Scola: la nuova guerra si chiama spread, temo per la violenza
intervista ad Angelo Scola
a cura di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 23 dicembre 2011)
Il cardinale Angelo Scola sta preparando il primo Natale da arcivescovo di Milano. Nella sala tra il chiostro, piazza Fontana e l’abside del Duomo sono appesi i ritratti dei predecessori: Achille Ratti divenuto Papa come Pio XI, Ildefonso Schuster, Giovanbattista Montini futuro Paolo VI, Giovanni Colombo, Carlo Maria Martini, Dionigi Tettamanzi.
Eminenza, nel discorso di Sant’Ambrogio lei invita a non parlare sempre e solo di crisi, ma di travaglio e transizione. Che cosa intende dire?
«Dobbiamo considerare con molto realismo l’effettiva gravità della crisi economico-finanziaria. Però in tutti questi anni ho sempre avuto la percezione che la categoria di "crisi" da sola non riesca ad esprimere tutto quello che c’è in gioco. Quel che è avvenuto ha come orizzonte la mutazione inedita che si è prodotta dopo la caduta dei muri. Dopo la fine delle utopie del XX secolo, si sono succeduti rapidissimamente cambiamenti, più che epocali, inediti: la civiltà delle reti, la globalizzazione, la mutazione della percezione corrente della sessualità e dell’amore, la possibilità - irta di rischi - di mettere le mani sul patrimonio genetico, i grandi sviluppi della fisica micromolecolare che indaga l’origine del cosmo - si pensi alla cosiddetta "particella di Dio" -, e poi il "meticciato di culture", i flussi migratori... Mi pare chiaro che, se noi non collochiamo la lettura della crisi all’interno di questo travaglio inedito, non ne usciremo. Una lettura tesa ad individuare ricette tecniche non basta».
Lei contrappone alla degenerazione della finanza il tema del gratuito.
«Questo è un tema su cui la Caritas in veritate ha scommesso moltissimo, ma è stata snobbata dai mondi dell’economia e della finanza. Si confonde il gratuito con il gratis. Quando parlo di gratuità mi riferisco alla coscienza che il lavoro produttivo e il lavoro finanziario, come ogni altro lavoro, possiedono in se stessi una bontà e una bellezza che è possibile riconoscere e attuare. Per i nostri artigiani una bella sedia doveva essere ben fatta prima che ben pagata. Certo, anche l’utile ha valore, ma viene in un secondo momento. La gratuità così intesa è antidoto all’avidità».
In Italia però si è assistito a una svolta politica, alla nascita di un nuovo governo, che segna anche un nuovo impegno dei cattolici. Come lo giudica?
«Il richiamo autorevole che viene dal Papa e dai vescovi all’impegno politico non prefigura alchimie partitiche. II riferimento è alla visione antropologica che la dottrina sociale si porta dietro nella sua triplice articolazione - principi di riflessione, criteri di giudizio, direttive d’azione -, secondo la formulazione di Giovanni Paolo II che mentre correggeva la teologia della liberazione rilanciava la dottrina sociale della Chiesa».
Lei ha espresso gravi preoccupazioni sulle tensioni che stanno lacerando l’Europa.
«Una volta si affrontavano i problemi di dialettica interna allo spazio europeo con la guerra. Ora li stiamo affrontando con lo spread: speriamo che dallo spread non si ritorni alla violenza».
Teme davvero il ritorno alla violenza?
«Sì, ho questo timore. Non penso a una guerra intraeuropea. Temo che i disequilibri del pianeta possano esplodere là dove la guerra è già in atto o incrociare la delicatissima evoluzione del Nord Africa. La speranza affidabile è che ci si muova tutti: la casa brucia. Per uscire dall’attuale "impagliatura", l’Europa deve ritrovare il meglio della sua storia. Solo così si potrà rivitalizzare la società civile. Inoltre non si può né si deve rinunciare al livello di guida e di indirizzo che la politica possiede per sua natura. In questo contesto la Chiesa italiana è chiamata ad approfondire con slancio deciso il cammino degli ultimi decenni, dal Convegno ecclesiale del 1976 in avanti. Abbiamo il dono del magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Noi cristiani dobbiamo recuperare il nostro compito specifico, il compito educativo a tutti i livelli dal battesimo in avanti. Il risveglio dell’impegno politico diretto dei cattolici, se rettamente inteso, potrà poi dare un contributo alla rigenerazione del Paese».
Ritiene che un primo passo verso il risveglio dei cattolici si sia compiuto con la formazione di questo governo?
«E solo un segnale. Purché non la si metta in termini di potere. Ovviamente non c’è realtà associata in cui non sia implicato il potere. Ma che tipo di uomo è colui che è preso a servizio dalla società per guidarla, colui che assume un potere? Il problema non è come noi cattolici possiamo riprendere un’egemonia nel Paese. Il problema è vivere il potere nel suo aspetto di verità. Coloro che ascoltavano Gesù dicevano: "Costui parla con autorità" perché lo vedevano coinvolto in ciò che diceva. Gesù ha pagato di persona. La categoria della testimonianza è fondamentale. Gli statisti che hanno dato avvio all’Europa erano uomini che parlavano con autorità, perché erano per primi coinvolti nel progetto in cui credevano. Lungi da me sottovalutare la competenza, la tecnicalità, ma il motivo per cui uno si gioca ogni giorno nella vita viene prima di ogni ruolo o competenza è il senso stesso del vivere. Lo sperimentiamo a Natale. Il "Dio con noi" cambia il senso della vita. Se Dio è con noi, io vivo in maniera diversa. Bisogna guardare in modo nuovo all’uomo e al suo essere in relazione. Giovanni Paolo II diceva che dalla seconda metà degli anni 60 si era aperta una grande contesa sull’humanum, ma in questi anni tutti, anche nella durezza di certe fasi che il Paese ha attraversato, sapevamo cosa fosse l’humanum. Oggi noi dobbiamo riscoprirlo, ripensarlo».
Sta dicendo che c’è un deficit della politica che da soli i tecnici non possono colmare?
«Certo c’è un deficit della politica. Dobbiamo ripensarla in termini radicali. Non la impressiona il fatto di quanto poco si parli della storia recente? Accenno per esempio al rapporto tra movimento operaio e movimento cattolico. Anche i sindacati ne parlano troppo poco. Come si fa a leggere i cambiamenti radicali senza un riferimento a questa storia, per poter aprirci al futuro? Ricordo un colloquio con Augusto Del Noce che mi colpì molto. L’autore de Il suicidio della rivoluzione, profezia non piccola, intuì con molto anticipo che la Dc stava finendo perché aveva smarrito la testimonianza e aveva perso la cultura. Ho visto di persona fino agli anni 70 l’impegno gratuito di uomini e donne che, dopo aver lavorato duramente tutto il giorno, la sera trovavano l’energia per dare una mano nel gestire i mille campanili. Amministravano il Paese. Si tratta di intensificare il gusto, l’energia, la passione per la famiglia, il condominio, il campanile, il popolo».
Qual è il suo giudizio sull’era di Berlusconi? La Chiesa gli ha concesso un credito eccessivo?
«E presto per dare un giudizio complessivo. La mia attenzione è puntata sul compito della Chiesa e degli uomini di Chiesa - quindi su ciò che mi riguarda personalmente -, su quello che la grande tradizione chiama il bonum Ecclesiae. L’espressione, ovviamente, non va tradotta con "ciò che è vantaggioso per la Chiesa". Per esempio, si sta facendo un gran polverone sull’Ici; andiamo piuttosto a vedere cosa c’è da tenere e cosa c’è da correggere. Difendere il bonum Ecclesiae, liberi da ogni pretesa egemonica, significa per i cristiani portare in tutti gli ambienti la proposta del Vangelo, la bellezza dell’esperienza cristiana nel quotidiano della vita associata. Se questo sarà vissuto nella sua giusta forma, avremo uomini capaci di virtù non solo teologali - fede, speranza, carità - ma anche cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Sarebbero belle virtù anche per un politico».
Lei proviene dal movimento di CL Non teme che, tra i quasi diciassette anni di potere di Formigoni, gli affari, gli scandali, CL sia caduta in qualche eccesso?
«Credo che CL sia un fenomeno educativo ecclesiale formidabile, in cui ha primaria importanza la trasmissione tra le generazioni di una modalità persuasiva e vitale di essere cristiani. Tutto il resto, finché io ho potuto vedere dall’interno, cioè fino a vent’anni fa, è sempre stato considerato dell’ordine delle conseguenze, della responsabilità personale di chi si assumeva un determinato compito. Credo che questo adesso sia ancora più chiaro, più marcato ed evidente. Non ho rapporti particolari con il movimento rispetto a quelli con altre realtà associative. Però da quel che vedo e leggo, mi pare che il successore di don Giussani si stia muovendo decisamente in questa direzione: gli uomini che si sono giocati in politica portano lì la loro faccia e su questa base sono stati e saranno valutati dai cittadini. Conosco Roberto Formigoni da quando aveva 14 anni, anche se da tempo ci si vedeva assai di rado. Se è stato eletto per quattro volte consecutive presidente della Regione Lombardia, ci sarà una ragione. Non credo fossero tutti voti di CL. La sorte di un politico alla fine la determina chi vota».
Che idea si è fatto del caso San Raffaele?
Mi mancano troppi elementi per formulare un giudizio che ora si baserebbe solo su quanto apprendo dai media. Tutti dicono che è un luogo di grande eccellenza. Non ho ragione per dubitarne. Qualche interrogativo è nato talvolta circa la ricerca biotecnologica. La fede non blocca la ricerca, ma chiede allo scienziato di essere un uomo fino in fondo e quindi di assumersi la responsabilità di rispettare un’antropologia e un’etica adeguate».
Come giudica la nuova giunta di Milano?
«Su questo è sufficiente ricordare l’insegnamento di san Paolo: l’autorità legittimamente eletta dal popolo, viene ultimamente da Dio; finché non ci sono atti o leggi contrari alla legge di Dio, massimo rispetto, massima apertura. Ho incontrato il sindaco Giuliano Pisapia, come ho incontrato Formigoni e il presidente della Provincia di Milano Guido Podestà. Ho trovato grande correttezza, grande attenzione, come a Venezia in Cacciari, Galan e negli altri interlocutori politici. La Chiesa cerca rispetto per la verità».
Lei è nato a Lecco, che fa parte della sua diocesi, e si è formato a Milano. Come l’ha ritrovata?
«Per me Milano è entusiasmante. Ho passato qui gli anni dell’università e quand’ero fuori ci venivo molto spesso. Devo ammettere di aver fatto fatica a staccarmi da Venezia, che è un grande dono per l’umanità; ma la formula del mio "ritorno a casa" è vera. Sarà forse un anticipo del crepuscolo dovuto all’età...».
Non dica così, lei ha appena compiuto settant’anni.
«Di anni non ne avrò davanti tanti e sempre a Dio piacendo. Credo che per l’uscita dall’attuale travaglio Milano abbia una funzione di protagonista di primo piano. La sua è una storia in cui l’elemento lavoro è già ben "rodato" a partire dal ’700. Inoltre la magnanimità e l’accoglienza appartengono al Dna di questa "terra di mezzo". Anche se, come da ogni parte, c’è bisogno di un surplus di relazione, di rispetto, di narrazione, di umiltà nel lasciarsi raccontare dagli altri, di tensione al riconoscimento reciproco, per trovare quel "compromesso nobile" che è il fondamento dell’azione sociale e politica in una società plurale come la nostra».
IL VERBO SI FECE CARNE E VENNE AD ABITARE IN MEZZO A NOI * ....
E "noi" subito ci affrettammo ad aprire tante "macellerie" ("chiese") in cui poter vendere finalmente anche la "carne" di Dio a caro prezzo ("caritas")!!!
LA CHIESA DEI MERCANTI, DEL "LATINORUM", E DEL DIO "RICCHEZZA", DEL DIO-MAMMONA. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!! E quanto consenso!!!
TUTTO IL PROLOGO DELL’EVANGELISTA GIOVANNI (Gv. 1, 1-18) PARLA DI GRAZIA (χάρις, χάριτος: "chàris" - "chàritos" ... charitas), DI "GRAZIA SU GRAZIA" ...
MA OGGI SI PREDICA E SI VENDE LA "CARNE" DI DIO SOLO SECONDO LE "TARIFFE" STABILITE DA PAPA BENEDETTO XVI ("Deus caritas est", 2006), A CARISSIMO PREZZO ("CARITAS") IN TUTTI I LUOGHI (E CON LA PRETESA DI NON PAGARE NEMEMNO L’I.C.I)!!!
E l’eu-charistia è diventata una eu-carestia per tutti gli esseri umani... e un grandissimo affare per tutto l’ordine sacerdotale e per tutta la gerarchia cattolico-romana!!! (Federico La Sala)
*
PROLOGO DELL’EVANGELO DI GIOVANNI:
In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato (Gv., 1, 1-18)
P. S.:
LA "LUCE DELLA FEDE" CATTOLICO-ROMANA, I MIGRANTI, E LA CHIESA COME "SACRA FAMIGLIA"... *
Nella "Prefazione", il card. Angelo Scola così scrive: -"Nella storia della Chiesa ambrosiana e dell’assistenza l’Istituto Sacra Famiglia possiede un valore centrale [...] La «charitas» paolina del motto dell’istituto e del titolo di questo libro non è, a Cesano Boscone, un titolo ad effetto, ma pratica concreta e quotidiana, che vede nel volto degli ospiti il volto di Cristo. La Sacra Famiglia, infatti, è un luogo di instancabile testimonianza ed educazione a quella gratuità che anzitutto ci precede: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (1 Gv 4, 10). In questo luogo si saldano la cura dell’anima e la cura del corpo, la fedeltà a una tradizione assistenziale e la continua ricerca del progresso e dell’innovazione.E’ in fondo questa l’immagine dell’articolata e viva eredità che il Concilio Vaticano II ha lasciato a una Chiesa che, attingendo al deposito della sua storia, cerca di rinnovarsi per proporre il messaggio evangelico al mondo contemporaneo. Così la Sacra Famiglia adegua continuamente alla realtà in cui il Padre ci chiama a vivere i "poveri" a cui mons. Pogliani ha voluto consacrare la sua vita e il suo ospizio: ieri gli inabili al lavoro e i figli della guerra, oggi le persone affette da patologie gravi, ma anche gli anziani, che nella società dell’efficienza e della velocità sono tagicamente emarginati, e i migranti, il «dono» - come li ha definiti papa Francesco - che Dio ha fatto alle società ticche, perché riscoprano, nella strutturale condizione di indigenza di ogni persona,il tratto più prezioso della loro comune umanità. Milano 25 aprile 2016 + Angelo Scola Arcivescovo di Milano".
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SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Non do la Regione alla Lega
di Rosario Amico Roxas
Lombardia, Formigoni: non do la Regione alla Lega, il Pdl è con me
(Il Messaggero del 18 otto.2012)
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Gli impegni assunti sono tanti e tutti di alto profilo, per cui il cambiamento di impostazione politica provocherebbe alterazioni che potrebbero sforare in fallimenti a catena, ben più gravi di un effetto domino. Intanto la presenza della ndrangheta, infiltrata nelle sedi istituzionali, è diventata un fatto compiuto che, ormai, non può più essere trascurato.
Non si tratta della ndrangheta dei boschi della Sila; quella ha una sua valenza romantica, quella attuale guarda ben oltre il romanticismo, guarda alla componente finanziaria dall’alto dei salotti buoni della Milano da bere: non può più essere messa da parte come un parlamentare trombato.
Questo Formigoni lo sa bene, anche perché rientra nella progettazione più ampia di un esercizio di potere che coinvolge le grandi banche come la Lgt Bank di Vaduz, la Bsi di Zurigo, la Beirut Ryad Bank, la BarclaysBank di Londra e la Ing Bank di Amsterdam, l’alta finanza, la Compagnia delle Opere, il Vaticano, l’expo 2015 con relativi appalti, corruttori e corrotti, il tutto con la centralità del “celeste” che si sta adoperando per la materiale unificazione delle varie Compagnie delle Opere regionali in una unica struttura affiancata a Comunione e Liberazione con il medesimo celeste alla presidenza e in grado di mettere le mani anche sul soglio di Pietro con l’arcivescovo di Milano Angelo Scola.
Un programma ad ampio raggio d’azione che relega i progetti piduisti berlusconiani al rango di un “assalto alla diligenza” da parte di un fallimentare apparato di peones.
Rosario Amico Roxas
LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000). Egli regna e governa in nome del suo Dio, Mammona ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006).
Non banalizzate il cardinale
di Aldo Maria Valli (Europa, 11 settembre 2012)
Il cardinale Martini è morto a poche settimane dal cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio (11 ottobre 1962). Furono per lui, disse una volta, i più bei anni della sua vita, perché aria fresca entrava in una Chiesa che sapeva troppo si sacrestia e di muffa, e perché lo studio delle sacre scritture su base storica ne usciva legittimato, permettendo così anche ai cattolici di abbandonare il semplice devozionismo per entrare in un rapporto più maturo e adulto con la Bibbia.
Con il testamento spirituale consegnato al confratello padre Georg Sporschill, Martini ha indicato la strada per la Chiesa del terzo millennio: povertà e non sfarzo, collegialità e non centralismo, profezia e non burocrazia, testimonianza e non legalismo. Ha però ragione Vito Mancuso a dire (sulla Repubblica) che nei confronti del potente messaggio di Martini è subito partita un’operazione di ridimensionamento, una di quelle in cui la Chiesa gerarchica è sempre stata molto abile. Si sta mettendo il silenziatore alle denunce di Martini e si cerca di ridurre il suo messaggio a quello di un servitore della Chiesa generoso ma probabilmente un po’ troppo vivace. Servitore certamente lo è stato, fino all’ultimo, ma indignato! E triste davanti a una Chiesa cieca e sorda di fronte ai veri drammi degli uomini e delle donne di oggi.
Ma un’analoga operazione di ridimensionamento sta avvenendo anche nei confronti dello stesso Concilio Vaticano II. Il papa, in occasione dell’anniversario, ha proclamato un anno della fede. Il che provoca qualche perplessità perché sarebbe come, per un marito, proclamare l’anno dell’amore verso la moglie, o per uno studente l’anno dello studio. Ma, a parte questo, il problema è che, nei commenti e nelle iniziative che arrivano dalla Chiesa gerarchica, l’anno della fede, di cui si occupa il misterioso Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione (nome burocraticissimo), ha completamente soppiantato l’anniversario del Concilio.
Come non bastasse, l’accento viene posto volentieri sul fatto che in questo 2012 ricorre anche il ventesimo anniversario del nuovo Catechismo della Chiesa cattolica (1992), e così il gioco è fatto: anziché parlare del Concilio, della sua attualità e del bisogno, eventualmente, di farne un altro, ecco che tutto viene ridotto di nuovo a devozionismo e legalismo. Così lo spirito profetico viene accantonato, ridotto a folclore, e si torna a mettere in primo piano le norme, proprio come denunciato dal cardinale Martini.
L’operazione, ripetiamo, non è certamente nuova, ma rappresenta una costante da parte dei curiali e della Chiesa gerarchica, sempre pronta a catturare le novità per ingabbiarle, ridimensionarle, assorbirle in sé e sostanzialmente annullarle. Davanti allo stesso annuncio del Concilio da parte di Giovanni XXIII (accolto dai cardinali con un «impressionante, devoto silenzio», come annotò il papa non senza ironia) la curia reagì cercando di riportare il tutto, per quanto possibile, nell’ambito del centralismo, depotenziando immediatamente l’iniziativa papale.
Non dimentichiamo, per esempio, che Giovanni XXIII dovette imporsi per far inviare ai vescovi di tutto il mondo una lettera con la quale chiedeva quali dovessero essere a loro parere i temi da mettere al centro del Concilio. Il cardinale Felici, infatti, voleva che fosse la curia a occuparsi della questione e che ai vescovi fosse inviato un semplice prestampato con l’invito ad esprimere opinioni su quanto elaborato da Roma.
Nei quattro anni di preparazione del Concilio l’impegno di Giovanni XXIII fu di mettere d’accordo la carica profetica dell’iniziativa con le esigenze organizzative senza penalizzare la prima ai danni delle seconde, e su questo terreno dovette combattere una battaglia continua con il partito della curia. La stessa parola messa dal papa al centro della riflessione, “aggiornamento”, venne guardata con sospetto e si cercò di depotenziarla, esattamente come si sta facendo oggi con l’eredità di Martini.
Aggiornamento, per il papa, non doveva essere soltanto una revisione del linguaggio. Doveva essere una nuova creatività, la rinnovata disponibilità a confrontare il Vangelo con le culture e a farne scaturire una vita dalla parte della giustizia e dei più poveri, senza alcuna forma di autocompiacimento per le proprie sicurezze e nessun compromesso con il potere in tutti i suoi aspetti.
Ecco perché papa Roncalli volle un Concilio pastorale, non dogmatico. Come disse il teologo domenicano Marie-Dominique Chenu «tutto questo Concilio è pastorale come presa di coscienza, da parte della Chiesa, della sua missione». Un Concilio, quindi, denotato da una «originalità sensazionale», perché, «senza ignorare gli errori, le malvagità, le oscurità di questo tempo, non si pone in atteggiamento di tensione o di chiusura verso di esso, ma discerne soprattutto nelle sue speranze e nei suoi valori i richiami impliciti del Vangelo e vi trova la materia e la legge di un dialogo».
Giovanni XXII volle che il Concilio fosse libero, dialogo a tutto campo, e anche su questo dovette subire l’opposizione dei curiali e dei tradizionalisti. Criticava apertamente quei padri conciliari che, per il fatto di essere teologi, pensavano di dover produrre lezioni di teologia per dirimere questioni dottrinali e non riuscivano a concepire l’idea di mettersi in ascolto del mondo e delle Chiese dei diversi continenti. Dovette faticare per lasciare libertà ai vescovi e invitarli al confronto, senza paura. Lasciandosi trasportare dallo Spirito, papa Roncalli riuscì a condurre la barca del Concilio in mare aperto, là dove gli fu possibile dispiegare le vele con quelle parole iniziali della sua prima allocuzione: Gaudet Mater Ecclesia, la madre Chiesa si rallegra! I curiali e i tradizionalisti (i “profeti di sventura”), sempre pronti a innestare la marcia indietro, furono sconfitti.
Ma eccoli risorgere ad ogni svolta. E ora ci riprovano. Con l’anniversario del Concilio e con il testamento di Martini. Prontamente soppiantati da un istituzionale anno della fede gestito dal centro, all’insegna di celebrazioni e convegni con i soliti noti, e da una lettura riduzionistica tesa a privilegiare il Martini testimone della fede e, al più, uomo del dialogo, ma ignorando la sua denuncia di una Chiesa che non si scuote, conserva più cenere che brace ed è dominata dalla paura e dall’autoconservazione.
L’operazione-anestesia sul cardinal Martini
di Vito Mancuso (la Repubblica, 9 settembre 2012)
Con uno zelo tanto impareggiabile quanto prevedibile è cominciata nella Chiesa l’operazione anestesia verso il cardinal Carlo Maria Martini, lo stesso trattamento ricevuto da credenti scomodi come Mazzolari, Milani, Balducci, Turoldo, depotenziati della loro carica profetica e presentati oggi quasi come innocui chierichetti.
A partire dall’omelia di Scola per il funerale, sulla stampa cattolica ufficiale si sono susseguiti una serie di interventi la cui unica finalità è stata svigorire il contenuto destabilizzante delle analisi martiniane per il sistema di potere della Chiesa attuale. Si badi bene: non per la Chiesa (che anzi nella sua essenza evangelica ne avrebbe solo da guadagnare), ma per il suo sistema di potere e la conseguente mentalità cortigiana.
Mi riferisco alla situazione descritta così dallo stesso Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al papa stesso”.
E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.
Quello che è rilevante in queste parole non è tanto la denuncia del carrierismo, compiuta spesso anche da Ratzinger sia da cardinale che da Papa, quanto piuttosto la terapia proposta, cioè la libertà di parola, l’essere trasparenti, il dire la verità, l’esercizio della coscienza personale, il pensare e l’agire come “cristiani adulti” (per riprendere la nota espressione di Romano Prodi alla vigilia del referendum sui temi bioetici del 2005 costatagli il favore dell’episcopato e pesanti conseguenze per il suo governo). È precisamente questo invito alla libertà della mente ad aver fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e a inquietare ancora oggi il potere ecclesiastico.
Diceva nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balìa degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”. Ecco il metodo-Martini: la libertà di pensiero, ancora prima dell’adesione alla fede.
Certo, si tratta di una libertà mai fine a se stessa e sempre tesa all’onesta ricerca del bene e della giustizia (perché, continuava Martini, “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio”), ma a questa adesione al bene e alla giustizia si giunge solo mediante il faticoso esercizio della libertà personale. È questo il metodo che ha affascinato la coscienza laica di ogni essere pensante (credente o non credente che sia) e che invece ha inquietato e inquieta il potere, in particolare un potere come quello ecclesiastico basato nei secoli sull’obbedienza acritica al principio di autorità. Ed è proprio per questo che gli intellettuali a esso organici stanno tentando di annacquare il metodo-Martini.
Per rendersene conto basta leggere le argomentazioni del direttore di Civiltà Cattolica secondo cui “chiudere Martini nella categoria liberale significa uccidere la portata del suo messaggio”, e ancor più l’articolo su Avvenire di Francesco D’Agostino che presenta una pericolosa distinzione tra la bioetica di Martini definita “pastorale” (in quanto tiene conto delle situazioni concrete delle persone) e la bioetica ufficiale della Chiesa definita teorico-dottrinale e quindi a suo avviso per forza “fredda, dura, severa, tagliente” (volendo addolcire la pillola, l’autore aggiunge in parentesi “fortunatamente non sempre”, ma non si rende conto che peggiora le cose perché l’equivalente di “non sempre” è “il più delle volte”).
Ora se c’è una cosa per la quale Gesù pagò con la vita è proprio l’aver lottato contro una legge “fredda, dura, severa, tagliente” in favore di un orizzonte di incondizionata accoglienza per ogni essere umano nella concreta situazione in cui si trova.
Martini ha praticato e insegnato lo stesso, cercando di essere sempre fedele alla novità evangelica, per esempio quando nel gennaio 2006 a ridosso del caso Welby (al quale un mese prima erano stati negati i funerali religiosi in nome di una legge “fredda, dura, severa, tagliente”) scrisse che “non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete - anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite - di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate”. Questa centralità della coscienza personale è il principio cardine dell’unica bioetica coerente con la novità evangelica, mai “fredda, dura, severa, tagliente”, ma sempre scrupolosamente attenta al bene concreto delle persone concrete.
Martini lo ribadisce anche nell’ultima intervista, ovviamente sminuita da Andrea Tornielli sulla Stampa in quanto “concessa da un uomo stanco, affaticato e alla fine dei suoi giorni”, ma in realtà decisiva per l’importanza dell’interlocutore, il gesuita austriaco Georg Sporschill, il coautore di Conversazioni notturne a Gerusalemme.
Ecco le parole di Martini: “Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II (vedi Gaudium et spes 16-17), è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo e a come in essa si lavori sistematicamente per offuscarlo.
Carlo Maria Martini
di Henri Tincq
in “Le Monde” del 6 settembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Con il cardinale Carlo Maria Martini, morto venerdì 31 agosto a Gallarate (Lombardia) all’età di 85 anni, scompare una delle figure più brillanti e stimate della Chiesa cattolica. Esegeta di fama mondiale, rettore a Roma dell’Istituto biblico e in seguito della prestigiosa università gregoriana, questo gesuita, nato a Torno il 15 febbraio del 1927, entrato nella Compagnia di Gesù nel 1944, ordinato prete nel 1952, era stato nominato da Giovanni Paolo II, nel 1979, arcivescovo di Milano, la più grande diocesi del mondo, dalla quale diede le dimissioni nel 2002, per ragioni di età e di salute.
Il carisma singolare di quest’uomo non si riduceva all’immagine di capo dell’ala “progressista”. Personalità di spiritualità profonda, autore di una sessantina di opere (commentari biblici e meditazioni), di predicazioni e di conferenze che sono risuonate a Milano e nel mondo, esigerà sempre dalla sua Chiesa “il coraggio della riforma”.
Moltiplicherà i gesti di riconciliazione tra “fratelli” cristiani separati, e intraprenderà una relazione filiale con il popolo ebraico. Aveva espresso la volontà di essere sepolto a Gerusalemme, dove si era ritirato dopo le dimissioni. Sollecitato dai media italiani, l’arcivescovo di Milano diventa un protagonista sulla scena politica. Isolato nell’episcopato, contribuisce all’apertura, negli anni 80, di un cattolicesimo sino ad allora identificato in Italia con la sola Democrazia Cristiana.
Sostiene il pluralismo, evitando qualunque forma di riaffermazione identitaria, qualsiasi iniziativa tendente ad una riconquista di influenza cattolica: “Vogliamo essere solo noi stessi, al servizio di una società, e senza fare torti a nessuno”. Da quel momento, incarnerà un’alternativa riformatrice ai vertici della Chiesa. Non cesserà più di portare come un fardello una reputazione, abbondantemente sopravvalutata, di oppositore numero 1 a Giovanni Paolo II e di potenziale successore. Se le sue relazioni con il papa polacco sono eccellenti, Carlo Maria Martini non manca però di solidi avversari. L’Opus Dei, Comunione e liberazione e altri gruppi, italiani e stranieri, che premono per una riaffermazione autoritaria del cattolicesimo, a lungo hanno paventato che potesse succedere a Giovanni Paolo II.
Dal 1987 al 1993 presiede la Conferenza dei vescovi europei, divenendo uno dei protagonisti della reintegrazione delle Chiese dei paesi dell’Est ex-comunista e animando, nel 1988, il primo incontro ecumenico di Basilea. Ed è durante il sinodo europeo del 1999 in Vaticano che esprime il “sogno” di “un confronto universale di tutti i vescovi” - la parola “concilio” non è pronunciata, ma tutti la pensano - per ridar vigore alla Chiesa del XXI secolo e “sciogliere certi nodi disciplinari e dottrinali che riappaiono continuamente come punti caldi” di contestazione e intralciano il cammino della Chiesa.
Il cardinal Martini pensa al posto limitato delle donne, alla crisi del clero, alla distribuzione dei compiti tra preti e laici, alla proibizione di accedere ai sacramenti per i divorziati risposati. Nel 1997, aveva auspicato che “un futuro concilio riveda tutta la questione” dell’accesso delle donne al sacerdozio. L’obbligo del celibato dei preti non è per lui “un dogma di diritto divino”. L’ordinazione di uomini sposati può essere anche “ una possibile risposta per delle regioni in profonda crisi”, affermava in un’intervista a Le Monde nel 1994.
La voce del cardinal Martini è dunque quella di un uomo libero che chiede che siano dibattuti collettivamente temi ritenuti tabù, che la Chiesa restauri una vera pratica della “collegialità” (equilibrio di poteri tra sede romana e vescovi locali). Se la chiesa è rispettata per la sua lotta a favore dei diritti umani, spiega, il fossato che la separa dalla cultura moderna è dovuto al suo funzionamento, ancora segnato dall’ “intransigentismo” del XIX secolo, che lascia poco spazio al dibattito interno.
In un intervista postuma, pubblicata sabato 1 settembre dal Corriere della Sera, afferma: “La Chiesa è stanca. La nostra cultura è invecchiata, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita. I nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Abbiamo paura?” Il cardinale lascia in eredità questo ultimo consiglio: “La Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal papa e dai vescovi. A cominciare dalle domande poste dalla sessualità e dal corpo”.
Una chiesa povera e umile
Carlo Maria Martini deplorava infatti da molto tempo la rottura, sulle questioni di etica sessuale, tra la chiesa da un lato e scienziati e coppie dall’altro. “Se le nostre posizioni vengono percepite come minacce, proibizioni, condanne, è perché noi non facciamo sforzi sufficienti per far comprendere ciò che è veramente in gioco e sostanziale”, affermava ancora nel 1994 a Le Monde. Sottolineava volentieri “gli sviluppi negativi e infelici” dell’enciclica Humanae vitae sulla regolazione delle nascite, pubblicata nel 1968 da Paolo VI. “Decidere in solitudine su temi come la sessualità e la famiglia” non è mai una cosa buona, faceva osservare, e auspicava una nuova enciclica su quel tema. Nel suo libro del 2008 Conversazioni notturne a Gerusalemme il tono è calmo e lucido. “Ho sognato”, confessa in una sorta di testamento spirituale, “una Chiesa povera e umile che non dipende dalle potenze di questo mondo. Una Chiesa che dona coraggio a coloro che si sentono piccoli e peccatori”.
Durante il conclave dell’aprile 2005 che segue la morte di Giovanni Paolo II, il cardinal Martini incarna le speranze degli ambienti progressisti. Le possibilità di essere eletto sono minime, a motivo dell’età e del morbo di Parkinson, ma anche perché i cardinali elettori che, come lui, non si rassegnano all’opzione conservatrice, sono fortemente minoritari. Il cardinale Ratzinger, sul cui nome il cardinal Martini chiede alla fine del conclave di far convergere i voti, è eletto con il nome di Benedetto XVI. Quest’ultimo gli renderà visita a giugno.
Durante i funerali del cardinal Martini, celebrato lunedì 3 settembre a Milano, il papa, in un messaggio letto all’inizio della messa, ha reso omaggio a un “servitore infaticabile del Vangelo e della Chiesa”, che “che non ha solo studiato le Sacre Scritture ma le ha amate intensamente”.
L’ultima intervista: «Chiesa indietro di 200 anni. Perché non si scuote, perché abbiamo paura?»
intervista a Carlo Maria Martini
a cura di Georg Sporschill e Federica Radice Fossati Confalonieri (Corriere della Sera, 1 settembre 2012)
Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme, e Federica Radice hanno incontrato Martini l’8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».
Come vede lei la situazione della Chiesa?
«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione».
Chi può aiutare la Chiesa oggi?
«Padre Karl Rahner usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».
Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?
«Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media?
Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti.
Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l’indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...).
L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L’amore è grazia. L’amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»
Lei cosa fa personalmente?
«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».
Cardinale, non c’è più religione
di Roberta de Monticelli (il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2012)
È proprio vero che non c’è più religione. In Vaticano, dico, e neppure ai vertici della Chiesa ambrosiana. Ma come: il Teatro Franco Parenti ospita uno spettacolo che gira da più di un anno, intessuto di citazioni bibliche, capace a suo modo di scuotere insieme le viscere e la mente. C’è un Padre, e un Figlio. C’è un’agonia terribile e umiliante. C’è un pianto sconsolato e un amore impotente.
C’è tutta intera la cognizione del dolore, e della mortalità. C’è tutta la tenerezza e la debolezza della carne, la sua fragilità, la sua corruzione. C’è una Passione, c’è un Giobbe che si sparge il corpo e le piaghe di melma.
C’è addirittura un velo che si squarcia e un fulmine che pare scuota la terra, e la terra del resto tremava già sotto il palco e le assi della platea, prima che lo spettacolo cominciasse, e così il brontolio cupo del cielo e delle viscere della terra avvolgeva lo spettatore, a prepararne l’anima.
E sopra tutto, fra terra e cielo - solo sfondo - il Volto. Quello del Salvator Mundi di Antonello da Messina. Nella sua infinita, indicibile, muta dolcezza. Che perfino quando si squarcia resta, si vede, partorisce ancora forme umane, si confonde con la Parola, si ricompone in filigrana. E lascia intravedere salmi di fede e di dubbio. Le citazioni preferite dal Cardinal Martini.
Sembra una lezione di teologia, o forse un’omelia, una parabola, un midrash. Con annesso talmud e glossario e commento, un dibattito che si trova disteso in rete da Parigi a qui, che dura e si riaccende. Ma cosa vogliono di più?
Non ci si può credere, che il cardinale Scola, certo un fine teologo, abbia davvero parlato di “opera contraria ai simboli religiosi”! Meno male che Scilipoti ha mostrato da quali profondità teologiche e spirituali possa salire questa scomunica, con un’interrogazione parlamentare in cui citando Scola chiede al ministro di proibire lo spettacolo: ma è possibile che qualcuno possa scrivere, dopo tutto questo, che il cardinale ha mostrato molta saggezza perché pur rammaricandosi non ha chiesto la sospensione della pièce al Parenti?
Ma scusi, caro Umberto Veronesi, a che titolo mai avrebbe potuto - anche soltanto osare? Siamo tutti impazziti? Vabbè, in fondo, grazie a queste bizzarrie torna a teatro perfino un po’ di emozione civile: dunque la gente ancora pensa, si emoziona, discute? Con il cielo e l’inferno forse tornano le idee, si risvegliano dalla formalina, anzi dal decerebrato bailamme dei talk-show? Magari!
Certo, girano in rete propositi di idiozia criminoide, mentre per strada, intruppate, girano vecchiette col rosario, che poverette col freddo che fa le camionette della polizia le tengono lontane dal caldo foyer del tetro, ma perché? Sì, certo, perché non si sa mai: pare che in questi giorni sia arrivato di tutto al Teatro Parenti e ad Andrée Ruth Shammah: minacce, insulti, perfino schifezza antisemita...
Ma ecco in tutto questo la frase più straniante, a suo modo davvero blasfema nella sua comicità surreale. Come surreale può essere una contraddizione logica e un’infamia etica che per nascondersi si cosparge di melliflua, socializzante gommosità. Eccola, viene diretta dal portavoce del Papa, Padre Lombardi, o almeno gli è attribuita: avrebbe potuto, la direttrice del teatro “farsi carico della dimensione sociale della libertà di espressione”!
Oh Dio, e sarebbe questa la Parola, cui “si addice la temperatura del fuoco”? Questo il tocco della grazia che rinnova e ricrea, che fa rinascere a vita eterna, che chi la ode non avrà più sete ? Davvero non c’è più religione, in Vaticano.
di Giacomo Canobbio (Corriere della Sera/Brescia, 29 gennaio 2012)
Negli ultimi anni il cristianesimo sembra perdere influenza sul costume, benché da molte parti si dichiari la fine della secolarizzazione, o almeno la inadeguatezza di tale categoria per descrivere la situazione religiosa dei Paesi occidentali: ci si troverebbe piuttosto di fronte un deplacement della ricerca religiosa e a una riscoperta del sacro. Le analisi sociologiche non riescono tuttavia a precisare cosa si intenda con «ritorno del sacro» e con «ricerca religiosa».
Un fenomeno appare però meritevole di attenzione: la proposta di tornare al paganesimo. Il termine, va ricordato, rimanda alla lettura che da parte ebraica prima e soprattutto cristiana poi si dava delle altre religioni. Per quanto attiene al cristianesimo, è noto che all’inizio si diffuse prevalentemente nelle città, sicché gli abitanti dei villaggi (pagi) restavano nella religione «idolatrica», quella che era stata oggetto delle invettive dei profeti di Israele e del giudizio critico dei primi autori cristiani. Il paganesimo era dunque la religione delle campagne.
La recente proposta di tornare al paganesimo assume due forme principali: una dotta, l’altra popolare.
Per quanto attiene alla prima si riscontrano due varianti: 1) ripresa della funzione terapeutica della filosofia, il cui compito dovrebbe essere quello di educare ad accettare il limite, mettendo in conto che gli umani non possono mirare a mete troppo alte, trascendenti. Appare sullo sfondo il richiamo all’epicureismo nel suo intento terapeutico di destituire di valore il desiderio (merita attenzione a questo riguardo la ponderosa opera di M. Nussbaum, La terapia del desiderio, Vita e Pensiero, Milano 1998). 2) abbandono del monoteismo, che sarebbe fonte di violenza, per ridare spazio alla molteplicità degli dèi. Questa seconda variante collega politeismo e democrazia: solo il politeismo sarebbe il vero custode della libertà (Jan Assman) e permetterebbe di riconoscere le molteplici storie connesse con la molteplicità degli dèi (Odo Marquard).
Per quanto attiene alla seconda, quella «popolare», la si trova in una concezione e in una pratica utilitaristica della religione. Va riconosciuto che sia nell’ebraismo sia nel cristianesimo (come in tutte le altre religioni) la dimensione utilitaristica delle pratiche religiose non è mai venuta meno. Solo che oggi pare riproporsi con particolare vigore: si sceglie la religione dalla quale si pensa di ricavare maggior vantaggio; si può giungere perfino a crearsi una propria religione. Emblematico al riguardo quanto viene descritto dal sociologo tedesco Ulrich Beck nel volume Il Dio personale (Laterza, Roma 2008: il titolo in italiano potrebbe trarre in inganno; in tedesco suona Der eigene Gott, cioè "il proprio Dio"): ciascuno si sceglie/crea la propria divinità a secondo dei bisogni.
Collegando tra loro le due forme di ritorno al paganesimo si potrebbe notare che rispondono a una duplice esigenza, che diventa critica di una religione praticata/percepita: 1) un bisogno di salvezza intesa come terapia; 2) il bisogno di avere la divinità vicina. Si evidenzia nelle due esigenze una critica nei confronti di una religione troppo dottrinale, preoccupata delle verità anziché della vita delle persone, e nei confronti di un Dio troppo grande, quindi distante.
C’è però da domandarsi se la proposta di tornare al paganesimo riesca effettivamente a rispondere alle attese. Gli dèi a misura umana sono in grado di garantire quanto da essi ci si aspetta? Forse varrebbe la pena ricordare che la filosofia antica si era proposta come via di salvezza alternativa alle religioni mitologiche. Inoltre, una terapia che pretende di acquietare il desiderio sarà efficace? E soprattutto mantiene l’originalità degli umani la cui caratteristica è appunto la protensione verso il trascendimento?
Al di là di questi interrogativi, le religioni, quella cristiana in primo luogo, sono provocate a verificare se nella loro forma storica attuale riescano a mostrarsi plausibili.
Il potere di Bertone e la fronda dei vescovi
La crescita numerica dei cardinali italiani decisa all’ultimo Concistoro non è destinata a pesare più
di tanto sul prossimo Conclave. E la vittoria del segretario di Stato Tarcisio Bertone insieme con la
Curia sta provocando una scia di polemiche velenose. Il cardinale è accusato di avere
monopolizzato il potere finanziario del Vaticano.
Sullo sfondo, l’uscita di scena della cordata bertoniana dal San Raffaele e i contrasti con la
Conferenza episcopale italiana.
di Massimo Franco (Corriere della Sera, 12 gennaio 2012)
L’idea di un «partito italiano» destinato a contare di più nel prossimo Conclave è suggestiva ma forse un po’ azzardata. L’aumento numerico dei cardinali tricolori (30 su 120) prodotto dal Concistoro dell’Epifania ha lasciato dietro di sé una scia di frustrazioni e di veleni che contraddicono l’impressione iniziale. Fra Vaticano e Cei, uno dei pochi giudizi unanimi riguarda la realtà di un episcopato dell’Italia diviso, senza un leader; e incapace di imporre un proprio candidato se il problema della successione a Benedetto XVI dovesse aprirsi in tempi brevi. Dopo i sette «cappelli» cardinalizi su diciotto distribuiti ad italiani il 6 gennaio, l’unica novità vistosa è l’ennesima vittoria della Curia romana.
Soprattutto, si indovina la rivincita del segretario di Stato, Tarcisio Bertone, sul vertice dei vescovi e sui propri avversari. Intanto, la troika che controlla l’economia e le finanze vaticane è sua. Domenico Calcagno, presidente dell’Apsa, amministra il patrimonio della Santa Sede; Giuseppe Versaldi è presidente della Prefettura degli affari economici; e Giuseppe Bertello presiede il Governatorato: tre neo-cardinali suoi fedelissimi. Ma proprio da qui, le valutazioni comuni diventano analisi in qualche caso demolitorie di quanto è successo. È come se esistessero due poteri, in urto e quasi impermeabili l’uno all’altro: quello del Segretario di stato e quello di chi lo detesta. Con Benedetto XVI in alto, molto in alto rispetto a queste beghe.
Eppure, il risultato del conflitto ormai pluriennale nelle gerarchie cattoliche italiane è una difficoltà che si scarica sul governo della Chiesa; e che nemmeno il pontefice è riuscito a placare del tutto, nonostante i richiami e gli ammonimenti, pubblici e privati. L’ultimo Concistoro è diventato una sorta di controprova dell’impossibilità di una tregua duratura. Gli avversari di Bertone dicono che i nomi dei nuovi cardinali italiani sono frutto di una forzatura: un gesto di potere per monopolizzare una roccaforte strategica della Curia come i «ministeri economici», eliminando qualunque contrappeso; un passo indietro rispetto alla globalizzazione dell’episcopato; e un’arbitraria promozione dei «suoi».
Si parla di cardinali «imbufaliti» per l’operazione bertoniana. È circolata perfino la voce secondo la quale alcune eminenze di peso vorrebbero mandare una mozione riservata al papa per chiedere che Bertone sia sostituito. L’intenzione sarebbe quella di proteggere Benedetto XVI dalla «prepotenza» del suo collaboratore. In realtà, un tentativo del genere fu già fatto in passato, inutilmente. Il rapporto fra il pontefice e il «primo ministro» vaticano è consolidato e indiscusso. E gli uomini più vicini al segretario di Stato presentano il Concistoro come una sorta di atto conclusivo del rinnovamento della Curia: «In piena sintonia con Benedetto XVI», precisano. Sostengono che il prossimo Conclave è un convitato di pietra usato strumentalmente. E confutano la tesi di un Bertone che promuove chi può assecondare le sue ambizioni future.
L’idea che i cardinali ubbidiscano a chi li ha aiutati è effettivamente tutta da dimostrare. E finora, fra i «papabili» Bertone non appare mai. Una delle critiche più frequenti che gli vengono rivolte, tuttavia, è di avere provocato una mutazione del ruolo di segretario di Stato, facendolo diventare una sorta di «vice-papa». Il fenomeno si era già notato col predecessore, Angelo Sodano, negli anni della malattia di Giovanni Paolo II. Si ripete ora, al settimo anno di pontificato dell’ottantaquattrenne Joseph Ratzinger. Ma, per quanto contestata, è un’evoluzione o involuzione del ruolo considerata quasi inevitabile. Fotografa rapporti di forza che nessuno è riuscito a scalfire.E i «bertoniani» non escludono a priori che il segretario di Stato possa succedere a Benedetto XVI: sebbene lo giudichino improbabile.
In quanto Camerlengo, ricordano, amministrerebbe la sede vacante in caso di morte del papa. Aggiungono che è ben visto in Spagna e Sud America ed ha un curriculum sia curiale che «pastorale», come ex arcivescovo di Genova. Ma la sola ipotesi fa inorridire gli avversari. Per il modo in cui si muove, Bertone non riscuote grandi applausi. I sostenitori attribuiscono l’ostilità che si tira addosso al fatto che sarebbe il parafulmine degli attacchi al papa; che non ha «immagine»; e che sta riformando in profondità la Curia. Gli avversari più severi lo bollano invece come uno dei peggiori segretari di Stato che il Vaticano abbia avuto. Lo accusano di provincialismo, e di avere abbassato il profilo e l’agenda internazionale della Chiesa cattolica.
Il fatto che all’ultimo concistoro non sia emerso nessun cardinale africano o sudamericano (tranne il brasiliano di Curia, Joio Braz de Aviz), è portato a conferma di questa analisi. La stessa Oceania, forse, si aspettava un riconoscimento, dopo il successo della Giornata mondiale della gioventù nel 2008 a Sidney, in Australia. E la mancata promozione dell’arcivescovo di Bruxelles, André-Joseph Leonard, è vista dai critici come un errore di sottovalutazione della capitale belga: sia perché ospita la Commissione Ue, sia per gli scandali sulla pedofilia che hanno colpito quell’episcopato. È difficile dire quanto pesino su giudizi così duri la delusione degli esclusi, o i contrasti per il primato in Italia fra Cei e Bertone.
È stato notato maliziosamente che Versaldi era il candidato del segretario di Stato per la sede di Torino. La Cei gli ha preferito un altro. Ma Bertone lo ha portato in Curia e l’ha fatto diventare cardinale: prima dell’attuale arcivescovo di Torino. Non solo. A prima vista, l’esito del Concistoro bilancia la sconfitta del segretario di Stato per la nomina di Angelo Scola a Milano: l’ex Patriarca di Venezia era infatti osteggiato da Bertone. Ma il versante più scivoloso, per lui, rischia di diventare quello del potere economico all’interno della Chiesa: da tempo un motivo di sarcasmi e di poco pie stilettate. L’ultimo episodio è stato la scelta di affidare allo Ior, la banca vaticana, il salvataggio dell’ospedale San Raffaele di don Luigi Verzé: una vicenda vissuta fin dall’inizio con perplessità.
Quando nei giorni scorsi la cordata vaticana si è sfilata da un intrico costosissimo e dai contorni inquietanti, a molti è parso di essere riemersi da un potenziale incubo; e allo stesso Bertone, sebbene avesse appoggiato l’operazione. L’opzione di abbandonare l’impresa è stata suggerita al papa dal cardinale Attilio Nicora, che da alcuni mesi presiede l’authority sull’attività finanziaria degli enti del Vaticano. Ma promette di avere una coda di polemiche, con il segretario di Stato nell’occhio del ciclone. «Meno male che ne siamo usciti», avrebbe detto qualche giorno fa un cardinale tedesco. «Altrimenti, se mi avessero chiesto soldi per l’obolo di San Pietro, avrei risposto: "Perché non vendete il San Raffaele?"...»
Cattolica, doppie dimissioni dal Toniolo di Maria Antonietta Calabrò in “Corriere della Sera” dell’11 gennaio 2012
L’economista Alberto Quadrio Curzio e il notaio Giuseppe Camadini, storica figura del cattolicesimo bresciano (dall’Istituto Paolo VI all’Editrice La Scuola) si sono dimessi dal comitato permanente dell’Istituto Toniolo, ente fondatore dell’università Cattolica di Milano, che è attualmente presieduto dal cardinale Dionigi Tettamanzi. Un sicuro effetto le dimissioni di Quadrio Curzio e Camadini lo avranno: permetteranno un’accelerazione delle decisioni del nuovo arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola sul futuro dell’Istituto e sulla nomina del nuovo rettore della Cattolica, membro di diritto del consiglio.
Da metà novembre infatti anche il professore Lorenzo Ornaghi, ha lasciato il suo incarico di rettore per assumere il ruolo di ministro dei Beni Culturali. Da ieri, quindi, sono tre i componenti del comitato che devono essere sostituiti. I componenti rimanenti sono Paolo Bignardi, il direttore della tv della Cei Sat 2000 Dino Boffo, Felice Martinelli, Roberto Mazzotta, Piero Melazzini, Cesare Mirabelli, e Anna Maria Tarantola (vicedirettore generale di Bankitalia).
Da molti anni il Toniolo è la stanza di compensazione degli incontri e degli scontri tra le varie anime della Chiesa italiana e dei loro reciproci rapporti con la segreteria di Stato vaticana. Così la nomina di Ornaghi a rettore nel 2002 sancì la definitiva vittoria dell’allora cardinale vicario e presidente della Cei, Camillo Ruini, sulla segreteria di Stato guidata da Angelo Sodano. L’Istituto Toniolo è stato sfiorato anche dai veleni che portarono nel 2008 alle dimissioni dalla direzione del quotidiano dei vescovi Boffo (si disse che la velina anonima che lo accusava circolasse tra le mura dell’Istituto).
L’anno scorso il cardinale segretario Tarcisio Bertone aveva tentato un rinnovamento, sotto l’ombrello della segreteria di Stato (era stata ventilata anche la possibilità della nomina a presidente di Giovanni Maria Flick, ex ministro ed ex presidente della Consulta), in modo che il cambio avvenisse prima della sostituzione del cardinal Tettamanzi sulla cattedra di Sant’Ambrogio. Adesso decide Scola.
Con la creazione di 22 nuovi cardinali, Benedetto XVI imprime il suo marchio al conclave che eleggerà il suo successore
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” dell’8 gennaio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il papa ha annunciato, venerdì 6 gennaio, la creazione di 22 nuovi cardinali, di cui 18, che hanno meno di 80 anni, potrebbero eleggere il suo successore in caso di conclave. Al termine di questo quarto concistoro del suo pontificato, Benedetto XV avrà nominato 63 cardinali in grado di votare, ossia la maggioranza dei membri del collegio. Al di là dell’aspetto simbolico, il papa imprime così il suo marchio all’orientamento del prossimo conclave.
Le creazioni, che saranno ufficialmente confermate il 18 febbraio, portano a 214 i membri del Sacro collegio, di cui 125 elettori con meno di 80 anni, età limite per partecipare al voto. Tra i nuovi cardinali, si contano sedici prelati europei, due americani, un canadese, un brasiliano, un indiano e un cinese di Hong Kong. Nessuno è originario dell’Africa o dell’America Latina, proprio in un periodo in cui la Chiesa cattolica conosce la sua massima vitalità in quelle regioni del mondo. Anche il numero di cardinali francesi resta invariato, con quattro rappresentanti: Mons. André Vingt-Trois, Mons. Jean-Louis Tauran, Mons. Jean-Pierre Ricard e Mons. Philippe Barbarin.
Invece, la parte degli italiani, tradizionalmente preponderante all’interno del collegio, si rafforza. La nomina di sette cardinali italiani porta a 30 il numero di prelati della penisola. Questa proporzione, anch’essa tradizionalmente criticata, potrebbe rafforzare le probabilità di elezione di un italiano come successore del papa tedesco. Oltre ad una prossimità di alcuni di questi vescovi con il numero due del Vaticano, l’italiano Tarcisio Bertone, queste nomine si spiegano con l’accesso automatico degli alti responsabili della curia a questa onorificienza.
Nel gioco dei pronostici a cui si dedicano i vaticanisti ogni volta che Benedetto XVI, che avrà 85 anni in aprile, si mostra un po’ meno in forma, il nome dell’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, torna così regolarmente come “possibile papabile”. Mons. Scola è considerato ideologicamente molto vicino all’attuale papa, e il nome di questo prelato di 70 anni era già circolato durante il precedente conclave nel 2005.
Al termine del concistoro di febbraio, gli europei resteranno inoltre in maggioranza, con 67 rappresentanti, che siederanno accanto ai 22 sud-americani - di cui sei brasiliani e quattro messicani -, 15 nord-americani, 11 africani, 9 asiatici e un oceaniano.
Questo annuncio apre un anno che sarà segnato da un viaggio del papa in Messico e a Cuba, alla fine di marzo, ed un possibile viaggio in Libano per consegnare ai vescovi del Medio-Oriente le conclusioni del sinodo sulla situazione dei cristiani d’Oriente, che si è svolto nel 2010.
Il 2012 è anche quello del cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II, l’11 ottobre 1962. Questo avvenimento darà luogo a molte manifestazioni, pubblicazioni e riflessioni sull’applicazione degli insegnamenti venuti dal concilio e sarà accompagnato dal lancio dell’ “Anno della fede”. Destinato a “ravvivare” la fede dei fedeli, sbarcherà con il sinodo sulla “nuova evangelizzazione, preoccupazione centrale di Benedetto XVI.
Preoccupato nel vedere i paesi di tradizione cristiana staccarsi dalle loro radici, il papa ha di nuovo evocato, venerdì, una “civiltà occidentale” che “sembra aver perso l’orientamento, e naviga a vista”, aggiungendo: “La Chiesa, grazie alla parola di Dio, vede attraverso questa nebbia”.
CHIESA
Crisi, la riflessione di Tettamanzi
"E’ una spinta verso l’accoglienza"
L’omelia in Duomo alla presenza del cardinale Scola. Essere poveri, dice, "può diventare un’occasione per renderci operosamente attenti alla schiera dei poveri creati dall’egoismo" *
Per affrontare la crisi è necessario un nuovo Esodo, al fine di dar vita a un rinnovamento profondo che "faccia del popolo di Dio una comunità di poveri e una comunità che vive un autentico culto spirituale, una comunità capace di esprimere una relazione nuova con gli stranieri e che rende ragione di una speranza rinnovata dal dono dello Spirito". E’ un passaggio dell’omelia del cardinale Dionigi Tettamanzi, che ha presieduto il pontificale dell’Epifania in Duomo alla presenza dell’arcivescovo di Milano, Angelo Scola.
Tettamanzi ha ricordato che il momento di crisi e travaglio che il mondo sta attraversando "è un periodo che deve essere valutato non solo in base al calo dei consumi e in forza esclusivamente della legge del mercato economico", perché essere poveri materialmente può diventare un’occasione "faticosa ma feconda per riscoprire che cosa significhi diventare poveri nello spirito e per renderci operosamente attenti all’immensa schiera dei poveri che noi stessi abbiamo creato a causa della nostra egoistica ricchezza". La vera povertà di spirito, per Tettamanzi, deve portare "la nostra vita a diventare un sacrificio spirituale offerto a Dio giorno dopo giorno".
Oggi però, secondo il cardinale, si parla di povertà di spirito, così come di sobrietà, solo in relazione alla carenza di disponibilità di risorse economiche: "Abbiamo bisogno di scendere in profondità e di percepire come senza la povertà di spirito non sia possibile un vero culto gradito a Dio, perché tale culto scaturisce da un cuore pronto a vivere con giustizia, disposto a porre alla base del proprio agire quotidiano la verità e il rispetto del diritto di tutti e di ciascuno, e dunque a vivere una relazione con gli altri intessuta di solidarietà e di dono di sè, di comunione e di condivisione".
Tettamanzi ha quindi ammonito a non farsi intimorire "se la cultura dominante non condivide i nostri valori morali e religiosi" e soprattutto a non cercare protezione presso i potenti per difenderli. A questo proposito ha ricordato "il grido dei cristiani perseguitati". "La persecuzione più subdola e imbarazzante - ha detto - è quella che può colpire il mondo occidentale: una persecuzione che non sparge sangue ma indurisce il cuore; non toglie la libertà con la forza ma la fa tacere con i piaceri; non fa soffrire la fame, ma riempie il ventre di cibo procurato con l’ingiustizia e con la mancanza di condivisione".
L’ex arcivescovo di Milano ha quindi rimarcato la necessità di una nuova relazione con gli stranieri per formare "un popolo solo che proviene sia dalla discendenza di Abramo sia dalle genti di tutta la terra, un popolo unico che partecipa alla gloria e alla promessa di Israele e che nasce dalla pace stipulata nel sangue della croce del Signore Gesù". In conclusione Tettamanzi si è rivolto alla città citando Isaia: "Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te".
* la Repubblica, 06 gennaio 2012
Wikipedia e il cardinale
di Gianni Barbacetto (il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2011)
Può il Vaticano far cambiare una voce di Wikipedia? Sì, può farlo. È successo per la voce su Angelo Scola, il nuovo cardinale arcivescovo di Milano, proveniente dal movimento di Cl. Tutto è nato da un articolo del Fatto Quotidiano, pubblicato il 19 giugno 2011: “Alla vigilia dell’ordinazione, il rettore Attilio Nicora decide di ‘fermare’ il giovane Scola. Il seminario milanese ha una tradizione antica e prestigiosa, che risale a San Carlo Borromeo: non può tollerare che alcuni seminaristi vivano tra i chiostri silenziosi di Venegono come fossero un corpo separato, senza riconoscere davvero l’autorità dei superiori, dei professori, dei teologi, del padre spirituale, perché hanno i loro maestri, i loro superiori, i loro teologi, i loro padri spirituali. Monsignor Nicora spiega ai ciellini che vogliono farsi ordinare preti che non possono usare il seminario ambrosiano come fosse un taxi”. Dunque l’attuale arcivescovo di Milano è stato, da giovane, di fatto espulso dal seminario milanese.
La vicenda finisce su Wikipedia, che cita la fonte: l’articolo del Fatto. A questo punto, però, si muove padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana. Contatta, con estrema cortesia, il sottoscritto, chiedendogli se è in grado d’indicargli la via per far cambiare la voce di Wikipedia, poiché questa mette in grave imbarazzo un altro cardinale, monsignor Attilio Nicora, il quale nega di aver “fermato” Scola: questi viene ordinato sacerdote nel luglio 1970, mentre Nicora diventa rettore del seminario milanese soltanto nell’ottobre successivo. Chi scrive non sa dare al gentilissimo padre Lombardi alcuna indicazione utile su come cambiare una voce di Wikipedia. Ma passano alcune settimane e accade il miracolo.
Dall’enciclopedia on line scompare la notizia di Scola “fermato” per “settarismo”, sostituita da una nota che dice così: “Gianni Barbacetto, nel suo articolo ‘Scola a Milano, la rivincita del vescovo di Cl’, sostenne che ‘alla vigilia dell’ordinazione il rettore Attilio Nicora decide di fermare il giovane Scola’, perché aderente al movimento di Cl. Questa vicenda non trova conferma nella realtà, in quanto Scola fu ordinato nel luglio 1970 e Attilio Nicora divenne rettore del seminario solo il 7 ottobre 1970. Lo spostamento di Scola a Teramo fu motivato dalla decisione dei suoi superiori a Venegono di attendere 18 mesi di ferma militare prima della sua ordinazione; Scola preferì invece essere ordinato subito”.
Ammettiamo allora che non sia vera la vox populi che attribuisce proprio a Nicora - non ancora rettore, ma già autorevole professore a Venegono - la decisione di “fermare” il ciellino candidato al sacerdozio. La decisione formale è quindi del rettore precedente, l’indimenticato monsignor Bernardo Citterio. Ma la sostanza resta immutata: la diocesi di Milano sceglie di non procedere neppure all’ordinazione diaconale di Scola, che gli avrebbe evitato il servizio militare. È di fatto un’espulsione.
Vecchie storie degli anni Settanta, in cui le passioni ideologiche erano forti, a destra, a sinistra e anche nella Chiesa. Nei decenni successivi, Scola non ha mancato di dimostrare libertà di pensiero e autonomia anche dal movimento in cui è cresciuto. Ma i fatti restano fatti: Wikipedia ora cambierà di nuovo la voce su Scola, cardinale arcivescovo di Milano e, chissà, possibile futuro papa?
La teologia di Ratzinger nella scelta di Scola
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 30 giugno 2011)
Un pontificato che si narra come proiezione dell’autobiografia di Joseph Ratzinger nelle scelte istituzionali. La nomina di Angelo Scola a Milano è l’ultima conferma della plausibilità di questa chiave interpretativa. Benedetto XVI ha un occhio di riguardo per le persone incrociate in passato.
È accaduto per Tarcisio Bertone, che deve il ruolo di segretario di Stato poco più che alla scrivania di segretario della Congregazione per la Dottrina accanto all’ufficio del prefetto. Come se un pezzo di burocrazia condivisa potesse garantire qualità per qualsiasi altro ruolo. In modo analogo, con il canadese Marc Ouellet a capo della Congregazione dei Vescovi e il patriarca Scola a Milano, si proietta ai vertici della Chiesa il club teologico di Communio, la rivista teologica fondata nel 1972 da Ratzinger con Urs von Balthasar e Henri de Lubac per competere con le visioni del riformismo radicale di Concilium. E l’ammirazione di Ratzinger per don Giussani, i cui funerali volle concelebrare a Milano, è la fonte riconosciuta di una predilezione papale per Cl, un movimento di cui Scola era seguace, anche se da anni non aveva ruoli privilegiati al suo interno.
Non è solo questione di fiducia personale, e neanche di medaglie al merito assegnate agli amici, ma di opzioni. Vi è bene un legame tra le ostinate affiliazioni lefebvriane del fratello prete Georg, da un lato, e - dall’altro - le precipitose assoluzioni dei vescovi dello scisma e le controriforme liturgiche con cui il papa ha dato via libera alla messa tridentina che va generando l’attuale baraonda intorno agli altari cattolici. Su un altro piano, una continuità autobiografica emerge tra il Ratzinger di professione teologo e un magistero papale dominato dall’inquietudine per la formazione anche intellettuale dei cattolici ad una fede matura, fino all’apogeo dell’opera anticamente sognata, i due volumi del Gesù di Nazareth, non a caso firmato insieme da "Joseph Ratzinger e Benedetto XVI".
Un papa ha bene il diritto di imprimere la propria impronta sulla vita della Chiesa. Ma la nomina di Scola rischia di diventare un caso imbarazzante, al di là delle qualità personali del prescelto, ben riconosciute, proprio perché fa esplodere alcune anomalie del sistema. Il "fattore Papa" ha giocato nella costruzione di una campagna di stampa martellante, che ha penalizzato la ricerca di altre candidature. Con due conseguenze: di intercettare il severo clima di segretezza in cui Roma avvolge le procedure di selezione dei vescovi (il cardinale Martini scriveva domenica di essere stato sorpreso dalla sua nomina a Milano). Poi, di contraddire il criterio raccomandato dallo stesso Papa, di scegliere come vescovi candidati che abbiano almeno dieci anni prima della rinuncia canonica a 75 anni, perché possano svolgere un piano pastorale decente. E invece per Milano è stato nominato un settantenne.
L’anomalia maggiore è visibile, ancora una volta, nelle procedure centralizzate. A metà dell ’Ottocento Antonio Rosmini dimostrava che il sistema verticistico non era in grado di tutelare la Chiesa dalle ingerenze del potere politico. Le campagne mediatiche a favore di un candidato sono la nuova forma delle pressioni dei poteri cesaro-papisti, che rendono attuali le lotte per le investiture di Gregorio VII. Benché la consultazione del nunzio in Italia Giuseppe Bertello nella diocesi di Milano sia stata più ampia del consueto, è evidente che quanto è successo invita a ripensare al monito di Rosmini circa i vescovi "intrusi", paracadutati dall’alto e dunque fattori di indifferenza religiosa e di divisione del popolo cristiano.
L’altra anomalia riguarda la situazione dell’episcopato italiano. Indubbiamente non mancano al suo interno delle intelligenze pastorali di grande sensibilità e zelo, tuttavia alcune analisi sociologiche, come quella di Luca Diotallevi, non si astengono dal documentarvi segnali di un criterio selettivo ancorato per oltre un ventennio alla presunta sicurezza di figure conformiste, col risultato che gli attuali risvegli dal basso mondo cattolico sembrano scarsamente recepiti dalla gerarchia e non sembra determinarsi una vera inversione di rotta. Paradossalmente la Chiesa italiana era più ricca sotto Pio XII di grandi figure episcopali, un certo Roncalli a Venezia, Montini a Milano, Fossati a Torino, Siri a Genova, Lercaro a Bologna, Dalla Costa a Firenze, Ruffini a Palermo: saranno igrandi protagonisti del Concilio Vaticano II.
Infine, da notare che Scola entra a Milano su due vigilie: quella del cinquantenario dell’apertura del Vaticano II (1962-2012) e quella dei 1700 anni dell’editto di Milano con cui aveva origine "l’età costantiniana" nel 313: statuto di libertà per il cristianesimo, divenuta "religione imperiale". Vigilie che si intrecciano organicamente.
Il maestro di Scola, Von Balthasar, era molto netto sulla necessità di finirla con la riproduzione del regime di cristianità. Diceva che «al cristiano è vietato il ricorso ai mezzi d’azione specificamente mondani per un preteso incremento del regno di Dio in terra». Criticava l’integralismo di gruppi di «mammalucchi cristiani che aspirano a conquistare il mondo» e ammoniva: «Chi fa tali cose non ha esatta idea né della impotenza della croce né della onnipotenza di Dio né delle leggi proprie della potenza mondana».
Il codice di Don Verzè, boss con la tonaca
di Francesco Merlo *
ORDINA: «Bruciate!» e il picciotto va e appicca il fuoco. Don Luigi Verzé è il primo prete capomafia della storia d’Italia e il silenzio del Vaticano o è rassegnato o è omertoso, decidete voi. Ma per noi siciliani è un sollievo che almeno sia padano questo ’don’ che è due volte ’don’, per il turibolo e per la coppola storta. Attenzione: non un prete mafioso, non un prete al servizio della mafia, che ce ne sono stati tanti, ma un boss che amministra i sacramenti, un don Calogero Vizzini con il crocifisso portato - fateci caso - all’occhiello, lì dove si mettono gli stemmi dei Lyons e del Rotary, e i massoni vi appuntano il ramo d’acacia e i gagà la mitica pansé. Anche don Calogero non pagava mai con le mazzette tipiche della corruzione diciamo così normale, ma con bigliettoni ’impilati’. «Le buste di don Verzé - raccontano i testimoni oculari - erano alte tre o quattro centimetri con biglietti da 500 euro». Don Calogero Vizzini le chiamava appunto ’pile’. E don Verzé non comunica con i pizzini come i più rozzi tra i corleonesi, ma si attiene ai classici che affidavano le sentenze ’allo sguardo e al silenzio ’.
E SE proprio deve farsi intendere don Verzé «manda l’autista - tutte le citazioni sono prese dai verbali - anche all’estero». Trasmette gli ordini «attraverso messaggeri umani». Il pizzino infatti è mafia stravagante, deviazione sbruffona, «niente di scritto e niente al telefono» raccomanda Marlon Brando Vito Corleone: «La polizia registra, poi taglia e cuce le parole per farvi dire quello che vuole».
Il codice di don Verzé non è quello classico del danaro cattolico, neppure nella variante diabolica della simonia. Don Verzé non è uno di quei generosi mostri italiani che hanno messo insieme mammona e il Padreterno, come direbbero gli evangelisti Matteo e Luca, l’ingordigia e la bontà. È invece un don Luciano Liggio per la gloria di Dio. Anche don Luciano bruciava una campagna e poi si presentava al proprietario: «Non rende, vendetemela». Sono gli stessi metodi criminali di don Verzé che aveva deciso di comprare i terreni confinanti con il suo ospedale, ma il proprietario non voleva vendere perché vi aveva costruito campi da tennis, da calcio e da calcetto, spogliatoi e bar... Ebbene nel 2005 e nel 2006 quegli impianti subirono due incendi dolosi. Poi don Verzé convocò Pollari, capo del Sismi e gli disse: «Mandaci la Finanza».
In quel periodo il prete fondatore dell’ospedale San Raffaele pubblicava con Bompiani "Io e Cristo" per spiegare come «la Fede si fa opera». E infatti la Finanza andò, controllòe multò. Ma il proprietario resisteva. E allora «sabotate» ordinò letteralmente don Verzé prendendosi una pausa dalla pia esegesi neotestamentaria (pag. 123 sgg) del famoso «verbum caro factum est», il verbo si è fatto carne. E specificò: «Sabotate, ma state attenti all’asilo e ai cavalli che sono nostri». Il picciotto, che stavoltaè un ingegnere, lo rassicura: «Sarà sabotato il quadro elettrico, quindi i campi non potranno essere illuminati e quando gli "amici" andranno a fargli la proposta di acquisto, lui sarà in ginocchio...». "Gli amici", "in ginocchio"...: il linguaggio cristologico qui diventa cosco- massonico.
Qualche giorno dopo "l’ingegnere", che sembra il personaggio misterioso dei romanzi di Le Carrè, titolo nobile e funzione ignobile, spiega a un don Verzé in partenza: «Quando lei sarà in Brasile ci sarà del fuoco». Come si vede, è un dialogo in argot, allusivo al crimine e alla mafia. E infatti don Verzé indossa i gessati dei mafiosi di una volta, ha la faccia anonima dei veri malacarne, con il cappello che richiama la coppola ma la nega, e forse perché un prete capomafia poteva nascere solo nel Lombardo Veneto, nella terra dei "buli" e dei "bravi", la terra sì del cardinale Borromeo e di Manzoni ma anche della Colonna Infame, delle opere benedette da don Giussani, dell’investimento economico come pietas, del capitalismo dell’Opus dei. E infatti il titolo del dialogo tra Carlo Maria Martini e don Verzé è ’Siamo tutti nella stessa barca’ (non banca): «Eminenza, posso chiamarla eminente padre?» . E il cardinale: «Chiamami padre Carlo Maria Martini». Don Verzé recita la parte del piccolo uomo davanti al santo: «Amore, verità, libertà di scelta». È un libro tutto compunzione e incenso. Il cardinale lo lodae lo legittima: «Nessuno meglio di lei...», «capisco la sua posizione, don Luigi», «comprendo i suoi sentimenti», «trovo bella questa sua espressione». A quel tempo don Verzé è già chiacchierato ma molto potente, nessuno immagina che organizza attentati e distribuisce mazzette e che i suoi ospedali sono fondati su una corruzione enorme, ma certo i suoi lussi sono già evidenti, le sue spese folli non passano inosservate, i suoi uomini gestiscono misteriose società in mezzo mondo, dal Sudamerica alla Svizzera, hanno conti correnti i dappertutto, e don Verzé ha comprato un aereo e ne prenota un altro e tratta una intera flotta perché non vuole perdere tempo negli aeroporti, e tutti sanno che l’aereo è l’arma principe dei malavitosi e dei guerrieri.
Inoltre don Verzé non parla come un Marcinkus alle prese con la volatilità della finanza ma come un capobastone, un campiere che controlla il territorio: «La Moratti, l’ho convinta io a fare il sindaco», «il cardinale Tettamanzi l’ho fatto venire io a Milano» e Formigoni, che il faccendiere di don Verzé ospita nel suo yacht, è sotto controllo perché «l’abbiamo salvato noi». E Berlusconi «dono di Dio» è «legatissimo alla famiglia», anche se, «ha fatto qualche giro di valzer». Ecco: Dio non s i cura del sesso quando si fanno affari. Perché appunto il verbo si è fatto carne.
Ma non bisogna credere che don Verzé sia un ateo mascherato e che tutto quei suoi libri di dottrina siano solo copertura. È al contrario un devoto in missione mafiosa per conto di Dio perché le vie della provvidenza sono infinite e se c’è la necessità di un attentato, beh, Dio non è certo un moralista.
Don Verzé è come quei preti medievali che, convinti di essere illuminati dalla grazia, commettevano in nome di Dio ogni nefandezza, vivevano a statuto speciale, in sospensione dei peccati, in deroga. Del resto don Verzé non ha sedotto solo il cardinale Martini e tutta la credula Milano cattolica.
Come ogni rispettabile padrino aveva bisogno della copertura laica e dunque l’ha ingaggiata. Massimo Cacciari ed Ernesto Galli della Loggia sono due intelligenze di prima grandezza nella cultura italiana, di quelli che braccano e scovano e mettono alla gogna i vizi del paese, uno come grande vedetta lombarda e l’altro come doge dei mari del sapere, callido Ulisse di Venezia: «mio carissimo amico dell’anima» dice don Verzé. Eppure anche loro sono stati impaniati, sono caduti nella panie dell’imprenditore in Cristo, del Christusunternehmer, avrebbe detto Cacciari se non fosse stato professore e rettore della sua università. Anche il facondo Vendola, quello che scioglie in bocca le parole come caramelle ideologiche, non ha mai avvertito nel comparaggio per l’ospedale a Taranto il sentore dell’imbroglione in Cristo, e gli ha invece fornito la legittimazione della sua pregiata griffe di sinistra.
Vaticano, cultura laica e sinistra comunista: nessun mafioso siciliano era riuscito a superare tutti questi livelli. Con don Verzé siamo ben oltre i colletti bianchi. E certo la Chiesa se fosse coerente dovrebbe scomunicarlo come scomunicò quei quattro frati di Mazzarino che, unico caso nella storia della mafia, taglieggiavano i contadini, facevano caporalato, decidevano vita e morte, controllavano il territorio: trasformarono il loro convento in un covo di prepotenza. E quando, era il 1960, furono processati, turbarono gli animi degli italiani al punto che gli stessi giudici ebbero soggezione e si misero a somministrare gli ergastoli come fossero sacramenti. Ma la Chiesa - pensate, la Chiesa complice di allora - non ebbe pietà per quei sai sporcati e per quella mania di fra bruciare i terreni, proprio come ha fatto don Verzé, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.
* la Repubblica, 02 dicembre 2011
Torniamo sulla via di Betlemme
di Enzo Bianchi (La Stampa, 24 dicembre 2011)
«Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo». Questa esortazione della Lettera agli Ebrei - che fa riferimento alla vicenda di Abramo che a Mamre accolse tre pellegrini stranieri rivelatisi poi messaggeri di Dio - ci offre una chiave di lettura del Natale e del suo senso nella nostra società oggi.
Cosa sapevano gli abitanti di Betlemme di quella coppia in viaggio che cercava un riparo perché la donna incinta potesse partorire? Ne avessero sospettata l’identità, le avrebbero aperto le porte della loro casa, oppure si sarebbero limitati a tollerare che occupasse per un po’ una stalla in disuso? I pastori dei dintorni - gente emarginata nella società e nella comunità religiosa perché inadempienti agli obblighi cultuali e legali - mossi dalla spontanea solidarietà verso chi è costretto a pernottare all’aperto, decisero almeno di andare a vedere: e sappiamo tutti che, una volta che il nostro sguardo incrocia quello di una persona nel bisogno, ci è molto più difficile non prendercene cura... E quei tre sapienti di un’altra terra e di un’altra religione, cosa sapevano di quel bambino figlio di poveri?
Cercavano un re, un inviato da Dio e trovano una famiglia di emigranti... eppure non esitano a colmarla di doni regali. E quei due anziani al tempio di Gerusalemme, come potevano riconoscere in un primogenito, figlio di una famiglia anonima, riscattato con due tortore, offerta dei poveri, il Messia, l’atteso per secoli da tutto il popolo? Anche loro si limitano a prendere il piccolo tra le braccia, a tesserne le lodi, a immaginarne il futuro, come siamo portati a fare con qualsiasi neonato. Davvero un’apparizione nascosta, discreta, quotidiana, quella del figlio di Dio in mezzo alla sua famiglia, l’umanità intera: una presenza ordinaria che dice qualcosa in più solo a chi è disposto all’accoglienza.
Quest’anno molti vivono un Natale più difficile del solito, non solo in quei luoghi dove la vita è sempre faticosa o dove testimoniare la propria fede è sovente a rischio fino alla persecuzione, ma anche nel nostro Paese, con sempre più persone in ristrettezze economiche. Questo dato si interseca con una sorta di ambivalenza legata alle festività natalizie: da un lato siamo quasi naturalmente più disposti ad atteggiamenti di benevolenza verso il prossimo, di bontà, di riconciliazione; d’altro canto tendiamo a vivere questi sentimenti «tra noi», all’interno della ristretta cerchia degli intimi. Ambivalenza che rende ancor più pesante la solitudine e la sofferenza di chi non ha persone care attorno a cui stringersi, di chi le ha perse, di chi le ha lasciate lontano nella speranza di preparare un futuro migliore per loro... Sì, a Natale ci sentiamo tutti più buoni, ma verso chi vogliamo noi, verso chi decidiamo che sia destinatario del nostro affetto. E in tempo di difficoltà economiche la tentazione è quella di rinchiuderci ancora di più nei nostri piccoli nidi rassicuranti.
Solidarietà e accoglienza paiono a prima vista più difficili nelle stagioni dure, nei momenti di difficoltà, soprattutto per chi non le ha assunte come proprio habitus nei giorni più propizi. E invece la storia, anche quella «sacra» legata alla nascita di Gesù, ci insegna che proprio i poveri, i nomadi, i viandanti, gli emarginati, gli stranieri sono le persone più capaci di accoglienza, di apertura all’altro, di condivisione del poco di cui dispongono. E basta conoscerli, parlare con loro, lasciarsi accogliere da loro per sentirli narrare le meraviglie degli incontri gratuiti che hanno avuto: sono storie di ordinaria straordinarietà, vicende di rapporti nati nell’emergenza e divenuti amicizie solide, avventure di un momento burrascoso trasformatesi in storie di amore fedele. Forse questo Natale potrebbe insegnarci qualcosa in merito: nello straniero che abita a pochi isolati da noi e che incontriamo per strada, nel senzatetto che si rifugia tra i suoi cartoni, nei nuovi poveri in coda per un pasto caldo, nell’anziano che fatica a riscaldare la sua stanza c’è un essere umano portatore di vita e di speranza, ci sono un cuore, un corpo e una mente che desiderano comunione, c’è unapresenza dell’assenza lacerante della persona amata.
Chi può dire cosa troviamo se ci accostiamo all’altro senza pregiudizi e paure, se gli apriamo la porta del nostro cuore, se gli restituiamo quella dignità che è suo diritto inalienabile? Chi di noi ha guardato, dico «guardato», negli occhi un volto e si è sentito estraneo, soprattutto quando quel volto presenta i segni della sofferenza? Non lo si dimentichi: Dio si è mostrato in Gesù con tratti umanissimi perché ciò che era straordinario in Gesù non era nulla di religioso ma solo umano, umanissimo. Sì, Dio ha sembianze così umane che rischia di passare inosservato: per riconoscere l’altro in verità, l’unico sguardo lungimirante resta quello dell’accoglienza, oggi come a Betlemme duemila anni fa.
Letterina a Gesù Bambino
di Ermanno Olmi (Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2011)
Buon Natale, tanti auguri, felice anno nuovo! Cos’altro scrivere? In questa vigilia di Natale c’è in giro una gran brutta aria che neanche i cartoncini decorati degli auguri riescono a scongiurare. Nessuno può aiutarci a venirne fuori se non da noi stessi, tutti insieme, con le nostre forze. Ma anche confidando nell’aiuto dei sogni e delle belle favole. Come quella di Gesù Bambino a cui da piccolo anch’io scrivevo la mia letterina per confidargli i miei desideri.
Sono passati più di settantacinque anni. Una vita. E adesso che sono vecchio e le energie affievoliscono, ecco che torno ad aver ancora bisogno di sogni e belle favole. E allora, sommessamente, ma con un nuovo slancio, voglio scrivere a Gesù Bambino che non l’ho dimenticato. Certo: un po’ trascurato, questo sì.
Tuttavia Lui sa bene come vanno queste cose. Si comincia che quasi non ce ne si accorge e poi ci facciamo prendere dentro dai cambiamenti del mondo e un po’ alla volta si finisce col cambiare anche noi. E così è stato. Appena siamo diventati ricchi abbiamo cominciato a praticare i modi e le mode dell’agiatezza che sono cose, queste, che s’imparano subito e senza bisogno che qualcuno ci spieghi che coi soldi è comunque un gran bel vivere.
E tu invece, caro Gesù Bambino, che sei venuto al mondo in una stalla come l’ultimo dei poverelli, francamente non eri intonato a comparire in mezzo a quel lusso sfavillante delle nostre vetrine sempre traboccanti d’ogni bendidio.
Molto meglio Babbo Natale, ben più rappresentativo del nostro improvviso benessere con quel suo sgargiante costume rosso cocacola, che dispensa doni favolosi come mai s’erano visti prima. Anche questo è stato un sogno. E noi dentro quel sogno.
Ma oggi, una nuova realtà ci sorprende. Dopo tanti anni di spensieratezza, quasi da un giorno all’altro, ci dicono che non siamo più ricchi e che in realtà non lo siamo mai stati per davvero. O se anche lo siamo stati per un po’, non poteva durare per sempre.
A ripensarci, adesso sembra quasi che sia stata tutta una messinscena e anche Babbo Natale è ormai un attore secondario e s’è ridotto ad arrampicarsi lungo le facciate delle case, tanto da somigliare più a un ladro che a un fantoccione che porta regali...
Triste Natale del 2011. Natale di sacrifici. Ma non bisogna perdersi d’animo.
Intanto con mia moglie Loredana ci prepariamo ad accogliere i nostri tre figli che sono oramai degli adulti e vivono la loro vita altrove. Ma tornano sempre per il giorno di Natale. Non hanno mai mancato.
E come sempre ci ritroviamo tutti insieme intorno alla tavola imbandita, ciascuno al proprio posto, lo stesso che hanno sempre occupato fin da quand’erano piccoli. E così, anche solo per un giorno torniamo a essere la ’nostra famiglia’ e ogni anno che passa, questo sentimento, per me e Loredana, ci diventa sempre più caro.
E credo anche per loro.
Loredana ha cominciato per tempo a ornare la casa di luminarie, a incartare e infiocchettare i regali e a preparare il patè di fegatini che piace tanto ai bambini. Bambini? Per noi, nel giorno di Natale, sono sempre «i nostri bambini». E se anche la vedo un po’ affaticata, so che è felice. E anch’io lo sono. Eppure non dovrei, a causa di questi nostri giorni così carichi di incertezze per tutti, con tanta sofferenza nel mondo e disperazione, conflitti, odio e morte.
Caro Gesù Bambino, è forse per questo che dopo tanti anni ho sentito ancora il bisogno di scriverti questa mia letterina. Quante cose vorrei chiederti in regalo! Di quanto aiuto sentiamo ancora il bisogno di ricevere da te. E che tu solo puoi regalarci. Lo so bene che ascolti più volentieri ibambini perché hanno il cuore puro degli innocenti.
Ma se vorrai ascoltare anche noi che da troppo tempo abbiamo lasciato che il nostro cuore si chiudesse all’amore degli altri, lasciaci almeno la speranza di poterci mettere alla prova per diventare uomini di buona volontà e di pace.
Per questo ho deciso che da quest’anno riprenderò a fare il presepe ogni Natale. Loredana tirerà fuori dal ripostiglio lo scatolone con le statuine che tanto tempo fa avevamo modellato nella creta insieme ai bambini e quest’anno, inaspettatamente, se lo troveranno lì, sotto gli occhi e io, da poco distante, li spierò mentre loro, senza darlo a vedere, ne sono sicuro, tratterranno un brivido di commozione.
Poi, prima che faccia buio, quando i figli se ne saranno già andati, Loredana e io saremo nuovamente soli. Adesso lei comincia a sentire la stanchezza e si stende sul divano a vedere un po’ di televisione. Ma so bene che più della stanchezza deve scacciare la malinconia.
E io, per lasciarla sola, rimango in cucina a dare un’occhiata ai giornali, sempre più o meno con gli stessi titoli di ieri e l’altrieri, di domani e posdomani. Il mondo è sempre più a rischio di un inceppo totale e non si fa che ripetere l’inutile ammonimento: promuovere sviluppo, rilanciare la crescita, produrre nuova ricchezza.
Caro Bambinello Gesù, lo vedi? Tu li conosci bene gli uomini. Non impareranno mai. Siamo dentro a una situazione talmente disastrosa che chissà come andrà a finire e nonostante l’evidenza si pensa ancora di risolvere i problemi con gli stessi criteri, ripetendo i medesimi errori.
Non vogliono capire che la sola salvezza è nella povertà come tu ci hai mostrato. Povertà come virtù. Che non è la miseria, bensì la liberazione dal superfluo, una ritrovata misura del necessario. E se ricomiciassimo di nuovo dal gesto che smuove la zolla? Lascio la lettura del giornale e mi avvicino al presepio. Guardo il Bambinello e gli parlo.
«Quando il mondo era in attesa della tua venuta, l’annuncio proclamava il tuo arrivo alla testa di schiere di angeli come un esercito celeste. Sei arrivato fra noi in silenzio, in disparte, senza gli onori dei potenti. Ti sei mostrato agli umili e ci hai narrato la più bella delle favole: la favola dove l’amore è la realtà più vera e di tutti, con giustizia».
di Luisa Muraro ("Alias”, 24 dicembre 2011)
Maria di Nazaret (Palestina) è tornata di moda. Dico tornata perché chi sa un po’ di storia religiosa la conosce come una figura che si è regolarmente prestata a interpretare esigenze del momento, provenienti dall’alto e dal basso, da destra e da sinistra.
La sua carriera comincia prestissimo, alle nozze di Cana, quando si accorge che manca il vino e chiede al figlio di provvedere. Il culmine lo raggiunge nel Concilio di Efeso, quinto secolo, quando i padri conciliari le danno il titolo di madre di Dio. Chi ha lottato per questo risultato?
Sorpresa, quel Cirillo di Alessandria al quale gli storici imputano una parte di responsabilità nell’uccisione della filosofa neoplatonica Ipazia. Cirillo era un politico spregiudicato,ma anche buon teologo. A lui interessava essenzialmente la dottrina su Gesù e la sua identità: doppia (uomo e dio) o una? Una, sosteneva Cirillo, quella divina; il titolo dato a Maria veniva di conseguenza. Non è finita lì, le peripezie continueranno, una storia in cui si trova di tutto, pensate soltanto alla Porta di Gaudí (la natività) nella Sagrada Familia di Barcellona, che fu concepita per recuperare alla religione le famiglie operaie.
La Maria di moda ai nostri giorni trionfa con il femminismo che combatte il patriarcato ancora annidato nella religione. Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico,ma anche le agnostiche si sono dedicate e strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti), che ha convocato una schiera di amici a commentare il canto che Luca mette in bocca a Maria. Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini.
Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni ’80, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso: memorabile quel numero della rivista “Inchiesta” (1989) da lei curato, Il divino concepito da noi, con numerosi testi mariani. Per i nostri giorni penso a Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente. Riaffiora a questo punto il titolo esorbitante dato a Maria dai padri conciliari di Efeso: madre di Dio. E perché non Dio lei stessa? La donna che dà corpo a Dio, come non vedere Dio nel suo, di lei, corpo? Mi pare che ci sia una sentenza dell’ex Sant’Uffizio che vieta di pensarlo, ma come fermare le idee? Solo la mediocrità e la paura fermano le idee, altrimenti premono per svilupparsi.
Teresa di Lisieux (una femminista, qualcuno ha scritto di lei) va in quella direzione. In una sua poesia di meditazione sulla Vergine che allatta Gesù, dice: il serafino contempla Dio faccia a faccia, beato lui, io su questa terra che cosa posso vedere? un’ostia bianca come il latte... Ecco che cosa io posso vedere e godere: il latte della Vergine. Cirillo, vescovo di Alessandria e padre della Chiesa, aveva altro in testa, indubbiamente, ma la umana testa, per quanto robusta, sarebbe limitata, la fa grande e libera che la teniamo aperta al soffio delle idee.