafo della «Lumen Gentium» del 1964, del Patto delle catacombe del 1965 con il quale i vescovi promettono le cose di cui Bergoglio vive, dopo il compromesso con il povero dell’assemblea di Medellín del 1968 - un papa di nome Francesco porta ad Assisi nel 2013 col suo nome, col suo stile il riconoscimento che la povertà si oppone e cura l’idolatria del potere, cura e sbriciola la persuasiva seduzione dei mezzi di potere.
È questo che disegnerà il profilo di una settimana difficile e la fisionomia di un pontificato che ha già segnato un tempo: il nostro.
ABBIAMO CREDUTO ALL’AMORE ( 1 Gv 4,16): MA AL DIO ("CHARITAS") DI GESU’ ("LUMEN GENTIUM") O AL DIO ("CARITAS") DI COSTANTINO E DI RATZINGER ("DOMINUS IESUS") E DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST")?! DI CHI SIAMO FIGLI E FIGLIE?!
"LUMEN FIDEI": LA "LUCE DELLA FEDE" MORTA E SEPOLTA SOTTO LA VOLONTA’ DI POTENZA DI RATZINGER: PAPA FRANCESCO HA FIRMATO! Una nota di Vito Mancuso - con appunti
Ciò che i governi hanno taciuto
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2013)
“Ha gettato fiori sul mare per ricordare i morti fantasma”, hanno scritto molti giornali per parlare della visita di papa Francesco a Lampedusa. Nessuno ha voluto dire senza ipocrisia che nel Mediterraneo non si muore per la violenza della natura o per la crudeltà del destino, ma a causa di un accurato piano elaborato con coscienza di causa (pena di morte) di un governo italiano. Lo ha detto il Papa dall’altare costruito alla buona, con legno di barche affondate, rivolto a chi comanda, a qualunque grado di responsabilità: “Per favore, non fatelo più”.
Non c’era aria da cerimonia o l’astuzia di dire cose buone. C’era verità e dolore del primo Papa che ha scelto di accorgersi che i profughi, i rifugiati, i migranti morti in mare non sono le dolorose vittime di una disgrazia. Sono morti ammazzati.
Ricordate? C’erano, in base a un trattato, veloci e armate motovedette italiane, con marinai italiani e ufficiali o poliziotti libici con il compito di “respingere”, negando non solo le leggi umanitarie, ma i doveri del mare. Finalmente si è saputo con chiarezza il numero: “almeno” 20 mila morti. Che vuol dire uomini e donne giovani, mamme incinte, adolescenti, bambini, che stavano fuggendo da guerre, persecuzioni e fame credendo che l’Italia fosse un Paese civile. Ma l’Italia era un Paese governato da Maroni e da Berlusconi, firmatari del tragico patto con la Libia.
Sapevamo, prima del Papa, che gli annegati a causa del nostro governo leghista, affarista, indifferente, crudele e stupido, erano “almeno” 20 mila? Lo sapevamo. Lo aveva detto Laura Boldrini, allora coraggiosa portavoce dell’Onu, al Comitato per i diritti umani della Camera dei deputati che io presiedevo. Lo aveva detto e testimoniato il solo deputato del Pd che era venuto con me a Lampedusa, Andrea Sarubbi (prontamente non più ricandidato). Lo avevano detto i sei deputati Radicali che non avevano smesso mai di denunciare con allarme ciò che stava accadendo.
Purtroppo i media hanno taciuto temendo il potere vendicativo Maroni-Berlusconi. Per questo dobbiamo dire grazie al Papa. Con un calice e una croce di legno e un timone ripescato dal mare accanto, ha detto, lui capo di un altro Stato, ciò che nessun italiano, inclusi i presunti buoni, aveva mai detto: “Per favore, per favore, non fatelo più”
Ecco la Lumen Fidei, la prima enciclica di papa Francesco ma redatta a quattro mani con Joseph Ratzinger. Il documento ripercorre la storia della fede cristiana
di Alessandro Speciale *
Città del Vaticano
La lettura della prima enciclica di papa Francesco, Lumen Fidei, pubblicata oggi, è un tuffo nel passato - un passato recente che pure sembra lontanissimo alla luce di quanto è accaduto nella Chiesa negli ultimi cinque mesi.
Il testo, come ha spiegato lo stesso papa argentino durante un incontro con il Sinodo dei vescovi, è di fatto frutto di un lavoro “a quattro mani”: Benedetto XVI aveva praticamente completato il testo prima delle sue dimissioni lo scorso 28 febbraio, e ha consegnato quanto aveva fatto al suo successore, che lo ha rivisto, integrato e lo ha fatto suo mettendoci la propria firma.
Sfogliandone le pagine, però, risulta evidente che nel testo - un testo relativamente breve, 91 pagine per 58 paragrafi - la mano prevalente è quella del pontefice tedesco. E non solo perché l’enciclica sulla fede conclude il trittico sulle virtù teologali iniziato con Deus Caritas Est sulla carità e proseguito con Spe Salvi sulla speranza. L’impianto del testo, i frequenti rimandi a filosofi e dibattiti vivi nella cultura tedesca degli anni ’60, l’insistere su alcuni temi, persino il paragone tra la fede e le cattedrali gotiche, dove “la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra”: tutto testimonia come papa Francesco abbia fondamentalmente deciso di rispettare e accogliere il lavoro del suo predecessore.
Francesco lo dice esplicitamente al paragrafo 7 dell’enciclica: “Queste considerazioni sulla fede - in continuità con tutto quello che il Magistero della Chiesa ha pronunciato circa questa virtù teologale -, intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi”.
Il titolo dell’enciclica, Lumen Fidei, “La luce della fede”, riassume la dinamica fondamentale lungo cui si muove il testo: la tradizione della Chiesa ha sempre associato la fede alla luce che disperde le tenebre e illumina il cammino; ma nella modernità la fede “ha finito per essere associata al buio”, è diventata sinonimo di oscurantismo: “Si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere”.
Il testo cita Nietzsche, uno dei punti di riferimento costanti - anche se naturalmente in negativo - del pensiero di Ratzinger, per il quale “il credere si opporrebbe al cercare”. Ma negli ultimi decenni, aggiunge, si è scoperto che la “luce della ragione”, da sola, “non riesce a illuminare abbastanza il futuro”: “L’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante”. Per questo, nel mondo di oggi, “è urgente recuperare il carattere di luce proprio della fede”, riscoprendo che sola la luce che deriva dal credere in Dio è “capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo”.
La strada per questa riscoperta del carattere ’luminoso’ della fede passa, naturalmente, dall’incontro con Cristo e con il suo amore: “Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro”.
Dopo l’introduzione, l’enciclica in quattro capitoli ripercorre la storia della fede cristiana, dalla chiamata di Abramo e del popolo di Israele fino alla risurrezione di Gesù e alla diffusione della Chiesa (Capitolo 1, “Abbiamo creduto all’amore”), il rapporto tra fede e ragione (Capitolo 2, “Se non crederete, non comprenderete”), il ruolo della Chiesa nella trasmissione della fede nella storia (Capitolo 3, “Vi trasmetto quello che ho ricevuto) e infine quel che la fede opera nella costruzione di società che mirano al bene comune (Capitolo 4, “Dio prepara per loro una città”). Lumen Fidei si conclude con una preghiera alla Madonna, modello di fede.
I due papi ricordano che la fede “ci apre il cammino e accompagna i nostri passi nella storia”. Per capire che cosa è la fede è necessario quindi “raccontare il suo percorso, la via degli uomini credenti, testimoniata in primo luogo nell’Antico Testamento”. La fede, infatti, affonda sì le radici nel passato ma è nello stesso tempo “memoria futuri”, memoria del futuro, e per questo è “strettamente legata alla speranza”.
È un tema che ritorna anche nella conclusione dell’enciclica, in uno dei passi in cui è forse possibile riscontrare più evidente la collaborazione dei due pontefici. È infatti la speranza, “nell’unità con la fede e la carità”, a collocare l’uomo in una prospettiva diversa rispetto alle “proposte illusorie degli idoli del mondo”, donando “nuovo slancio e nuova forza” alla vita di ogni giorno. Il punto di incontro tra fede e speranza è soprattutto la sofferenza: “La fede è congiunta alla speranza perché, anche se la nostra dimora quaggiù si va distruggendo, c’è una dimora eterna che Dio ha ormai inaugurato in Cristo, nel suo corpo”. Di qui l’appello agli uomini affinché non si lascino “rubare la speranza”.
Per questo la morte e risurrezione di Gesù sono centrali nella fede cristiana: mostrano che la fede è “veramente potente, veramente reale”, che è in grado di incidere sulla realtà in modo concreto - qualcosa che la nostra cultura ha ormai perso la capacità di concepire: “Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti”.
La fede, poi, è una e crea unità mentre il suo opposto, l’idolatria, è sempre un “politeismo” che “non offre un cammino ma una molteplicità di sentieri che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto”. Questa unità della fede implica quindi che essa non è mai qualcosa di individuale ma è sempre vissuta in mezzo ed insieme agli altri, nella comunità della Chiesa, senza che per questo il singolo con la sua individualità ne risulti schiacciato (sta qui, tra l’altro, la ragione del battesimo dei neonati). La Chiesa non vuole ridurre “il credente a semplice parte di un tutto anonimo, a mero elemento di un grande ingranaggio”.
L’unità della fede significa anche che non c’è distinzione tra il credere dei ’semplici’ e quello degli intellettuali - un rifiuto dello “gnosticismo” che ritorna spesso in papa Francesco - ma anche che non si può assumere la fede ’a pezzi’, scegliendo solo quello che più piace: “Ogni epoca può trovare punti della fede più facili o difficili da accettare: per questo è importante vigilare perché si trasmetta tutto il deposito della fede”.
E questo vale anche per il teologo, che deve mettere la sua ricerca “al servizio della fede dei cristiani”, nella Chiesa, senza considerare “il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni, costitutivi”.
Nel secondo capitolo, quello dedicato al rapporto tra fede e ragione, torna il classico tema ratzingeriano del relativismo, legato al rifiuto del mondo moderno di accettare ogni affermazione della “verità”, vista come una prevaricazione dell’altro e come la radice del “fondamentalismo” che andrà inevitabilmente a sfociare nella “violenza”. Quello della verità è il “grande oblio” del mondo moderno, in un clima di pensiero relativista in cui la “domanda sulla verità di tutto, che è in fondo anche la domanda su Dio, non interessa più”. Invece, per i due papi, “la fede, senza verità, non salva” né “rende sicuri i nostri passi”.
Allo stesso tempo, se da una parte “l’amore ha bisogno di verità” per trovare un fondamento stabile e non ridursi “a un sentimento che va e viene”, dall’altra anche “la verità ha bisogno dell’amore”, perché “senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona”. Il vero credente, infatti, “non è arrogante” perché “la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti”.
E questo cammino è aperto anche per quei non credenti che tuttavia “desiderano credere e non cessano di cercare”. L’enciclica valuta positivamente gli sforzi di quegli ’atei devoti’ che “cercano di agire come se Dio esistesse, a volte perché riconoscono la sua importanza per trovare orientamenti saldi nella vita comune”.
Infine, la fede è un “bene comune” che non allontana il credente dal mondo ma lo pone “al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace”: “Essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza”. Grazie ad essa le famiglie scoprono la forza e i motivi di rimanere assieme “per sempre” e giovani, in eventi come le Gmg, assaporano il desiderio di una “vita grande”. La fede, infatti, “non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita”.
Chiesa anestetizzata dal fascismo
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 4 giugno 2013)
Il rapporto fra Chiesa e fascismo è questione storica di ovvia importanza. Appassiona i professionisti del mestiere così come lo studio delle relazioni tra cattolicesimo e Terzo Reich, ortodossia e Urss, clero e franchismo, o tra episcopati e giunte militari dell’America Latina.
Tuttavia nel rapporto Chiesa-fascismo del periodo 1921-1945 c’è qualcosa di più: perché ciò che si consuma riverbera nella storia italiana ben oltre la parabola della dittatura. Quasi che il cattolicesimo romano abbia allora acquisito mentalità che perdurano nell’Italia della guerra e in quella repubblicana, in quella democristiana e in quella postdemocristiana. Una cultura del nemico, una presunzione d’astuzia nel giudicare le situazioni, un agnosticismo istituzionale e costituzionale che si fida di interlocutori improbabili: purché capaci d’interpretare gli «interessi superiori» della Santa Sede, così come appaiono al fallibilissimo giudizio di chi se ne fa custode.
È per questo, a mio avviso, che non sbaglia chi dietro ai grandi disastri antichi e recenti della storia nazionale postula una qualche responsabilità ecclesiastica: mai univoca (il cattolicesimo porta sempre in sé gli anticorpi della riformabilità); mai generalizzabile (le opzioni sconfitte lasciano spesso le tracce di un possibile riscatto); mai priva di compensazioni (il lavoro di formazione delle coscienze fatto negli anni del «Du-ce, Du-ce» ha alimentato per decenni le scorte morali del Paese). Eppure una responsabilità reale: che dipende dalle posture politiche apprese durante il fascismo e con le quali la Chiesa italiana non si è mai misurata con la limpidità d’altri.
I vescovi tedeschi, all’indomani della sconfitta, avviarono edizioni e studi organici sul rapporto col nazismo; i vescovi argentini, per prendere un caso diverso ed ora a tutti noto, hanno accolto l’appello alla purificazione di Wojtyla e hanno fatto solenne ammenda della loro tiepidezza e complicità davanti alle sparizioni.
Il cattolicesimo italiano non ha fatto né l’uno né l’altro. Associatasi in nome di Pio XII defensor urbis al riscatto resistenziale, rigenerata nella sua credibilità politica dalla Dc di Dossetti e De Gasperi, la Chiesa ha rinviato, derubricandola a propaganda ostile, la domanda di fondo: perché un mondo capace di vedere i mali del regime, di elencarli nero su bianco, ne subisce la propaganda e la seduzione? E la ricerca storica, che quarant’anni fa aveva iniziato una riflessione su questo problema, s’è poi frantumata in molte analisi specialistiche tutte di pregio, ma di scarso costrutto.
Oggi le cose sono cambiate: l’apertura delle carte di Pio XI permette di progettare un «progetto culturale» degno di questo nome per rispondere alla domanda sul cattolicesimo; e la mancanza di un quadro rigoroso d’insieme è stata colmata dal ricchissimo volume di Lucia Ceci L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini (pp. 338, 22), in libreria per i tipi di Laterza.
A Lucia Ceci, punta di lancia dell’Università di Roma Tor Vergata, si dovevano già scoperte documentarie fondamentali su quell’assioma - il Papa non deve parlare - che poi deflagrerà durante la Seconda guerra mondiale e la Shoah.
In questa sua nuova fatica ripercorre invece i rapporti Chiesa-fascismo nella loro interezza, quasi a riprendere il filo d’un discorso lasciato interrotto da Pietro Scoppola quarant’anni fa: riconnette con intelligenza in una visione di insieme quasi tutti gli studi che avevano trovato, capito o equivocato, singoli episodi. L’opera è seria e profonda: ma insieme ha una leggibilità di tipo anglosassone (quanto mai apprezzabile in una storiografia come la nostra, che ritiene sgradevole rendersi comprensibili o, peggio che mai, interessanti) e si presta, se avrà le traduzioni che merita, a far conoscere fuori dall’orto italico lo spessore di una ricerca di cui è un frutto alto.
Nel concreto L’interesse superiore fa capire che la grande anestesia del cattolicesimo, davanti a un regime di cui volta a volta qualche voce riconosce la pericolosità e la bestialità liberticida, è la somma di una infinità di microanestesie locali: la paura dei rossi, il sogno di una restaurata cristianità, il trascinamento della predicazione del disprezzo antiebraico, l’anticomunismo, la dottrina del matrimonio, si mescolano e fin dalla prima apparizione di Mussolini sulla scena pubblica convincono i grandi opinion leader della Santa Sede a comparare costi e benefici.
Un sistema di cui alla fine della vita Pio XI percepisce la perversione: ma il tardivo pianto (quando pronuncia la frase sul «siamo tutti spiritualmente semiti», Papa Ratti piange) non muta l’atteggiamento di fondo.
Pio XII, nota giustamente Lucia Ceci, arriva a far sparire il discorso del predecessore sul Concordato non perché questo fosse particolarmente puntuto: ma solo perché avrebbe ridotto le capacità di interlocuzione che durano nel tempo, fino a poche ore dalla fucilazione di Dongo.
In questo volume appaiono le figure di questa interlocuzione: da quella meschina e viscida di Pietro Tacchi Venturi a quella contraddittoria di Ildefonso Schuster. Emergono i percorsi, da quello degli allucinati difensori del razzismo cattolico (quello «sano», che non offendeva gli ebrei convertiti) fino a quello dei Montini e dei De Gasperi.
Mentre viene mostrato il progressivo soffocamento dell’antifascismo alle origini del regime - oggetto di un non meno importante studio di Alberto Guasco in uscita dal Mulino - la riemersione di una ostilità al regime non viene censita con la stessa metodicità: e per un motivo ragionevole. È proprio la cultura della sottrazione - quella che pensa che la verità storica si ottenga sottraendo gli eroismi dei singoli agli errori delle istituzioni - che L’interesse superiore rifiuta: e in questa opzione mostra cosa sia stato, alla luce di una ricerca vasta ma prima d’ora dispersa, il rapporto fra la Chiesa e il regime, nel suo tempo e forse anche un po’ dopo.
di esponenti della Chiesa cattolica universale
in “www.churchautority.org” dell’ottobre 2012 (versione italiana nel sito)
Dichiarazione di studiosi cattolici
In occasione del cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II (1962-1965), invitiamo tutti i membri del Popolo di Dio a esaminare la situazione nella nostra chiesa.
Molti insegnamenti del Vaticano II non sono stati affatto, o solo parzialmente, tradotti in pratica.
Questo è dovuto alla resistenza di certi ambienti, ma anche, in una certa misura, alla irrisolta ambiguità di alcuni documenti del Concilio.
Una della principali cause della stagnazione odierna dipende dal fraintendimento e abuso nell’esercizio dell’autorità nella nostra Chiesa. In concreto le seguenti tematiche richiedono una urgente riformulazione.
Il ruolo del papato necessita di una chiara ri-definizione in linea con le intenzioni di Cristo. Come supremo pastore, elemento unificante e principale testimone di fede, il papa contribuisce in modo essenziale al bene della chiesa universale. Ma la sua autorità non dovrebbe mai oscurare, diminuire o sopprimere l’autentica autorità che Cristo ha dato direttamente a tutti i membri del popolo di Dio.
I vescovi sono vicari di Cristo e non vicari del papa. Essi hanno la diretta responsabilità del popolo delle loro diocesi, e una condivisa responsabilità con gli altri vescovi e con il papa, nell’ambito dell’universale comunità di fede.
Il Sinodo dei vescovi dovrebbe assumere un più decisivo ruolo nel pianificare e guidare il mantenimento e la crescita della fede nel nostro mondo così complesso.
Il Concilio Vaticano II ha prescritto collegialità e co-responsabilità a tutti i livelli. Questo non è stato messo in atto.
I vari organismi presbiterali e consigli pastorali, previsti dal Concilio, dovrebbero coinvolgere i fedeli in modo più diretto nelle decisioni riguardanti la formulazione della dottrina, l’esercizio del ministero pastorale e l’evangelizzazione nell’ambito della società secolare.
L’abuso di coprire posti di guida nella chiesa con soli candidati di una determinata mentalità, è una scelta che dovrebbe essere sradicata. Al suo posto dovrebbero essere formulate e monitorate nuove norme che assicurino che le elezioni a queste cariche siano condotte in modo corretto, trasparente e, il più possibile, democratico.
La curia romana ha bisogno di una riforma più radicale in linea con le istruzioni e la visione del Vaticano II.
La curia si dovrebbe limitare ai suoi utili ruoli amministrativi ed esecutivi.
La congregazione per la dottrina della fede dovrebbe essere coadiuvata da commissioni internazionali di esperti, scelti, con indipendenza, per la loro competenza professionale.
Questi non sono per nulla tutti i cambiamenti necessari. Ci rendiamo anche conto che l’attuazione di queste revisioni strutturali necessitano di una elaborazione dettagliata in linea con le possibilità e le limitazioni delle circostanze presenti e future.
Sottolineiamo, però, che le riforme, sintetizzate qui sopra, sono urgenti e la loro attuazione dovrebbe partire immediatamente.
L’esercizio dell’autorità nella nostra chiesa dovrebbe emulare gli standards di apertura, responsabilità e democrazia raggiunti nella società moderna.
La leadership dovrebbe essere corretta e credibile; ispirata dall’umiltà e dal servizio; con una trasparente sollecitudine per il popolo invece di preoccuparsi delle regole e della disciplina; irradiare Cristo che ci rende liberi; prestare ascolto allo Spirito di Cristo che parla e agisce attraverso tutti e ciascuno.
I nomi dei primi 160 firmatari, Sponsor Accademici della Dichiarazione (tra i quali citiamo: Leonardo Boff, Pedro Casaldaliga, Hermann Häring, Hans Küng) e dei (ad oggi 19 febbraio) 2048 sottoscrittori sono visibili al sito: http://www.churchauthority.org/.
Trascinato a fondo da Bertone di Marco Politi in “il Fatto Quotidiano” del 17 febbraio 2013
Chi crede ai presagi ricorda il 13 gennaio 2008. Nella Cappella Sistina Ratzinger celebra dimostrativamente la messa preconciliare, voltando le spalle ai fedeli. Gli cade l’anello papale. Perderà il regno. Nei fatti il lungo addio di Benedetto XVI dal pontificato comincia l’ultima settimana di luglio del 2010, quando concede al suo biografo Peter Seewald sei giorni di colloqui per un libro-intervista, destinato a risollevare la sua popolarità dopo la grave crisi seguita all’affare Williamson (il vescovo lefebvriano cui è stata tolta la scomunica benché sia un accanito negatore dell’Olocausto) e le aspre polemiche su come da cardinale ha trattato casi di pedofilia negli Stati Uniti e nella sua diocesi a Monaco di Baviera.
Il prestigio di Benedetto XVI è scosso. Accetta una domanda sulle dimissioni. Seewald gli chiede se c’è un momento “opportuno” per darle. Il papa risponde: “Sì”. In caso di stress “fisico, psichico e mentale” un pontefice ha il diritto e “a certe condizioni ha anche il dovere di ritirarsi”.
Oltre due anni fa Ratzinger considera dunque concreta l’opzione dell’abdicazione. Unica remora: non fuggire nell’ora del pericolo. Lo scandisce a Seewald. (Il 2010 è l’anno della grande crisi sugli abusi sessuali nella Chiesa). Si può fare, spiega il Papa, in un “momento tranquillo”. La prima parte del 2011 trascorre mentre il pontefice rimugina sull’opzione-dimissioni.
C’è un flash back da fare. Aprile 2005: una lobby di cardinali conservatori lo porta a forza al papato. Ma i falchi della tradizione non riescono a imporre a Benedetto XVI un loro segretario di Stato, un conservatore efficiente. Ratzinger -“ timido ma ostinato”, così lo definisce un porporato nordeuropeo - vuole scegliere lui. Porta in Curia personaggi sbiaditi come i cardinali Levada, suo successore alla Congregazione per la Dottrina delle fede, o l’indiano Ivan Dias a Propaganda Fide.
Per segretario di Stato sceglie Bertone, ex segretario al Sant’Uffizio. È la scelta che lo rovinerà. Bertone è malvisto in Curia perché non ha esperienza diplomatica né conoscenza della macchina curiale. Collezionerà ostilità per la sua tendenza a collocare suoi uomini nei gangli del potere economico vaticano e perché ritenuto “accentratore ma improvvisatore”, come si esprime un monsignore.
È troppo debole per fare cambiare opinione a Ratzinger in certi frangenti, che riguardano il rapporto con l’islam e l’ebraismo, e troppo ossequioso nei confronti del pontefice quando dovrebbe avvertirlo di disastri imminenti.
È responsabilità di Bertone non avere bloccato l’affare Williamson, è sua responsabilità lasciar designare arcivescovo di Varsavia una ex spia dei servizi segreti comunisti polacchi, monsignor Wielgus, dimessosi con gran vergogna della Santa Sede.
Ma Benedetto XVI non riesce a separarsi da Bertone, che è il suo bastone d’appoggio psicologico, senza il quale è smarrito negli affari curiali. Sul finire del 2011 la destra curiale, irritata perché il papa non cambia segretario di Stato, lancia l’ultimo avvertimento per ridare efficienza alla Santa Sede. Fa filtrare la notizia-provocazione di imminenti dimissioni papali. Ne parla il ciellino Antonio Socci su Libero il 25 settembre 2011.
Poco dopo, agli inizi del 2012, approda in Vaticano il misterioso appunto sull’“attentato al papa” (pubblicato dal Fatto). È un documento grandguignolesco, manipolato da ambienti ecclesiali ultra-conservatori, che però allinea elementi fatti per riflettere: Benedetto XVI durerà ancora “un anno” (e in effetti...), c’è un forte contrasto fra lui e Bertone, il cardinale Scola è il successore in pectore.
A ruota un fan ratzingeriano come Giuliano Ferrara scrive a maggio: “Il mio sogno è che il papa si dimetta... Il governo tecnico della Chiesa non è il suo mestiere”. È il momento in cui Benedetto XVI si accorge che il malumore sinora indirizzato verso Bertone si sta rovesciando su di lui (che ha già perso da tempo il favore dei cattolici riformisti). La Chiesa divisa sembra convergere nel giudizio negativo sulle sue capacità di governo.
Con l’escalation di Vatileaks Ratzinger si convince che il suo ciclo è chiuso. (Lo stesso Osservatore certifica che le dimissioni entrano in agenda dal marzo 2012). Tanto più che Bertone ha compiuto scelte su cui Benedetto XVI e il segretario Gaenswein sono perplessi: il siluramento di Viganò, il ridimensionamento dell’Authority che doveva ispezionare i flussi di denaro in Vaticano, la cacciata di Gotti Tedeschi da presidente dello Ior.
Paradossalmente lo trascina a fondo il suo braccio destro. In autunno il papa ordina di restaurare il convento di clausura, in cui - si saprà l’11 febbraio di quest’anno - decide di ritirarsi. La macchina dell’addio si mette in moto.
L’infallibilità con la scadenza
di Vito Mancuso (la Repubblica, 14.02.2013)
IERI il portavoce della Sala Stampa Vaticana, il gesuita padre Lombardi, ha dichiarato che dalla sera del 28 febbraio prossimo Joseph Ratzinger non sarà più infallibile. Ora, se è già difficile capire come un essere umano possa giungere a essere infallibile, forse ancora più difficile è comprendere come possa all’improvviso cessare di esserlo. È stato però lo stesso padre Lombardi a chiarire bene la questione.
E ha sottolineato che l’infallibilità “è connessa al ministero petrino, non alla persona che ha rinunciato al Pontificato”. L’attuale pontefice cioè è infallibile in quanto papa Benedetto XVI, perché, da papa, gode della particolare grazia legata al suo stato di Romano Pontefice, che la teologia chiama precisamente “grazia di stato”. Non è per nulla infallibile invece in quanto individuo di nome Joseph Ratzinger, il quale, da uomo come noi, può sbagliare nelle cose ordinarie della vita, per esempio nei giudizi sulle persone (e non penso ci possano essere dubbi sul fatto che su qualcuno dei collaboratori non abbia sempre visto giusto), nei giudizi politici, e persino in quelli biblici e teologici.
Ratzinger era del tutto consapevole di tutto ciò, visto che scrisse nel suo primo volume su Gesù che “ognuno è libero di contraddirmi”, e che cosa spinge un papa a dire che ognuno è libero di contraddirlo (persino quando scrive su Gesù!), se non precisamente la consapevolezza della sua umana possibilità di sbagliare? Ma se le cose stanno così, in che cosa precisamente consiste l’infallibilità papale e da dove viene?
L’infallibilità che spetta al Romano pontefice è il penultimo dei dogmi dichiarati dalla Chiesa cattolica. Venne proclamato dal Concilio Vaticano I con la Costituzione dogmatica Pastor aeternus del 18 luglio 1870, in un’Europa che il giorno dopo avrebbe visto lo scoppio della Guerra franco-prussiana tra il Secondo Impero francese e il Regno di Prussia e in una Roma che quasi già preavvertiva l’arrivo delle truppe piemontesi pronte a dare l’assalto alla capitale dello Stato pontificio. Il papa regnante era Pio IX, che sei anni prima aveva pubblicato una vera e propria dichiarazione di guerra al mondo moderno, il famoso Sillabo ossia raccolta di errori proscritti.
Ad essere assediata quindi, prima ancora che lo fosse la capitale dello Stato pontificio, era la mente cattolica, che assisteva all’inarrestabile processo che l’andava privando di quel primato morale e spirituale che deteneva da secoli. Si spiega così il desiderio di accentramento attorno alla figura del papa e del suo primato da cui scaturì il dogma dell’infallibilità pontificia. Esso dichiara che il Romano pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando definisce una dottrina in materia di fede e di morale, gode di infallibilità. E che per la fede cattolica non si tratti di un semplice optional, ci ha pensato il Vaticano I a renderlo chiaro: “Se poi qualcuno, Dio non voglia!, osasse contraddire questa nostra definizione: sia anatema”. Anatema, per chi non lo sapesse, è sinonimo di scomunica.
Dal 1870 a oggi il dogma dell’infallibilità è stato usato solo una volta, per la precisione da Pio XII nel 1950 quando proclamò il dogma dell’Assunzione in cielo della Beata Vergine Maria in corpo e anima. Ma nonostante l’uso parsimonioso, la questione dell’infallibilità divenne rovente lo stesso a causa del celebre teologo svizzero Hans Küng che, precisamente per aver criticato l’infallibilità pontificia con un libro che fece epoca dal titolo Infallibile? Una domanda (1970), venne privato da Giovanni Paolo II della qualifica di teologo cattolico.
È credibile oggi un dogma come quello dell’infallibilità papale? A mio avviso esso finisce piuttosto per allontanare dal sentimento religioso. Io penso infatti che per la coscienza sia la stessa nozione di infallibilità a risultare oggi improponibile, quando le stesse scienze esatte si dichiarano consapevoli di presentare dati sempre sottoposti a possibile revisione e come tali dichiarabili solo “non falsificati” e mai assolutamente veri.
Viviamo in un’epoca in cui la stessa nozione teoretica di verità risulta poco credibile, tanto più se si tratta di verità assoluta, dogmatica, indiscutibile. Ratzinger lo sa bene, e non a caso da tempo accusa quest’epoca di “relativismo”, ma non è colpa di nessuno se le cose sono così, è lo spirito dei tempi che si muove e si manifesta nelle menti dopo un secolo qual è stato il ’900, e occorre prenderne atto se si vuole continuare a parlare al mondo di oggi.
Anche alla luce del fatto che un papa, Onorio I, venne dichiarato eretico dal concilio ecumenico Costantinopolitano III, Küng proponeva di sostituire a infallibilità il concetto di indefettibilità, intendendo dire con ciò che la questione sottesa all’infallibilità non riguarda la ragione teoretica, ma la volontà, “il cuore” come direbbe Pascal, ovvero che la Chiesa non verrà mai meno al compito bellissimo di essere fedele al suo Signore e al primato del bene e dell’amore che ne consegue. A me pare una proposta più attuale, più umile, più evangelica.
LA SCELTA DI PIETRO
Il Papa: vicino nella preghiera anche se rimango nascosto al mondo *
Sono molto grato per la vostra preghiera. Anche se mi ritiro adesso in preghiera, sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che voi lo sarete, anche se per il mondo rimango nascosto". Lo ha detto Benedetto XVI nel corso dell’incontro con i parroci romani nell’Aula Paolo VI. Il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, ha rivolto un discorso di omaggio e di saluto al Pontefice.
"Padre santo - ha detto nel suo saluto il card. Vallini, anch’egli con voce rotta dalla commozione -, nel corso di questi anni lei ci ha sempre chiesto di accompagnarla con la preghiera e in questi giorni difficili la richiesta è diventata più pressante". A nome dei sacerdoti di Roma, ha aggiunto il vicario, "che al Papa vogliono davvero bene che ci impegniamo a pregare ancora di più per lei".
* Avvenire, 14 febbraio 2013
intervista a Fulvio Ferrario,
a cura di Paola Cavallari e Lucia Scrivanti
in “Esodo” n° 4, dell’ottobre-dicembre 2010
La prima questione che ti poniamo è un commento al passo di Matteo 16,18 ("E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa") - un commento da te, pastore valdese e affermato professore di teologia.
La teologia protestante e quella cattolica hanno da tempo acquisito che la figura di Pietro, già prima, e sicuramente dopo la morte di Gesù, ha svolto un ruolo preminente all’interno del gruppo più stretto intorno al Signore. Prima della Pasqua, troviamo nella tradizione sinottica il fatto che Pietro è il portavoce del gruppo dei dodici, e che comunque svolge un ruolo di preminenza. Dopo la Pasqua, Pietro è il primo nelle liste delle apparizioni, e tutto lascia pensare che l’iniziativa di ricostituire il gruppo dei discepoli dopo la morte di Gesù risalga a Pietro.
Un consenso trasversale tra protestanti e cattolici? Non sussistono problemi di interpretazione?
Sì. Questo consenso non conosce al suo interno delle differenziazioni confessionali, perché da tempo l’esegesi a livello scientifico si è emancipata dalle ipoteche confessionali. Ma qui finisce il piano della constatazione storica.
I problemi dei protestanti non sono con Pietro, sono con il pontefice romano Benedetto XVI. Cominciano con l’idea di successione. La domanda è se la figura di Pietro come tale, e il ruolo che Pietro ha avuto possano ammettere l’idea di una successione; se il ruolo di Pietro non si sia esaurito con Pietro.
Il passo che lega a Pietro l’idea della custodia di una tradizione relativa a Gesù: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa", certamente, dal punto di vista di chi l’ha scritto, non prevede che altre persone esercitino lo stesso ruolo dopo Pietro. Quello che si vuol dire, invece, è che la tradizione su Gesù è legata al nome di questo testimone.
Prova ne sia che il passo di Matteo è riferito al vescovo di Roma solo a partire dal III secolo. Per 250 anni a nessuno è venuto in mente di legare il passo di Matteo su Pietro alla figura del vescovo di Roma. In una prima fase, a Roma non c’è stato un monoepiscopato; nel I secolo a Roma la chiesa era una rete di gruppi governata da un collegio di presbiteri. Il monoepiscopato, l’idea cioè di un vescovo unico in una chiesa locale, si stabilisce a Roma relativamente tardi.
Poi, dopo la morte di Ignazio di Antiochia - che è colui che dall’oriente importa in occidente l’idea dell’episcopato unico - a Roma vediamo apparire il vescovo.
Passano ancora cent’anni circa e, a questo punto, la sede romana rivendica una sorta di primato tra le chiese. È questa la fase in cui si passa dal greco al latino, come lingua ufficiale della chiesa, ed è anche la fase in cui il vescovo di Roma si comprende come successore di Pietro. Egli inizia a citare il passo petrino come testimonianza di una particolare autorità del vescovo di Roma.
La chiesa di Roma, prima d’allora, era comunemente definita la chiesa di Pietro e di Paolo, con riferimento al fatto che entrambi erano morti martiri a Roma. Nel III secolo essa inizia a essere chiamata la chiesa di Pietro - non più di Pietro e Paolo. Si osserva un’esigenza di legare un mito di fondazione alla funzione di accentramento della figura dirigente. Questo è il quadro.
Il testo di Matteo non ha nulla a che vedere con la questione confessionale relativa al papato come funzione primaziale del vescovo di Roma. Stupisce che - dopo tutto quello che l’esegesi ci ha spiegato - in alcuni testi ancora oggi - penso, ad esempio, all’enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II - la rivendicazione del primato del vescovo di Roma venga motivata con riferimento al passo petrino.
Se capiamo bene, allora, l’esegesi scientifica, sia cattolica, sia protestante, attesta che, dopo la morte di Pietro come guida nel primo periodo - guida motivata dalle stesse parole di Gesù - ci sia stata una sorta di eclisse del modello monocratico, che riemergerà dopo secoli nel monoepiscopato...
È tutto diverso. L’evangelo di Matteo fa un discorso sulla persona di Pietro. La persona di Pietro muore a Roma verosimilmente sotto Nerone. Il Nuovo Testamento non è in alcun modo nemmeno sfiorato dall’idea che esista qualcosa come una successione a Pietro in una funzione. Questo può essere letto solo in lavori che non hanno un carattere scientifico. Negli altri, invece, si sostiene che il Nuovo Testamento non ha alcuna idea di una successione alla figura di Pietro. O, più spesso, non si affronta nemmeno il tema.
A Roma non c’era un vescovo - una persona singola - ma un collegio. L’idea che una successione a Pietro godrebbe delle prerogative e delle promesse associate al passo matteano di Gesù è, lo ripeto, del III secolo. Cioè nasce ed è documentata per la prima volta in una fase tardiva, nella quale la chiesa di Roma rivendica un primato rispetto alle altre chiese.
Quale sarebbe stata allora l’esigenza per cui Gesù avrebbe pronunciato la famosa frase del passo matteano, creando così il "primato" di Pietro?
Non possiamo più risalire all’intenzione del Gesù della storia. Quello che possiamo dire è che Matteo, nel momento in cui scrive il vangelo, cioè più o meno 50 anni dopo la morte di Gesù, intende affermare che le tradizioni relative a Gesù che si richiamano a Pietro - cioè che sarebbero state tramandate da Pietro e dai suoi seguaci - dispongono di una particolare autorevolezza. È verosimile, in base a criteri di critica storica, che Pietro abbia svolto una funzione particolare nel gruppo di persone più vicine a Gesù.
Ci può essere qualche legame con il conflitto Pietro/Paolo nel cosiddetto concilio di Gerusalemme?
La questione non era tanto tra Pietro e Paolo, i quali si sono scontrati in un’altra disputa ad Antiochia, relativa alla partecipazione dei non cristiani di origine ebraica alla cena. Il conflitto era tra Paolo e i giudei cristiani, cioè tra Paolo e i cristiani di origine ebraica/palestinese di Gerusalemme. Paolo era uno dei cristiani ebrei di lingua greca: si trattava dei cosiddetti ellenisti, come li chiama il libro degli Atti. I cristiani palestinesi (di lingua greca) erano i "progressisti", per così dire, invece i cristiani di lingua aramaica erano il partito conservatore; essi pensavano che, siccome Gesù era nato ebreo ed era ebreo, per diventare cristiani occorresse diventare ebrei, cioè farsi circoncidere; Paolo li chiama anche giudaizzanti. Questo era lo scontro.
Paolo si reca a Gerusalemme, Pietro assume, per quel che noi ne possiamo sapere soprattutto da quanto possiamo dedurre dalle epistole di Paolo - infatti il libro degli Atti è assai successivo alla fonte -, il ruolo di mediazione tra il partito giudeo palestinese duro, che viene identificato sempre col nome di Giacomo - Paolo lo chiama il fratello del Signore - e Paolo stesso.
In mezzo c’è Pietro, che in qualche modo cerca di mediare. Ma il ruolo primaziale nella comunità di Gerusalemme, se mai ce n’è stato uno, non era di Pietro ma di Giacomo, per quel che noi possiamo capire in base alla testimonianza di Paolo.
Tutta la discussione relativa al primato di Pietro non si situa nel contesto di Gerusalemme, ma già dopo il trasferimento di Pietro a Roma. La questione Pietro/Paolo non è la più lacerante. Appare invece evidente una dicotomia Paolo/Giacomo. Ad un certo punto, Pietro si schiera, in una discussione ad Antiochia - sempre secondo Paolo - troppo dalla parte di quelli di Giacomo, e questo crea uno scontro tra i due.
Ma allora sorge una domanda: non avrebbe dovuto essere Pietro questo “capo” della comunità, secondo quanto abbiamo detto prima?
Non è questo il punto, perché la tradizione che pone in luce Matteo si sviluppa altrove. Non bisogna pensare a Gerusalemme come ad un centro da cui tutto si dipana. Il conflitto tra Giacomo e Paolo si verifica prima che venga scritto l’Evangelo di Matteo. Non solo, ma l’Evangelo di Matteo non si sa dove sia stato scritto, pensiamo alla Siria; quindi da un’altra parte.
La tradizione relativa al primato di Pietro - tradizione che si consolida nell’Evangelo di Matteo, e il riferimento c’è solo in Matteo - non gioca alcun ruolo nella disputa tra Paolo e Giacomo. Paolo non ne sa nulla. Non c’è nessun passo nelle lettere di Paolo, da cui noi apprendiamo che Pietro sia stato investito di una particolare responsabilità da parte di Gesù.
C’è un errore di prospettiva nella domanda, che deriva da questo presupposto: all’origine c’è il passo petrino, che è precedente a tutto, poi viene il resto...
In un certo senso ci troveremmo di fronte ad un presupposto vero perché, se l’avesse detto Gesù - ma non possiamo ricostruire se storicamente sia così - l’avrebbe detto prima. Però quello che noi conosciamo è una tradizione filtrata dalla teologia di Matteo. E il Vangelo di Matteo è stato scritto ben dopo le dispute tra Paolo e Giacomo. Ben dopo l’invio o l’andata di Pietro a Roma, ben dopo la morte di Pietro.
Ora vorremo sapere un tuo parere sul dogma dell’infallibilità papale.
Il dogma dell’infallibilità papale viene definito nel 1870, in un momento in cui Roma sta per essere attaccata dall’esercito italiano. Il Concilio Vaticano I° viene interrotto a motivo della presa di Roma da parte dei bersaglieri dell’esercito italiano. Rappresenta il culmine di un processo iniziato con la controriforma, ma che ha avuto una accelerazione nell’800 col papato di Pio IX. Roma vuol accentuare il peso della tradizione, contrapponendosi al Sola scriptura dei protestanti. Roma si richiama così ad una tradizione orale che sarebbe antecedente alla Scrittura. Col tempo questa tradizione viene identificata col magistero ecclesiastico: esso sarebbe il custode della tradizione, e il magistero ecclesiastico viene poi identificato col papato.
Il dogma del 1870 è un frutto del cosiddetto ultramontanismo, di quel movimento centrato sulla autorità del papa, che pretende di resistere all’illuminismo, al liberalismo, insomma alla modernità. I dogmi del Vaticano I sono due: l’infallibilità dottrinale del papa quando parla ex cathedra, e il primato di giurisdizione del pontefice romano. Quindi un’estrema personalizzazione e accentramento del ministero, dell’autorità in ambito dottrinale e morale.
E un commento protestante?
Il fenomeno rappresenta il punto di vertice di un processo di lievitazione incontrollata dalla funzione del vescovo di Roma. È un lungo percorso, le cui tappe sono, ad esempio, prima Leone Magno, poi Gregorio VII, quindi Innocenzo III, la Controriforma, eccetera. Ma certamente il papato della Riforma, quello con cui polemizza Lutero, dal punto di vista dottrinale e dogmatico, è molto più leggero del papato di Pio IX. Ad esempio, nel dibattito ecumenico attuale, se la dottrina romana relativa al papato fosse quella del XVI sec., per molti protestanti oggi - e certamente per molti ortodossi - non ci sarebbero ostacoli decisivi.
Paolo Ricca parla di carismi differenti, a proposito delle diverse confessioni cristiane. Esiste, a tuo parere, un qualche carisma anche nella figura dell’autorità papale in sé, a prescindere dalle "degenerazioni" storiche che si sono create nel tempo?
No, io non credo. Può darsi che esistano dei protestanti che rispondano affermativamente. Io credo che storicamente il papato abbia svolto un ruolo pernicioso per l’unità cristiana. Il papato ha favorito sia la divisione tra l’Oriente e l’Occidente, sia quella, all’interno dell’Occidente, tra le chiese della Riforma e la chiesa che non ha accolto la Riforma. Poi, all’interno del cattolicesimo romano, ha favorito lo scisma dei vecchi cattolici - quelli che non hanno accettato il dogma dell’infallibilità; e, sempre dentro la chiesa romana, ha favorito tutti gli scontri successivi - ad esempio, il modernismo
sulla libertà. Ha favorito un accentramento del quale la chiesa romana ha incredibilmente sofferto.
Se in altre condizioni il vescovo di Roma potrebbe o potrà svolgere un ministero diverso, è una questione che allo stato attuale non è dato di dirimere. Sono molto drastico: l’idea che spesso si dà del ministero papale come un ministero di unità è ideologica. Di fatto il papa ha svolto e svolge una funzione di divisione.
Ma non si potrebbe pensare, in qualche modo, ad una funzione di utilità, all’interno di una chiesa ecumenica, nella figura di un primate?
Bisogna distinguere due questioni. Quello che afferma il dogma del primato - più che quello dell’infallibilità - è che il vescovo di Roma esercita un primato di giurisdizione sulla chiesa universale per diritto divino, perché tale primato corrisponde alla volontà di Dio nella sua rivelazione in Gesù Cristo. Questo viene rifiutato dagli evangelici. Una questione diversa è se, dal punto di vista della praticità - e non dal punto di vista del diritto divino -, sia o meno utile che un vescovo eserciti una questione presidenziale in una ipotetica chiesa ecumenica, cattolica, una sorta di coordinatore, di portavoce, di presidente. Spesso si discute di questo, ma è una discussione campata per aria, perché in realtà quello che esiste de facto è un papato romano, il quale si fa forte di un apparato dogmatico, cioè di due dogmi della fede che lo riguardano.
Per quanto riguarda le altre forme di esercizio del papato, diverse da quelle attuali, che a suo tempo Giovanni Paolo II ha ipotizzato, bisogna dire che il problema non riguarda l’esercizio, bensì la concezione che il papato ha di se stesso. Solo che queste forme di esercizio più collegiale del primato non le ha mai viste nessuno. Quali sono? Sarebbe interessante - ma non risolutivo - vedere queste nuove forme più collegiali all’opera all’interno della chiesa romana. Ma qui, invece, continua ad operare un forte centralismo papale, per nulla collegiale. Anzi, le prerogative dei singoli vescovi e del collegio episcopale sembrano oggi notevolmente ridotte rispetto al primo decennio successivo al Concilio Vaticano II.
di Anne-Marie de la Haye e la segreteria del Comité de la Jupe
in “www.comitedelajupe.fr” del 27 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Siamo delle cristiane e dei cristiani, fedeli al messaggio del vangelo, e viviamo lealmente questo attaccamento all’interno della Chiesa cattolica. La nostra esperienza professionale, i nostri impegni associativi e le nostre vite di uomini e di donne ci danno la competenza per analizzare le evoluzioni dei rapporti tra gli uomini e le donne nelle società contemporanee, e per discernervi i segni dei tempi.
Abbiamo preso conoscenza delle raccomandazioni del nostro Santo Padre, papa Benedetto XVI, rivolte al Pontificio Consiglio Cor Unum, nelle quali esprime la sua opposizione nei confronti di quella che chiama “la teoria del genere”, mettendola sullo stesso piano delle “ideologie che esaltavano il culto della nazione, della razza, della classe sociale”. Riteniamo questa condanna infondata ed infamante. Il rifiuto che l’accompagna di collaborare con ogni istituzione suscettibile di aderire a questo tipo di pensiero, è ai nostri occhi un errore grave, tanto dal punto di vista del percorso intellettuale che della scelta delle azioni intraprese a servizio del vangelo.
Affermiamo qui, con la massima solennità, che non possiamo aderirvi.
In primo luogo, è sterilizzante. Infatti, nel campo del pensiero, rifiutare di prender conoscenza di certe opere, o di affrontare argomenti con certi partner senza mostrare a priori un atteggiamento benevolo e disponibile al dibattito non è il modo migliore per progredire in direzione della verità.
Che cosa sarebbe successo se Tommaso D’Aquino si fosse astenuto dal leggere Aristotele, con il pretesto che non conosceva il vero Dio e che le sue opere gli erano state trasmesse da traduttori musulmani?
Del resto, sul campo, sapere se si deve o meno collaborare con soggetti animati da idee diverse dalle nostre, è una decisione che può essere presa solo in quel luogo e in quel determinato momento, in funzione delle forze presenti e dell’urgenza della situazione. Cosa sarebbe successo, a proposito della lotta contro il nazismo e il fascismo, se i resistenti cristiani avessero rifiutato di battersi accanto ai comunisti, atei e solidali di un regime criminale?
Veniamo ora al tema in questione: smettiamola di lasciare che si dica che la nozione del genere è una macchina da guerra contro la nostra concezione di umanità. È falso. Essa è frutto di una lotta sociale, e cioè la lotta per l’uguaglianza tra uomini e donne, che si è sviluppata da circa un secolo, inizialmente nei paesi sviluppati (Stati Uniti d’America ed Europa), e di cui i paesi in via di sviluppo cominciano ora a sentire i frutti. Questa lotta sociale ha stimolato la riflessione di ricercatori in numerose discipline delle scienze umane; queste ricerche non sono terminate, e non costituiscono affatto una “teoria” unica, ma un insieme diversificato e sempre in movimento, che non bisognerebbe ridurre ad alcune sue espressioni più radicali.
Il vero problema non è quindi ciò che si pensa della nozione di genere, ma ciò che si pensa dell’uguaglianza uomo/donna. E, di fatto, la lotta per i diritti delle donne rimette in discussione la concezione tradizionale, patriarcale, opposta all’uguaglianza, dei ruoli attribuiti agli uomini e alle donne nell’umanità.
Nelle società in via di sviluppo in particolare, la situazione delle donne è ancora tragicamente lontana dall’uguaglianza. L’accesso delle donne all’istruzione, alla salute, all’autonomia, al controllo della loro fecondità si scontra con forti resistenze delle società tradizionali. Peggio ancora: in certi luoghi è costantemente minacciato perfino il semplice diritto delle donne alla vita, alla sicurezza e all’integrità fisica.
Non si può, come fa il papa nei suoi interventi a questo proposito, pretendere che si accolga come autentico progresso l’accesso delle donne all’uguaglianza dei diritti, e continuare al contempo a difendere una concezione di umanità in cui la differenza dei sessi implica una differenza di natura e di vocazione tra gli uomini e le donne. C’è in questo una contorsione intellettuale insostenibile.
Come negare infatti che i rapporti uomo/donna siano oggetto di apprendimenti influenzati dal contesto storico e sociale? Pretendere di conoscere assolutamente, e col disprezzo di ogni indagine condotta con le acquisizioni delle scienze sociali, quale parte delle relazioni uomo/donna deve sfuggire all’analisi sociologica e storica, manifesta un blocco del pensiero del tutto ingiustificabile.
Dietro questo blocco del pensiero, sospettiamo un’incapacità a prender posizione nella lotta per i diritti delle donne. Eppure, questa lotta non è forse quella delle oppresse contro la loro oppressione, e il ruolo naturale dei cristiani non è forse quello di rovesciare i potenti dai troni?
Levarsi a priori contro anche solo l’uso della nozione di genere, significa confondere la difesa del Vangelo con quella di un sistema particolare. La Chiesa ha fatto questo errore due secoli e mezzo fa, confondendo difesa della fede e difesa delle istituzioni monarchiche, e più tardi dei privilegi della borghesia. Rifacendo un errore analogo, ci condanneremmo ad una emarginazione ancora maggiore di quella in cui ci troviamo già attualmente. Come non temere che questa condanna frettolosa sia uno dei tasselli di una crociata antimodernista mirante a demonizzare un’evoluzione contraria alle posizioni acquisite dell’istituzione?
Per questo motivo, con viva preoccupazione, ci appelliamo ai fedeli cattolici, ai preti, ai religiosi e alle religiose, ai diaconi, ai vescovi, affinché evitino alla nostra chiesa questa situazione di impasse intellettuale, e perché sappiano riconoscere, dietro a una disputa di termini, le vere poste in gioco della lotta per i diritti delle donne, e il giusto posto della loro Chiesa in questa lotta evangelica.
Padre Tony Flannery, redentorista irlandese, “sotto minaccia di scomunica”
di APIC (Agence de presse internationale catholique)
in “www.cath.ch” del 21 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Padre Tony Flannery è un religioso irlandese conosciuto per le sue posizioni progressiste in materia di contraccezione, omosessualità e accesso delle donne al ministero ordinato. Il 20 gennaio a Dublino ha affermato di essere sotto la “minaccia di una scomunica” da parte delle autorità romane, riferisce il 21 gennaio il quotidiano irlandese on-line “irishtimes.com”.
Il padre redentorista dichiara di rifiutarsi di firmare una dichiarazione contraria alla sua coscienza, in cui si impegnerebbe ad accettare gli insegnamenti della Chiesa negli ambiti suddetti. “Tre giorni dopo il mio 66° compleanno, mi viene proibito di esercitare il mio ministero di prete, mentre pesano su di me una minaccia di scomunica e di espulsione dalla mia congregazione”, scrive sul quotidiano irlandese on-line “IrishTimes”.
Resta tuttavia sulle proprie posizioni e afferma che rinunciare alla libertà di pensiero, di espressione e soprattutto di coscienza sarebbe per lui “un prezzo troppo alto da pagare”, per essere autorizzato, come contropartita, ad esercitare il suo ministero nella Chiesa di oggi.
Padre Flannery afferma di non poter firmare la dichiarazione che Roma esige da lui. Se firmasse, significherebbe che dare il suo assenso a degli insegnamenti che non può accettare. A questo punto, gli sarà definitivamente proibito il ministero sacerdotale e dovrà forse affrontare anche sanzioni più gravi.
Il religioso sottolinea che i punti di divergenza con Roma non riguardano questioni fondamentali di dottrina, ma sono piuttosto faccende riguardanti la disciplina ecclesiastica. Da anni, il celebre redentorista scrive che l’enciclica Humanae Vitae sul matrimonio e sulla regolazione delle nascite, promulgata di papa Paolo VI il 25 luglio 1968, è stata un “grosso errore”.
In un comunicato, la Comunità redentorista irlandese si dice profondamente rattristata dalla mancanza di comunicazione tra Padre Tony Flannery e la Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF). Deplora che non si siano ancora potute trovare nella Chiesa delle strutture o dei processi di dialogo che permettano una maggiore capacità di confrontarsi per le voci più stimolanti all’interno del popolo di Dio. I redentoristi irlandesi dicono tuttavia di rispettare la responsabilità fondamentale ed il ruolo centrale della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Il religioso redentorista fa parte, dall’autunno 2010, di un piccolo gruppo che ha fondato l’Associazione dei preti cattolici irlandesi (ACP). Questa associazione è unica, nel senso che è un’organizzazione di preti indipendente, sottolinea. “È un fenomeno nuovo nella Chiesa, e con il quale le autorità della Chiesa, tanto in Irlanda che in Vaticano, sono a disagio e non sanno come muoversi”. Con lo sviluppo di questo movimento, e la posizione da lui assunta a capo dell’organizzazione, Padre Flannery è stato preso di mira dalla Congregazione romana per la Dottrina della Fede (CDF).
Mentre da più di 20 anni scriveva senza alcun problema per diverse riviste religiose, nel febbraio 2011 è stato informato dai suoi superiori redentoristi che avrebbe avuto problemi per alcune cose che aveva scritto. Ritiene che i provvedimenti che Roma gli vuole imporre vogliano di fatto colpire l’Associazione irlandese dei preti cattolici (ACP), che rappresenta circa il 20% dei 4000 preti irlandesi. Gli è stato chiesto di interrompere i contatti con l’ACP, di non esprimersi più sui media e di non pubblicare né libri né articoli.
La richiesta di silenzio da parte del Vaticano è un prezzo troppo alto
di Tony Flannery
in “The Irish Times” del 21 gennaio 2013 (traduzione: Maria Teresa Pontara Pederiva)
Tre giorni dopo il mio 66° compleanno mi trovo sospeso nel mio ministero di prete, con una minaccia di scomunica e di estromissione dalla mia congregazione che incombe su di me. Come mai mi trovo in questa situazione?
Sono entrato nella congregazione dei Redentoristi nel 1964 e ordinato 10 anni dopo. Quella era un’epoca di grande apertura nella Chiesa cattolica. Abbiamo creduto nella libertà di pensiero e di coscienza, e che l’insegnamento della Chiesa non fosse qualcosa da imporre rigidamente alle persone che dovevamo servire, e che,in quanto intelligenti e istruite, avrebbero potuto assumersi in prima persona la responsabilità per la propria vita.
Come predicatori dobbiamo cercare di presentare il messaggio di Cristo in un modo e con un linguaggio che parli alla realtà della vita delle persone. Ciò richiede una volontà di ascolto, per capire le loro speranze e le loro gioie, le loro lotte e i loro timori.
Aiutare le persone a confrontarsi con la dottrina sulla contraccezione negli anni ’70 è stato un grande campo di addestramento. Basti dire che la linea ufficiale della Humanae Vitae non era di alcun aiuto. In quegli anni sia i preti che i laici hanno imparato molto sul modo di formare la loro coscienza così da prendere decisioni mature in tutti gli ambiti della loro vita. Come preti abbiamo imparato dai laici più di quanto essi non abbiano imparato da noi.
Con il passare degli anni abbiamo potuto tutti constatare che il magistero all’interno della chiesa abbia assunto progressivamente uno stile più autoritario come quello praticato in passato. L’accresciuta centralizzazione dell’autorità in Vaticano ha intensificato la pressione sui preti della mia generazione perché siano più espliciti e decisi nel presentare l’insegnamento della Chiesa: l’ortodossia è ormai l’imperativo, e permettere alle persone di pensare con la propria testa viene ormai visto come pericoloso. Non c’è spazio per le aree grigie, o bianco o nero.
I Rapporti a Roma
Siamo venuti a conoscenza che c’erano persone nel paese che riferivano qualsiasi minima deviazione da parte di un prete dalle indicazioni ufficiali, per esempio permettendo ad una donna di leggere il vangelo durante la messa.
In tutto il mondo, i preti vengono sanzionati, messi a tacere o rimossi perché non allineati. Nell’autunno del 2010, insieme ad un piccolo gruppo, abbiamo fondato l’Associazione dei preti cattolici (ACP). Questa associazione è unica in quanto si tratta di un organismo indipendente del clero, un fenomeno nuovo nella Chiesa, e con cui le autorità, in Irlanda e in Vaticano, si trovano in una posizione scomoda nella gestione dei rapporti. La crescita del movimento ha costituito per me l’occasione di una maggior visibilità, che mi ha portato all’attenzione della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF).
Avevo scritto su varie riviste religiose per più di 20 anni senza alcun problema, quando, improvvisamente, lo scorso febbraio sono stato informato dai miei superiori Redentoristi che ero nei guai seri per alcune cose che avevo scritto. Sono stato chiamato a Roma, - non in Vaticano, il quale fino ad oggi non ha mai comunicato con me direttamente - alla Casa madre dei Redentoristi. Questo è stato l’inizio di quasi un anno di tensione, stress e difficoltà decisionali per la mia vita futura. Inizialmente la mia politica è stata quella di riflettere sulla possibilità di un qualche compromesso, e all’inizio dell’estate questa sembrava una possibilità reale.
Ma a poco a poco mi resi conto che la CDF continuava ad alzare l’asticella, fino a quando non è giunta al punto in cui io non potevo più negoziare. Mi trovavo di fronte ad una scelta. O firmare una dichiarazione pubblica, affermando di aver accettato insegnamenti che, in coscienza, non potevo accettare, o sarei rimasto permanentemente escluso dal ministero sacerdotale, e sarei forse incorso in sanzioni anche più gravi. E’ importante affermare con chiarezza che i temi controversi non erano materia di insegnamento fondamentale, ma solo questioni di governo della Chiesa.
Così ora, in questo momento della mia vita, dovrei mettere la mia firma a un documento che sarebbe una menzogna, contraria alla mia coscienza, oppure affrontare la realtà dell’abbandono del ministero. Ho sempre creduto nella Chiesa come comunità dei credenti e come un elemento essenziale per far scaturire e alimentare la fede. Ho vissuto con gioia i miei anni di predicazione, che è la missione principale dei Redentoristi, e non ho mai avuto dubbi sul fatto che valesse la pena annunciare il messaggio di Cristo. Ma ora rinunciare alla mia libertà di pensiero, di parola e soprattutto di coscienza lo considero un prezzo troppo alto da pagare per essere riammesso tra le file dei ministri della Chiesa di oggi.
L’identità cattolica
Ci sono persone che mi spingono ad abbandonare la Chiesa cattolica per aderire ad un’altra chiesa cristiana, magari più vicina alla mia posizione. Ma essere un cattolico è fondamentale per la mia identità personale. Ho sempre cercato di predicare il Vangelo. Indipendentemente dalle sanzioni che il Vaticano mi infliggerà, io continuerò ugualmente, in qualsiasi modo possibile, a cercare di realizzare una riforma della Chiesa perché essa diventi di nuovo un luogo dove tutti coloro che vogliono seguire Cristo siano i benvenuti. Nella storia essa ha stretto amicizia con i reietti della società, e io farò tutto ciò che posso nel mio piccolo per oppormi alla tendenza attuale del Vaticano di creare una Chiesa della condanna invece di una Chiesa della misericordia.
Resto convinto che il vero obiettivo della CDF sia quello di sopprimere l’ACP e già dei tentativi sono stati compiuti per tarpare le ali all’iniziativa dei preti austriaci. Spero e prego che non riesca nel suo intento.
Mentre mi occupo di questi problemi personali credo sia opportuno per me almeno temporaneamente rinunciare ad essere leader dell’associazione. Intendo tuttavia restarne un membro attivo, e sarò a disposizione per aiutare in ogni modo possibile il lavoro. Infine, mi si potrebbe chiedere perché sono qui a parlare in pubblico, dopo essere rimasto in silenzio per un anno: perché ho bisogno di riappropriarmi della mia voce.
Quando si andava in montagna
di Mauro Pedrazzoli
“il foglio” - mensile di alcuni cristiani torinesi - n. 396 del novembre 2012
C’è stato un tempo in cui si saliva in montagna da padre Davide Maria Turoldo a Fontanella (nella Bergamasca, vicino a Sotto il Monte, il paese di papa Giovanni), da don Michele Do a S. Jacques ai piedi del Monte Rosa (in val d’Ayas, Valle d’Aosta), da Benedetto Calati a Camaldoli, da Ernesto Balducci alla Badia Fiesolana. Come sull’Horeb c’era il mormorio della leggera brezza divina, così in questi luoghi risuonava la voce dello Spirito, ma come un rombo di tuono nel caso di padre Turoldo, tra entusiasmi e collere (faccio riferimento, in occasione del ventennale, alla bella conferenza di Mariangela Meraviglia, storica della chiesa, in San Lorenzo a Torino il 14 settembre scorso, e più in generale al mio profetico maestro Sandro Spreafico nella sua monumentale opera storica sulla Chiesa di Reggio Emilia a partire dalla rivoluzione francese, Cappelli editore).
Mentre oggi viviamo nello stallo della speranza e della resistenza, allora c’era invece l’entusiasmo della speranza e la collera (simile all’ira di Dio nell’AT) della resistenza: una speranza gioiosa nella scia della Gaudium et spes e una resistenza al male nella sua declinazione socio-politica, non più solo come un breve capitolo di storia bellica bensì come una perenne categoria dello spirito. Speranza/resistenza erano come due facce della stessa medaglia; e così pure pace/liberazione: un messaggio, come diceva padre Davide, «per gli uomini di ogni religione, e di nessuna religione». Col Concilio infatti, caduti i bastioni come se fossero crollate le mura di Gerico nell’espressione di Turoldo, era iniziata l’era del dialogo.
Uno dei motti-chiave era «rivoluzione cristiana»: il cristianesimo doveva essere sale della terra, con un’efficacia anche politica. E secondo i nostri quattro pionieri, la cinghia di trasmissione di tale affiato evangelico («il regno di Dio», ossia, tradotto in parole comprensibili per l’uomo odierno, «un mondo nuovo possibile») non era e non doveva essere costituita dalla Democrazia cristiana: poiché da una parte concordavano con Dossetti circa la non conciliabilità della logica del potere con lo status di credenti (o cristiani o animali politici); e dall’altra solo uomini autenticamente convertiti (alla Parola-fede, non alla polis religiosa) sono capaci d’incommensurabile valenza politica. La modalità d’incidenza nel mondo era quella delle comunità cristiane parrocchiali e di base, dei mezzi di comunicazione (le riviste Servitium e Testimonianze, rispettivamente di Turoldo e Balducci), dei corsi biblico-teologici (come quelli estivi a Fontanella), delle settimane di formazione, e anche del cinema: come il film Gli ultimi di padre Davide che ha anticipato di decenni, e in modo più profondo, L’albero degli zoccoli di Olmi, allora ferocemente censurato, oggi distribuito dalle Paoline. Turoldo è caduto in disgrazia ed è stato emarginato alla fine degli anni Cinquanta, dopo essere stato per più d’un lustro il predicatore «straordinario» (non nelle cerimonie liturgiche) nel Duomo di Milano con un folto gruppo d’ascoltatori (comprese le sorelle Pirelli, con le cui donazioni finanziava la Nomadelfia di don Zeno; il denaro nelle sue mani era solo di passaggio, poiché veniva subito girato ai poveri e bisognosi).
Non è un caso che abbiano ripreso questa consuetudine il card. Martini, il quale ha di nuovo riempito il medesimo duomo spiegando la Bibbia in prima serata, e mons. Luciano Monari (altro biblista che ha riempito le sue cattedrali), vescovo prima a Piacenza e oggi a Brescia, originario di Sassuolo (provincia di Modena ma diocesi di Reggio Emilia), esattamente come il principe della polis religiosa, il card. Camillo Ruini. Si vociferava di Monari quale successore di Tettamanzi a Milano, poiché avrebbe assicurato la continuità con i due precedenti episcopati ambrosiani. Ma si è preferito ri-normalizzare la diocesi più grande d’Europa tornando alla tradizione consolidata; di fronte alle novità dello Spirito Roma spesso s’indurisce Pietrificandosi: «...E su questa pietra io, non tu, edificherò la mia chiesa, non la tua» (Turoldo in un’omelia). Martini fra l’altro ha pubblicamente riabilitato padre Davide nel 1991, poco prima che morisse, come Papa Giovanni nel 1959 con Mazzolari; don Primo visse gli ultimi tre mesi come Pietro disceso dal Tabor.
In quegli anni magici in cui si andava in montagna, venne ricomposta la dialettica fra istituzione e carisma, fra tradizione e profezia, col recupero del kerigma (annuncio) e dei ministeri laicali, in un periplo sofferto ma entusiasmante. Tale ricomposizione è tuttavia naufragata ben presto col relativo pesante squilibrio tutto a favore dell’istituzione e della tradizione: questa è la colpa più grave del pontificato di Giovanni Paolo II.
la magia del post-Concilio
Le giuste critiche ai vertici ecclesiastici non significano tuttavia lo smantellamento-dissoluzione della chiesa come istituzione. La frammentazione delle chiese protestanti c’insegna che una sobria struttura istituzionale, unitaria e moderatamente centralizzata è necessaria per conservare e trasmettere la fede da una generazione all’altra. Purtroppo l’istituzione che ha assicurato la continuità nei secoli è la stessa che spesso ha impedito di vivere il vangelo, nell’intreccio aggrovigliato di santità e peccato, profezia e tradimento.
Ci pare che la profezia oggi scorra, data anche la clericalizzazione dei preti giovani e dei diaconi permanenti, prevalentemente in chi dall’originario «interno» è stato costretto per causa di forza maggiore a uscire in parte «fuori»: i tanti preti sposati (parecchi accolti da Turoldo e aiutati in termini di casa-lavoro) e i laici prima impegnati e poi emarginati, in buona parte perché risposati. Gli «innalzati» allo stato laicale sono un profetico segno dei tempi, altro che lo spregiativo «spretati ».
La Rivelazione non è innocua
Certo la Parola di Dio non può essere gestita individualmente: da qui la necessità di un corpus ecclesiale in koinonia (comunione). Tale Parola non sopporta esegesi astute di comodo (come quella di Costantino), né di essere spesa banalmente offrendo un cristianesimo che si conclude con l’ultima cena e dimentica la crocifissione per non offendere il nostro sistema nervoso già troppo scosso. La Parola quindi non tollera la pura e semplice «ordinaria amministrazione», in cui sono maestre le curie diocesane e le congregazioni vaticane. Si bruciano dunque coloro che s’imboscano in un’innocua, asettica e diplomatica chiesa che «non fa né male né bene», ma pure coloro che allungano le mani per sostenere, da soli, l’arca dell’alleanza, convinti d’essere gli unici depositari della verità (S. Spreafico, op. cit., vol. i, pp. 9 e 584).
Sono quindi necessari gli ordinamenti; ma ciò non avvalla la secolare esagerazione dell’ipertrofico diritto canonico che, pur dovendo in teoria essere ispirato al messaggio evangelico, ad es. non parla mai di «poveri». Gli ordinamenti non significano solo vincoli, ma anche una «costituzione» che protegga i più deboli: essa è tuttavia assente nella chiesa. Quando la Congregazione per la dottrina della fede mette sotto processo qualcuno, la prima domanda da porsi è la seguente: costui è forse un profeta?
Dobbiamo essere quindi grati «alle generazioni di credenti che hanno giocato la propria vita per la crescita della nostra chiesa; ai santi rimasti sconosciuti, agli umili operai della vigna, agli eroi della carità e dell’obbedienza, ma anche ai ribelli per amore della verità» (Spreafico, op. cit., dedica iniziale; sottolineo la felice anomalia di un affiato profetico in uno storico in quanto storico). E oggi non è il tempo di tacere e di obbedire, ma quello di parlare, anzi di «urlare» come Davide, il quale, se fosse vissuto solo un paio d’anni in più, avrebbe tuonato col suo tipico vocione contro il «caimano», come prima aveva fatto contro il «bandito» (Craxi).
Dissenso cattolico
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 13 novembre 2012)
Si allarga sempre di più, specialmente in Europa, il fronte della richiesta di riforme e della protesta nella chiesa cattolica. Dopo «l’appello alla disobbedienza» promosso in Austria nel 2011 da circa 300 sacerdoti, ora un’iniziativa analoga è stata lanciata nella Svizzera tedesca, sotto il nome di «iniziativa delle parrocchie».
I firmatari dell’appello - arrivati a circa 400 tra preti, religiosi, religiose e responsabili laici - formulano il loro appello articolandolo in dieci punti : tra i più rilevanti, come al solito, la possibilità di condividere l’eucarestia fra tutti i battezzati e con i fratelli riformati, la comunione ai divorziati risposati, la possibilità per i credenti di prescindere dal loro orientamento sessuale, e anche la possibilità di pronunciare parti della preghiera eucaristica. Logica la reazione dei vescovi, per i quali l’appello non costituisce una strada percorribile: per loro la pastorale può essere vissuta esclusivamente in unione con i vescovi e con la chiesa universale.
L’appello austriaco dell’anno scorso insisteva sull’accesso delle donne al sacerdozio, sull’abolizione del celibato obbligatorio per i preti, sulla possibilità dei sacramenti per i divorziati risposati. Il dissenso, dunque, sia in Svizzera che in Austria, chiede profonde riforme e un «nuovo inizi» in grado di mettere la parola fine allo stato di paralisi in cui versa il cattolicesimo sia svizzero che austriaco. I temi sono praticamente gli stessi: i disobbedienti sia in Svizzera che in Austria (in proporzione più del 10% sul totale dei sacerdoti) prendono la parola chiedendo più spazio per i laici e per le donne.
In Belgio i vescovi si sono dimostrati più disposti al dialogo. Un certo numero è arrivato a dichiarare che l’ordinazione di uomini sposati potrebbe addirittura rappresentare un arricchimento per la pastorale.
Il quadro del fronte dei cattolici critici si completa in Irlanda, dove il 10% dei preti ha aderito all’associazione che presenta riforme analoghe. In Irlanda il confronto fra i rappresentanti dei preti critici con i vescovi è stato giudicato «valido, produttivo e prezioso». In Francia un gruppo di preti ha creato l’associazione «sostegno all’appello dei preti austriaci». Il dissenso cattolico si sta dunque allargando un po’ dovunque a macchia d’olio.
Il papa monarca-assoluto: cenni storici su origine e sviluppo del suo potere.
di Leonardo Boff ("Jornal do Brasil”, 17 settembre 2012) *
Abbiamo scritto precedentemente su queste pagine che la crisi della Chiesa-istituzione-gerarchia ha le sue radici nell’assoluta concentrazione di potere nella persona del Papa, potere esercitato in modo assolutistico, lontano da qualsiasi partecipazione dei cristiani e fonte di ostacoli praticamente insormontabili per il dialogo ecumenico con le altre Chiese.
All’inizio non fu così. La Chiesa era una comunità di fratelli. Non esisteva la figura del Papa. Nella Chiesa comandava l’Imperatore. Era lui il sommo pontefice (Pontifex Maximus), non il vescovo di Roma o di Costantinopoli, le due capitali dell’Impero. E così è l’imperatore Costantino a convocare il primo concilio ecumenico a Nicea (325), per decidere la questione della divinità di Cristo.
E di nuovo nel secolo VI è l’imperatore Giustiniano che ricuce Oriente e Occidente, le due parti dell’impero, reclamando per se stesso il primato di diritto e non quello di vescovo di Roma. Tuttavia, per il fatto che Roma vantava le tombe di Pietro e Paolo, la Chiesa romana godeva di particolare prestigio, come del resto il suo vescovo che davanti agli altri deteneva "la presidenza nell’amore" e esercitava il "servizio di Pietro", quello di confermare i fratelli nella fede, non la supremazia di Pietro nel comando.
Tutto cambia con Papa Leone I (440-461), grande giurista e uomo di Stato. Lui copia la forma romana del potere che si esprime nell’assolutismo e autoritarismo dell’imperatore; comincia a interpretare in termini strettamente giuridici i tre testi del N.T. riferibili al primato di Pietro: Pietro, in quanto roccia su cui si costruirebbe la Chiesa (Mt 16,8); Pietro, colui che conforta i fratelli nella fede ( Lc 22,32); e Pietro come pastore che deve prendersi cura delle pecore (Gv 21,15). Il senso biblico e gesuanico va nella direzione diametralmente opposta, quella dell’amore, del servizio e della rinuncia a ogni onore. Ma l’interpretazione dei testi alla luce del diritto romano - assolutistico - ha il sopravvento. Coerentemente, Leone I assume il titolo di Sommo Pontefice e di Papa in senso proprio.
Subito dopo gli altri papi cominciarono a usare le insegne e il vestiario imperiali, porpora, mitra, trono dorato, pastorale, stole, pallio, mozzetta: si creano palazzi con rispettive corti; si introducono abiti per vita da palazzo in vigore fino ai nostri giorni con cardinali e vescovi, cosa che scandalizza non pochi cristiani che leggono nei vangeli che Gesù era un operaio povero e senza fronzoli. Così finisce per essere chiaro che i gerarchi stanno più vicini al palazzo di Erode che alla culla di Betlemme.
C’è però un fenomeno che noi stentiamo a capire: nella fretta di legittimare questa trasformazione per garantire il potere assoluto del Papa, si fabbricano documenti falsi.
Primo. Una pretesa lettera del Papa Clemente (+96), successore di Pietro in Roma, diretta a Giacomo, fratello del Signore, il grande pastore di Gerusalemme, nella quale si dice che Pietro, prima di morire, aveva stabilito che lui, Clemente, sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Evidentemente anche gli altri che sarebbero venuti dopo.
Falsificazione ancora più grande è la Donazione di Costantino, documento fabbricato all’epoca di Leone I, secondo il quale Costantino avrebbe dato in regalo al Papa di Roma tutto l’Impero Romano.
Più tardi, nelle dispute con i re Franchi, fu creata un’altra grande falsificazione le Pseudodecretali di Isidoro, che mettevano insieme documenti e lettere come provenienti dai primi secoli, il tutto a rafforzare il Primato giuridico del Papa di Roma.
Tutto culmina con il codice di Graziano (sec. XIII), ritenuto la base del diritto canonico, ma che poggiava su falsificazioni e norme che rafforzavano il potere centrale di Roma oltre che su canoni veri che circolavano nelle chiese.
Evidentemente tutto ciò viene smascherato più tardi, senza che con questo avvenga una qualsiasi modificazione nell’assolutismo dei Papi. Ma è deplorevole, e un cristiano adulto deve conoscere i tranelli usati e fabbricati per gestire un potere che cozza contro gli ideali di Gesù e oscura il fascino del messaggio cristiano, portatore di un nuovo tipo di esercizio del potere servizievole e partecipativo.
In seguito si verifica un crescendo nel potere dei Papi. Gregorio VII (+1085) nel suo Dictatus Papae (dittatura del Papa) si autoproclamò Signore assoluto della Chiesa e del mondo; Innocenzo III (+1216) si annuncia come vicario e rappresentante di Cristo; e infine Innocenzo IV (+1.254) si atteggia a rappresentante di Dio. Come tale sotto Pio IX, nel 1.870, il Papa viene proclamato infallibile in fatto di dottrina e morale.
Curiosamente, tutti questi eccessi non sono mai stati ritrattati o corretti dalla Chiesa gerarchica, perché questa ne trae benefici. Continuano a valere come scandalo per coloro che ancora credono nel Nazareno, povero, umile artigiano e contadino mediterraneo perseguitato e giustiziato sulla croce e risuscitato contro ogni ricerca di potere, e sempre più potere, perfino dentro la Chiesa. Questa comprensione commette una dimenticanza imperdonabile: i veri vicari-rappresentanti di Cristo, secondo il vangelo di Gesù (Mt 25,45) sono i poveri, gli assetati, gli affamati. La gerarchia esiste per servirli non per sostituirli.
Tradotto da Romano Baraglia
* Fonte: Incontri di Fine settimanana
MEDICO, CURA TE STESSO! O, ALTRIMENTI, IL LUPO PERDE IL PELO, MA NON IL VIZIO. Note sul tema:
La riforma elettorale guardi all’uomo
di Bruno Forte * (Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2012)
Si parla molto di legge elettorale. Lo fa con autorevolezza il Capo dello Stato, pungolando parlamentari e partiti a procedere con sollecitudine alla riforma della legge che dalla fine del 2005 ha modificato il sistema elettorale italiano. L’accordo sulla necessità e l’urgenza di questa riforma è - a parole - quasi generale. Eppure, finora non si è ottenuto nulla.
L’impressione che molti hanno è che le forze politiche stiano considerando più i vantaggi e gli svantaggi che a esse verrebbero dalle possibili modifiche del l’attuale normativa che non l’interesse del Paese e quello della gente comune. Ecco perché, senza entrare in merito a proposte tecniche per le quali non ho competenza, vorrei provare a considerare la questione sotto il profilo etico, partendo da ciò che mi pare di cogliere fra la gente, accanto alla quale il mio impegno quotidiano di pastore continuamente mi pone.
Visto dal basso, il difetto principale che si avverte nel sistema in vigore è che l’elettore può votare solo per liste bloccate, senza possibilità di scegliere fra i candidati. L’elezione dei parlamentari dipende quindi completamente dalle decisioni e dalle graduatorie stabilite dai partiti, con il risultato che spesso gli eletti non hanno e non avranno alcun rapporto vero con il territorio di cui sarebbero espressione.
Con una certa durezza, qualcuno osserva che così la "casta" semplicemente clona se stessa. E poiché non è detto che i cloni siano migliori dell’originale, si profilerebbe lo scenario imbarazzante di un inevitabile, progressivo peggioramento della qualità della classe politica. C’è perfino chi osserva maliziosamente che, su questa strada, la sola speranza per il Paese potrebbe essere quella di arrivare a una qualità dei suoi rappresentanti talmente scadente, da impedire ad essi stessi di rendersi conto di un’eventuale miglioramento che li metterebbe da parte così da non saper attuare strategie per difendersi da esso!
Al di là di questi scenari preoccupanti, non mi pare difficile constatare che l’attuale rappresentanza politica non gode di quella rappresentatività dei problemi reali della gente e del territorio, che aveva caratterizzato la grande stagione della nascita della Repubblica e l’esercizio ritrovato della democrazia parlamentare nel dopo guerra. Il Paese ufficiale sembra essersi insomma scollato dal Paese reale. Se prima l’uomo della strada generalmente sapeva più o meno chi fosse il referente politico da cui sentirsi rappresentato e a cui rivolgersi per avere attenzione, direttamente o attraverso i canali dei partiti e delle organizzazioni socio-politiche, oggi la gente si sente priva di riferimenti affidabili, come se non ci fosse a livello politico chi possa dar voce a quanti non hanno voce.
I più deboli sono ovviamente i più svantaggiati da una tale situazione: chi potrà rappresentare i loro interessi? Chi potrà provvedere ai loro bisogni? Chi sarà in grado di dare loro speranza e di lavorare al loro fianco perché questa speranza prenda corpo nella vita reale? Il parlamentare imposto dai partiti, spesso scelto in base a meriti che non paiono andare oltre a quello dell’ossequio ai capi, potrà mai essere voce dei poveri e operatore di giustizia per essi?
Se si considera poi il processo di personalizzazione della politica, che ha portato sempre più a sostituire i bagagli ideali delle forze politiche con la figura del leader di turno, fino a legare il nome stesso delle parti in gioco a quello del personaggio carismatico più o meno forte, si comprende fino a che punto sia giunta la spoliazione di reale rappresentatività dei rappresentanti del popolo. L’"eletto" carismatico prende voti da tutte le parti del Paese per la sua sola faccia o per il fascino del suo nome, senza di fatto rappresentare i mondi reali da cui gli sono stati espressi i consensi. In termini morali, questo processo rischia di essere una sorta di furto perpetrato ai danni della democrazia reale, con il conseguente drammatico slittamento del compito del politico dal rappresentare i bisogni della gente al tutelare e promuovere interessi personali o di gruppo più o meno influenti.
Che cosa allora chiedere ai nostri parlamentari impegnati a riformare la legge elettorale? Alcuni punti mi sembrano chiari: che si faccia di tutto perché i poveri abbiano voce. Che l’eletto sia uno vicino alla gente, in ascolto della vita reale, delle sofferenze e delle inadeguatezze del mondo del lavoro e della scuola, della vita familiare e delle forme di servizio proprie dello stato sociale. Che come fu per molti dei rappresentanti dell’Italia del dopoguerra e del boom economico, il parlamentare si getti in politica per servire il popolo e non per servirsi del potere acquisito a vantaggio proprio o della casta.
Tutto questo richiede che agli elettori venga restituita la possibilità di scegliere non solo fra bandiere diverse, ma anche fra donne e uomini differenti, fra programmi legati a impegni personali e di gruppo che siano affidabili e verificabili attraverso il rapporto costante e diretto fra la base e gli eletti. Se da una parte ciò esige la presenza di candidati competenti, generosi, onesti, animati da forti tensioni ideali e da virtù non comuni, dall’altra domanda che il legislatore dia fiducia alla maturità del nostro popolo di saper discernere fra possibilità diverse e di sapersi affidare a chi è sentito più vicino alla gente per storia, passione, vocazione e missione.
Andrebbe poi garantito un effettivo e costante rapporto fra il parlamentare e il territorio di cui è espressione. Solo così la politica, restituita al Paese reale, potrà assumere connotati nuovi: certamente non quelli di un affare su cui investire, quanto piuttosto quelli di una vocazione cui rispondere e di una missione da svolgere.
Scriveva una delle voci più autorevoli del personalismo d’ispirazione cristiana, Emmanuel Mounier: «L’essere personale è generosità; per questo esso fonda un ordine che è opposto a quello dell’adattamento e della sicurezza... La persona rischia e si prodiga senza badare al prezzo... Tutto ciò assomiglia piuttosto a un richiamo silenzioso, in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta: per questo il termine di vocazione gli conviene meglio di qualunque altro» (Il personalismo, 97 e 68).
Politici per vocazione, non per affari, per missione, non per guadagno: riusciremo a trovare una legge elettorale che dia spazio a persone del genere, vicine alla gente, capaci di farsi voce dei più deboli e dei più poveri e di servire la causa del bene comune al di sopra di tutto?
*Arcivescovo di Chieti-Vasto
Fedeltà a Dio, prima che all’istituzione.
L’«obbedienza profetica» delle religiose statunitensi
da Adista Documenti n. 33 del 22/09/2012 *
NELL’INTERESSE DELL’UMANITÀ
di Coalizione nazionale delle suore Usa
IL TEMPO MIGLIORE, IL TEMPO PEGGIORE
L’incipit del romanzo di Charles Dickens Racconto di due città è tornato spesso d’attualità nella nostra Chiesa, sin dal 18 aprile del 2011: «Era il tempo migliore, era il tempo peggiore». Da quel giorno, infatti, la valutazione dottrinale da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) nei confronti della Leadership Conference of Women Religious (LCWR) ha prodotto angoscia e dolore tra le suore statunitensi e le religiose di tutto il mondo, ma ha anche offerto l’opportunità di spiegare alla CDF l’universo dei valori cari alle religiose Usa.
Uno di questi valori è dato dall’obbedienza. La teologia, l’ecclesiologia e la spiritualità del Concilio Vaticano II hanno contribuito a far comprendere alle religiose che il loro impegno, e quindi la loro obbedienza, appartiene a Dio, non ad una istituzione. E, dunque, che essere fedeli e obbedienti a Dio può significare, a volte, dover prendere una direzione diversa da quella indicata dalle autorità religiose. Tale obbedienza profetica richiede la stessa audacia mostrata da Gesù di Nazareth quando ha infranto la legge religiosa del suo tempo per eseguire opere buone di sabato. Tale obbedienza richiede coraggio, perché comporta più di una semplice opposizione alle proprie autorità spirituali. La persona o il gruppo che decida di disattendere una direttiva a favore di una opzione alternativa in cui si ritiene scorra linfa vitale deve essere consapevole, come Gesù, delle sanzioni che ne possono derivare.
L’indicazione sul modo in cui dobbiamo agire appartiene al versante dell’autorità legittimamente costituita, ma le religiose, anzi tutti i fedeli, non devono seguire ciecamente l’autorità. Basta riflettere sulla Shoah per comprendere a quali risultati possa portare una obbedienza acritica. Su ogni direttiva è perciò necessaria un’opera di discernimento con il cuore e con la preghiera. Attraverso il discernimento e la guida dello Spirito, sta poi a noi decidere se una disposizione impartita dall’autorità risponde al vero interesse della comunità umana.
Le religiose hanno cercato di vivere questo tipo di obbedienza adulta dopo il Vaticano II, rivolgendo l’attenzione ai documenti delle proprie comunità, ai bisogni delle persone, alle proprie esperienze di vita, alle dichiarazioni dei leader religiosi e agli appelli dello Spirito per discernere la direzione in cui procedere, e provando a vivere docilmente alla luce di tali fonti.
La Coalizione nazionale delle suore statunitensi plaude la LCWR per l’obbedienza scaturita da un processo di discernimento orante di cui ha dato prova nella sua risposta alla valutazione dottrinale. Sosteniamo la LCWR nel suo desiderio di cogliere questa opportunità per chiarire quali siano la sua missione e i suoi valori in un dialogo con i tre rappresentanti del Vaticano. Siamo liete per il fatto che la LCWR cercherà di aiutare la leadership della Chiesa a comprendere la necessità che i laici, ed in particolare le donne, abbiano voce nella Chiesa e che porterà avanti questa discussione fino a quando l’integrità della sua missione non venga compromessa.
DOVE RISIEDE LA VERA CAUSA DELL’ESCALATION DI VIOLENZA?
Questa estate il nostro Paese ha assistito a due atti orribili di violenza a distanza di poche settimane l’uno dall’altro. Quanto avvenuto in un cinema di Aurora, in Colorado, e nel tempio Sikh in Wisconsin ci ha stordito per l’enormità dell’odio che può aver motivato tali azioni. Questi incidenti sarebbero stati meno devastanti se gli autori non avessero avuto accesso ad armi d’assalto? Sicuramente. Siamo realmente scioccati dalla facilità con cui una persona possa attentare alla vita di qualcun altro per soddisfare le proprie pulsioni? Ce lo auguriamo.
Ma cosa c’è alla base di questi attacchi? Sappiamo molto bene che gli autori di questo genere di crimini sono stati essi stessi vittime o soffrono di una qualche forma di disturbo mentale. Tre quarti degli adulti in età lavorativa in questo Paese non guadagnano abbastanza per vivere al di sopra della soglia della povertà. I loro diritti vengono lentamente erosi da un sistema economico di stampo neoliberista che pone la ricerca del profitto al di sopra delle persone.
Che cosa ci permette di sopportare la quotidiana aggressione fisica e sessuale contro le donne all’interno del matrimonio e come schiave nelle reti della tratta a scopo di sfruttamento sessuale? Che cosa ci permette di chiudere gli occhi di fronte ai casi di bambini che vengono sessualmente, fisicamente ed emotivamente abusati da parenti, insegnanti, uomini di Chiesa? Cosa ci rende immuni dalle notizie quotidiane di omicidi di giovani su larga scala a causa della droga, delle armi e delle bande?
Non abbiamo forse sperimentato un attacco ai nostri sistemi educativi, costantemente privati di sostegno finanziario? Giovani dotati di grande creatività si vedono legare le mani dai crediti scolastici negli anni più produttivi della loro vita.
Pensiamo al nostro sistema militare che addestra giovani donne e uomini a uccidere: per che cosa? Il controllo esercitato su Paesi, giacimenti petroliferi, religioni e qualsiasi altra cosa fa del nostro Paese una realtà spaventosa. Il numero di giovani che, una volta tornati a casa, si tolgono la vita o uccidono altri esseri umani è allarmante. Quanta violenza!
La verità è che una parte della nostra società non solo accetta, ma promuove o sfrutta questa violenza, mentre i mezzi di comunicazione, con il loro continuo bombardamento di immagini di violenza fisica e sessuale, hanno su di noi un effetto anestetizzante. La riforma del sistema di giustizia penale e il contenimento dell’apparato militare-industriale potrebbero essere un buon inizio per dar vita a un altro tipo di mondo.
Come si fa a promuovere lo sviluppo di una società che conferisca dignità alla vita garantendo ad ogni persona il diritto al cibo, alla casa, a un lavoro decoroso che consenta di guadagnarsi da vivere? Possiamo creare una società in cui qualsiasi atto di violenza sia visto come un’infamia? Quando abbracceremo quel tipo di nonviolenza che abbia come fine la promozione della vita? Possono le nostre comunità aiutare un bambino che assume un comportamento violento a capire che tale comportamento non è mai accettabile perché ogni persona ha il suo valore e la sua dignità?
Le vittime delle recenti violenze in Colorado e Wisconsin non sono purtroppo le uniche vittime, ma non riusciremo a cambiare nulla fino a quando non saremo disposti a prendere in considerazione tutte le forme di violenza e le loro cause.
LA TRATTA DELLE DONNE E DELLE GIOVANI
La tratta degli esseri umani - una moderna forma di schiavitù - è tra le industrie criminali più grandi e in più rapida crescita. Casi relativi a questa tratta, che esiste nel mondo sin dalla notte dei tempi, sono stati registrati in tutti i 50 Stati Usa.
Ne fanno parte realtà come il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale e la riduzione in schiavitù. Le vittime possono avere qualsiasi provenienza etnica o sociale. E le donne possono essere ricercate e sfruttate anche per il piacere sessuale degli appassionati del Super Bowl, del World Games Series e di altri eventi sportivi.
In questa guerra contro le donne, vengono negate le libertà fondamentali ad innumerevoli giovani e adolescenti. Siamo a conoscenza di abusi commessi in alcuni Paesi contro bambine di 8 anni, costrette ad un matrimonio combinato e a volte torturate in caso di rifiuto. O obbligate a prostituirsi e cedute al mercato del sesso se non consumano subito il matrimonio o non hanno figli. Approfittando della loro vulnerabilità, queste donne e queste adolescenti vengono comprate, vendute e malmenate per le più diverse ragioni.
La National Coalition of American Nuns si oppone a tutte le forme di tratta di esseri umani. E si congratula con la Leadership Conference of Women Religious per aver affrontato questo tema nel corso della sua assemblea nazionale, svoltasi dal 7 al 10 agosto 2012, attraverso un seminario sul tema “Traffico di esseri umani: persone rapite, speranza rapita” e una risoluzione che impegna a lottare per la sua abolizione.
La National Coalition of American Nuns supporta iniziative studentesche come il Red Thread Movement che fornisce sostegno finanziario per sottrarre le giovani ai trafficanti di sesso.
Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it
* Il Dialogo, Giovedì 20 Settembre,2012
LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000).
A 50 ANNI DAL VATICANO II, UNA SITUAZIONE CUPA. Un’analisi di Vito Mancuso - con una nota
Nell’ultima intervista Martini ha dichiarato: «Vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza», parole che potrebbero essere sottoscritte dalla gran parte dei vescovi e dei periti teologici che cinquant’anni fa arrivavano a Roma per il Vaticano Il. L’ironia vuole che proprio uno di essi sia oggi il pontefice regnante, tra i principali responsabili di questa cupa situazione
Disobbedire
di Jacques Noyer (vescovo emerito di Amiens)
in “www.temoignagechretien.fr” del 9 settembre 2012 *
«Signor parroco, vorremmo vederla. Stiamo per sposarci, ma io sono divorziato...» Mi è stato riferito recentemente che un prete sentendo queste parole ha richiuso la porta della casa parrocchiale affermando: «Sono desolato ma non posso far nulla per voi!». Ecco un funzionario come si deve! È questa l’obbedienza?
Senza dubbio molti altri avrebbero fatto entrare la coppia e l’avrebbero ascoltata. Alcuni, con molto garbo, avrebbero concluso con le stesse parole: non posso far nulla per voi. Altri avrebbero cercato di rispondere entrando maggiormente nel merito della richiesta di queste persone abitate dal desiderio di situare il loro amore e il loro progetto di vita sotto lo sguardo del loro Dio o almeno sotto lo sguardo della loro famiglia e dei loro amici cristiani. Molti pastori riterranno loro compito vedere queste persone con lo sguardo di Cristo.
Non possono immaginare che colui che si è fermato a parlare con la Samaritana rifiuti di prestare attenzione alla loro richiesta. In quel dialogo, il pastore si impegna con le proprie convinzioni, ma con la preoccupazione di accogliere la sete profonda dei suoi interlocutori. Non ci sono risposte prefabbricate. Con maggiore o minore audacia, proporrà il cammino che ritiene il migliore per il caso singolare che ha davanti.
Potrà ritenere che l’applicazione pura e semplice delle norme ferirà l’attesa confusa che si trova di fronte. Sa che al di là di Gerusalemme e del Garizim, c’è un Dio d’amore che si adora in spirito e verità. Non ci si può rifiutare di superare la linea gialla quando si tratta di evitare di schiacciare qualcuno. La trasgressione in questo caso non è disobbedienza. È responsabilità.
La situazione ecclesiale che si è creata attorno all’ «appello alla disobbedienza» dei preti austriaci diventa non controllabile. Questa provocazione è molto rischiosa. Vogliamo una reazione intollerante capace di generare drammatiche lacerazioni nella nostra Chiesa? L’inerzia del Vaticano, diffusa da una gerarchia impaurita, avrà, una volta di più, ragione di un modo di sentire di alcuni lasciandolo marcire senza risposte? A mio avviso sarebbe stato meglio un «appello alla obbedienza» all’audacia del vangelo.
La Chiesa non può addormentarsi nelle sue certezze e nelle sue abitudini. Non ha il diritto di sacralizzare un momento della storia per rifiutare di amare il presente. I preti non hanno il diritto di far tacere gli appelli del loro animo di pastori per un’obbedienza formale alla legge. I vescovi non possono giustificare la loro inerzia per la paura di una reazione della Curia.
Il Papa ha sufficientemente ricordato la grandezza del Concilio, perché nessuno si dimentichi delle proprie responsabilità nella missione del popolo di Dio. Abbiamo troppo sofferto per un’obbedienza intesa come una semplice rinuncia all’iniziativa e all’inventiva. Credo che l’obbedienza al Padre di Gesù Cristo è contraria ad una sottomissione cieca al diritto canonico.
Desidererei ascoltare a tutti i livelli della Chiesa il fremito dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. Mi piacerebbe che ordinare un prete non fosse rinchiuderlo nel ruolo di esecutore di ordini, ma dargli fiducia. Mi piacerebbe che affidare una diocesi ad un vescovo consistesse nel chiedergli pareri e proposte e non invece nell’esigere un giuramento di fedeltà. Mi piacerebbe poter fare ascoltare fino ai vertici le invocazioni di questo popolo che cerca acqua fresca e rifiuta l’acqua stagnante delle cisterne vaticane.
La Volontà del Padre che manda il suo Figlio e ci invita all’avventura del Regno non è un regolamento ma una creazione, un concepimento, una risurrezione. Che la Tua volontà sia fatta, diciamo! Ma non è un abbandono. Come un’eco, ascoltiamo il Padre ridirci che non ha bisogno di schiavi sottomessi, ma di figli liberi alla cui iniziativa affida la responsabilità del suo progetto d’amore
* Fonte: Incontri di "Fine Settimana".
L’operazione-anestesia sul cardinal Martini
di Vito Mancuso (la Repubblica, 9 settembre 2012)
Con uno zelo tanto impareggiabile quanto prevedibile è cominciata nella Chiesa l’operazione anestesia verso il cardinal Carlo Maria Martini, lo stesso trattamento ricevuto da credenti scomodi come Mazzolari, Milani, Balducci, Turoldo, depotenziati della loro carica profetica e presentati oggi quasi come innocui chierichetti.
A partire dall’omelia di Scola per il funerale, sulla stampa cattolica ufficiale si sono susseguiti una serie di interventi la cui unica finalità è stata svigorire il contenuto destabilizzante delle analisi martiniane per il sistema di potere della Chiesa attuale. Si badi bene: non per la Chiesa (che anzi nella sua essenza evangelica ne avrebbe solo da guadagnare), ma per il suo sistema di potere e la conseguente mentalità cortigiana.
Mi riferisco alla situazione descritta così dallo stesso Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al papa stesso”.
E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.
Quello che è rilevante in queste parole non è tanto la denuncia del carrierismo, compiuta spesso anche da Ratzinger sia da cardinale che da Papa, quanto piuttosto la terapia proposta, cioè la libertà di parola, l’essere trasparenti, il dire la verità, l’esercizio della coscienza personale, il pensare e l’agire come “cristiani adulti” (per riprendere la nota espressione di Romano Prodi alla vigilia del referendum sui temi bioetici del 2005 costatagli il favore dell’episcopato e pesanti conseguenze per il suo governo). È precisamente questo invito alla libertà della mente ad aver fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e a inquietare ancora oggi il potere ecclesiastico.
Diceva nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balìa degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”. Ecco il metodo-Martini: la libertà di pensiero, ancora prima dell’adesione alla fede.
Certo, si tratta di una libertà mai fine a se stessa e sempre tesa all’onesta ricerca del bene e della giustizia (perché, continuava Martini, “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio”), ma a questa adesione al bene e alla giustizia si giunge solo mediante il faticoso esercizio della libertà personale. È questo il metodo che ha affascinato la coscienza laica di ogni essere pensante (credente o non credente che sia) e che invece ha inquietato e inquieta il potere, in particolare un potere come quello ecclesiastico basato nei secoli sull’obbedienza acritica al principio di autorità. Ed è proprio per questo che gli intellettuali a esso organici stanno tentando di annacquare il metodo-Martini.
Per rendersene conto basta leggere le argomentazioni del direttore di Civiltà Cattolica secondo cui “chiudere Martini nella categoria liberale significa uccidere la portata del suo messaggio”, e ancor più l’articolo su Avvenire di Francesco D’Agostino che presenta una pericolosa distinzione tra la bioetica di Martini definita “pastorale” (in quanto tiene conto delle situazioni concrete delle persone) e la bioetica ufficiale della Chiesa definita teorico-dottrinale e quindi a suo avviso per forza “fredda, dura, severa, tagliente” (volendo addolcire la pillola, l’autore aggiunge in parentesi “fortunatamente non sempre”, ma non si rende conto che peggiora le cose perché l’equivalente di “non sempre” è “il più delle volte”).
Ora se c’è una cosa per la quale Gesù pagò con la vita è proprio l’aver lottato contro una legge “fredda, dura, severa, tagliente” in favore di un orizzonte di incondizionata accoglienza per ogni essere umano nella concreta situazione in cui si trova.
Martini ha praticato e insegnato lo stesso, cercando di essere sempre fedele alla novità evangelica, per esempio quando nel gennaio 2006 a ridosso del caso Welby (al quale un mese prima erano stati negati i funerali religiosi in nome di una legge “fredda, dura, severa, tagliente”) scrisse che “non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete - anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite - di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate”. Questa centralità della coscienza personale è il principio cardine dell’unica bioetica coerente con la novità evangelica, mai “fredda, dura, severa, tagliente”, ma sempre scrupolosamente attenta al bene concreto delle persone concrete.
Martini lo ribadisce anche nell’ultima intervista, ovviamente sminuita da Andrea Tornielli sulla Stampa in quanto “concessa da un uomo stanco, affaticato e alla fine dei suoi giorni”, ma in realtà decisiva per l’importanza dell’interlocutore, il gesuita austriaco Georg Sporschill, il coautore di Conversazioni notturne a Gerusalemme.
Ecco le parole di Martini: “Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II (vedi Gaudium et spes 16-17), è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo e a come in essa si lavori sistematicamente per offuscarlo.
PAROLA A RISCHIO
- Risalire gli abissi
- La salvezza è per tutti. Alla portata di tutti.
- Perché è sorriso, liberazione, gioia.
di Giovanni Mazzillo (Teologo) *
G come gioia, come Gesù, respiro di gioia per tutti gli infelici della terra. Parliamo di Gesù, il cui corrispondente nome greco Iesoûs deriva direttamente dall’originale ebraico Je(ho)šhu e significa JHWH salva, per precisare immediatamente che il termine salvezza oggi non significa gran che per i nostri contemporanei, e di conseguenza risuona poco interessante persino quel nome, pur originariamente portatore di una gioia immensa e inaudita. Ciò avviene non solo per l’inevitabile logorio delle parole più usate e talora abusate, ma per il fatto che ha perso rilevanza e pertanto significato il valore stesso della “salvezza”.
Salvezza
Salvezza da chi e/o da che cosa? Appunto, è questo il primo problema. La salvezza appare di primo acchito un concetto immediatamente derivato dal superamento di una situazione negativa, Si salva, o come succede in questo caso, viene salvato, qualcuno che si trova in una situazione di pericolo. Il pericolo di perdere qualcosa, di perdere se stesso. Di essere cancellato, di sparire, appunto come sparisce da un computer un testo non “salvato” o un’immagine non messa al sicuro. Ma essere salvati è per noi persone umane, e pertanto non riducibili a una traccia di codificazione binaria o algoritmica, molto di più che conservare un’impronta e una presenza. Coerentemente con la nostra realtà dinamica e relazionale, essere salvati significa avere un luogo, un senso, una rilevanza nel contesto di una realtà che giustifica, sorregge, garantisce il mantenimento e la crescita qualitativa, e pertanto il conseguente riconoscimento di un originario, inalienabile, imprescindibile valore personale.
La domanda «Chi o che cosa si può dire oggi salvato?» esige pertanto una primordiale differenziazione. Altro è il concetto di ciò che è salvato (cioè il dato messo al sicuro), ben altro è l’essere umano salvato. Questi non è solo garantito in ciò che ha di più proprio e pertanto è distinto dal mero “dato”, che invece è una sorta di file compilato (non per nulla in tedesco proprio il file è chiamato Datei, leggi datai, cioè «rea-ltà data»). L’essere umano è tale solo in un incontro, in una relazione. La persona è tutta nelle relazioni delle quali vive. Proprio la relazionalità sorregge il senso e la gioia del suo esistere.
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia, termine che esprime tutto ciò e anche qualcosa di più.
Nell’annuncio della sua nascita, diversamente da quanto appare nella traduzione latina, e in quella italiana da essa derivata, nella preghiera più popolare che ci sia, Maria è salutata non con il saluto che si dava all’imperatore, alle autorità o anche agli amici con l’esclamativo «Ave!», bensì con l’invito a rallegrarsi, cioè a gioire (chaîre): a entrare in un circuito di esultanza per un dono gratuito e inatteso. Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù...”. L’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia...» (Lc 1,30-31; 2,10-11).
Il resto del Vangelo, soprattutto quello di Luca, evidenzia la gioia improvvisa e incontenibile che contagia quanti vengono a contatto con Ješhu. A cominciare da Elisabetta e dal suo bambino, che le esulta nel grembo, il futuro Battista. Così esultano ancora due anziani che sembrano essere rimasti in vita per mantenere viva la speranza d’Israele: Simeone e Anna, o i pastori; mentre nel racconto di Matteo, viene detto che i Magi “provarono una grandissima gioia” nel rivedere la stella che indicava il luogo della natività di Gesù.
La stessa gioia è testimoniata dai semplici e dagli umili, dagli infelici e dai peccatori che si sentono aiutati, capiti, perdonati. A gioire sono ancora i bambini e le donne, classi tradizionalmente neglette dalla piena partecipazione alla grazia collegata alle tradizionali benedizioni di Dio. Insomma il cuore del Vangelo è la lieta notizia annunciata ai bisognosi e agli infelici della terra. Il Dio che si dona totalmente, è il Dio che dona illimitatamente la gioia agli uomini. E perché la nostra gioia fosse piena (Gv 15,11), il Figlio di Dio è arrivato umanamente a perdere se stesso.
Perché avessimo una gioia che nessuno avrebbe mai più potuto toglierci, ha permesso che fosse tolta a lui la vita, per riprenderla di nuovo, ma con la conoscenza ormai nella sua carne e nella sua psiche di cosa significhi la morte umana. Di cosa voglia dire la gioia di vivere, di vivere non con il naturale sorriso con cui vive ogni creatura per la stessa gioia dell’esistere, ma di provare e diffondere la gioia di chi conosce la sofferenza e non resta inchiodato alla sofferenza. O al limite, di chi, nonostante le ferite e talora i chiodi mai interamente rimossi della sofferenza, sa sorridere della vita, perché questa è ormai rischiarata da colui che vince la morte e la depressione della sofferenza.
La gioia è dunque uno dei nomi della salvezza, ma di una salvezza che assume di volta in volta nomi nuovi e nomi antichi: riscatto, liberazione, sensatezza, leggerezza dell’esistere... Se la parola non fosse tanto inflazionata, si potrebbe dire che la salvezza altro non è che la felicità. È la felicità nel suo senso etimologico: come abbondanza e fertilità. Possiamo tradurre: come vita sensata che raggiunge il suo scopo e nasce da relazioni benevole, tendenti al bene altrui, trovando negli altri la propria gioia e comunicandola con relazioni che fanno crescere se stessi e gli altri.
In quanto tale, la felicità è simile alla pace e ne è la forma storica: è star bene con sé e con gli altri, con il proprio passato e con il proprio futuro. Perché, soprattutto oggi, c’è bisogno paradossalmente più di ricostruire il futuro che il passato o il presente. Per poterlo fare c’è bisogno di quella gioia consapevole che non si arrende e che non si ripiega su se stessa. Si ritrova nel futuro di una convivenza che non nasconde, ma sa riconoscere e superare i conflitti attraverso uno sguardo d’amore verso ciò che ci è intorno. È uno guardo che viene da lontano e tuttavia tocca la nostra umanità, questa mia e questa tua umanità, quella assunta, attraversata e come divinizzata da quel Gesù che continuamente dà senso a ogni tentativo di superare la violenza con l’amore. È l’unico a dar senso a ogni discorso di pace, anche questo che hai appena finito di leggere.
* MOSAICO DI PACE, LUGLIO 2012
Fuori dal gregge
di Antonio Thellung (mosaico di pace, luglio 2012)
L’obbedienza non è più una virtù, diceva don Milani, esortando a coltivare la presa di coscienza. Non per contrapporsi all’autorità, ma per educare ciascuno ad assumere le proprie responsabilità, senza pretendere di scaricarle su altri. L’obbedienza, infatti, può anche dirsi una virtù, ma soltanto se si mantiene entro limiti equilibrati, da valutare appunto con coscienza. Perché l’obbedienza cieca è il tipico strumento utilizzato dalle strutture autoritarie gerarchico-imperialistiche per esercitare il potere, offrendo in cambio ai sudditi lo scarico della responsabilità personale. Tipico esempio si è avuto nel dopoguerra quando pareva che nessuno dei feroci gerarchi nazisti fosse colpevole, perché sostenevano tutti di aver semplicemente obbedito a ordini superiori.
Il Vangelo è chiarissimo: "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?", ma la cristianità che si è affermata nella storia ha preferito mutuare dall’Impero Romano un’impostazione imperialistica che si mantiene presente tuttora, sia pure adattata ai tempi odierni. Un’impostazione che riduce i fedeli a "docile gregge", come li definiva a suo tempo Pio X. Il Vangelo, inoltre, esorta anche a non chiamare nessuno padre sulla terra, un lampante invito a non cadere nelle tentazioni del paternalismo, che svaluta la dignità delle persone. Ma l’uso di chiamare "padre" i ministri del culto la dice lunga. Nello stesso brano, poi, Gesù in persona ammonisce i suoi apostoli a non farsi chiamare maestri perché solo Cristo è il maestro, ma sorprendentemente su taluni documenti ecclesiastici anche dei tempi presenti, come ad esempio il Documento di Base del 1970, si legge nientemeno che: "Per disposizione di Cristo, gli Apostoli affidarono ai loro successori, i Vescovi, il proprio ufficio di Maestri". Incredibile!
Si potrebbe dire che il magistero ha sempre richiesto ai fedeli un’obbedienza cieca, e non pochi tra coloro che hanno cercato di opporsi hanno pagato talvolta perfino con la vita. San Francesco, nella sua prima regola, aveva provato a scrivere che un frate non è tenuto a obbedire al superiore se questi gli ordina qualcosa di contrario alla sua coscienza, ma naturalmente papa Innocenzo III si è guardato bene dall’approvarla. In tempi più recenti, nel 1832, Gregorio XVI definiva un delirio la libertà di coscienza e nel 1954 Pio XII scriveva: "È giusto che la Chiesa respinga la tendenza di molti cattolici a essere considerati ormai adulti". Non è stupefacente?
Chi esercita il potere, di qualsiasi tipo, vorrebbe dai sudditi una delega in bianco, perché teme le coscienze adulte, che sono difficilmente governabili per il loro coraggio di esprimere dissenso, quand’è il caso. E tanto più il potere è prepotente e prevaricante, tanto più esige un’obbedienza cieca. Il magistero ecclesiastico ha sempre mostrata una grande avversione al dissenso, trattandolo come un nemico da combattere perfino con metodi violenti, nel caso, senza capire che proprio il dissenso è il miglior amico degli insegnamenti di Cristo, perché agisce come sentinella delle coscienze.
Il dissenso, nella Chiesa, c’è sempre stato, con buona pace di coloro che nelle varie epoche storiche hanno preteso di soffocarlo usando talvolta armi che sono incompatibili con l’insegnamento di Gesù. Sarebbe ora che l’autorità prendesse atto che il dissenso non è un nemico ma, anzi, un grande amico, anche se può rendere più complesso e faticoso il cammino. Il Concilio Vaticano II mostrava di averlo capito quando scriveva, nella Gaudium et Spes: "La Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano". Ma ben presto, poi, sono prevalsi nuovamente gli atteggiamenti di repressione e condanna verso chi tenta coraggiosamente di alzare la testa. essere credibili
Personalmente non dubito che un magistero ecclesiastico sia necessario e prezioso, ma di quale tipo? Qualsiasi coscienza adulta sa che di fronte a disaccordi e perplessità non avrebbe alcun senso rifiutare l’autorità o ribellarsi tout court: non sarebbe costruttivo. Ma sente però il dovere, prima ancora che il diritto, di chiedergli maggiore credibilità, di esigere che sappia proporre senza imporre, con rispettoso ascolto delle opinioni altrui. Gli ascoltatori di Gesù "rimanevano colpiti dal suo insegnamento", perché "parlava con autorità", e non perché aveva cariche istituzionali. Così il magistero può sperare di essere creduto, dalle coscienze adulte, quando offre messaggi autorevoli e convincenti, e non per il solo fatto di essere l’autorità costituita. Oggi la credibilità dei vertici ecclesiastici, con tutti gli scandali di questi tempi, è fortemente minata, e si potrebbe dire che solo facendo leva surrettiziamente sulla grande fede in Gesù Cristo che continua a sostenere tante persone (malgrado tutto) evita di porsi in caduta libera. Ma fino a quando, se permane la pretesa di continuare a proporsi come magistero di un "docile gregge?".
La parabola della zizzania insegna che la Chiesa è comunione di consensi e dissensi, perciò, per recuperare credibilità, le autorità dovrebbero finalmente prenderne atto e imparare a dialogare con tutti alla pari, e in particolare proprio con il dissenso. Dovrebbero educarsi ed educare ad accoglierlo con l’attenzione che merita. Perché un dissenso respinto e represso a priori diventa facilmente aspro, arrabbiato, distruttivo mentre, se accolto con benevolenza, può diventare costruttivo, benevolo, e perfino affettuoso.
Una buona educazione al dissenso potrebbe diventare la miglior scuola alla formazione di coscienze adulte, capaci di confrontarsi senza acquiescenze o confusioni e censure. Capaci, cioè, di non farsi travolgere da vergognosi intrallazzi di qualsiasi tipo.
Personalmente, cerco, nel mio piccolo, di fare quel che posso. Qualche anno fa l’editrice la meridiana ha pubblicato un mio libro dal titolo "Elogio del dissenso", e per ottobre prossimo ha in programma di pubblicare un mio nuovo saggio dal titolo "I due cristianesimi", scritto per sottolineare le differenze tra il messaggio originale di Cristo e l’imperialismo cristiano, non solo come si è affermato nella storia, ma anche come si manifesta al presente. L’interrogativo è focalizzato sulla speranza nel futuro, mentre le critiche a quanto è stato ed è contrabbandato in nome di Cristo servono solo per capire meglio come si potrebbe uscir fuori dalle tante macrocontraddizioni.
La speranza è irrinunciabilmente legata a una Chiesa delle coscienze adulte, perciò sogno un magistero impegnato a farle crescere senza sottoporle a pressioni psicologiche; un magistero capace d’insegnare a distinguere il bene dal male senza imporre valutazioni precostituite; lieto di aiutare ognuno a diventare adulto e autonomo senza costringerlo a sottomettersi; volto a stimolare una sempre maggiore consapevolezza rinunciando a imposizioni precostituite. Un magistero che affermi i suoi principi senza pretendere di stigmatizzare le opinioni diverse; che proponga la propria verità senza disprezzare le verità altrui. In altre parole, sogno una Chiesa dove sia possibile ricercare, discutere, confrontarsi, camminare assieme.
Sogno un magistero che affermi il patrimonio positivo della fede, libero dalla preoccupazione di puntualizzare il negativo; che sappia offrire gratuitamente l’acqua della vita, senza voler giudicare chi beve; che proponga la verità di Cristo, esortando a non accettarla supinamente; che tracci la strada, ammonendo a non seguirla passivamente; che offra strumenti per imparare a scegliere, a non essere acquiescenti, a non accontentarsi di un cristianesimo mediocre e tiepido. Un Magistero che preferisca circondarsi da persone esigenti, irrequiete, contestatrici, piuttosto che passive, pavide, addormentate. Esso per primo ne trarrebbe grandi benefici: sarebbe il magistero di un popolo adulto, maturo, responsabile.
Etimologicamente la parola obbedienza significa ascolto, e sarebbe ora di educarci tutti a questo tipo di obbedienza reciproca: i fedeli verso l’autorità, ma anche l’autorità verso chiunque appartenga al Popolo di Dio, non importa con quale ruolo. Solo questa obbedienza è autentica virtù. Chissà se San Paolo, quando esortava a sperare contro ogni speranza, si riferiva anche alle utopie!
Diritto finito all’Indice
di Massimo Firpo (Il Sole 24 Ore” - Domenicale, 12 agosto 2012)
La risposta della Chiesa di Roma alla sfida della Riforma protestante fu lenta e difficoltosa. Troppe fragilità personali, troppa distanza da ogni autentica sensibilità religiosa, troppi interessi fiorentini avevano impedito ai papi medicei, Leone X (1514-1521) e Clemente VII (1523-1534) di promuovere qualche significativo rinnovamento pastorale e istituzionale, e anche lo sfrenato nepotismo del loro successore, Paolo III Farnese (1534-1549), fu ben lungi dal segnare una svolta.
Ciò contribuisce a spiegare perché solo nel 1542, ben 25 anni dopo le tesi di Wittenberg, fosse istituito il Sant’Ufficio dell’Inquisizione romana, con il compito di debellare ogni forma di dissenso religioso, e solo nel 1546 potesse infine riunirsi il concilio di Trento, destinato tuttavia a concludersi solo nel 1563. Le istanze della repressione precedettero dunque quelle della riforma della Chiesa in capite e in membris, e ne segnarono profondamente la presenza e il ruolo sociale, il magistero dottrinale, gli orientamenti politici, l’identità storica lungo tutto l’arco di una Controriforma destinata a durare fino al concilio Vaticano II.
Tra i compiti primari di questo capillare controllo della vita religiosa, com’è ovvio, emerse l’esigenza di sorvegliare la circolazione dei libri, quel possente strumento di diffusione delle idee che lo stesso Lutero aveva definito come l’ultimo e il più grande dono di Dio, con il quale aveva voluto far conoscere «fino ai confini del mondo» la vera fede di un cristianesimo rinnovato. I primi elenchi di libri proibiti cominciarono a circolare precocemente in sede locale, fino all’Indice pubblicato nel 1549 a Venezia dal nunzio Giovanni Della Casa, al rigorosissimo Indice di Paolo IV del 1558, all’Indice tridentino del 1564, a quello di Clemente VIII del 1596: compito di tale importanza e di tali dimensioni da convincere Pio V, il papa inquisitore per eccellenza, a istituire nel 1571 una nuova congregazione cardinalizia, destinata appunto a questo compito.
Un compito immane e di fatto impossibile, che esigeva di fronteggiare una marea di libri sempre crescente e ovunque pullulante, al punto da indurre il cardinale Roberto Bellarmino, diventato poi san Roberto Bellarmino dottore della Chiesa, ad affermare mestamente che sarebbe stato opportuno che per molti anni «non vi fusse stampa» e ad ammettere che i censori romani riuscivano a stento e tra molte falle ad arginare la diffusione dei libri eterodossi soltanto al di qua delle Alpi, «almeno qui dove potiamo».
L’Italia diventava così l’ultima e assediata cittadella della fede cattolica, poiché in Spagna agiva un’Inquisizione controllata dalla corona (e quindi sensibile alle sue esigenze politiche e giurisdizionali) e in Francia pluralismo religioso e istanze gallicane facevano diga al centralismo romano e impedivano che le autorità romane diventassero «signori di libri», domini librorum, come denunciava Paolo Sarpi. Un compito tanto più impossibile, infine, in quanto occorreva distinguere tra libri da condannare e libri da espurgare, libri del tutto erronei e libri non privi di errori, e ancor più perché il dilatarsi del concetto stesso di eresia dalla teologia alla filosofia (il platonismo), alla scienza (Galileo), alla letteratura, alla pseudosantità, al diritto finiva con l’estendere di fatto a tutta la produzione tipografica una sorveglianza destinata a diventare sempre più illusoria e velleitaria con il passare del tempo.
Ad essere coinvolti in questa debole quanto ossessiva prassi censoria furono anche i libri giuridici, come spiega in questo saggio Rodolfo Savelli (Rodolfo Savelli, Censori e giuristi. Storie di libri, di idee e di costumi (secoli XVI-XVII), Milano, Giuffrè, ), storico del diritto attentissimo alla contestualizzazione storica e quindi capace di cogliere con finezza le ragioni specifiche delle censure ecclesiastiche, dal «lento avvio» cinquecentesco fino al tramonto nell’età dei Lumi, quando esse finirono con il perdere di credibilità e valore, fino a diventare oggetto di scherno, nella convinzione che a Roma si proibisse «tutto ciò che non è Bellarmino».
Libri che incrociavano una molteplicità di temi particolarmente sensibili per le autorità religiose, come il prestito a interesse, per esempio, o le prerogative statali, l’amministrazione della giustizia e le immunità, il foro ecclesiastico, i matrimoni, questioni delicate, che rischiavano di sconfinare sul terreno sempre più dilatato dell’eresia: i libri che difendono «l’autorità temporale del principe», scriveva ancora Sarpi, sono «dannati e perseguitati più degli altri».
A ciò si aggiungevano anche gli interessi materiali di tipografi e librai, che traevano profitto dallo smercio di opere che costituivano oggetto di studio nelle Facoltà giuridiche: di qui la particolare attenzione di cui furono fatti oggetto i commentari alle Institutiones, pubblicati a volte con l’esplicita precisazione che in essi era stato omesso tutto ciò che fosse contrario alle norme del diritto canonico. Ne scaturivano oggettivi limiti di conoscenza e soggettivi scrupoli di coscienza (tali a volte da indurre a chiedere il permesso di leggere libri che non erano proibiti), censure e autocensure, favoritismi ed espedienti, autorizzazioni concesse e negate, all’insegna del costante timore delle autorità ecclesiastiche per la libertà di coscienza, per il discernimento dei fedeli.
E intanto già nel Seicento la lista degli autori condannati si dilatava a comprendere numerosi giuristi cattolici, italiani, spagnoli, francesi, anch’essi schieratisi in difesa dell’autorità secolare contro i privilegi e le immunità ecclesiastiche, a dimostrazione di quanto il baluardo dei censori romani cominciasse a dare segni di cedimento.
Da quindici anni a questa parte gli archivi di quella che fu la congregazione dell’Indice sono aperti alle ricerche degli studiosi e numerosi studi ne hanno esplorato l’azione in materia di fede, di morale, di politica, di letteratura: è merito dell’autore di queste pagine aver affrontato il tema cruciale della cultura giuridica, anch’essa passata al vaglio di teologi sensibilissimi alla «ragion di Chiesa» e ossessionati per secoli da «quelli diavoli di Genevra» dai quali ai loro occhi erano nati tutti i mali del mondo moderno.
Verso l’Anno della fede indetto da Benedetto XVI
La grandezza del credere
di Rino Fisichella *
Benedetto XVI è ritornato più volte sul tema della fede. Nei suoi auguri natalizi alla Curia romana ha detto: "Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se ad essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione ed una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme rimarranno inefficaci".
Alla stessa stregua durante il suo viaggio in Germania aveva osservato: "Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che appartiene al presente. Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi. Non saranno le tattiche a salvarci, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo".
Come si può osservare, due idee ritornano con frequenza: la fede deve essere ripensata e vissuta. L’Anno della fede potrebbe essere un’occasione propizia su questo versante. Un vero kairos da cogliere per consentire alla grazia di illuminare la mente e al cuore di dare spazio per far emergere la grandezza del credere.
Una mente illuminata dovrebbe essere capace, anzitutto, di evidenziare le ragioni per cui si crede. In questi ultimi decenni, il tema non è stato proposto in teologia né, di conseguenza, nella catechesi. La cosa non è indolore. Senza una solida riflessione teologica che sia in grado di produrre le ragioni del credere, la scelta del credente non è tale. Essa si ferma a una stanca ripetizione di formule o di celebrazioni, ma non porta con sé la forza della convinzione. Non è solo questione di conoscenza di contenuti, ma di libertà.
Si può parlare di fede come se si trattasse di formule chimiche conosciute a memoria. Se, tuttavia, manca la forza della scelta sostenuta da un confronto con la verità sulla propria vita, tutto si sgretola. La forza della fede è gioia di un incontro con la persona viva di Gesù Cristo che cambia e trasforma la vita. Saper dare ragione di questo permette ai credenti di essere nuovi evangelizzatori in un mondo che cambia.
Il secondo termine usato da Benedetto XVI è una fede vissuta. Essa è tanto più necessaria, quanto più si coglie il valore della testimonianza. D’altronde, proprio in riferimento all’evangelizzazione, Paolo VI affermava senza indugi che "il mondo di oggi non ascolta più volentieri i maestri, ma ascolta i testimoni. E se ascolta i maestri è perché sono testimoni" (Evangelii nuntiandi, 41). Sono passati decenni, eppure questa verità permane con una carica di inalterata attualità. Il mondo di oggi ha fame di testimoni. Ne sente un bisogno vitale, perché ricerca coerenza e lealtà.
Siamo dinanzi al tema del cor ad cor loquitur, che ha avuto in Newman un vero maestro. Una fede che porta con sé le ragioni del cuore è più convincente, perché ha la forza della credibilità. La sfida, pertanto, è poter coniugare la fede vissuta con la sua intelligenza e viceversa.
*
(©L’Osservatore Romano 1° agosto 2012)
LETTERA DI DON ALDO ANTONELLI A:
Don Giuseppe Costa
Direttore Libreria Editrice Vaticana
00120 CITTA’ DEL VATICANO
Ricevo la Vs. del 31 Luglio 2012, nella quale vi pregiate di presentare in offerta le Vostre pubblicazioni. Il sottoscritto fa presente la sua piena riluttanza ad accettare offerte di pubblicazioni nelle quali figura anche solo la firma di mons. Rino Fisichella, fosse anche la Bibbia.
Non vogliamo avere niente a che fare con colui che frequenta ambienti depravati ed è amico di ladri, spergiuri, mendaci e corruttori di minorenni.
Aldo Antonelli
(Parroco della Parrocchia Santa Croce Antrosano - AQ)
Contro la crisi la rivincita della carità
di Bruno Forte (Avvenire, 10 luglio 2012)
La trasformazione del pianeta in “villaggio globale”, accelerata dall’esperienza della realtà virtuale consentita dall’universo multimediale e dal “web”, incide anche sulla sfera religiosa e spirituale. Fenomeni come il New Age o Era dell’Acquario, dall’impatto vastissimo soprattutto nella cultura nord- e sud-americana sembrano rispondere al bisogno di rassicurazione prodotto dall’accelerazione dei cambiamenti attraverso una sorta di “gnosi” per il popolo, in cui le sub-culture prodotte dalla dipendenza mediatica trovano garanzie psicologiche e consolazioni a buon mercato, convenienti alle finalità delle grandi agenzie di consenso economico e politico del pianeta.
Ecco perché diventa urgente individuare come il cristianesimo - nella varietà dei contesti e delle sue tradizioni confessionali e specialmente nella pienezza della sua espressione cattolica - debba contribuire a costruire in rapporto ad esse un’umanità più giusta e felice, più unita e conforme al progetto divino di salvezza. Tre ambiti di impegno si lasciano riconoscere come ineludibili per tutte le Chiese e per il loro cammino comune: la risposta da dare al nuovo bisogno di spiritualità, l’urgenza emergente della cattolicità e l’impegno al servizio della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato. Si può dire che la riflessione della fede del terzo millennio si giocherà intorno alla martyrìa alla koinonìa e alla diakonìa, vissute dai cristiani.
La via della martyrìa corrisponde a una ritrovata esigenza di spiritualità emersa dalla parabola dell’epoca moderna: c’è bisogno di una teologia più teologica, più collegata al vissuto spirituale. La modernità aveva separato, se non addirittura contrapposto, il momento razionale e il momento esperienziale della vita, producendo quel divorzio fra riflessione e spiritualità, che aveva reso anche la teologia piuttosto arida e intellettualistica e la spiritualità piuttosto sentimentale e intimistica. L’epoca post-moderna spinge a saldare nuovamente questi due ambiti: l’alternativa della fede all’astrattezza dell’ideologia sta nella possibilità di sperimentare un rapporto personale con la Verità, nutrito di ascolto e dialogo con il Dio vivo. La Verità non è qualcosa che si possiede, ma Qualcuno dal quale lasciarsi possedere.
Secondo la critica di moda negli anni dell’ideologia rampante, la dimensione contemplativa della vita sembra offrirsi come riserva di integralità umana e di autentica socialità. Si può quindi supporre che il futuro del cristianesimo o sarà più spirituale e mistico, e ricco di esperienze del Mistero divino, o potrà ben poco contribuire alla crisi e al cambiamento in atto nel mondo. La ricerca di un nuovo consenso intorno alle evidenze etiche domanda ai cristiani una risposta a partire dalla testimonianza specifica della loro fede nel Dio di Gesù Cristo, anche per evitare il rischio non indifferente di “riduzione al minimo comun denominatore”, che sembra emergere in alcuni approcci interreligiosi alla questione etica.
Accanto alla via della martyrìa, quella della koinonìa corrisponde alla nostalgia di unità che si affaccia nella “globalizzazione” del pianeta. In particolare, in Europa - culla delle divisioni fra i cristiani - la disgregazione seguita al crollo del muro di Berlino e l’emergere violento di regionalismi e nazionalismi sfidano le Chiese a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra loro e al servizio dei loro popoli.
Sul piano teologico è significativo che la riflessione ecumenica, dopo aver dedicato una privilegiata attenzione alle forme sacramentali, si concentri sul tema della koinonìa, che esprime non solo un’esigenza di ripensamento ecclesiologico riguardo alla struttura e alla vita interna delle Chiese, ma anche un’attenzione alla sfida che il bisogno di unità emergente dalle nuove divisioni pone alle comunità cristiane. Emerge una nuova, diffusa attenzione alla “cattolicità”, intesa sia secondo il suo significato di universalismo geografico, reso più che mai attuale proprio dai processi di “globalizzazione” del pianeta, sia secondo il senso di pienezza e totalità, che rimanda all’integralità della fede e della attualizzazione della memoria del Cristo.
Non sorprende allora che in ambito ecumenico si dedichi nuova attenzione all’unità universale nella Chiesa. Un contributo notevole alla riscoperta della cattolicità, come esigenza e condizione della missione cristiana, viene da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: il loro pontificato, caratterizzato da un’itineranza apostolica, ha evidenziato la ricchezza della “regionalizzazione” della Chiesa e ha ribadito le esigenze dell’unità dottrinale e pastorale sul piano universale. La rilevanza di quest’azione è stata palese in alcuni cambiamenti storico-politici, come quello della crisi del “socialismo reale”, ma va considerata soprattutto nella sua specificità spirituale di riproposizione del Vangelo come messaggio di vita e salvezza per le singole situazioni culturali e per la crescita nell’unità e nella pace della famiglia umana.
La prima decade del Terzo Millennio indica questa direzione proponendola come un itinerario di conversione e rinnovamento per tutti i credenti, chiamati a far memoria dei doni di Dio, ma anche a riconoscere le proprie colpe, personali e collettive, e a ripensare la propria identità e missione di fronte alle sfide del nuovo millennio cristiano, specialmente in chiave ecumenica e nell’ottica del dialogo interreligioso. Una teologia ecclesialmente responsabile e aperta alle esigenze della cattolicità sembra più che mai necessaria.
Infine, la testimonianza evangelica della carità come diakonìa, nell’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato, appare come il terzo grande campo di azione per il cristianesimo degli inizi del Terzo Millennio in tutte le sue espressioni confessionali: le sfide della giustizia sociale sono oggi interconnesse con i rapporti internazionali di dipendenza e con la questione ecologica.
Lo stretto intreccio appare con grande chiarezza quando si considerino i processi in atto nella “globalizzazione”, superando visuali regionalistiche, a volte troppo chiuse: il cristianesimo, religione universale diffusa nei contesti storici e culturali più diversi, appare qui soggetto privilegiato per tener desta una coscienza critica attenta a difendere la qualità della vita per tutti e capace di farsi voce specialmente di chi non ha voce e fronteggiare, con un impatto morale e spirituale di grande portata, le logiche esclusive ed egoistiche delle grandi agenzie mondiali di potere economico e politico.
Di fronte alla crisi mondiale e all’avidità da cui essa è stata generata la testimonianza del primato della carità è una sfida e una promessa. I credenti devono contare solo sulla vitalità della loro fede e l’operosità evangelica: tuttavia, il patrimonio spirituale che si esprime nella vastissima rete di opere di volontariato e di solidarietà che la Chiesa ha espresso con creatività, anche nel nostro tempo di mutamenti rapidi e spesso drammatici, costituisce al tempo stesso un contributo e una proposta all’umanità intera per l’edificazione di un “villaggio globale” che sia più a misura umana.
È significativo che la Chiesa sia intervenuta in termini inequivoci con l’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate sull’attuale forma in cui si presenta la questione sociale. I cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni del secolo richiedono però a tutte le Chiese di far propria la denuncia del sistema di dipendenze che regge i rapporti specialmente fra il Nord e il Sud del mondo. A tutti è domandato di contribuire a individuare una via economico-politica che superi le rigidità del collettivismo e dei suoi fallimenti storici, e gli egoismi miopi di un capitalismo assolutista e accentratore. Una teologia “militante” nel servizio della carità e della ricerca di una più grande giustizia appare qui come compito e sfida ineludibile.
Bruno Forte
UNA QUESTIONE MORALE EPOCALE. SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.
"CHARITE DULCISSIMA": IL RACCONTO DI APULEIO, A DIFESA DI UNA FANCIULLA RAPITA DA UNA CRICCA DI BRIGANTI PER OTTENERE UN BUON RISCATTO! Una nota di Franco Manzoni
LA FAVOLA DI AMORE E PSCICHE. "Il mito, che unisce l’amore e l’anima, viene ascoltato dall’uomo-asino in una caverna di banditi. Qui è trattenuta una fanciulla di nome Càrite, rapita per ottenere un buon riscatto. Per consolarla, la vecchia che la custodisce narra una storia a lieto fine. Figlia di re, Psiche è così bella da suscitare la reazione di Venere, che chiede al dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione per l’uomo più brutto della terra".
Il Vaticano e la teologia delle sorelle
di Massimo Faggioli (Europa, 6 giugno 2012)
Durante e nonostante lo scandalo delle divisioni interne alla Curia romana ormai noto come “VatiLeaks”, proseguono i richiami del magistero della Chiesa rivolti contro teologhe e teologi cattolici. Due giorni fa è toccato a suor Margaret A. Farley, docente alla Divinity School della Yale University, ricevere da Roma una notifica (datata 30 marzo 2012) riguardo il suo recente libro, Just Love: A Framework for Christian Sexual Ethics. Le critiche riguardano la trattazione di questioni come la masturbazione, gli atti omosessuali, le unioni omosessuali e il matrimonio.
In questi ambiti suor Farley presenta dei casi in cui, sulla base di una morale esperienziale e non dottrinale, si difende la moralità di pratiche rigettate dalla morale sessuale ufficiale della Chiesa. La notifica viene non dai vescovi americani, ma dalla Congregazione per la dottrina della fede che attualmente è guidata da un cardinale americano, William Levada. Il libro viene accusato di insegnare in materia morale principi significativamente differenti da quelli insegnati dal papa e dei vescovi, e quindi di provocare confusione tra i fedeli. Il libro di conseguenza «non può essere usato come valida espressione della dottrina cattolica».
Nella sua risposta, Farley ha «ringraziato la Congregazione» per l’attenzione ricevuta e non ha smentito il fatto che il libro contenga opinioni che non sono in accordo con l’insegnamento ufficiale della Chiesa, ma ha anche puntualizzato che il libro è inteso ad offrire non una dottrina cattolica alternativa, ma «un’interpretazione contemporanea di significati tradizionali che sono rilevanti per il corpo umano, la differenza di genere e la sessualità».
Come accade di consueto, i teologi americani si sono schierati in difesa del libro sotto accusa, che al momento della pubblicazione nel 2006 venne accolto da recensioni molto positive. Una delle teologhe moraliste più importanti, Lisa Cahill del Boston College, ha affermato che una delle questioni-chiave del libro è la violenza contro le donne e le sue conseguenze per la teologia morale cattolica - una questione che non viene menzionata nel giudizio della Congregazione, che invece accorda grande importanza alla moralità della masturbazione.
Anche l’ordine religioso a cui appartiene suor Farley, quello delle “Sisters of Mercy of the Americas”, ha espresso il suo sostegno all’autrice del libro, docente a Yale dal 1971, pluripremiata e celebre a livello mondiale non come esperta di morale sessuale bensì di bioetica ed etica medica.
Agli occhi dei cattolici americani, infatti, è chiaro lo schema di azione della gerarchia verso la teologia americana e in particolare contro le teologhe. Risale al 2010 l’inizio delle tensioni tra i vescovi americani e le religiose circa la riforma sanitaria dell’amministrazione Obama, che le religiose hanno appoggiato per il tentativo di estendere la copertura sanitaria a quasi tutti quelli attualmente senza accesso alle cure mediche.
È dell’autunno 2011, poi, lo scontro tra la conferenza episcopale americana e la docente di teologia di Fordham University, Elizabeth Johnson circa il suo libro, Quest for the Living God. Nel maggio 2012 si è infine avuta notizia dell’indagine aperta dai vescovi americani sulle Girl Scouts (che negli Stati Uniti sono separate dai Boy Scouts of America e politicamente molto più liberal e socialmente più impegnate) per i legami che le Girl Scouts hanno con organizzazioni che promuovono la contraccezione e la salute sessuale delle donne.
È una spaccatura grave e crescente quella tra il Vaticano e i vescovi da una parte, e la teologia americana dall’altra: si tenta di ironizzare apprezzando il fatto che immediatamente, qualche ora dopo la pubblicazione di queste “condanne” vaticane, i libri presi di mira scalano le classifiche di vendita. Nel caso di Farley, i proventi andranno al suo ordine religioso, anch’esso nel mirino del Vaticano per i provvedimenti annunciati due mesi fa contro la Lcwr, la più grande federazione degli ordini religiosi femminili degli Stati Uniti.
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore - Domenica, 20 maggio 2012)
La critica a un’informazione spesso approssimativa, superficiale, prevenuta e fin ostile per ragioni di principio, non deve quindi esimere la comunità ecclesiale da una ferma autocritica nei confronti dei propri limiti. Le evidenti incomprensioni che allignano nella società non devono produrre un rassegnato vittimismo e neppure un’altezzosa noncuranza del fenomeno. Anche se l’odierna esasperazione della comunicazione, la sua accelerazione ed estensione costituiscono una novità, nella sua sostanza, un fenomeno costante che risale alle origini stesse della cristianità. Quella che appare ai nostri occhi come la primavera della Chiesa (e che per molti versi lo era) fu una stagione tutt’altro che idilliaca, sottoposta a gelate, a tempeste, a devastazioni. E questo non solo a livello di vita ecclesiale: emblematiche sono le divisioni accese che frantumavano la Chiesa di Corinto, fieramente denunciate da san Paolo (1 Corinzi 1, 10-16).
La crisi si manifestava anche a livello di comunicazione, e l’apostolo lo conferma a più riprese
puntando l’indice contro una serie di deviazioni dottrinali e morali che si ramificavano attraverso
l’oralità, il medium allora dominante, «turbando e sovvertendo» (Galati 1, 7), «provocando divisioni
e ostacoli contro l’insegnamento appreso» (Romani 16, 17), «incantando gli stolti» cristiani della
Galazia (Galati 3, 1). Il fascino della stravaganza e dell’eccesso attirava già allora, al punto che san
Paolo polemizza con alcune comunità cristiane nelle quali «ci si circonda di maestri secondo i
propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2 Timoteo 4, 3-
4). Anzi, la forza «performativa», cioè efficacemente incisiva, della comunicazione - soprattutto nei
confronti delle persone più indifese - è rappresentata senza reticenze nel suo versante negativo al
l’interno della stessa lettera indirizzata da san Paolo al collaboratore Timoteo: «Vi sono alcuni che
entrano nelle case e circuiscono certe donnette cariche di peccati e in balia di passioni di ogni
genere, sempre pronte a imparare, ma che non riescono mai a giungere alla conoscenza della verità»
(3, 6-7). In quel contesto di comunicazione viziata, già allora non si esitava ad adottare la pura e
semplice falsificazione a livello di massa: nella comunità cristiana di Tessalonica circolano persino
dice l’apostolo - «alcune lettere fatte passare come nostre», tali da «confondere la mente e
allarmare» (2 Tessalonicesi 2, 2), tanto è vero che san Paolo si vede costretto ad apporre ai suoi
scritti - dettati, com’era prassi, a uno scriba - una specie di autenticazione: «Il saluto è di mia mano,
di Paolo. Questo è il segno autografo di ogni mia lettera; io scrivo così» (2 Tessalonicesi 3, 17);
«vedete con che grossi caratteri vi scrivo di mia mano» (Galati 6, 11). L’«adulterazione» del
messaggio secondo forme ingannevoli era una vera e propria piaga che attecchiva in varie Chiese
delle origini (2 Corinzi 4, 2). Il monito è, perciò, costante: «Fate attenzione che nessuno faccia di
voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri... Nessuno vi inganni con parole vuote» (Colossesi
2, 8; Efesini 5, 6).
La comunicazione malata, le incomprensioni e le degenerazioni sono quindi un dato permanente e forse scontato non solo nel confronto con l’esterno, ma anche all’interno stesso della Chiesa. A questo punto vorrei apporre al nostro itinerario molto variegato, e forse anche un po’ disperso e dispersivo, una nota conclusiva, che vuole avere un sapore «controcorrente». Dopo aver trattato tanto di parole, di informazione, di comunicazione, vorrei infatti far entrare in scena l’antipodo, ossia il silenzio.
In uno dei suoi Shorts il poeta inglese Wystan H. Auden confessava: «Bisognosi anzitutto / di silenzio e di calore, / produciamo / freddo e chiasso brutali». Il filosofo Friedrich W. Nietzsche osservava che «è difficile vivere con gli uomini perché è assai difficile farli stare in silenzio». Il vaniloquio filtrato dai cellulari, il flusso incessante delle notizie, il chattare senza tregua e senza contenuti veri, ma spesso solo in una marea di fatuità e vacuità, il fiume limaccioso delle volgarità o quello fangoso delle falsità fanno venire talvolta il desiderio che, per questa società della comunicazione di massa superinflazionata, si compia quanto si annuncia nel libro dell’Apocalisse: «Si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora» (Apocalisse 8, 1).
È come se nell’etere risuonasse un poderoso: «Zitti!», così da bloccare ogni sproloquio per almeno mezz’ora. La parola autentica e incisiva, in verità, nasce dal silenzio, ossia dalla riflessione e dal l’interiorità, e per il fedele dalla preghiera e dalla meditazione. In mezzo al brusio incessante della comunicazione informatica, alla chiacchiera e all’immaginario televisivo e giornalistico, al rumore assordante della pubblicità, il cristiano (ma non solo) deve sempre saper ritagliare uno spazio di silenzio «bianco», che sia - come accade a questo colore che è la sintesi dello spettro cromatico - la somma di parole profonde, e che non è il mero silenzio «nero», cioè l’assenza di suono.
Il Dio dell’Oreb si svela a Elia non nelle folgori, nel vento tempestoso e nel terremoto bensì in una qôl demamah daqqah, in «una voce di silenzio sottile» (1 Re 19, 12). Anche la sapienza greca pitagorica ammoniva che «il sapiente non rompe il silenzio se non per dire qualcosa di più importante del silenzio». È solo per questa via che sboccia la parola assennata e sensata. Solo così si compie la scelta di campo sottesa a un famoso detto rabbinico: «Lo stupido dice quello che sa; il sapiente sa quello che dice».
Chi disobbedisce a chi?
di Patrick Royannais, prete
in “La Croix” del 13 maggio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Durante l’ultima messa crismale, Benedetto XVI ha fatto riferimento all’appello lanciato da più di trecento preti austriaci un anno fa relativo all’urgenza delle riforme nella Chiesa: “Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero - ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore.”
Benedetto XVI riconosce che questi preti vogliono servire la Chiesa ma si interroga sull’opportunità della disobbedienza, e lo possiamo capire. Ma, disobbedienza a chi? A Cristo? Non sembra si tratti di questo. Certo - in maniera fallace o per mancanza di rigore - il papa oppone “la conformazione a Cristo, che è il presupposto di ogni vero rinnovamento” e “la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee”. Disobbedienza alla Chiesa? Non viene detto. La controversia riguarderebbe solo un punto, del resto discusso, dell’insegnamento di Giovanni Paolo II.
Che cosa dice la Chiesa? Chi non le è fedele? In che cosa? In quale ambito culturale o intellettuale bisogna trovarsi per pensare che, dato che il capo ha parlato, quello che ha detto è automaticamente vero? Nessun gruppo, nessuna persona, neppure il capo, può pretendere di detenere l’ultima parola della verità. Siamo lasciati al conflitto delle interpretazioni, non che si possa dire qualsiasi cosa o che la verità sia soggettiva, ma nulla garantisce in maniera definitiva qualsiasi interpretazione. Fragilità, recentemente riconosciuta, ma non nuova, della verità espressa in linguaggio umano. Inoltre, occorre ricordare che il capo della Chiesa cattolica non è il papa, ma Cristo? Questo evita di fare del governo del papa un regime politico mondano e permette di sottolineare, con l’ultimo concilio, che ogni discepolo è in ascolto della Rivelazione alla quale, magistero compreso, vuole obbedire.
“Il magistero non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola” (Dei Verbum, n° 10).
Il papa e i preti austriaci ascoltano la parola del Signore, ma non comprendono la stessa cosa, almeno in punti molto periferici benché decisivi nel comportamento della Chiesa. Non può essere rimesso in discussione il loro attaccamento comune a Cristo che rivela nello Spirito la paternità di Dio; o alla Chiesa, che riceve missione di far risuonare la parola di Gesù e di lodare il Padre per i segni del Regno che germinano nel mondo; o alla forma storica della Chiesa cattolica in particolare nella sua strutturazione sacramentale del ministero.
Il conflitto delle interpretazioni deriva dal contraccolpo creato dalla secolarizzazione e dalla crisi delle istanze di verità o, in altri termini, dalla presa di coscienza della storicità della verità. Per essere fedeli all’insegnamento della Chiesa, non basta ripetere sempre la stessa cosa. Con il tempo, le stesse parole, le stesse pratiche hanno sensi diversi, di modo che chi si limita a ripetere, diventa inevitabilmente infedele. Per questo bisogna continuamente commentare le Scritture, commentare il Credo, reinterpretare la Tradizione della Chiesa, reinventare l’azione pastorale. La Chiesa ha sempre innovato per essere fedele alla sua tradizione e alla sua missione.
Quindi ci sono interpretazioni diverse o conflittuali tra quei preti e il papa. Ma quando chi ha l’autorità parla di disobbedienza, passa da un conflitto delle interpretazioni alla denuncia e all’esclusione di una posizione. Benedetto XVI pretende di chiudere il dibattito, ricorrendo de facto all’argomento d’autorità che la grande tradizione ha sempre contestato: “Al di sopra del papa in quanto espressione dell’autorità ecclesiale, c’è la coscienza alla quale bisogna innanzitutto obbedire, se necessario anche contro le richieste dell’autorità della Chiesa” (J. Ratzinger). Parlare di disobbedienza invece di ammettere la contingenza, l’indefinito conflitto delle interpretazioni, significa confiscare l’autorità e la verità. L’infallibilità papale non può legittimare l’argomento di autorità. Anche con la voce più dolce e lo spirito più umile che nessuno contesta a Benedetto XVI, potrebbe darsi che ci troviamo di fronte ad un abuso di potere. Chi disobbedisce a chi?
OBBEDIENZA E LIBERTA’
di don Aldo Antonelli
«Alzati! Anch’io sono un uomo»! Sono le parole di Pietro ad un “fedele” che gli si era inginocchiato per omaggiarlo.
Potrà anche essere umanamente spiegabile il gesto della prostrazione. Potrà anche essere “spontaneo” genuflettere se stesso di fronte ad un altro. Spesso, comunque, non è disinteressato. Di sicuro non è Umano, né proprio della dignità della persona.
Benedire le persone perché sappiano stare in piedi, invece che educarle alle genuflessioni; questa è l’istanza prima dell’etica evangelica. Una comunità di fratelli e sorelle che sappiano guardarsi negli occhi con dignità, liberi da sospette riverenze e umilianti deferenze; questa è la chiesa del Risorto. Un papa che abbia il coraggio di dire, come Pietro: “Alzati! Anch’io sono un uomo!”. Questa la rivoluzionaria novità del vangelo del Magnificat.
C’è un cammino ancora lungo da compiere per una chiesa che dell’obbedienza come sottomissione ne ha fatto una virtù e che della libertà come emancipazione ha sempre nutrito sospetti e diffidenze.
Vi auguro buona domenica con questo pensiero di Dietrich Bonhoeffer:
«L’obbedienza sa cosa è bene,
e lo compie,
La libertà osa agire, e rimette a Dio il giudizio
su ciò che è bene e male.
L’obbedienza segue ciecamente,
la libertà ha gli occhi ben aperti.
L’obbedienza agisce senza domandare,
la libertà vuole sapere il perché.
L’obbedienza ha le mani legate, la libertà è creativa.
Nell’obbedienza l’uomo osserva i comandamenti di Dio,
nella libertà l’uomo crea comandamenti nuovi.
Nella responsabilità trovano realizzazione entrambe, l’obbedienza è libertà».
Una catechesi per il Papa
di Mario Mariotti *
Chi glielo va a spiegare, al Papa, che con l’ostensorio in mano pensa di essere il padrone della Verità, che la pace passa per la giustizia, questa per la giustizia sociale, per 1’equa1izzazione delle condizioni di vita delle persone, che l’equalizzazione necessita di un’economia di comunione, che quest’ultima é un nome nuovo per quel socialismo, per quell’utopia della fratellanza, che era il segno di Dio per l’uomo, e che é stato tradito anche da coloro che, presieduti dal sopraddetto Papa, svolgono regolare e zelante servizio a sua santità mammona, ribattezzato col nome di Dio?
Chi glielo va a spiegare, a Sua Santità Benedetto, che il cristianesimo incarnato porterebbe strutturalmente al socialismo; che la globalizzazione non ha riguardato l’allevamento dei bachi da seta o delle trote, bensì quel cancro del capitalismo, quel1’idolo del “Beati gli indefinitamente ricchi”, che costituisce la più radicale bestemmia del progetto di Dio per l’uomo, fattoci conoscere da Gesù?
Chi glielo spiega, sempre allo stesso soggetto, che la vera condizione eucaristica è il lavoro, condizione nella quale la persona spende la propria vita per il bene comune, e che la difesa del posto di lavoro è la vera chiave per difendere la famiglia, che ha bisogno di stabilità, di avere il necessario garantito, per poter pianificare il proprio futuro, l’educazione dei figli e tutto il resto? Dato che la monotonia del pesto fisso é una condizione alla quale si adeguano più che volentieri sia i politici che i banchieri, ed i ricchi in generale, come mai Benedetto non ha spiegato al pres. Monti, andato da lui a baciare l’anello anche se ha fatto finta di non farlo, che é suo compito di estendere questa monotonia del posto fisso soprattutto a quei milioni di giovani che si ritrovano in un mondo che é accogliente solo per i ricchi, per i competitivi, per le persone di successo, e loro o li lascia fuori dalla porta, e li fa lavorare all’interno di quella f1essibilità e precarietà che, una volta, quando una parola aveva un unico significato, venivano definite "sfruttamento"?
E chi glielo spiega, a colui che pensa di essere il vicario di Dio sul pianeta Terra, e questo anche per merito di tutti coloro che dovranno rendere conto del fatto di aver concepito un concetto di Dio talmente squallido da vederlo compatibile con la sequenza dei papi, alcuni dei quali sono arrivati a stringere "concordati" anche con i più schifosi dittatori che abbiano insozzato la faccia del pianeta, chi glielo spiega, dicevo, a questo Vicario, che si muove in una scenografia faraonica ricoperto d’oro e di pietre preziose, che tutto quanto eccede il necessario, e quindi la ricchezza, costituisce sostanzialmente una bestemmia della vita, perché l’accumulo é non-condivisione, é omissione di solidarietà, é servizio al1’idolo mammona?
E chi dovrebbe spiegare alla casta sacerdotale, se non il Papa stesso e non solo alla casta, ma a tutte le pecore del gregge dei fedeli, che anche le piccole vite, gli agnellini e tutte le altre bestioline, sono tutte quante miracolose espressioni del miracolo della Vita, per cui la sensibilità dei "difensori della vita", oggi estesa anche alle cellule staminali, li dovrebbe portare ad essere tutti quanti vegetariani? E chi dovrà rendere conto a Dio, se non il Papa stesso, e poi giù giù fino alla base della piramide, di un concetto di Dio, quello de1l’Esodo, quello che ha fatto sgozzare gli agnellini e segnare le porte degli Ebrei in modo che l’Angelo sterminatore mandato da Lui facesse morire solo i figli degli Egizi, che continua a venir considerato compatibile col Dio che si é fatto conoscere in Gesù, paradigma di mitezza, di non-violenza, di accoglienza, di perdono incondizionato di amore per tutti i viventi?
E chi spiegherà ai cattolici che la frequenza alla messa domenicale, se non viene accompagnata da una conversione dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, al "giusto che ama", costituisce un’aggravante in rapporto al giudizio negativo che si vedranno appioppare nell’al di là, perché a loro era stata più che ripetutamente mandata, "missa", 1a Parola, e loro ne hanno testimoniato l’inefficacia, non avendole fatto portare frutto?
Tutte queste cose sarebbe il Papa stesso che dovrebbe spiegarle al prossimo, come capo della Chiesa docente, ma é difficile che lo faccia, perché non le ha capite neanche lui.
Noi siamo nel 2012, ma lui, come cultura, é ancora all’anno 1000, e questa non e una calunnia, ma un effetto strutturale di una ben precisa causa: il meccanismo di elezione dei pontefici (termine che rivela la contiguità col pontifex maximus degli dei romani).
Dato che, fra i tanti valori bestemmiati dalla chiesa, il più bistrattato é stato ed é quello della democrazia, siccome il papa viene eletto dal concistoro dei cardinali, e questi ultimi vengono selezionati dal papa stesso perché la pensano come lui, ecco che lo Spirito Santo si trova sbarrata la porta, i papi che si succedono sono affini gli uni agli altri, il "nuovo" di Dio resta escluso, lo Spirito continua ad alitare dove vuole, meno che al vertice di S.R.Chiesa!
Come andrà a finire questa storia, nella quale i guerci, i fedeli-credenti, si lasciano guidare dai ciechi, la casta, a diventare ciechi come loro?
Capiremo mai che la religione è un cuneo messo fra Dio e l’uomo, che questo cuneo andrebbe rimosso, che noi siamo il confine fra lo Spirito, fra Dio-Spirito e la materia, il mondo, che il mondo aspetta il nostro "si“ all’amore ed alla condivisione, cioè a Dio, perché Lui, con le nostre mani, possa saziare tutti i viventi di necessario e di gioia?
Mario Mariotti
Un parroco e il ventennio B.B.
di don Giorgio Morlin (“settimana”, n. 15, 15 aprile 2012)
Stendo in libertà alcune riflessioni personali sull’onda mediatica delle miserande vicende d’interesse privato che toccano un personaggio politico di primissimo piano come Umberto Bossi e il partito della Lega Nord. Innanzitutto lui, un personaggio carismatico che, nell’immaginario collettivo, rappresenta da circa 25 anni una specie di totem tribale intoccabile, a cui si deve obbedienza cieca e a cui è permessa ogni forma di turpiloquio e d’insulto, di pernacchie e di minacce, E poi il movimento leghista, una folla sempre plaudente verso il capo e perennemente arrabbiata con l’intero mondo, partecipe di grotteschi riti pagani come le ampolle d’acqua del Po dentro un ridicolo campionario d’innumerevoli scemenze celtiche.
Il crollo del leader padano arriva puntuale dopo alcuni mesi dal crollo di un altro suo compare nazionale, quel Silvio Berlusconi che è riuscito a catturare per quasi due decenni il consenso di masse d’italiani osannanti. Cos’è successo all’Italia di fine ’900 e inizio 2000? Sembra impossibile, eppure è successo che, nel giro di nemmeno un ventennio, si sono tra loro miscelati due filoni culturali dirompenti, il leghismo e il berlusconismo. Due fenomeni, autonomi ma tra loro interdipendenti, che, dopo aver inoculato un virus eticamente letale, hanno plasmato un’opinione pubblica addomesticata, ad immagine e somiglianza dei due capi che godevano effettivamente di un largo consenso di massa.
Mentre cala squallidamente il sipario sulla scena politica dei due succitati leaders, la terribile miscela culturale-etica da loro innescata sembra ormai stabilmente metabolizzata dentro un tessuto civile senza anticorpi, determinando l’assimilazione di nuovi modelli collettivi di vita e di pensiero. Abbiamo visto un’Italia umiliata e mortificata da una molteplicità di truci slogans, contro i magistrati, contro inesistenti comunisti, contro Roma ladrona, contro gli immigrati, che infiammavano istericamente le masse ma impoverivano l’anima e l’identità del popolo italiano.
Fino a poco più di un anno fa, non solo la maggioranza del mondo cattolico ma anche una parte dell’istituzione ecclesiastica apparivano ammaliate dalla seducente sirena berlusconiano-leghista.
L’incantamento di una parte della Chiesa italiana probabilmente nasceva da una tacita e reciproca intesa in cui, sempre e comunque, gli uni lucravano qualcosa dagli altri. Dalla parte politica, si lucrava il consenso elettorale dei cattolici e, dalla parte ecclesiastica, si lucrava la difesa dei valori cosiddetti non negoziabili (famiglia, bioetica, scuola) ed eventuali altre prebende, magari anche di tipo economico.
In un’intervista al Corriere della Sera, mons. Fisichella, esponente ecclesiastico di rilievo, il 30 marzo 2010, dichiarava che la Lega Nord, «per quanto riguarda i problemi etici, manifesta una piena condivisione con il pensiero della Chiesa».
Poco dopo, alla suddetta intervista rispondeva lo scrittore Claudio Magris con una lettera aperta in cui, riportando solo qualche stralcio, si poteva leggere: «Caro mons. Fisichella, mi permetto di scriverle per esprimerle lo sconcerto che ho provato leggendo la sua recente intervista in cui lei dichiarava che il partito politico Lega Nord si fonda su valori cristiani. Non intendo esprimere alcun giudizio politico sul suddetto partito. Ma, tutto l’atteggiamento del medesimo partito nei con fronti degli immigrati costituisce la negazione dello spirito cristiano. La Lega spesso fomenta un volgare rifiuto razziale, che è la perfetta antitesi dell’amore cristiano del prossimo e del principio paolino secondo il quale "non ha più importanza essere greci o ebrei, circoncisi o no, barbari o selvaggi, schiavi o liberi; ciò che importa è Cristo e la sua presenza in tutti noi!" (cf. Col 3,11).
Questa lettera non è indirizzata alla Chiesa, ma ad uno dei tanti - ancorché autorevoli - suoi rappresentanti, le cui opinioni non possono essere addebitate alla Chiesa, ma possono destare sconcerto e scandalizzare non pochi fedeli» (Corriere dello Sera, 11 aprile 2010).
Come avrei desiderato leggere quest’inequivocabile presa di posizione dell’illustre intellettuale italiano, forse credente o forse agnostico, magari in uno dei tanti documenti magisteriali della Cei negli ultimi due decenni! È vero - dirà qualcuno -, basta leggere il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa. Appunto! Però, queste due primarie fonti dell’annuncio cristiano vanno riscoperte, attualizzate e storicizzate dentro le emergenze culturali ed etiche che segnano il nostro tempo, proclamando a voce alta, senza se e senza ma, valori quali la dignità umana, il rispetto per lo straniero, la giustizia, la legalità, il bene comune, l’etica pubblica... Questi, oltre naturalmente a quelli tradizionali predicati dalla Chiesa, sono o no da riconoscere come valori non negoziabili sui quali non si può e non si deve transigere?
In quest’ultimo ventennio italiano si è collettivamente dissolto quel nucleo portante di valori civili che, ad esempio, aveva efficacemente retto durante la gravissima emergenza del terrorismo negli anni 70. E proprio la Chiesa postconciliare dell’epoca, assieme a tante altre istituzioni, si era direttamente messa in gioco e a servizio della società italiana con l’obiettivo di ricostruire il tessuto sociale che rischiava la degenerazione della convivenza (cf. il profetico documento Cei La Chiesa italiana e le prospettive del paese del 1981!).
Nella prolusione del card. Ruini al Consiglio permanente della Cei (19 settembre 1994) veniva ufficialmente proclamato che il Progetto culturale della Chiesa italiana rappresentava «un terreno d’incontro tra la missione della Chiesa e le esigenze più urgenti della nazione!». Sante parole!
Invece, proprio a partire dal 1994, con la micidiale miscela berlusconiano-leghista, paradossalmente iniziava per l’Italia una lenta ma progressiva deriva etica che ha portato al disastro attuale. Certamente i tradizionali valori cari alla Chiesa (vita, scuola, famiglia) sono salvi! Però, rimane il forte disagio per una deriva antropologica già raggiunta in tanti ambiti, evidente soprattutto negli immorali e amorali modelli di vita, indotti anche da una certa politica che mette l’interesse privato al centro. Lo ha detto, finalmente con chiarezza, il card. Bagnasco, proprio negli squallidi giorni del bunga bunga berlusconiano: «La collettività guarda sgomenta gli attori della scena pubblica e respira un evidente disagio morale» (Consiglio permanente, 24 gennaio 2011).
Come cittadini e come credenti, è proprio da questo disagio morale che bisogna ripartire per farsi carico delle sorti della società e delle generazioni che verranno, dopo un ventennio triste e nefasto che ha reso irrespirabile l’aria della convivenza civile.
Non è teologia se non ci libera
di Roberta De Monticelli (Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2012)
Tanti sono i sapienti che hanno commentato la pagina forse più famosa di Dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore. Eppure poche sono le spiegazioni convincenti del bacio con il quale il Cristo della Leggenda - tornato in terra al tempo dell’Inquisizione, e subito gettato in carcere - risponde al lungo monologo del vecchio Inquisitore: che pure rivendica per la sua Chiesa il pietoso nichilismo con cui questa ha spento la «libera decisione del cuore», alla quale il Cristo affidava il Regno di Dio. E l’ha sostituita con l’obbedienza degli uomini-bambini al potere spirituale-temporale dell’istituzione.
L’Inquisitore ha raccontato in ogni dettaglio il baratto ispirato dal demonio: libertà contro "felicità", obbedienza (e licenza di peccato, e perdono) in cambio del sollievo di non dover dubitare, e cercare, e scegliere, e portare responsabilità delle proprie scelte. Ha ricordato "il segreto del mondo", la sapienza del tentatore, che è sapienza politica e riguarda il meccanismo dell’obbedienza, nutrita dal bisogno che gli uomini hanno di inchinarsi "tutti insieme" a qualcuno, cioè dalla dimensione sociale della religione. Ha evocato la contraffazione del divino mediante le forze che da sempre corteggiano l’"umiltà del male" (come direbbe Franco Cassano): «miracolo, mistero, autorità». E per tutta risposta il Nazareno bacia le sue labbra esangui, di un bacio che brucia l’anima del vecchio e lo induce ad aprirgli la porta della libertà. Perché?
Aprendo l’ultimo libro di Vito Mancuso - Obbedienza e libertà - troviamo una risposta nuova. «Gesù vede che il vero prigioniero è proprio il suo carceriere, racchiuso in una prigione non fisica ma mentale, da cui è molto più difficile uscire». Quel bacio è un varco offerto alla mente prigioniera dell’Inquisitore. Aljoscia Karamazov, il monaco novizio - che più tardi sceglierà di vivere nel mondo - ripete questo gesto, e bacia il fratello Ivan, il filosofo, il cui pensiero racchiude entrambe le possibilità: l’Istituzione che imprigiona la mente e il nazareno che la libera. Ecco: Mancuso è Aljoscia. Proseguite nella lettura e ve ne convincerete.
Tutti i suoi libri infine sono questo: un bacio che brucia di un fuoco soave, "purificatore", in cui possa incenerirsi l"’autorità" di una Chiesa costruita nei millenni sopra il "miracolo" e il "mistero", per lasciar spazio all’autenticità" cui Gesù richiamava l’anima («svegliati, ragazza»). In cui l’obbedienza si depuri del suo diabolico fondamento - il potere
e si inchini soltanto alla "legge della libertà", all’autonomia della coscienza. Il bacio offre a quella Chiesa da cui Mancuso proviene il varco di una libertà che è a lei ben nota, nutrita com’è, fin nei suoi ultimi papi, del pensiero europeo moderno e contemporaneo, dal quale sorgono (come dal pensiero di Ivan Karamazov) entrambi gli interlocutori: l’obbedienza asservita e la libertà autentica, il nichilismo morale e il primato della coscienza, la "fede" come devozione atea e la fede come «esperienza che l’intelligenza è illuminata dall’amore» (S.Weil).
Questa chiave di lettura illumina tutta la complessa dialettica di questo libro, giustamente presentato come "sintesi matura" del pensiero del suo autore. Un libro pubblicato nella collana "Campo dei fiori" - la piazza romana in cui arse il rogo di Giordano Bruno - e dedicato «alla memoria degli italiani uccisi in quanto "eretici", martiri della libertà religiosa, testimoni obbedienti del primato della coscienza». E i cui nomi sono riportati nell’Appendice.
Eppure è a questa stessa Chiesa che li ha bruciati che Mancuso si rivolge con il sottotitolo del suo libro: Critica e rinnovamento della coscienza cristiana. Lo afferma chiaramente: un cristianesimo non può esistere senza chiesa, senza magistero, senza tradizione, senza liturgia, senza comunità/comunione. Non si tratta quindi di eliminare la "sua" Chiesa, si tratta di spezzare la subordinazione alla Chiesa della teologia. In una "teologia laica" si dispiega il bacio liberatorio. E la liberazione, si badi, è rigorosamente teologica. Biblica anzitutto: Dio non ha bisogno del sangue per salvare gli uomini, non è dunque Paolo il vero fondatore della Chiesa di Cristo.
La salvezza non va pensata come redenzione, ma secondo l’annuncio di Gesù: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia». Di teologia fondamentale, in secondo luogo. All’inizio dell’avventura umana non c’è il peccate originale, ma «l’energia caotica... che ha bisogno di essere ordinata e disciplinata per diventare volontà di bene e di giustizia»: cioè la libertà.
Dio è il nome del bene, e non il nome del potere.
Ed ecco le due radici di quella logica dell’obbedienza e del potere che attanaglia la mente del moderno Inquisitore: il pessimismo relativo all’uomo, con la dottrina del peccato originale che avvinghia l’esercizio del potere all’umiltà del male; e il fatto che il cattolicesimo «non ha più una visione del mondo dai tempi di Dante», perché ha tradito, da Galileo in poi, la ricerca del vero. Il bacio, dunque, fiorisce proprio dai due temi principali dell’innovazione teologica di Mancuso. E offre scampo al duplice disagio, della coscienza e dell’intelligenza, e al tragico paradosso della Chiesa: «L’istituzione per merito della quale ancora oggi nel mondo continua a risuonare il messaggio di liberazione di Gesù è governata nel suo vertice da una logica che rispecchia proprio quel potere contro cui Gesù lottò fino a essere ucciso». Sarà finalmente aperta, quella porta?
La grande obbedienza della fede
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “www.temoignagechretien.fr” del 22 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Troppo spesso si parla dell’atto di fede come di un abbassarsi: accettare di non comprendere, di non giudicare, accettare la superiorità di Dio o l’autorità della Chiesa. L’obbedienza della fede sarebbe quindi una rinuncia. I nostri contemporanei rifiutano per lo più questo atteggiamento da pecoroni, anche se, in altri ambiti, il “gregarismo” pone loro meno problemi...
La Bibbia ci parla di un Dio che dice di chiamarsi “Io sono, io esisto”. Nel capitolo 8 di Giovanni, Gesù ci dice: “Credete che Io sono.” Seguirlo, non è chiudere gli occhi. Seguirlo, è svegliarsi alla sua parola, uscire dalla tomba, decidere, assumere le proprie responsabilità, dire a nostra volta: “Io sono.”
La tradizione spirituale ha spesso sviluppato questo “risveglio” con parole brevi: il Fiat di Maria, l’Amen dei sacramenti, l’adsum dell’ordinazione, il Sì di Cristo. Tutte queste risposte ci mettono in piedi. A volte si è visto in esse della rassegnazione. Al contrario, è una mobilitazione del nostro essere. “Ci sono! Assumo la missione! Si può contare su di me.” Come per l’adolescente rannicchiato al calduccio, ci vuole una voce, una luce, un richiamo, per farci uscire dalla nostra sonnolenza. Per esistere, per vivere, abbiamo bisogno di un’urgenza, di un compito che non possiamo lasciare ad altri.
Certo, questo grido di fede sempre personale può unirsi ad altri in un “noi esistiamo”. La Chiesa è questo “noi ci siamo” che riunisce i credenti. Ma la storia ha mostrato la possibile deriva di una Chiesa in cui alcuni decidono del credere degli altri. L’obbedienza diventa una virtù passiva, un rifiuto di essere, una preoccupazione di non farsi notare. Non possiamo credere che sia a questa obbedienza che Benedetto XVI ha invitato i preti “disobbedienti” dell’Austria e di altri paesi. Se la Chiesa non accoglie più le indignazioni, le urgenze, le invenzioni che i suoi membri fanno sentire come grida di fede, allora è solo un’istituzione morta.
Gli apostoli hanno inteso la Resurrezione come un appello a prolungare la presenza di Gesù, a mobilitarsi per il suo progetto ad inventare le azioni necessarie per annunciare il Vangelo. La Chiesa ha avuto per molto tempo delle audace per le quali non ha chiesto permessi a Gesù. Perché dovrebbe “immobilizzarsi” oggi?
Come ogni gruppo umano, la Chiesa ha bisogno di una disciplina per evitare la presa di potere da parte di alcuni, per organizzare la diversità di queste grida, per assicurare la comunione nello stesso Vangelo. Ma non è lì che si situa la Grande Obbedienza della Fede. Dire “Sì” a questo Padre che ci autorizza ad essere a sua immagine, seguire il Figlio assumendo con lui la responsabilità del Regno, condividere lo Spirito che dà a tutti il diritto di essere e la libertà di inventare il futuro degli uomini, ecco la Grande Obbedienza.
Possa il “Padre Nostro” risuonare come una generosa risposta a colui che ci ha fatti figli eredi: il suo Nome è il nostro Nome, il suo Regno è il nostro Regno, i suoi obiettivi sono i nostri obiettivi. Sì, Padre, siamo i tuoi uomini!
Ratzinger e quelle dimissioni possibili
Monsignor Bettazzi torna a parlarne come di “un’ipotesi concreta”
di Luca de Carolis (il Fatto, 17.04.2012)
Quell’ultimo tratto di strada “potrebbe essere quello fino alle dimissioni”. E comunque, Benedetto XVI potrebbe lasciare “solo dopo aver finito il libro su Gesù”. Monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, descrive come un’ipotesi concreta le dimissioni di Joseph Ratzinger. E lo dice ai microfoni di “Un Giorno da pecora”, programma su Radio2 dove già due mesi fa aveva parlato di un “Papa pronto a dimettersi, perché molto stanco”.
Non solo per l’età: “Di fronte ai problemi che ci sono, forse anche di fronte alle tensioni che ci sono all’interno della Curia, potrebbe pensare che di queste cose se ne occuperà il nuovo pontefice”. Una replica, neanche troppo indiretta, a smentite, versioni ufficiali e silenzi imbarazzati sulle lotte di potere in Vaticano, puntualmente raccontate dal Fatto. Scontri a colpi di documenti e veti incrociati, che hanno amareggiato e logorato Benedetto XVI. Un’amarezza lucida, su cui peserebbero anche ricordi dolorosi.
Pochi giorni fa, a Tg2 dossier, ancora Bettazzi aveva raccontato possibili e fragorose verità: “Il Papa potrebbe dare le dimissioni, prima che arrivi quel momento in cui non è più il pontefice a guidare la Chiesa. Ha visto gli ultimi anni di Giovanni Paolo II, e sapeva che lui voleva dare le dimissioni ma non gliel’hanno lasciate dare. Io gli auguro lunga vita e lucidità, ma se Benedetto XVI si accorgesse che le cose stanno cambiando, avrebbe il coraggio di dimettersi”. Ratzinger insomma non accetterebbe di continuare da simbolo vivente, svuotato però di effettivi poteri. E potrebbe lasciare, prima che a governare di fatto la Chiesa sia qualcuno non eletto al soglio pontificio .
Ieri il vescovo di Ivrea ha ribadito: “Il Papa è molto stanco, e può darsi che dica: ‘Piuttosto che un pontefice stanco, lasciamo che ne venga uno nuovo, che continui con vigore la purificazione della Chiesa che Ratzinger ha iniziato e che gli sta tanto a cuore’”.
Ma quando? Bettazzi precisa: “Il pontefice vuole prima finire il libro su Gesù, gli preme tanto. I giornali dicono che lo finirà a dicembre , ma può essere anche che approfitti dell’estate per finirlo prima”. Poi da scrivere ci sarebbero il futuro di un Papa e della Chiesa. Guidata da un intellettuale che potrebbe anche scegliere di dedicarsi solo ai suoi libri. Bettazzi cita come possibili papabili “Scola, Ravasi, Bertello”. Ma conclude: “Lasciamo fare ai cardinali”. Chiaro e semplice. Come certe verità difficili da dire.
Lettera aperta a Papa Benedetto da un suo ex collega teologo
di Leonard Swidler
in “www.catholica.com.au” dell’aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il professor Leonard Swidler è un ex collega di Papa Benedetto come insegnante all’Università di Tubinga. Il professor Swidler, come molte persone che, a suo tempo, il Concilio Vaticano II aveva appassionato e stimolato, si sono sentite oggi sempre più turbate dai tentativi di rigetto delle intuizioni e delle riforme di quel Concilio. I titoli dei giornali nel periodo di Pasqua, causati dagli interventi di Papa Benedetto, hanno spinto il prof. Swidler a inviare questa lettera aperta al suo ex collega.
Caro Joe,
Alcuni anni fa, quando tu eri ancora a capo del Sant’Uffizio (“della Sacra Inquisizione” sta ancora scritto, come sai, inciso nella pietra sul suo oscuro palazzo vicino a Piazza San Pietro), ti ho inviato una lettera aperta riguardante il ruolo delle donne nella Chiesa cattolica. In quel periodo mi sono rivolto a te con un familiare “Caro Joe”, sulla base dei nostri rapporti dai lontani anni 60-inizio anni 70 quando venivo frequentemente come “Visiting professor” alla Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Tubinga, dove tu eri Professore Ordinario. Lo scrissi con l’idea che questo modo di rivolgermi a te ti avrebbe fatto capire che io speravo davvero che tu potessi aprire la tua mente e il tuo cuore per ascoltare ciò che volevo dirti. Non ho modo di sapere quale successo io possa aver avuto, se ne ho avuto, a questo proposito. Comunque, basandomi sul fatto di essere stati colleghi, mi rivolgo a te un’altra volta in questo modo fraterno.
Mi sento turbato dal fatto che, specialmente negli ultimi tempi, hai dato segnali che sono in contrasto con le parole e lo spirito del Concilio Vaticano II, durante il quale tu, come giovane e preminente teologo, hai aiutato a far uscire la nostra amata Chiesa dal Medio Evo verso la Modernità.
Inoltre, mentre eri professore alla nostra Alma Mater Università di Tubinga, in quel periodo, con gli altri tuoi colleghi della Facoltà di Teologia Cattolica hai pubblicamente difeso 1) l’elezione dei vescovi da parte di elettori e 2) limitato i termini dell’incarico dei vescovi [vedere il libro Democratic Bishops for the Roman Catholic Church].
Ora tu rimproveri dei preti leali per aver fatto proprio ciò che tu precedentemente avevi così nobilmente difeso. Loro, e molti, molti altri nella Chiesa cattolica universale, stanno seguendo il tuo esempio giovanile, cercando disperatamente di spingere la nostra amata Madre Chiesa verso la Modernità. Uso deliberatamente la parola “disperatamente”, perché proprio nella tua patria, la Germania, ed altrove in Europa, le chiese sono vuote, e così sono anche molti cuori cattolici quando sentono le gelide parole che arrivano da Roma e dai vescovi “radicalmente obbedienti” (leggere: “yes-men”).
Nella mia patria, l’America, la culla della libertà moderna, dei diritti umani, della democrazia, abbiamo perso - solo in questa generazione! - un terzo della nostra popolazione cattolica, 30 000 000, perché le promesse del Vaticano II della sua rivoluzione copernicana su cinque punti (la svolta verso 1. la libertà, 2. questo mondo, 3. il senso della storia, 4. la riforma interna, e soprattutto 5. il dialogo) sono state tutte così deliberatamente infrante dal tuo predecessore, e sempre più, ora, da te.
Joe, eri conosciuto come uno dei teologi del Vaticano II che hanno sostenuto l’appello del Santo Papa Giovanni XXIII all’aggiornamento attraverso lo spirito riformatore del ritorno alle stimolanti fonti delle origini della Cristianità (ad fontes!). Quelle sorgenti democratiche, amanti la libertà della Chiesa primitiva, erano esattamente le “fonti” del rinnovamento spiegate per filo e per segno da te e dai tuoi colleghi a Tubinga.
Ti sto esortando a ritornare a quel precedente spirito riformatore della tua gioventù. Ho ricordato quello spirito ora in preparazione della celebrazione del 50° anniversario del Journal of Ecumenical Studies (JES), che la mia amata moglie ed io lanciammo nel 1964. Nella primissima edizione di JES ci sono articoli del tuo amico e compagno nel Vaticano II, il teologo Hans Küng, e tuoi (!), che miravano a gettare un ponte sull’isolante abisso della Controriforma che divideva la Chiesa Cattolica dal resto della cristianità, e veramente dal resto del mondo moderno.
Joe, in quello spirito, ti esorto a ritornare alle tue sorgenti riformatrici: ritorna ad fontes!
Pace!
Len
Leonard Swidler, ph. D., S.T.L.
Professore di Pensiero Cattolico e Dialogo Interreligioso, Temple University Cofondatore della Association for the Rights of Catholics in the Church
CLEMENS AUGUST VON GALEN (1878-1946):
AL DI LA’ DI HEGEL, HEIDEGGER, E RATZINGER. IL PROBLEMA DELL’UNO E LA VIA DEI "TRE SOLI". A scuola di Dante, Bruno, Galilei, e Kant
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITA’!
FERRARA
Comunione negata? Non è vero, accolto quel bimbo disabile *
Una carezza del sacerdote nel giorno della Prima Comunione doveva essere il gesto dell’accoglienza e dell’attenzione speciale di un’intera comunità a un bambino di dieci anni con gravi disabilità psichiche. Invece su molti canali mediatici è diventato l’emblema dell’esclusione della «vita debole» dal banchetto eucaristico. Una barriera che sarebbe stata alzata dal parroco di Porto Garibaldi, nell’arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, durante la Messa del Giovedì Santo quando venti ragazzi si sono accostati per la prima volta al sacramento. «Siamo amareggiati, non ce lo aspettavamo», racconta la mamma alle agenzie di stampa.
La Curia, invece, non parla di sorprese: il percorso era stato concordato con la famiglia che aveva avuto anche un lungo incontro con un sacerdote nel palazzo vescovile. E l’arcidiocesi tiene a sottolineare che non c’è stato alcun rifiuto dell’Eucaristia, che nessuna discriminazione è stata compiuta dal parroco e che il cammino di preparazione continuerà in modo che il ragazzo possa accedere al Sacramento nei tempi opportuni.
E i tempi contano per capire ciò che è accaduto. Spiega la Curia che a fine febbraio i genitori del disabile - una coppia di conviventi - si presentano dal parroco di Porto Garibaldi (che non è quello del paese dove vivono) per chiedere che il figlio possa ricevere la Comunione. Come faranno i compagni di classe, riferiscono. Il sacerdote prende a cuore fin da subito la situazione. Coinvolge i catechisti, sente le insegnanti di sostegno del bambino, acquista dvd e sussidi per una preparazione a misura di portatore di handicap.La Curia segue con attenzione il caso, mentre si constata che il ragazzo interagisce quando viene sollecitato dalle carezze. La «teologia dell’affetto» viene adottata dalla parrocchia che mette a punto una proposta con un approccio molto graduale e senza scadenze prefissate. Ai genitori viene chiesto di portare il figlio negli ambienti parrocchiali: cosa che avviene, seppur con l’intermezzo di un ricovero ospedaliero. L’intento è farlo sentire parte della comunità.
All’inizio di aprile avviene l’incontro in Curia. Durante il colloquio il sacerdote offre al ragazzo un’ostia non consacrata che lui respinge bruscamente. Ecco allora il suggerimento ai genitori: alla Messa della Prima Comunione il bambino sarà nelle panche insieme con i coetanei; però non riceverà il Santissimo Sacramento ma una carezza del parroco e la benedizione. Secondo l’arcidiocesi, è la via per mostrare che la disabilità interpella la Chiesa, che ciascun portatore di handicap è «persona prediletta» e partecipa come tutti i credenti alla celebrazione, che la parrocchia lo sostiene nella promozione integrale. In attesa che il percorso possa proseguire e compiersi.
Il Giovedì Santo il bambino è in mezzo ai compagni. Vicino ha la madre. E la carezza con la benedizione c’è. A distanza di qualche giorno, quanto accaduto in quella chiesa sui lidi ferraresi si trasforma in un caso mediatico con tanto di presunto esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo «per violazione della libertà religiosa» (poi rivelatosi una patacca) mentre la madre nega di aver dato mandato a un legale. L’arcidiocesi intanto continua a tendere la mano: nel rispetto della natura del Sacramento, il bambino sarà accompagnato per condividere il «tesoro offerto da Dio» sulla mensa eucaristica.
Giacomo Gambassi
* Avvenire, 12 aprile 2012
Siamo tutti ritardati
di Mirella Camera
in “a latere...” (http://alatere.myblog.it) del 13 aprile 2012
Dopo aver letto la smentita di Avvenire alla penosa vicenda, riportata da molti media, della comunione rifiutata a un bambino disabile a Ferrara, ci si accorge di quanto sia difficile, oggi, farsi un’opinione. Visto che anche l’informazione diviene un oggetto di fede. Quali che siano i fatti, però, rimangono le parole attribuite al parroco, don Piergiorgio Zaghi; il quale pare abbia detto (il condizionale è d’obbligo) che il bambino, portatore anche di ritardo mentale, “non è in grado di capire”.
Ma, mi chiedo io, di fronte all’Eucarestia, chi lo è?
La Chiesa, consapevole che anche la ragione vuole la sua parte, ha escogitato una “dimostrazione” logica che pretende esaurisca ogni domanda: la particola, tramite la cosiddetta “transustanziazione” che avviene al momento della consacrazione, perde la sua specifica “forma”, che viene sostituita dal corpo di Cristo, mentre la materia rimane intatta. Solo che per “capire” questo in modo razionale, secondo la dottrina ufficiale, bisognerebbe anche aver studiato Aristotele e san Tommaso. E, secondo me, non basta comunque. Anzi, detta così sembrerebbe quasi una magia.
Forse è meglio ricorrere a qualche altra via. E se i sinottici non ci aiutano molto, ci può invece illuminare Giovanni, che a sua volta compie una sua “transustanziazione evangelica”, ponendo nell’ultima cena, al posto della distribuzione del pane, la lavanda dei piedi.
A Pietro che gli diceva: “Tu non mi laverai i piedi!” Gesù ha risposto: “Quello che io faccio, tu ora non lo comprendi. Lo capirai dopo”. Non capire è normale, credo. Dopo tutto è un mistero. E’ far finta di avere capito che è molto pericoloso.
PREMESSA SUL TEMA:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
(Federico La Sala)
La teologia cristiana può aiutare la sinistra
La domenica prima di Pasqua volontari della Cgil hanno distribuito sul sagrato di centinaia di chiese italiane volantini «contro i licenziamenti facili e per la dignità del lavoro»: un gesto di forte spessore simbolico che si pone come appello ai cristiani e alla Chiesa intera, anche nelle sue strutture istituzionali. In una stagione nella quale la crisi economica e la discussione sulle forme di partecipazione politica mettono impietosamente a nudo una fragilità che è prima di tutto culturale, può venire un contributo a delineare il volto di una visione progressista e «di sinistra» in Europa dalla tradizione cristiana, dal modo in cui essa pone la domanda sull’umano e sulle dinamiche del vivere sociale?
Per rispondere positivamente, un buon punto di partenza è il binomio persona-Noi (sociale), che fa da chiave di volta per il pensiero sociale cristiano. Da tale binomio discendono l’affermazione del valore delle differenze nel processo di determinazione dell’identità personale e sociale, la comprensione del soggetto a partire dalla rete di relazioni in cui è posta l’esistenza, l’attestazione che la società è intrinsecamente necessaria alla realizzazione dell’uomo, il riconoscimento dell’apporto dei singoli a costituire un Noi che è ben più della somma degli individui.
È un binomio che, riconoscendo il valore del singolo, della sua libertà, dei suoi legittimi desideri e aspirazioni, della tutela dei diritti individuali, salvaguarda dalla deriva dei totalitarismi (di natura politica o, più spesso oggi, economica) che sacrificano i singoli alla ragion di Stato; ma al tempo stesso evita forme di «individualismo di gruppo», che antepongono gli interessi di alcuni (classi sociali, comitati, o persino istituzioni religiose) alla dedizione al bene comune, che non è mai un particulare imposto a tutti. È per questo che il principio di sussidiarietà non può essere inteso come principio primo, ma è sempre inseparabile da un principio di solidarietà globale e di assunzione comune di responsabilità per l’insieme.
Il documento del Concilio Vaticano II Gaudium et spes, in particolare, declina il rapporto persona-Noi sociale facendo appello all’orizzonte ultimo della famiglia umana e alle necessità e possibilità implicate da uno scenario mondiale. Anche se la congiuntura odierna è lontana dallo scenario geo-politico ed economico degli anni ’60 del secolo scorso, e quelle visioni ottimistiche possono apparire oggi ingenue e datate, il pensiero sociale cristiano non può non rinviare a quello stesso orizzonte di valore.
Un secondo apporto può venire dalla considerazione della giustizia e della ricerca inesausta della sua realizzazione quale dinamica fondamentale che deve animare, secondo le Scritture ebraico-cristiane, il vivere sociale. Giustizia nell’accesso ai beni primari e nella regolamentazione delle relazioni economiche, giustizia sul piano giuridico, del riconoscimento dei diritti e dell’esercizio dei doveri. Giustizia infine come modalità di impostare ogni relazione umana (nella sfera dei rapporti primari, delle comunità intermedie, delle forme istituzionalizzate del vivere sociale) nella fedeltà all’altro e insieme al senso del Noi, al pieno sviluppo di ciascuno. Non a caso per la Bibbia la realizzazione della giustizia viene verificata rispetto alla condizione di vita di alcuni gruppi umani: i poveri e gli stranieri.
Lungi dall’essere mero destinatario di un’opera assistenziale di risposta immediata al bisogno (prassi alla quale per troppi secoli la Chiesa si è limitata, mentre tutelava lo status quo e rinviava a un futuro consolatorio dopo la morte), il povero è colui che, drammaticamente, mette sotto gli occhi di tutti i bisogni fondamentali a cui una società realmente umana deve dare risposta. È colui che segnala ciò che è necessario, e che per la sua stessa condizione denuncia quanto sia falsa, fallace e incompleta la realizzazione della società a cui appartiene.
La Bibbia consegna poi un elemento di riflessione critica alle legislazioni attuali quando regolamenta la convivenza civile a partire non esclusivamente dalle esigenze degli abitanti del Paese appartenenti al popolo, ma dalla condizione dello straniero che vi soggiorna e di quello che vi sopraggiunge. Opzione per i poveri e tutela di coloro che nel contesto del tempo venivano considerati i «senza diritti» non sono solo indicazioni per una prassi individuale, ma sono orientamenti su come guardare ai soggetti sociali e su come rispondere alle esigenze di tutti a livello politico.
L’ultimo elemento caratterizzante la via della giustizia così come la intendono i cristiani è la scelta decisa per la nonviolenza. La Bibbia è ben consapevole di quanto siano inevitabili i conflitti e ferite le relazioni umane, ma le parole di Gesù e la sua stessa prassi fino alla croce attestano con chiarezza la nonviolenza come unica forma realmente praticabile con la quale affrontare tensioni e conflitti, se non si vuole negare a se stessi e all’avversario lo spazio di una umanità sempre possibile.
Le Chiese cristiane hanno indubbiamente contraddetto nel corso dei secoli molti di questi principi e la storia dell’Occidente e non solo, ne porta i segni e le ferite: il mancato riconoscimento della libertà di coscienza (a fronte del continuamente riaffermato diritto della verità), la negazione del valore dell’altro e talora la sua soppressione violenta, la giustificazione religiosa dell’intervento armato e la benedizione degli eserciti in armi, la sacralizzazione di forme di potere oppressive e alienanti, i compromessi continui davanti a poteri e ricchezze, mostrano la resistenza che i cristiani stessi hanno opposto a questa visione della giustizia, offuscando così la profezia ecclesiale. La stessa idea di laicità è maturata dall’incapacità di garantire la pace sociale su base religiosa cristiana nelle guerre di religione del XVI-XVII secolo. Ma questi principi fanno parte del dna fondativo dell’esperienza cristiana e indubbiamente costituiscono uno dei contributi determinanti per il delinearsi di quell’antropologia moderna occidentale nella quale ci riconosciamo; come tali rappresentano a un tempo una sfida per la revisione della teologia e dell’agire cristiano, ma anche un apporto specifico che può essere condiviso con quanti, pur mossi da altre motivazioni o da altro sentire, lottano per gli stessi valori umani.
La giustizia ha animato la lotta e alimentato le motivazioni ideali di tanti attraverso i secoli. In un contesto culturale che coniuga secondo l’intuizione di Lyotard crisi delle grandi istituzioni e crisi delle metanarrazioni, la teologia cristiana può in fondo costituire per la sinistra un richiamo a pensare il Noi sociale intorno a un futuro comune; senza indulgere a generici utopismi, senza rassegnarsi a un pragmatismo insensibile al confronto sul possibile «non ancora», l’antropologia cristiana richiama le istituzioni (non ultime quelle ecclesiali) a riformarsi in una logica di giustizia, che verifichi continuamente se stessa su ciò che è individuato come bene comune al di là dei particolarismi, che valuti i passi compiuti sulla base di quanto fatto nella lotta contro ogni impoverimento ed esclusione.
Quando la Chiesa sapeva parlare di equità.
di Rosario Amico Roxas
Si è tanto parlato di misure di equità per superare l’attuale crisi economica che attanaglia l’Italia, l’Europa e tutto il mondo occidentale; l’appello fatto a Mario Monti di intervenire in tali misure in Italia ed Europa, suggerì un’ondata di fiducia e di speranza, alimentate dalla defenestrazione del governo Berlusconi, che aveva furtivamente negato la crisi, aggravandone l’esito che stava diventando finale.Discutere di equità non servirebbe a nulla senza disporre di un punto solido di riferimento a cui ispirarsi.
Fu la Chiesa che, anticipando i tempi, inquadrò il problema sociale nell’ambito della solidarietà e, conseguentemente dell’equità. Purtroppo possiamo parlarne solo al passato, perché il vertice attuale della Chiesa sembra voler contrastare i principi della solidarietà universale, dedicandosi, piuttosto, alla separazione tra mondo occidentale, liberista, detentore delle radici cristiane e il resto del mondo, appartenente ad una razza diversa, destinata alla sottomissione. Per parlare in positivo preferisco driblare l’attualità del non-insegnamento dell’attuale gerarchia varticana, per ricordare le pagine più significative che hanno anticipato tutto ciò che, ineluttabilmente, sta accadendo.
Il Concilio vaticano II inquadrò i problemi dell’uomo, dilatandolo ai problemi di tutti gli uomini, affidando alla riflessione quella
molto probabilmente la ragione principale per l’aperta ostilità che l’attuale vaticano manifesta verso l’intero Concilio. Se oggi riprendo quel tema è per la sua attualità mortificata.
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La “Gaudium et Spes”, specie nella 2° parte, cap. 3°, affronta il problema sociale sotto un profilo più ampio che non quello dato dalle precedenti Encicliche sociali, che volgevano lo sguardo ai problemi delle singole nazioni. La Chiesa comprese bene come il concetto di "sviluppo" si sia dilatato oltre le frontiere dei singoli Stati, diventando un elemento fondamentale dell’economia. Difficilmente la Chiesa è riuscita ad anticipare l’evoluzione dei tempi, ha sempre analizzato tale evoluzione per dire la Sua parola: la Rerum Novarum fu la risposta della Chiesa al “Capitale” di Carlo Marx dopo 50 anni !
Con la “Gaudium et Spes”, specie a rivederla alla luce degli accadimenti attuali dopo 60 anni dalla promulgazione, ci rendiamo conto come la Chiesa, in questo caso, abbia anticipato i tempi, prevedendo ciò che sarebbe accaduto.
Si tratta di un intervento prettamente “politico”, cioè del comportamento che l’uomo assume di fronte a determinati eventi, in questo caso l’etica ha la sua parola da dire, per questo la Chiesa intervenne. Non si guardò più all’aiuto che i paesi ricchi devono elargire a quelli poveri, ma essa trasformò quest’intervento in problema politico e di politica planetaria.
Al centro del problema si pose lo sforzo che tutti devono compiere, a cominciare dai paesi progrediti, per regolare le leggi dell’economia e orientare le singole politiche sociali dei singoli paesi nel quadro generale di una economia del benessere globale. Venne anche indicata la via da seguire, sottolineando come l’oggetto di una sana politica economica non deve limitarsi alla sola moltiplicazione dei beni, né al profitto, né alla potenza, bensì deve porsi al servizio dell’uomo, considerato nella gerarchia delle sue necessità materiali, spirituali e religiose:
“d’ogni uomo, d’ogni gruppo di uomini, senza distinzioni di razza, di continente, di cultura o di religione”. (Gaudium et Spes” parte II, cap. III).
Così il Concilio insegnò che lo sviluppo non poteva essere abbandonato né alla discrezione dei “grandi interessi”, né all’arbitrio degli Stati più sviluppati, né
“all’egemonia delle grandi Potenze né agli automatismi dell’economia”.
Sembra leggere la condanna anticipata della globalizzazione dei mercati, che oggi viene presentata come una naturale ed automatica evoluzione dell’economia.
Per la prima volta, molto tempo prima della fine della guerra fredda con la divisione del mondo in Est e Ovest; molto tempo prima della nuova divisione del mondo in Nord e Sud, in paesi ricchi e in paesi poveri, in nazioni produttrici e nazioni consumatrici, in popoli creditori e popoli debitori, si entrò nel vivo della problematica della cooperazione internazionale.
Emerge anche una nuova visuale: nel secolo XIX, con l’inizio del Magistero Sociale della Chiesa, si passò dal “paternalismo” alla “giustizia sociale”, con la Gaudium et Spes si impose la costruzione di una “comunità mondiale”, antitesi perfetta di quello che, invece, è accaduto con la promozione della globalizzazione dei mercati. La “comunità mondiale” non escluderebbe l’aiuto che il più forte deve dare al più debole, ma tale aiuto, senza tornare a cadere nel “paternalismo” ormai superato, deve avvenire al di sopra delle disparità di fatto, nel riconoscimento di una eguaglianza fondamentale di diritto. Altro che radici cristiane dell’Europa, ridotte ad elemento di antropologia culturale, come il naso adunco degli Aztechi.
Ritengo che non si possa negare la lineare continuità del pensiero sociale della Chiesa, almeno fino a Gioovanni Paolo II e alla Centesimus Annus, pur nel costante adeguamento alle situazioni diverse dei tempi e della società. Leone XIII fece il primo passo, in risposta al marxismo che stava già guadagnando proseliti; si rivolse ad una società statica e individualistica, fondamentalmente ostile al diritto di associazionismo, e rivendicò, per primo, il diritto dei corpi intermedi alla propria esistenza e alla loro autonomia in seno alla comunità.
Pio XI e Pio XII si ritrovarono in una società in movimento, minata dalla contrapposizione di gruppi già legalmente riconosciuti, ma ostili fra di loro; questa realtà li portò ad insistere sul concetto di un ordine corporativo in grado di unificare armonicamente in un solo corpo sociale gli interessi più diversi.
Giovanni XXIII aprì il Concilio su un mondo in pieno processo di socializzazione, esteso in ogni campo dell’attività umana. Questa evoluzione spiega il tramonto dell’idea del corporativismo, sostituita con l’idea del cooperativismo; l’internazionalizzazione del cooperativismo non potrà che diventare “integrazione fra i popoli”, in alternativa e in contrasto con la globalizzazione dei mercati promossa e imposta, anche con la forza, dalla minoranza opulenta del mondo occidentale alla maggioranza bisognosa del resto del pianeta.
La globalizzazione guarda ai mercati e divide il mondo in nazioni produttrici e nazioni consumatrici; è un ritorno al materialismo, quello stesso materialismo che il sistema liberal-democratico ha sempre combattuto a parole, cadendo però nel materialismo edonistico; il cooperativismo torna ad appropriarsi della centralità dell’uomo, ponendo l’economia al servizio dell’uomo e di tutti gli uomini, solo così potrà realizzarsi l’etica economica.
Immutato rimane l’invito, da parte della sociologia del Nuovo Umanesimo, alla partecipazione di tutti nella edificazione della società; sostanzialmente identico resterà il modello teorico a cui si ispira, quello di un insieme pluralistico di istituzioni a natura privatistica, tra loro in posizione di parità giuridica, ma regolate dal diritto pubblico in quegli aspetti che toccano direttamente il bene comune; ma offre una versione più aderente alla nuova realtà, sempre in evoluzione, più moderna e “socializzata”. (cfr.37° Settimana sociale del Canada, Syndacalisme et organisation professionelle, Atti Ufficiali, Trois-Rivières 1960, pag. 12)
Rosario Amico Roxas
Benedetto XVI, un cammino drammatico e luminoso
di Bruno Forte (Il sole 24 Ore, 19 aprile 2012)
Sedici e 19 aprile sono due date importanti nella vita di Joseph Ratzinger, Benedetto XVI. La prima è quella della nascita, a Marktl am Inn in Baviera, ottantacinque anni fa. La seconda è la data dell’elezione al pontificato, nel 2005. Entrambe le ricorrenze hanno suscitato un’ondata di attenzione, di auguri da parte dei grandi della Terra, di innumerevoli messaggi di affetto, di segnali di tenerezza e di fiducia dai piccoli e dagli umili di ogni parte del mondo. Le due date sono anche un’occasione di riflessione e di bilancio per l’impatto di questo pontificato, che già segna di sè la storia. È il filone che vorrei seguire, chiedendomi quali caratteri fondamentali presenti l’opera di questo Papa e che cosa essa vada soprattutto dicendo alla Chiesa e al mondo. Non esiterei a definire la vita e il pontificato di Benedetto XVI con due aggettivi, che li caratterizzano come un cammino inseparabilmente drammatico e luminoso.
L’aspetto drammatico dell’esistenza di Joseph Ratzinger e della Sua azione quale Successore di Pietro risulta evidente se solo si pensa al contesto storico dei Suoi giorni: nato ai tempi della Repubblica di Weimar, l’attuale Papa ha vissuto molto presto gli anni sconvolgenti della dittatura nazionalsocialista e della guerra. Educato da genitori saldamente credenti, ha appreso con naturalezza la diffidenza verso le menzogne del potere, che lo ha portato da giovanissimo studente a dichiarare apertamente a chi con la forza del potere avrebbe voluto arruolarlo nelle file del regime che i suoi progetti erano totalmente diversi, perché nel suo cuore sentiva di essere chiamato al ministero di perdono e di carità del sacerdozio.
La reazione violenta che seguì a quella dichiarazione non smosse minimamente la fermezza del giovane Ratzinger, tanto che egli venne destinato a ruoli secondari e "insignificanti" nella difesa contraerea. Al dramma del totalitarismo seguì l’esperienza non meno difficile del dopoguerra, della Germania divisa fra i due blocchi, di un Occidente attraversato dalle contrapposizioni ideologiche e dal vento della contestazione del ’68.
Il giovane sacerdote, professore di teologia, non cedette alle mode, e - come aveva lucidamente rifiutato da ragazzo la barbarie ideologica - così continuò a opporsi alle semplificazioni di letture ispirate ai "grandi racconti" delle ideologie, matrici di violenza e di strumentalizzazioni della dignità umana. Accanto a Giovanni Paolo II il Card. Ratzinger fu l’amico, il consigliere lucido e discreto, il compagno di viaggio messo al fianco del Mosé che Dio aveva scelto per attraversare il guado fra i due millenni. Gli scenari dello "scontro di civiltà" dell’inizio del nuovo Millennio hanno ulteriormente accentuato il senso drammatico dei processi in atto, di cui Papa Benedetto ha mostrato di avere precisa consapevolezza pronunciando sin dall’inizio il suo "no" deciso a ogni uso della violenza in nome di Dio, sia in forza della ragione rettamente adoperata, sia in forza della fede nell’unico Padre e Signore di tutti.
Ma il dramma ha attraversato anche dal di dentro la Chiesa: è la crisi della fede su cui questo Papa si è espresso con singolare chiarezza e determinazione. «Quando annunciai di voler istituire un Dicastero per la promozione della nuova evangelizzazione - affermava Benedetto XVI il 30 maggio del 2011 -, davo uno sbocco operativo alla riflessione che avevo condotto da lungo tempo sulla necessità di offrire una risposta particolare al momento di crisi della vita cristiana, che si sta verificando in tanti Paesi, soprattutto di antica tradizione cristiana». La crisi non è quella di superficie che possa toccare l’una o l’altra struttura della Chiesa, ma quella che va alla radice dell’intera esistenza credente. Si tratta di quella «perdita del senso del sacro, che giunge a porre in questione i fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento a una legge morale naturale».
Davanti agli scenari del dramma in atto, Benedetto XVI non cede alla rinuncia o al pessimismo: egli non esita ad annunciare il grande "sì" di Dio risuonato in Gesù Cristo, e a proporre ragioni di vita e di speranza che rendano sensata la vita e bello l’impegno per il bene di tutti. Si tratta di un messaggio luminoso, che mira a promuovere e sostenere uno straordinario sforzo di rinnovamento della vita cristiana ed ecclesiale: come aveva affermato da giovane professore di teologia, la riforma «non consiste in una quantità di esercizi e istituzioni esteriori, ma nell’appartenere unicamente e interamente alla fraternità di Gesù Cristo...Rinnovamento è semplificazione, non nel senso di un decurtare o di uno sminuire, ma nel senso del divenire semplici, del rivolgersi a quella vera semplicità...che in fondo è un’eco della semplicità del Dio uno. Diventare semplici in questo senso - questo è il vero rinnovamento per noi cristiani, per ciascuno di noi e per la Chiesa intera» (Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971, 301. 303).
L’autentica riforma voluta da questo Papa è, insomma, quella della conversione evangelica, la sola capace di riportare la Chiesa alla bellezza originaria e di farla risplendere come segno levato fra i popoli. Sarà da questo ritrovato riconoscimento del primato di Dio confessato e amato - cui precisamente punta l’anno della fede indetto per il 2012-2013 - che verrà la nuova primavera della Chiesa e del mondo, di cui gli uomini hanno immensa necessità e urgenza: «Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia - aveva detto qualche settimana prima di diventare Papa - sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta dell’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini» (Subiaco, 1 Aprile 2005).
Tale è in prima persona questo Papa: e il riconoscimento sempre più ampio che gli viene tributato sta a dire che la forza della verità, da lui amata e servita, si irradia di per sé, attraverso la mitezza del gesto e la semplicità della vita, la forza dei ragionamenti e l’ascolto dell’altro, la testimonianza coraggiosa e la speranza vissuta. Che tutto questo raggiunga e illumini tante menti e tanti cuori è l’augurio più vero, certo il più gradito, che possiamo fare all’ottantacinquenne Papa, giovane di appena sette anni di pontificato...