Il sindaco difende la tutela dei diritti civili senza discriminazioni
Pisapia: “Nessun credo va privilegiato rivendico l’autonomia della politica”
di Alessia Gallione (la Repubblica, 7.12.2012)
MILANO - Accogliendo il Papa in città la scorsa estate, Giuliano Pisapia rivendicò l’autonomia delle decisioni della politica. «Ed è quello che continuerò a fare», dice il sindaco. Che aggiunge: «È giusto confrontarsi e riflettere, ma io non penso di possedere la verità e chiedo che, anche chi è profondamente credente, non ritenga di avere la verità assoluta. Lo dico soprattutto per quelle scelte individuali che riguardano la propria vita, anche se questo non deve limitare i diritti altrui».
Crede, come sostiene Scola, che la laicità dello Stato sia una minaccia per la libertà religiosa?
«Il suo discorso sarà per me motivo di riflessione, ma non mi convince la sua posizione negativa sulla “neutralità” dello Stato. Forse bisogna intendersi sul concetto di neutralità: lo Stato non deve essere confessionale, ma deve fare di tutto per rendere effettivo il principio costituzionale della libertà di professare liberamente la propria fede, serve una equidistanza tra tutte le religioni. Il diritto di professare il proprio credo non deve portare a discriminazioni né privilegiare una religione anche se maggioritaria. In Italia, dobbiamo fare ancora molti passi in avanti ed è per questo che, a Milano, stiamo lavorando per dare vita a un albo delle associazioni e organizzazioni religiose che permetta a tutti di avere gli spazi adeguati per potersi riunire».
La laicità alla francese sarebbe davvero un male?
«Credo che la laicità dello Stato sia un dovere, ma uno Stato profondamente laico deve dare a ognuno la possibilità di esprimere i propri valori e la propria fede».
Milano ha istituito il registro delle coppie di fatto e potrebbe avviare quello di fine vita. Si è sentito chiamato in causa da Scola?
«No, assolutamente. Proprio l’equivicinanza alle religioni comporta che bisogna garantire a tutti, anche ai non credenti, la possibilità di esercitare i propri diritti senza essere discriminati. Il cardinale dice che la libertà religiosa “è ai primi posti nella scala dei diritti”. Io dico che tutti i diritti sono al primo posto nella scala dei valori. Milano continuerà sulla strada dei diritti civili, con la profonda convinzione che non solo non contrasta con la libertà religiosa, ma la rafforza».
Non teme un rapporto conflittuale con la Curia?
«In realtà, no. Quando il Comune ha preso decisioni non condivise dalla Curia, ci sono state comprensibili e legittime prese di posizioni, ma nessun tentativo di bloccare scelte democratiche. Sono molto fiducioso che il confronto e il dialogo continueranno, pur nelle reciproche diversità. Forse, chi crede in una religione - qualunque essa sia - è convinto che quella sia la verità. La differenza, per quanto mi riguarda, è che su certi temi mi pongo sempre il dubbio sulla base della realtà e non di un’indicazione che viene dall’alto. C’è però un passaggio del discorso che condivido pienamente ».
Quale?
«È quello che mette in relazione la libertà religiosa e la pace sociale. Il dialogo e la comprensione tra diverse confessione favoriscono la pace dentro una comunità e tra le diverse comunità. Questa coesione sociale, anche tra fedi e culture diverse, è un obiettivo a cui tutti dovrebbero puntare, ma che alcune forze politiche purtroppo non auspicano».
Chiesa
IL PATRONO
Sant’Ambrogio: omelia del cardinale Scola
(Avvenire, 8 dicembre 2012)
1. La fedeltà all’Alleanza genera un popolo
«Dio fece posare sul suo capo... la sua alleanza» (Lettura, Sir 44,23). La Liturgia onora Ambrogio con il bel brano tratto dal Libro del Siracide. Ma come la grandezza del sommo sacerdote, così anche quella di Ambrogio, non si basa anzitutto sulle sue doti umane, culturali e sociali, ma sulla fedeltà all’Alleanza che Dio ha stabilito con lui. Fin dall’Antico Testamento l’Alleanza è la forma della reciproca appartenenza tra Dio e l’uomo. Essa ha nel nostro padre Ambrogio, generatore di un popolo di cui noi siamo gli eredi, un intramontabile paradigma.
2. Appartenenza non è possesso
Tuttavia è soprattutto Gesù, il Buon Pastore, a generare il Suo popolo, la Chiesa. In che modo? Lo abbiamo appena ascoltato: «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - ... abbandona le pecore e fugge... perché... non gli importa delle pecore» (Vangelo, Gv 10, 11-13). Con queste parole il Santo Vangelo ci aiuta a comprendere che il rapporto tra il buon pastore ed il gregge non è di possesso, ma appunto di appartenenza. Apparteniamo a Gesù e questo ci fa liberi.
«Per il brigante [il mercenario], per gli ideologi e i dittatori, gli uomini sono soltanto un oggetto che essi possiedono. Per il vero pastore, invece, sono esseri liberi in vista della verità e dell’amore» (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret 1, p 326). Ogni sposo e ogni sposa, ogni madre ed ogni padre, ogni educatore, insomma: ogni autorità è chiamata a farne esperienza quotidiana. Lo dovremmo essere, soprattutto, noi cristiani che, qui a Milano, fin dai tempi di Sant’Ambrogio, siamo stati educati a difendere e custodire la libertà di ogni singolo uomo e dell’intero popolo di Dio: «In qualsiasi stato di schiavitù è sempre libero colui che [...] guarda sicuro il presente e non è atterrito dal futuro» (Sant’Ambrogio, De Joseph).
Quando dunque, nello statuto del Comune di Milano (art. 4, comma 1), si stabilisce che sul gonfalone ufficiale della città sia rappresentato Ambrogio “vescovo eletto dal popolo”, ritroviamo semplicemente, ai giorni nostri, questa decisiva idea di libertà che affonda le sue radici nella storia della città.
Un’occasione privilegiata per riproporre questa felice tradizione di pensiero e di azione è «l’anniversario dell’editto di Costantino del 313... [alla cui costruttiva memoria ieri, in occasione dei Vesperi solenni, abbiamo come Chiesa ambrosiana ufficialmente dato inizio] È l’occasione non solo per riprendere il tema della libertà religiosa, ma anche per una riflessione, da condividere pacatamente con tutte le persone e istituzioni disponibili, sulla rilevanza pubblica della religione e sul bene per l’intera società di una comunità cristiana viva, unita, disponibile a farsi protagonista nel tessuto sociale secondo la sua specifica vocazione e secondo una idea di società democratica che anche i cristiani hanno contribuito a costruire e devono contribuire a rinnovare» (Lettera pastorale, 12.4 c).
3. Conoscenza e dono totale di sé
«Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore» (Vangelo, Gv 10,14-15). In questo passaggio evangelico le due parole, così come, sono decisive. Stabiliscono un nesso tra la forma di conoscenza reciproca che avviene tra Gesù ed il Padre e quella tra Gesù, Buon Pastore, e noi. Da questa conoscenza scaturisce il dono totale di sé . Conoscenza reciproca e dono di sé generano l’amore oggettivo ed effettivo. La nostra fede ce lo mostra nella persona e nella vita di Gesù che, vigilanti, aspettiamo in questo tempo di Avvento. Gesù è Misericordia, il vertice dell’amore, donata dal Padre per la potenza dello Spirito Santo a tutti gli uomini. Siccome Gesù ci conosce e si dona a noi, anche noi, nonostante i nostri limiti, possiamo farne esperienza. Per esempio la famiglia, l’unione stabile, fedele e aperta alla vita tra l’uomo e la donna, ad un tempo Chiesa domestica e cellula fondamentale e irrinunciabile della società, ci educa al “bell’amore”.
4. La missio ad gentes, orizzonte e paradigma di ogni comunità cristiana
Questa profonda conoscenza nel dono di sé, propria del Buon Pastore, spalanca al senso compiuto della vita. Nelle nostre terre, ancora oggi, lo impariamo fin da bambini con la cosiddetta “iniziazione cristiana”.
Il significato e la direzione di cammino che la fede imprime all’esistenza non ha confini, è universale. Lo ricorda l’Apostolo nell’Epistola: «Leggendo ciò che ho scritto, potete rendervi conto della comprensione che io ho del mistero di Cristo: [Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che] le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo» (Epistola, Ef 3,4-6). L’autore di questa chiamata è Dio stesso. Non è possibile porre limiti alla chiamata di Dio, non è possibile confinare il respiro universale della Chiesa nelle maglie strette della nostra povera misura. La grave situazione di travaglio antropologico e di crisi socio-economica in cui ci troviamo a vivere chiede a tutti i milanesi, in questa solennità, un impegno più deciso a “superare i confini della nostra misura”. Un impegno che si converta in un atteggiamento abituale - in una “virtù” - del nostro operare e vivere in società. Un respiro universale che ci fa costruttori della civiltà dell’amore.
5. Affidamento a Maria
Col nostro padre Ambrogio rivolgiamo ora lo sguardo verso Maria Immacolata, il cui mistero celebreremo solennemente domani. A questo ci invita l’amato Santo Patrono: «Ci sia in ciascuno l’anima di Maria per magnificare il Signore, ci sia in ciascuno lo spirito di Maria per esultare in Dio» (Sant’Ambrogio, Exp. in Luc. 2,26: PL 15, 1642). Amen
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il cardinale Scola e i Fratelli Musulmani
di Alessandro Esposito (MicroMega, 10 dicembre 2012)
Con l’auspicato passo indietro del presidente egiziano Morsi, che ha deciso di revocare il decreto mediante il quale si auto-conferiva poteri assoluti, i nodi nevralgici che stanno alla base del conflitto che oppone i Fratelli Musulmani allo schieramento laico rappresentato dal Fronte di Salvezza Nazionale non vengono in alcun modo sciolti. Difatti il referendum sulla nuova Costituzione, previsto per sabato 15 dicembre, non è stato sospeso: la bozza costituzionale, approvata nell’arco di una seduta fiume dell’Assemblea Costituente durata ben 16 ore, demanda all’università islamica di Al Ahzar, massima autorità dell’islam sunnita, «la decisione di interpretare, senza appello, i princìpi della shahrìa (le leggi coraniche) da applicare».[1]
Il rischio, dunque, che la tanto sospirata primavera araba venga in tal modo soffocata sul nascere è reale e imminente: e ciò persino in un Paese come l’Egitto che, anche sotto il regime di Mubarak, si era comunque contraddistinto a motivo dei suoi ordinamenti improntati alla laicità.
Sebbene ad alcuni l’analogia parrà fuori luogo, nei suoi contenuti fondamentali il discorso tenuto dal cardinale Angelo Scola in occasione della tradizionale apertura dell’anno ambrosiano non si discosta dalle richieste inoltrate al presidente Morsi dalla Fratellanza Musulmana, volte alla tutela del diritto religioso da parte della Costituzione.
Con un’impostazione degna del più retrivo dei sistemi medievali di stampo tomista, completamente indifferente ai progressi del dibattito filosofico e teologico seguito all’illuminismo e ai risultati derivanti dalla ormai centenaria ricerca storicoesegetica, il noto porporato auspica il ritorno ad un sistema legislativo che contenga il «riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute (...) come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte».[2]
Il quadro interpretativo di riferimento è fornito dall’editto di Milano del 313, attraverso il quale l’imperatore romano Costantino sancì la liceità della religione cristiana che poco più avanti, con l’editto di Tessalonica promulgato dall’imperatore Teodosio, diventerà religione ufficiale dell’impero, dichiarando al contempo illecite le tradizioni religiose non cristiane e definendo persino come crimine pubblicamente perseguibile l’eresia ariana.[3]
Questa, infatti, sembra essere la nozione di libertà religiosa (rigorosamente intesa come la propria libertà) propugnata dal cattolicesimo intransigente: un’accezione in cui, come ricorda opportunamente Vito Mancuso, non è in alcun modo contemplata «la libertà di altri».[4] La Costituzione, in tal modo, dovrebbe rivestire la funzione di ancilla fidei che Tommaso d’Aquino riconosceva alla filosofia e abdicare al suo ruolo di tutela della libertà religiosa garantita dal principio inamovibile di laicità dello Stato.
L’insistenza vaticana concerne «l’importanza e l’utilità della dimensione pubblica della fede»[5] e si concentra, nelle parole del cardinale, su una critica del modello legislativo francese che, a suo giudizio, determina il fatto che «lo stato cosiddetto “neutrale”, lungi dall’essere tale, fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti di altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili, tendendo ad emarginarle».[6] Nessun accenno al fatto che tutte le conquiste delle moderne democrazie siano attribuibili proprio alla tanto deprecata secolarizzazione e non certo al controllo delle coscienze che le gerarchie vaticane vorrebbero continuare ad esercitare, con l’auspicio di vederlo persino sancito dalla carta costituzionale.
L’avvicendamento nella sede episcopale che fu prima quella del cardinal Martini e poi di Dionigi Tettamanzi, ambedue espressione di un cattolicesimo progressista figlio del Concilio Vaticano II, la dice lunga sul giro di vite che da Oltretevere si intende dare rispetto alle aperture della diocesi milanese: il diktat è quello improntato al desiderio di restaurazione che è sotteso alla politica vaticana portata avanti sotto gli ultimi due pontificati, ispirata alla demonizzazione di tutte le istanze laiche messa in atto dall’impostazione illiberale propria del Sillabo.
Ecco perché sempre più lontano appare l’orizzonte delineato dal filosofo e psicologo Umberto Galimberti, nel quale «l’uomo potrà avviarsi là dove è già da sempre chiamato e da cui recalcitra ogni volta che, valutando le cose a partire dalla propria fede, risolve l’Aperto nel chiuso delle sue valutazioni (...) in quel recinto dove non c’è più traccia né frammento di avvenire. Ma per incamminarsi alla ricerca di quella via occorre retrocedere da tutte le etiche religiose e dal loro integralismo».[7] Non si offenda il cardinale Scola se queste, assai più delle sue, sono parole di fronte alle quali sento di poter dire davvero: amen.
Alessandro Esposito (10 dicembre 2012)
[1] Tratto dall’articolo di Bernardo Valli: La Costituzione che divide l’Egitto, apparso sulle colonne de La Repubblica di venerdì 7 dicembre 2012.
[2] Il testo integrale del discorso del cardinale Scola si può consultare sull’eccellente rassegna stampa curata dai responsabili del sito: www.finesetimana.org.
[3] Per una disamina di questo «secolo breve» che determinò l’involuzione del cristianesimo in senso istituzionale e dogmatico, si veda il recente e documentatissimo studio del professor Giovanni Filoramo: La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Laterza, Roma, 2011
[4] Vito Mancuso: Scola, lo Stato laico e la libertà religiosa, apparso sulle colonne del quotidiano La Repubblica di venerdì 7 dicembre.
[5] Tratto dal discorso del cardinale Scola: L’Editto di Milano: initium libertatis, del 6 dicembre 2012, consultabile sulla rassegna stampa curata dai responsabili del sito: www.finesettimana.org.
[6] Ibidem
[7] Tratto da: Umberto Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Feltrinelli, Milano, 2012, pag. 87.
Papa benedice promotrice legge che prevede pena di morte per gay in Uganda
di Redazione *
Una legge contro l’omosessualità - da approvare - che tra le ipotesi prevede la pena di morte. Succede in Uganda, uno dei 37 paesi nel mondo che considerano nel loro codice penale l’essere gay un reato. Il presidente del parlamento ugandese, Rebecca Kadaga, lo scorso 12 novembre aveva annunciato che questa norma sarebbe stata un ”regalo di Natale” per tutti gli ugandesi anti gay. La signora, come si legge sul sito del parlamento del paese africano, è stata ricevuta e benedetta ieri dal Papa che oggi, nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace, ha definito i tentativi di accomunare i matrimoni gay a quelli fra uomo e donna “un’offesa contro la verità della persona umana” e “una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”. Nella foto si vede Benedetto XVI accanto alla speaker.
La legge anti-gay, “The Kill gay bill” duramente contestata, potrebbe essere approvata nei prossimi giorni e per questo sta crescendo la pressione del popolo del web. L’ultimo dato relativo alla petizione on line è che oltre un milione di persone hanno firmato l’appello promosso dalla web community Avaaz.org; “Ultime ore per fermare l’orribile legge anti-gay in Uganda” si legge sulla home page. “Chiediamo ai leader dell’Uganda e ai suoi maggiori paesi partner di unirsi a noi nel condannare ogni persecuzione e difendere i valori della giustizia e della tolleranza”, si legge nel testo della petizione.
Il disegno di legge, presentato dal deputato David Bahati, propone pene detentive più lunghe per gli atti omosessuali rispetto a quelle attualmente in vigore, tra cui l’ergastolo, ma nella sua bozza originale era prevista anche la pena di morte nei casi di omosessualità aggravata; se a commettere il reato per esempio è un malato di Hiv o se si hanno rapporti con minorenni. Nel presentare la legge la Kadaga, lo scorso 12 novembre aveva annunciato che sarebbe stata un ”regalo di Natale”. Il testo, definito lo scorso anno ”odioso” dal presidente americano Barack Obama, ha già scatenato una serie di proteste da parte di alcuni leader mondiali che hanno minacciato di sospendere gli aiuti in favore di Kampala. Chi dovesse vivere con una persona del suo stesso sesso, in caso di approvazione della legge, rischierebbe 14 anni di galera.
“Quello che oggi papa Benedetto XVI ha anticipato quale messaggio per la Giornata Mondiale della Pace che si celebrerà l’1 gennaio 2013 è probabilmente il peggiore di sempre: arma infatti gli omofobi di tutti i paesi con un invito ad una crociata senza quartiere contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso” commenta Flavio Romani, presidente nazionale Arcigay, secondo il quale “leggere pero’ nelle altisonanti parole del pontefice che il matrimonio tra persone dello stesso sesso è una minaccia per la giustizia e per la pace, oltre a qualificare da sé il messaggio, testimonia l’assenza di argomentazioni realistiche e sensate da parte della Chiesa Cattolica sull’argomento”.
Per Romani “il matrimonio anche per gay e lesbiche ha vinto e si sta affermando in tutto il mondo, in paesi governati sia da conservatori che da progressisti, e arriverà anche in Italia, al di la’ di questo canto del cigno. Certo, dopo il laico pronunciamento di ieri del Parlamento europeo a favore di unioni civili e matrimonio per persone dello stesso sesso votato democraticamente a maggioranza, non ci attendevamo di meglio da una teocrazia che rincorre su questi temi il peggior integralismo.
Il messaggio anticipato oggi è tristemente coerente con la benedizione data ieri in Vaticano alla delegazione parlamentare ugandese guidata dalla portavoce Rebecca Kadaga, una delle più forti promotrici della ‘Kill the Gay Bill’, la legge che il parlamento ugandese si appresta ad approvare e che prevede la pena di morte per ‘omosessualità aggravata’. Con queste due azioni - conclude - Benedetto XVI continua a rappresentarsi come un apostolo di ingiustizia, divisione e discriminazione ai danni delle persone omosessuali, lesbiche e transessuali. E’ necessario che la società civile e i rappresentanti politici, a tutti i livelli, facciano sentire le loro parole di condanna di fronte ad atti e parole così gravi”.
*Il Fatto Quotidiano 14 dicembre 2012
Le parole contro i gay allontanano la pace
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2012)
Benedetto XVI si lancia nuovamente contro i matrimoni gay. Legittimarli, afferma, sarebbe una “ferita grave contro la giustizia e la pace”. Così “il Papa alimenta l’odio contro i gay”, ha replicato d’impeto Paola Concia, perché sono “parole pericolose, che esprimono qualcosa di profondamente violento”. Dice la parlamentare pidiellina che rappresentare come minaccia “noi cittadini, che siamo senza diritti, significa fomentare aggressività contro i gay”.
Si fa fatica a comprendere l’urgenza di inserire una frase così dura - inevitabilmente destinata a ferire in primo luogo i gay credenti e portata al paradosso di indicare come nemica della pace una coppia omosessuale - nel tradizionale Messaggio per la giornata della pace inviato ogni anno alla comunità diplomatica. Stride con il suo motto “Beati i costruttori di pace” né si amalgama con l’ampiezza dei temi di un documento, incentrato sulla convivenza in un mondo percorso da forti tensioni sociali. Ormai è una guerra sistematica, quella condotta da Benedetto XVI sui principi che già da cardinale definì “non negoziabili”. Il fatto è che - si tratti di unioni civili o di matrimoni gay - le società contemporanee e la gran massa dei credenti contemporanei si sono lasciati alle spalle l’idea dell’omosessualità come perversione. Persino uno scrittore cattolico osservante come Messori ha dichiarato che le persone omosessuali non possono essere considerate uno “scarto” nel progetto divino.
Gli anatemi rivelano in realtà l’allarme vaticano per l’estendersi dei matrimoni gay in paesi cattolicissimi come la Spagna, il Portogallo, l’Argentina e - da pochi giorni - anche l’Uraguay, dove la Camera dei deputati ha approvato la nuova legge con 81 sì su 87 voti. (La legge passa ora al Senato uruguayano).
Con l’occhio alla prossima legislatura il Gay Center italiano si augura che le “parole del Papa non suonino per la politica in Italia come un diktat”, perché le unioni gay non “minacciano” la famiglia. Nel Messaggio il pontefice ribadisce che il matrimonio è solo “fra un uomo e una donna” e volerlo rendere giuridicamente equivalente a “forme radicalmente diverse di unione...(è) un’ offesa contro la verità della persona umana”. Su questa linea Benedetto XVI si scaglia contro il “preteso diritto all’aborto e all’eutanasia”, esclamando che “chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita”. Comunque, il pontefice esorta governi e parlamenti a riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza agli operatori chiamati a occuparsi di aborti ed eutanasia.
Consapevole degli echi polemici, l’Osservatore Romano interviene con un editoriale del direttore Giovanni Maria Vian, secondo cui la “Chiesa non è affatto isolata nell’esprimere preoccupazione e dissenso sulle nozze gay”. In Francia, dove Hollande sta introducendo i matrimoni gay, afferma Vian, stanno convergendo con le posizioni cattoliche ortodossi, protestanti, ebrei, musulmani e intellettuali laici. La guerra vaticana contro le unioni gay mette in ombra - ed è un peccato - la forte denuncia del Messaggio nei confronti della crescente svalutazione dei diritti dei lavoratori rispetto ad un “mercato” idolatrato.
Benedetto XVI usa parole che Raffaele Bonanni si vergognerebbe di pronunciare: “Sempre più il lavoro e il giusto riconoscimento dello statuto giuridico dei lavoratori non vengono adeguatamente valorizzati, perché lo sviluppo economico dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà dei mercati”. Per il pontefice è negativo che il lavoro sia “considerato una variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari”.
Al contrario per ragioni socio-economiche e politiche e soprattutto in nome della dignità dell’uomo bisogna “perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro, o del suo mantenimento, per tuttì”. Non è accettabile che in un’ottica egoistica ed individualistica di massimizzazione del profitto e del consumo si vogliano “valutare le persone solo per la loro capacità di rispondere alle esigenze della competitività”
I “cattolicisti”: quando la fede serve al potere
di Furio Colombo (il Fatto, 9.12.2012)
Discorso storico del cardinale di Milano su un evento che sconvolge il mondo. Il Prelato annuncia che lo Stato minaccia Dio. Quale Stato? Ma qualunque Stato laico, inclusi gli Stati Uniti di Obama. Non una parola sugli Stati in cui vige la Sharia, ovvero una religione, quella islamica, come legge civile e penale. Non una parola sulla bambina Malala, che è stata quasi uccisa in Pakistan (Paese che ha molti problemi ma che trabocca di Dio, nel senso di Scola) per avere sostenuto il diritto delle bambine ad andare a scuola, diritto negato - secondo gli Scola locali - dal Dio di quel Paese.
Noto che il cardinale di Milano dichiara subito che “la laicità dello Stato minaccia la libertà religiosa”. Usa la stessa parola (inspiegabile, dal punto di vista logico) che i cattolici estremisti usano per condannare le coppie di fatto, come se fossero un pericolo per le altre famiglie.
Mi riferisco a un “discorso alla città di Milano” nella ricorrenza dell’Editto di Costantino (312 d. C.) interpretato come l’inizio della libertà del culto cristiano (che invece apre il percorso ad altri editti che porteranno al più violento e rigido divieto di ogni altra pratica religiosa che non sia il cristianesimo.
USERÒ, come interprete delle parole di Scola, il teologo Vito Mancuso: “Per Scola occorre ripensare una visione culturalmente in grado di sostenere i cosiddetti valori non negoziabili cari a Benedetto XVI, cioè vita, scuola, famiglia, da intendersi alla maniera del magistero cattolico attuale, che non è detto che coincida con il vero senso del cristianesimo” (Repubblica, 7 dicembre 2012).
L’ultima frase di questa citazione di Mancuso è confermata e illustrata da un libro di Carlo Casini (Movimento per la vita) dal curioso titolo Non li dimentichiamo. Viaggio fra i bambini non nati. “Non è un libro di fantascienza o un thriller alla Stephen King. ma un testo di presunta ortodossia cattolica. Interessante, infatti, notare che l’autore del libro cerca prove e sostegni per l’“identità giuridica” di embrioni e feti non dalla teologia cristiana (non ne troverebbe) ma in una personale interpretazione della Convenzione Onu sui diritti dell’Infanzia.
Ecco il marchingegno La Carta, ovviamente protegge non solo i bambini nati ma anche le mamme incinte. Carlo Casini pensa che ciò significhi che l’Onu funziona e agisce nel vasto territorio non solo dei non ancora nati, ma dei mai nati e dell’universo non identificabile degli embrioni. Ed esclude del tutto dalla sua interpretazione della Carta dell’Onu ogni protezione del diritto delle donne alla tutela del proprio corpo e delle possibilità di sopravvivenza.
COME SI VEDE, il cardinale Scola, nella solenne occasione del discorso di Milano, si muove con le stesse parole e allo stesso livello del libro inventato alla svelta per l’occasione dal Movimento per la vita, ovvero fuori dalla storia, fuori dalle leggi dei Paesi democratici e fuori dalla Costituzione Italiana. Vito Mancuso ci dice che tutto ciò avviene anche fuori “dal vero senso del cristianesimo”. Credere o non credere è la grande scelta privata e individuale.
Ma resta lo stupore e l’imbarazzo per ciò che Scola ha detto come capo della Chiesa di Milano. Ha detto che “lo scontro non è tra fede e istituzioni civili. Le divisioni più profonde sono quelle fra cultura secolarista e fenomeno religioso e non, come spesso erroneamente si pensa, tra credenti di fedi diverse. “Infatti - aggiunge - sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde una cultura priva di apertura al trascendente”. La frase è arrischiata, perché il solo sistema giuridico fondato sulla trascendenza - nel senso detto e pensato dal Vescovo di Milano - è la legge detta Sharia, un’ortodossia cieca che si avvinghia alla politica, intende dominarla, e tormenta alcuni Paesi islamici bloccando ogni passaggio ai diritti umani e civili.
In che modo l’apertura obbligatoria alla trascendenza, invocata dal Cardinale Scola per le istituzioni pubbliche italiane, sarebbe diversa dalla imposizione paleo-islamica contro cui tante donne e uomini di molti Paesi islamici si battono? Coloro che si oppongono, nella vita e nella cultura italiana, al fondamentalismo ormai ufficiale della Chiesa romana, sono definiti, come è noto, “laicisti”. La parola descrive in modo sprezzante una categoria culturale e politica inferiore (“laici” sono coloro che accettano gentilmente che il cadavere di Welby venga lasciato fuori dalle porte chiuse di una chiesa e privato del funerale della sua fede) a cui non si deve prestare alcuna attenzione.
SI USI ALLORA, per chiarezza nei confronti dei credenti, la parola “cattolicista” per definire tutti coloro, cardinali e no, che usano la religione e la fede come strumento per governare. È storia italiana da decenni. Dovunque si veda o si creda di vedere una promessa di protezione della gerarchia ecclesiastica per un partito o per un potere, subito si raccoglie una folla di cattolicisti, travestiti da fervidi credenti e impegnati a cercare e affermare le loro radici cristiane mentre lasciano morire a migliaia gli immigrati in mare.
Ecco dunque il vero punto di scontro evocato dal Cardinale Scola. Il Vescovo di Milano include tra i veri nemici della trascendenza il presidente americano Obama che vuole estendere il diritto alle cure mediche gratuite anche alle donne in caso di aborto. Alcuni giorni fa un padre gesuita che stava ascoltando questi miei argomenti in un incontro pubblico, mi ha dato la frase giusta per concludere: “Ricordi, però, che la Chiesa non sono soltanto i cardinali”.
Il cardinale Scola tra il Medioevo e l’America
di Massimo Faggioli (L’Huffington Post, 7 dicembre 2012)
Il cardinale di Milano, Angelo Scola, è il più ascoltato tra i vescovi italiani, e per buone ragioni: ciellino intelligente, ha scritto cose di valore e non cortigiane sulla teologia di Giovanni Paolo II, e i suoi discorsi sono raramente di circostanza, anche quando le circostanze lo permetterebbero.
Il discorso tenuto a Milano di fronte al sindaco Pisapia per la festa di sant’Ambrogio ha toccato un nervo scoperto della chiesa cattolica, quello dei rapporti tra la dimensione secolare e laica dello Stato moderno in Occidente e la pretesa del cattolicesimo di farsi interprete di una “sana laicità” che per certi cattolici non è mai abbastanza sana. Si sbaglierebbe però a bollare il discorso del cardinale Scola come il manifesto di un cattolicesimo talebanizzante. C’è una parte originale del discorso che descrive il rapporto tra visioni della vita in Occidente non come una coesistenza tra religioni diverse, ma come un confronto-scontro “tra cultura secolarista e fenomeno religioso”, e che ricorda come l’attacco alla libertà religiosa sia, in alcune aree del mondo contemporaneo, uno dei segni dei tempi.
Ma la parte più discutibile del discorso, non solo dal punto di vista politico ma anche storico, è quella che attiene all’uso della parola stessa “laicità”: nel suo discorso il cardinale la usa una volta sola per associarla all’imperatore Costantino (del cui celebre “editto di Milano” del 313 stanno per iniziare le celebrazioni), facendo dell’imperatore Costantino un assai improbabile eroe della libertà religiosa. Nel resto del discorso Scola parla di laicitè alla francese, e significativamente non articola la differenza sostanziale che esiste tra il concetto medievale di libertas Ecclesiae come “libertà della chiesa” da una parte e l’idea di “libertà religiosa” definita dal concilio Vaticano II meno di cinquant’anni fa, nel 1965.
Questo silenzio deriva da una delle malattie del cattolicesimo contemporaneo, un neo-americanismo che è l’altra faccia dello spauracchio della Rivoluzione francese - il fantasma che agita la chiesa di Roma quando essa viene messa di fronte ad una società in evoluzione: alle rivoluzioni democratiche di metà ottocento in Europa come alla questione dello schiavismo e della segregazione razziale in America tra nel secolo che va tra il 1860 e i “sixties”.
Se l’attacco di Scola alla laicitè alla francese non significa necessariamente un auspicio al ritorno allo Stato confessionale, tuttavia prefigura uno Stato che rimanga aconfessionale ma nel quadro di un nuova idea di libertà religiosa, di una “laicità positiva” non neutrale di fronte al fatto religioso. Il modello è chiaramente quello statunitense.
Il neo-americanismo di Scola è trasparente anche dall’accenno nel discorso del cardinale alla “ferita alla libertà religiosa di cui parla la Conferenza episcopale degli Stati Uniti a proposito della riforma sanitaria di Obama”: è un americanismo tipico dei leader del cattolicesimo contemporaneo, chierici e laici, ed è un segnale interessante, specialmente se si tiene conto del retaggio anti-americano che faceva parte del pedigree dell’intellettuale cattolico europeo novecentesco. Ora siamo arrivati all’estremo opposto. Il problema è la validità di quel modello americano invocato ora da Scola, ma più volte lodato anche da papa Benedetto XVI.
I volonterosi americanisti italiani non sanno che è in crisi anche il modello americano, proposto come soluzione al male europeo del laicismo: gli Stati Uniti vivono di una “religione civile” che esige continui sacrifici (culturali e non solo) sconosciuti all’immaginario politico-religioso europeo. Nello spazio pubblico americano la presenza della religione è tutt’altro che pacificamente accettata. Se si mettessero insieme tutti gli ex cattolici statunitensi, sarebbero la seconda chiesa d’America (dopo la chiesa cattolica).
L’America di cui parlano questi neo-americanisti è un’America che è più vicina a quella di Tocqueville di quasi due secoli fa, che a quella di inizio secolo XXI: anche perchè venerare Tocqueville è meno faticoso che leggere le mille pagine de L’età secolare, opus magnum di Charles Taylor, studioso canadese che negli ultimi anni ha ridefinito il dibattito sulla laicità in Nordamerica.
Ma il problema non è solo di cultura dei cattolici. Anche la letteratura italiana recente di parte neoliberale e neo-conservatrice sul tema di una “nuova laicità non laicista” sembra illudersi, tramite il ricorso ad un sistema di tipo americano, di proteggere una chiesa “established” (nazionale) come quella cattolica in Italia e di aprire lo scenario giuridico-costituzionale ad una maggiore presenza delle religioni nello spazio pubblico senza tenere conto dei costi di questo in termini di coesione giuridica e sociale: ma sembra dimenticare la fondamentale mancanza, in Europa, di una cultura nazionale omologatrice come quella statunitense, capace di assorbire e inghiottire le diversità religiose e di americanizzare ogni presenza religiosa sul territorio americano.
La “cura americana” proposta da alcuni vescovi e cardinali, così come da alcuni cattolici neo-liberali (presenti anche nelle file del Partito Democratico in Italia) potrebbe essere esiziale per il delicato sistema europeo: a meno che questo sistema europeo “post-laico neo-americano” che essi immaginano non significhi una libertà religiosa con alcune religioni orwellianamente più libere di altre.
L’imperatore e il cardinale Scola
di Alessandro Santagata (il manifesto, 12 dicembre 2012)
«I provvedimenti, a firma dei due Augusti, Costantino e Licinio, determinarono non solo la fine progressiva delle persecuzioni contro i cristiani, ma, soprattutto, l’atto di nascita della libertà religiosa. In un certo senso, con l’Editto di Milano emergono per la prima volta nella storia le due dimensioni che oggi chiamiamo “libertà religiosa” e laicità dello Stato».
A pronunciare queste parole è stato il cardinale Angelo Scola nel discorso per la vigilia della festa di Sant’Ambrogio. Le reazioni dell’opinione pubblica si sono concentrate soprattutto sugli attacchi dell’arcivescovo di Milano al modello francese di laicità dello Stato, a suo avviso egemonico nella cultura europea, e sulle stilettate alla riforma sanitaria di Obama. Ma perché il riferimento a Costantino?
In un noto saggio «programmatico » del 1961, pubblicato in una collettanea di studi in vista del concilio, Marie-Dominique Chenu si augurava che con il Vaticano II la chiesa avrebbe finalmente preso atto della fine dell’età costantiniana, ossia del matrimonio tra chiesa e potere politico. Nelle società occidentali, spiegava il padre domenicano, si era logorato il modello della cristianità medievale, in conseguenza delle tre grandi rivoluzioni dell’età moderna (Rinascimento, Riforma e Rivoluzione) e sotto i colpi della secolarizzazione del secondo dopoguerra.
Di non minore rilevanza nell’incrinare i rapporti tra trono e altare erano stati i mutamenti interni al cristianesimo stesso: riscoperta della Scrittura, apertura ai non credenti, rivendicazione del Vangelo da parte dei poveri. La desacralizzazione, concludeva Chenu, aveva liberato la chiesa dal compito di supplenza nei confronti delle comunità secolari.
Per il futuro, se non voleva diventare un museo, avrebbe dovuto sforzarsi di accettare il mondo così come era, cogliendone gli elementi positivi, lasciandosi «prendere dal fremito del Vangelo» e non da quello del potere. Come ha mostrato Gianmaria Zamagni (Fine dell’era costantiniana, Il Mulino 2012), la riflessione di Chenu sulla decadenza della fede dopo l’incontro con Costantino risentiva di una lunga tradizione di studi novecenteschi (Ernesto Buonaiuti, Friedrich Heer, Erik Peterson, fino ai grandi del cattolicesimo francese: Emmanuel Mounier, Jacques Maritain, Étienne Gilson). Di Peterson sono note (anche grazie agli studi di Agamben) l’opposizione alla teologia politica di Schmitt e la sfida intellettuale lanciata ai totalitarismi e all’intesa delle chiese con il regime di Hitler.
Saranno proprio la fine della guerra e la sconfitta dei nuovi messianismi politici a dare ulteriore slancio ai critici dell’età costantiniana, le cui elaborazioni confluiranno nella costituzione conciliare Gaudium et spes. In questo testo non solo veniva adottata la teologia della storia avanzata da Chenu, ma la chiesa rinunciava a svolgere un ruolo di potenza temporale e dichiarava di rifiutare i privilegi di un rapporto stretto con il potere.
Non meno importante sarebbe stato il lascito della teologia anticostantiniana sulla dichiarazione Dignitatis Humanae, con la quale veniva riconosciuta la libertà di coscienza sia individuale sia collettiva. Il Vaticano II superava l’abituale rivendicazione della libertas ecclesiaee la conseguente distinzione tra la «ipotesi » (cioè la libertà dei cattolici quando sono minoranza) e la «tesi» (cioè l’intransigenza dei cattolici quando sono maggioranza), nonché la pretesa di difendere con gli strumenti dello Stato l’unica vera religione.
La dichiarazione chiariva i presupposti per un dialogo tra le religioni e la modernità, ossia il riconoscimento pubblico (già operato dalle rivoluzioni liberali) di una libertà religiosa sostenuta giuridicamente. Libertà religiosa e fine dell’età costantiniana sono dunque concetti strettamente legati nella storia del pensiero della chiesa, nella misura in cui l’accettazione della prima da parte della dottrina cattolica è stata possibile solo in virtù di quella della seconda. Ne è certo consapevole il cardinale Scola, che proprio nella Dignitatis Humanae ha riconosciuto la posizione più alta del magistero in materia. L’arcivescovo ha poi affrontato il tema delle persecuzioni religiose nel mondo e quello ancor più complesso del rapporto tra la ricerca religiosa personale e la sua espressione comunitaria.
Infine, ha concluso sul problema della connessione tra la libertà religiosa e l’orientamento dello Stato. È qui il cuore del ragionamento di Scola, nell’idea, cioè, che gli Stati non possano prescindere dalle «strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa». Più o meno il contrario dell’impostazione della Dignitatis, pure non priva di ambiguità e contraddizioni. Una posizione, la sua, distante anche dell’impianto teorico del discutibile Concordato del 1984, in cui la collaborazione tra Stato e chiesa era incoraggiata, ma senza riferimenti alla moralità della repubblica.
Nel contesto del discorso il riferimento a Costantino alla vigilia dei 1700 anni dall’Editto di Milano, sebbene smorzato dalle affermazioni sull’«inizio mancato » e sulle «indebite commistioni tra il potere politico e la religione », acquista il significato di un sostanziale arretramento teorico, oltre che di una vera e propria falsificazione storiografica. Certo, Scola non vorrebbe tornare allo Stato confessionale e dichiara il proprio apprezzamento per un modello di aconfessionalità «senza distacco» (modello statunitense?), ma da parte di un cardinale colto e attento come lui l’indicazione dell’imperatore come padre della libertà religiosa suggerisce una rilettura della storia della chiesa e dei suoi rapporti con il potere che trova nel rifiuto della laicità moderna (e non solo del modello francese della «neutralità») il suo logico punto di approdo.
Non è solo una questione interna alla chiesa, ma un discorso che investe i problemi della società multiculturale e gli storici ritardi italiani sui diritti e la laicità effettiva. C’è di che riflettere quando a parlare così è uno dei più quotati tra i possibili successori alla Cattedra di Pietro.
False accuse alla laicità
di Eric Noffke, pastore valdese
in “NEV” (Notizie Evangeliche) del 12 dicembre 2012
Per fortuna il discorso del cardinale Scola, pronunciato a Milano in occasione della festa di Sant’Ambrogio, ha suscitato un coro di sdegno: diverse riposte, puntuali ed intelligenti, sono arrivate da alcune delle voci più autorevoli del panorama intellettuale italiano.
Giustamente si è visto nelle parole dell’arcivescovo di Milano un ennesimo attacco all’idea di laicità e un inquietante auspicio a tornare al confessionalismo di Stato; il suo riferimento ad un presunto modello americano (che, è stato fatto notare correttamente, in quei termini oggi non esiste neanche più) sembra più uno specchietto per le allodole che una proposta seria.
In realtà, in prossimità della campagna elettorale Scola ha voluto mandare ai milanesi tutti, a cominciare dal loro sindaco, il chiaro messaggio che le cose, nell’arcidiocesi di Milano, sono cambiate.
Non che avessimo molti dubbi in proposito, ma un discorso come questo ci ripropone la domanda se una certa gerarchia cattolica voglia davvero porsi come interlocutore in un dialogo pubblico o se non abbia piuttosto ragione Paolo Naso quando, sul sito della Chiesa Valdese, parla di “guerra fredda”. In tal caso dobbiamo leggere le parole di Scola come una chiamata alle armi contro lo Stato laico; d’altra parte tutto il lavoro di Comunione e Liberazione non esprime proprio questo progetto? Che la direzione sia questa ce lo dice prima di tutto il riferimento a Costatino, proprio in apertura del discorso di Scola.
Invece di essere magistra vitae, la storia diventa piuttosto un’arma da guerra e altro non potrebbe essere la fuorviante immagine di Costantino eletto a patrono della libertà religiosa. È vero, il suo editto del 313 ha posto la parola fine alle persecuzioni dei cristiani, i quali saranno stati felici di poter professare la loro fede senza la paura di rischiare la vita. Esso, però, è stato il preludio delle persecuzioni degli eretici i quali, tra l’altro, con la loro stessa esistenza accusavano prima l’imperatore, poi il papa re di un uso politicamente e ideologicamente strumentale del cristianesimo. Per non parlare, come giustamente ci fa notare Vito Mancuso su Repubblica, della messa al bando dei culti pagani, ben presto a loro volta oggetto di condanne e vessazioni.
Di Costantino e della svolta che impresse alla storia del cristianesimo ci sarà tempo per parlare nel corso dell’anno in maniera storicamente più argomentata e seria. Vederlo evocato in un atto di accusa alla laicità, però, richiama echi inquietanti di tempi che vorremmo lasciarci alle spalle.
Dal cesaropapismo allo stato pontificio, la storia è piena dei pessimi esiti della commistione tra Stato e Chiesa. Ad ogni modo, proprio la storia è uno dei campi in cui si combatterà questa guerra, fredda o calda che sia, contro la laicità.
C’è poi un secondo punto che mi pare importante evidenziare: quali sono le fazioni opposte in questo confronto? Se da una parte, infatti, sta una maggioranza della gerarchia cattolica, con le sue spade affilate puntate contro lo schieramento laico e la sua cultura presunta secolarizzata, dove si collocano gli altri?
E soprattutto, il mondo evangelico italiano da che parte sta? Quanti, nelle nostre chiese, sono tentati dal frutto polposo, ma avvelenato, della battaglia cattolica per i valori “non negoziabili” in campo etico? Naturalmente è un’illusione immaginare che il mondo evangelico possa assumere una posizione comune; ma non sarebbe una cattiva idea quella di evitare pericolose neutralità o scomode strumentalizzazioni.
Siamo davvero appiattiti sull’alternativa tra una laicità alla francese o all’americana, quando nel nostro paese non abbiamo avuto né la Riforma protestante né la rivoluzione francese? Credo che sarebbe il caso di chiarirci le idee in qualche modo, magari proprio partendo dal diciassettesimo centenario dell’editto di Costantino.
Oggi più che mai, dunque, è necessario affermare che le accuse di Scola alla laicità sono false, soprattutto in Italia. Bisogna opporsi con forza a chi, come lui, cerca di riproporre, neanche tanto sotto mentite spoglie, una religione intesa come soffocante cappa liberticida, collaudata macchina di controllo delle coscienze, tesa alla difesa di ben precisi interessi di parte. Ma non basta: dobbiamo pure agire per offrire al nostro paese una reale alternativa evangelica, nel pensiero e nelle opere. (nev-notizie evangeliche 50/12)
Laicità
Se la Chiesa torna a criticare la neutralità dello Stato di Stefano Rodotà (la Repubblica, 13.12.2012)
Alla vigilia di un anniversario simbolico, i millesettecento anni dell’Editto di Costantino, il cardinale di Milano ha mosso una critica radicale alla laicità dello Stato, rivendicando l’assoluto primato della libertà religiosa e sottolineando i rischi che essa corre nel tempo che viviamo.
Lo ha fatto costruendo un modello di comodo, di cui Vito Mancuso ha bene messo in luce le omissioni poiché, tra l’altro, non si fa parola delle persecuzioni alle quali proprio i cristiani sottoposero i fedeli di altre religioni. Quell’“inizio della libertà dell’uomo moderno”, che l’Editto di Costantino avrebbe aperto, in realtà ha avuto altri inizi e altre traiettorie. Si dovrà attendere il Rinascimento, con la sua esclamazione “magnum miraculum est homo”.
Si dovrà attendere l’affermazione piena della libertà che trovò la sua tavola nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, vero concilio laico quasi due secoli prima del Vaticano II, che aprì le vie per la libertà di tutti. Se oggi vogliamo discutere di laicità, non possiamo ignorare tutto questo, né rifugiarci in una visione caricaturale della laicità attribuita al suo modello francese.
Viene da chiedersi la ragione di un riduzionismo così poco accorto da parte di un prelato non sprovvisto di cultura e visione storica. Un interrogativo che merita qualche riflessione, proprio perché oggi il principio di laicità dello Stato si confronta con un nuovo bisogno di sacro che percorre le nostre società e, insieme, si presenta come ineludibile punto di riferimento di fronte alla “nuova intolleranza religiosa” (è il titolo dell’ultimo libro di Martha Nussbaum).
Se questo è un itinerario per individuare equilibri adeguati tra religione e Stato, il cammino indicato da Angelo Scola non è certo quello che consente una discussione utile.
Come viene rinverdita la critica alla secolarizzazione? Partendo da due premesse. Dice Scola: «se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata posta in cima alla scala dei diritti fondamentali, tutta la scala crolla». E aggiunge: «fino a qualche decennio fa si faceva riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte».
Il primato della libertà religiosa individua così una forma di Stato che nel fattore religioso trova l’unica legittimazione possibile. Questo vuol dire che lo Stato non può essere individuato come spazio di convivenza di opinioni e credenze diverse, secondo la versione che la laicità è venuta assumendo, con l’abbandono una laicità puramente “oppositiva” nei confronti della religione.
E, parlando di strutture antropologiche, in realtà ci si riferisce ai molti no che la Chiesa ha pronunciato: no alla procreazione assistita; no al riconoscimento giuridico di forme di convivenza diverse dal matrimonio eterosessuale; no alla scuola pubblica come struttura essenziale per la conoscenza e l’accettazione dell’altro; no al testamento biologico.
In queste posizioni vi è più che una ripulsa della laicità. Vi è la negazione della libertà della coscienza e l’affermazione che la definizione dell’antropologia del genere umano è prerogativa della religione. Non siamo di fronte a una discussione dei temi complessi della secolarizzazione, ma al programma di una restaurazione impossibile, dunque destinato non a promuovere dialogo, ma conflitti intorno alla ritornante affermazione di valori “non negoziabili”.
A proposito di antropologia, vale la pena di ricordare la critica di Zygmut Bauman alla tesi secondo la quale, nella fase premoderna, fosse la religione a dare senso alla vita. È dunque una acquisizione storica e culturale quella che riguarda la forte presa della religione cattolica sui temi dell’etica, non un dato indissolubilmente legato al fattore religioso.
Con il trascorrere del tempo, quel legame è stato sciolto grazie all’ampliarsi della riflessione etica e al sorgere di una nuova antropologia, prodotta dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Contro questa antropologia si leva la difesa della “natura” impugnata da un fondamentalismo religioso che mostra non tanto una attitudine antiscientifica, quanto piuttosto una incapacità di comprendere le nuove dimensioni del mondo e dell’umanità.
È proprio il pensiero laico, invece, a forgiare gli strumenti perché non ci si arrenda ad una deriva tecnologica, con la sua capacità di garantire l’umano attraverso i principi di eguaglianza e dignità, di autodeterminazione della persona. Non è vero, peraltro, che la dimensione istituzionale sia posseduta soltanto da un riconoscimento della libertà religiosa come fatto squisitamente individuale.
L’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea afferma che alle persone appartiene la «libertà di manifestare la propria religione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato». La piena laicità di questa affermazione consiste nel fatto che non siamo di fronte a un privilegio o ad una supremazia, ma ad una libertà che si misura con tutte le altre. L’opposto della ricostruzione del cardinale Scola della laicità come imposizione di un unico punto di vista, mentre essa è un metodo che permette a tutti i punti di vista di convivere in modo fecondo, offrendo proprio alla religione la più civile delle garanzie.
Dai rapporti tra papato e impero a oggi
Tutto iniziò con Costantino
di Agostino Giovagnoli (la Repubblica, 13.12.2012)
La lunga storia iniziata con l’editto di Milano del 313 continua fino ad oggi. Quell’editto riconosceva libertà di culto ai seguaci di tutte le religioni: i cristiani, in precedenza a lungo perseguitati, furono equiparati ai pagani. Subito dopo, Costantino iniziò a sostenerli, introducendo leggi a loro favorevoli, promuovendo la costruzione di nuove chiese, intervenendo contro scismi ed eresie. Nei secoli, perciò, egli è stato visto in modi contrapposti, come difensore della libertà religiosa e come iniziatore della “chiesa costantiniana” e cioè della commistione tra religione e potere. È un’ambivalenza che ha fatto versare fiumi di inchiostro, pro e contro di lui, ma il più delle volte il suo nome è stato coinvolto impropriamente in problemi e dispute propri di altre epoche.
È accaduto nel Medioevo quando, appellandosi alla donazione costantiniana quale fondamento del potere temporale del papa, si è discusso lungamente della superiorità del pontefice sull’imperatore o viceversa. Era infatti convinzione comune che alla Chiesa spettasse un ruolo diretto nell’organizzazione politica della società europea, dentro lo stretto intreccio tra sacerdotium ed imperium tipico del “regime di cristianità”. Ma Lorenzo Valla ha poi chiarito, nel quattrocento, che la donazione di Costantino era un falso dell’ VIII secolo, fabbricato ad arte per giustificare il potere temporale del papa. La Chiesa costantiniana, insomma, non è stata un’invenzione di Costantino.
La falsità del documento fu dimostrata proprio quando, tornati a Roma dopo l’esilio avignonese, i papi abbandonarono ambiziosi progetti politici, accettando come fondamentali interlocutori - e come scomoda controparte - i grandi Stati moderni. È iniziata allora una distinzione tra istituzione ecclesiastica ed istituzioni politiche che costituisce la principale originalità europea nei rapporti tra Stato e Chiesa.
Anche tutta l’età moderna, però, è stata attraversata da ambiguità nella divisione dei compiti tra le due istituzioni, malgrado il positivo superamento dello Stato quale braccio armato della religione. E anche dopo la radicale separazione tra Stato e Chiesa imposta dalla Rivoluzione francese, le ambiguità sono continuate: gli stessi rivoluzionari tentarono di imporre un nuovo culto, alla Dea Ragione, una sorta di “religione della laicità” quale nuova religione di Stato.
In reazione, da parte cattolica si cominciò ad evocare il mito della cristianità medievale e le sue (false) origini costantiniane. Solo dopo molte tormentate vicende, è maturato un senso pieno della laicità come insieme di valori condivisi e, con il Concilio Vaticano II, si è parlato di definitivo superamento della (cosiddetta) Chiesa costantiniana.
Pochi giorni fa il cardinale Scola ha aperto l’anno costantiniano, toccando il problema della «commistione tra il potere politico e la religione» e formulando alcune osservazioni critiche in tema di laicità dello Stato - con un riferimento alla riforma sanitaria di Obama - che hanno fatto discutere. Tra i temi di questo anno, oltre a quello della libertà religiosa su cui ha insistito il cardinale Scola, interesse particolare riveste la scelta costantiniana di equiparare sul piano dei diritti cristiani e pagani, senza proibire il paganesimo sostituendolo con il cristianesimo. Anche oggi, infatti, il rapporto tra libertà religiosa e costruzione di una convivenza pacifica tra uomini e donne di religioni diverse costituisce una questione rilevante.
La spiritualità di chi non crede
di Enzo Bianchi (la Repubblica, 13.12.2012)
Non sorprende che in un paese come il nostro - dove non esiste più da quasi trent’anni una “religione di stato”, ma dove non c’è ancora una legge specifica sulla libertà religiosa - ogni discussione sulla laicità dello stato e sui diritti dei credenti rischi di provocare un corto circuito. Si aggiungono aggettivi qualificativi alla laicità o la si rinchiude nel peggiorativo laicismo, rendendo quasi impossibile lo sviluppo e l’adattamento alle mutate condizioni sociologiche del nostro paese di quella convergenza di intenti e di valori che il legislatore costituente aveva sapientemente saputo ricostruire sulle macerie della guerra.
A furia di ridurre la presenza dello stato e nel contempo di chiedergli di farsi garante di un’etica religiosa specifica, a furia di confondere la somma di beni privati con il bene comune, la coesione sociale viene a mancare e si atrofizza quello spazio comune garantito in cui ciascun soggetto individuale o sociale - può contribuire alla crescita umana e spirituale dell’insieme della società.
Lo stato laico, infatti, non può limitarsi alla funzione di chi regola il traffico di una società civile che si muoverebbe secondo direttive proprie, molteplici e slegate da un interesse collettivo. È indispensabile invece trovare e utilizzare modalità laiche per discernere cosa è ritenuto bene per l’insieme della popolazione e cosa danneggia la convivenza, quali adattamenti escogitare affinché il meglio sognato non uccida il bene possibile.
Un’etica condivisa non è utopia: si tratta allora di individuarla, perseguirla, garantirla con mezzi consoni a uno stato non confessionale che si faccia carico di una società ormai plurale per religioni e culture.
Non dimentichiamoci che l’umanità è una, che di essa fanno parte religione e irreligione e che, comunque, in essa è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità, intesa come vita interiore profonda, come ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla creazione di bellezza nei rapporti umani.
Sono sempre stato convinto che esiste anche una spiritualità degli agnostici, di quanti sono in cerca della verità perché insoddisfatti di verità definite una volta per tutte: è una spiritualità che si nutre di interiorità, di ricerca del senso, di confronto con l’esperienza del limite e della morte.
Si tratta, di essere tutti fedeli alla terra e all’umanità, vivendo e agendo umanamente, credendo all’amore, parola oggi abusata fino a svuotarla di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per esprimere il “luogo” cui l’essere umano si sente chiamato.
Del resto la fede - questa adesione a Dio sentito come una presenza soprattutto a causa del coinvolgimento che il cristiano vive con Gesù Cristo - non sta nell’ordine del “sapere” e neppure in quello dell’acquisizione: si crede in libertà, accogliendo un dono che non ci si può dare da sé.
Analogamente gli atei, nell’ordine del sapere non possono dire “Dio non c’è”: è, infatti, un’affermazione possibile solo nell’ambito della convinzione. Del resto, il cristianesimo riconosce che il Dio in cui crede è presente e agisce anche nella coscienza di chi non crede, perché ogni essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e ha in sé la fonte del bene.
La laicità dello stato è allora quella opzione di fondo che consente di reinventare continuamente strumenti condivisibili e linguaggi comprensibili da tutti, di garantire presidi di libertà e di non sopraffazione, di difendere la dignità di ciascuno, a cominciare da quelli cui viene negata, di consentire a ciascuno di ricercare, anche assieme ad altri, la pienezza di senso per la propria vita.