Materiali per riflettere
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
ARTE STORIA E IMMAGINARIO DELL’EUROPA (DOPO LA RIVOLUZIONE AMERICANA E DOPO LA RIVOLUZIONE FRANCESE): CANOVA E IL NAPOLEONE DI BRERA (MILANO 1809/1810)
Il Napoleone di Brera. Impensabili vicissitudini del capolavoro di Canova
di Rossella Atzori *
Capita spesso che per raggiungere una meta ignoriamo la strada che percorriamo per raggiungerla, dimenticando di apprezzare quanto troviamo sul nostro cammino. Quello che maggiormente conta, e ci arricchisce veramente, spesso non è tanto il traguardo che ci siamo imposti, quanto il viaggio che compiamo per arrivarci; non solo una metafora sull’esistenza, ma condizione tangibile della vita quotidiana.
napoleone fronteAl palazzo di Brera accade lo stesso: varcato il cancello, turisti, studenti, impiegati, operai, vanno verso i rispettivi punti d’interesse, facendo poco caso che ad accoglierli al centro del cortile d’onore ci sia un personaggio così strettamente legato alla città di Milano e alla stessa Pinacoteca di Brera (istituita da lui nel 1809): Napoleone Bonaparte, immortalato da Antonio Canova nelle vesti di “Marte pacificatore”.
Forse pochi pensano a un capolavoro del Canova, ricordando di lui solo le eleganti e saponose sculture neoclassiche che prendevano vita dal marmo (e che faceva rivestire da un sottile strato di cera rosata, perché sembrasse che i corpi palpitassero realmente), e trovandosi invece di fronte un’imponente scultura in bronzo (è alta quasi 3 metri e mezzo).
Si aggiunga l’incuria del tempo, l’ossidazione del metallo sottoposto agli agenti atmosferici e, non ultimi, i ricordini lasciati dai piccioni (che razzolano felici nel cortile nonostante la grande rete posta a protezione).
A pensarci bene ... questa scultura non è mai stata molto fortunata!
Canova (genio del suo tempo, artista ufficiale della famiglia Bonaparte, simbolo stesso del neoclassicismo) tra il 1803 e il 1806 lavora a una scultura colossale in marmo di Napoleone: decide di scostarsi da tutte le altre rappresentazioni ufficiali, in cui appare condottiero artefice della storia, o circondato dai simboli del potere imperiale (particolari iconologici che oggi verrebbero detti “messaggi subliminali”). Preferisce respingere l’attualità storica dell’evento (in cui l’avevano immortalato Gros e David) e ritrarlo in nudità eroica, come nei modelli dei principi ellenistici, con il significato allegorico di Marte pacificatore.Corsi di arte online
Poco dopo che l’opera venne terminata Eugenio di Beauharnais, viceré del Regno d’Italia, ne commissiona una replica in bronzo (1807) da esporre a Milano all’interno della nascente Real Galleria di Brera, che si sarebbe dovuta inaugurare il giorno del 40° compleanno di Napoleone, il 15 di agosto del 1809. Purtroppo il primo tentativo di fusione della statua fallì, e una seconda fusione non sarebbe potuta essere terminata per la fatidica data; così Beauharnais acquisì a Padova uno dei calchi in gesso (ne esistevano 5), lo stesso che si trova oggi in una delle Sale Napoleoniche della Pinacoteca (finito di restaurare nel 2009, in concomitanza con le celebrazioni del bicentenario di Brera).
Se la scultura del Marte pacificatore era stata accolta entusiasticamente dagli intellettuali della penisola italiana, e Stendhal disse di Canova che non aveva imitato i greci, ma che, come loro, aveva inventato una nuova bellezza, l’ego di Napoleone non gradì questa nuova interpretazione della sua figura e quando l’imperatore ricevette finalmente la statua marmorea a Parigi, nel 1810, la giudicò negativamente, impedendo che venisse esposta al pubblico. Ironia della sorte, subito dopo la decisiva battaglia di Waterloo (1815), quella stessa statua venne acquistata dal governo inglese, per donarla a lord Wellington, vincitore di Napoleone.
Non solo opera d’arte, ma simbolico trofeo, conservato ancora oggi alla Aspley House, a Londra.
brera cortileSorte migliore non ebbe la copia bronzea. La seconda fusione, realizzata a Roma dai fonditori Francesco e Luigi Righetti utilizzando i cannoni di Castel Sant’Angelo, fu terminata nel 1811, e l’anno seguente arrivò finalmente a Milano.
Ma la fortuna di Napoleone era ormai cambiata, e la Nike vincitrice che calcava con i suoi piedi la sfera (simbolo dell’orbe terracqueo) che Marte-Napoleone teneva nella mano destra, aveva iniziato a prendere il volo.
Si pensò dapprima di sistemare il monumento a Napoleone nel cortile del Palazzo del Senato, e per studiarne la collocazione fu nominata una commissione formata da Luigi Canonica, Giocondo Albertolli e Luigi Cagnola.
Si propose poi (rel. del 18 settembre 1812) di situarla nel primo cortile del Palazzo di Brera; il Ministero dell’Interno approvò la scelta, ma sia il bronzo che il gesso vennero dimenticati (pur con ricorrenti e inefficaci riscoperte) nei depositi dell’Accademia di Belle Arti di Brera. Da qui riemerse finalmente nel 1859, dopo la visita in città di Napoleone III, a conclusione della 2° guerra d’indipendenza italiana.
La statua fu eretta su un basamento temporaneo nel cortile d’onore di Brera, e nel 1864 fu invece inaugurata con l’attuale basamento in granito e in marmo di Carrara progettato da Luigi Bisi, docente dell’Accademia, ornato con aquile e festoni di bronzo.
La Nike, però, prese letteralmente il volo: fu infatti rubata, e ricostruita agli inizi degli anni ’80 basandosi su documentazione fotografica.
Da allora si erge imponente al centro del cortile, costituendo il simbolo universalmente conosciuto del Palazzo di Brera, custode geloso di uno dei suoi tesori più preziosi: la Pinacoteca e l’Accademia di Brera.
Presto però qualcosa cambierà ...
* Fonte: Milano-Free.it (ripresa parziale, senza immagini e note).
La mostra dedicata al legame tra Canova e l’Umbria
By Arianna Piccolo (Artribune, 6 Settembre 2022
“Canova ha avuto il coraggio di non copiare i Greci e di inventare la bellezza così come i Greci avevano fatto”, scriveva Stendhal nel suo Viaggio in Italia nel 1828, riferendosi all’artista massimo esponente del Neoclassicismo, soprannominato per questo il “nuovo Fidia”.
In occasione del bicentenario della sua morte, avvenuta a Venezia il 13 ottobre 1822, Perugia dedica ad Antonio Canova (Possagno,
1757 - Venezia, 1822) un’importante esposizione-itinerario. Fino al 1° novembre 2022, la mostra Al tempo di Canova. Un itinerario umbro sarà infatti allestita nelle sedi di Palazzo Baldeschi al Corso e del MUSA, Museo dell’Accademia di Belle Arti.
Si tratta di un progetto culturale specificatamente riferito all’Umbria e che affonda le sue radici nella storia e nell’espressione artistica del territorio, rivelandone molti aspetti finora inediti. “Celebrare Antonio Canova raccontando la storia da una particolare angolazione, geografica e culturale, che consenta di cogliere le dinamiche artistiche di irraggiamento, circolazione o interlocuzione tra Roma e l’Umbria pontificia, in seguito napoleonica. Con la messa a fuoco di un’area, quella umbra, che è opportuno considerare come contigua e partecipe, non semplicemente periferica e spettatrice”, chiarisce la curatrice Stefania Petrillo.
Dunque rendere omaggio ad Antonio Canova per il suo immenso contributo di artista e mecenate valorizzando soprattutto l’uomo che, accanto al suo lavoro, ebbe particolarmente a cuore la conservazione e la tutela del patrimonio.
“Formano catena e collezione con infinite altre”, spiegava lo scultore a Napoleone nel 1810 per convincerlo a non sottrarre più altre opere all’Italia, sottolineando l’importanza della loro connessione con i luoghi “originari”. Un’idea, questa, ripresa nell’esposizione perugina, che ruota intorno al nucleo dei gessi canoviani conservati al museo dell’Accademia di Perugia, tra i quali Le tre Grazie, donate dallo stesso scultore nel 1822.
LA MOSTRA SU CANOVA A PERUGIA
La mostra propone, quindi, un ideale attraversamento dell’arte in Umbria tra Sette e Ottocento, con un percorso scandito da sculture emblematiche in dialogo con le “arti sorelle”, architettura, pittura e musica. Le diverse sezioni, L’Umbria pontificia, La stagione napoleonica, Il paesaggio, Canova e l’Accademia di Belle Arti di Perugia, “Un’altra linea di bello”: verso il Purismo, Le incisioni, L’eredità di Canova, rievocano i protagonisti di una stagione culminata nel legame che ebbe Canova con l’Accademia di Belle Arti di Perugia. L’artista ne orientò, infatti, le scelte e i programmi, appoggiando la nomina di vari direttori, tra i quali Carlo Labruzzi, Tommaso Minardi e Giovanni Sanguinetti.
Tra gli artisti presentati insieme al grande scultore troviamo anche Giuseppe Valadier, Vincenzo Pacetti, Carlo Labruzzi, Pietro Labruzzi, Cristoforo Unterperger, Abraham-Louis-Rodolphe Ducros, Stefano Tofanelli, Tommaso Maria Conca, Pietro Benvenuti, Vincenzo Camuccini, Jean-Baptiste Wicar, Tommaso Minardi, Giovanni Sanguinetti.
UNA MOSTRA DI RICERCA
Circa 130 opere esposte, presentate attraverso il contributo di oltre 35 studiosi, costituiscono il nucleo di un’esposizione che si presenta anche come un’importante esperienza di studio, ricerca e confronto tra gli addetti ai lavori. Nel corso dei preparativi sono emersi infatti alcuni importanti inediti, come i due gessi dell’Autoritratto di Canova della Pinacoteca Comunale di Bettona e il ritratto di Letizia Ramolino Bonaparte. E ancora moltissimi altri documenti, tra lettere e missive, che hanno gettato nuova luce sugli intricati intrecci di opere, luoghi e artisti.
La vera sorpresa arriva però da una delle opere lasciate in eredità all’Accademia dal fratellastro di Canova, Giovanni Battista Sartori, la colossale testa di cavallo, modello del monumento equestre a Ferdinando I di Borbone, una delle ultime opere del grande scultore, “riscoperta” in questa occasione ed esposta a Palazzo Baldeschi in un inedito confronto con la testa del cavallo del Marco Aurelio, il calco fatto eseguire e preso a modello da Canova (oggi a Ravenna).
“Ho veramente finito ne’ giorni scorsi il modello, che è ora in gesso, del colossale cavallo per il gruppo equestre del re Ferdinando Primo, e se amor d’autore non mi inganna, sono tentato di credere che siami riuscito non inferiore al primo, se pure non è anche migliore”, diceva l’artista in una lettera a Quatremère de Quincy nel 1821.
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA.
LA SCOMPARSA DELLA "FANCIULLA STRANIERA" (F. Schiller, 1796) E DELL’AMORE (K. Marx, 1844) E IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ (S. Freud, 1929: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità [...]").
Una nota a margine di una memoria dell’antica commedia greca ...
"HOMO HOMINI LUPUS" (Freud, 1929). Formidabile questa riflessione di Andreas Katsouris sulla frase di Menandro! A ben riflettere sulle parole (e, in particolare, sul legame tra la "grazia" ("charis") del χαρίεν ("charien") e "l’anthropos), si dovrebbe tentare di capire su come e quando è stata persa la memoria delle Grazie (greco: Χάριτες - Charites) ed è stata persa anche la traccia di ogni umanità e l’orizzonte culturale dell’Europa (e del Pianeta Terra) è diventato sempre più cosmoteandrico, edipicamente, con la stessa connivenza della filosofia, della filologia, e della psicoanalisi!
CRITICA DELLA VIOLENZA: J.-J. ROUSSEAU, K. MARX, W. BENJAMIN. Una prima traccia della "caduta" è nell’atto logico-storico ("primordiale", che prima di essere materiale è linguistico) della recinzione: "Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della società civile"("Discorso sull’origine della disuguaglianza", 1754"); la seconda è nella denuncia marxiana (nella "Sacra Famiglia") dell’inversione soggetto-predicato (il problema della mele, delle pere, e delle fragole... del Mentitore) e della "fanciulla straniera e la civetta hegeliana" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197)"!
A quando il sorgere della Terra?
RINASCIMENTO: STORIA, MEMORIA, E FILOLOGIA.
LA SPREZZATURA, LA GRAZIA, E UN LEGAME DA RISTABILIRE. Nota a margine dell’opera di Baldassarre Castiglione...
Baldassarre Castiglione (1478-1529):
«Trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcun altra: e cioè fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi...
Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte; né più in altro si ha da poner studio che nella nasconderla: perché, se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato» (Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, XVI)
UNA QUESTIONE DI GRAZIA, UNA QUESTIONE DI AMORE...
SI DEVE IMPARARE ANCHE L’AMORE: "CARISSIMI, NON CREDETE A OGNI SPIRITO ... DIO È AMORE":"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). UNA LEZIONE DI NIETZSCHE E DI FREUD:
Si deve imparare anche l’amore. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più; e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore.
F. Nietzsche, La gaia scienza, IV, fr. 334, Adelphi, Milano 1991).
Disagio della civiltà: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
CANOVA E IL VATICANO: LE GRAZIE, AMORE E PSICHE Una gerarchia senza Grazie (greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
FLS
Arte.
Canova e Thorvaldsen: si scrive neoclassico, si legge modernità
Una mostra alle Gallerie d’Italia a Milano mette per la prima volta in confronto diretto Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, numi della scultura europea del primo Ottocento
di Alessandro Beltrami (Avvenire, giovedì 28 novembre 2019)
Stupisce, ma è così: è la prima volta che una mostra mette fianco a fianco Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, vertici non solo della scultura ma dell’intero fenomeno culturale che corre sotto il nome di neoclassicismo. Costantemente accostati nei volumi e nei manuali di storia dell’arte (per quanto con spazi diversi: in Italia sono ben più ampi quelli dedicati a Canova), ebbero entrambi i propri atelier a Roma nei primi due decenni dell’Ottocento, condivisero almeno in parte le committenze, godettero di una fama immensa che portò alla creazione di due musei personali: per Canova, post mortem, la gipsoteca nella nativa Possagno, mentre quello di Thorvaldsen a Copenaghen è il primo mai dedicato a un artista in vita.
L’occasione di questo faccia a faccia è la mostra, a cura di Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca, che ai due dedicano le Gallerie d’Italia a Milano (fino al 15 marzo. Catalogo Gallerie d’Italia - Skira), nuovo ulteriore tassello di un percorso di rilettura e recupero di un secolo complesso e spesso sottovalutato come l’Ottocento.
Sulla traccia narrativa di vite parallele, la mostra ricostruisce l’ambiente, le fortune, le pratiche, i temi (Amore e Psiche, la danza, le Grazie...) comuni ai due innanzitutto perché propri di un’epoca e poi perché campo di una prova a distanza: Thorvaldsen, più giovane di 20 anni, guardò sempre a Canova come esplicito termine di confronto - spesso anche per opposizione - mentre il veneto si limita a esprimere verso il collega giudizi di tipo critico, anche lusinghieri. Il risultato è che i due, portando al trionfo la scultura sulle altre arti, segnano - come dice il sottotitolo della mostra - l’atto di “nascita della scultura moderna”.
Questo può sembrare un controsenso, dato che per entrambi la radice è l’antichità. Non bisogna confondere però l’apparenza del linguaggio dai problemi che l’opera si pone. È difficile trovare un’epoca più “di transizione” del XIX secolo, dove si manifestano ed evolvono con decisione i temi e i nodi problematici della contemporaneità (sociali, politici, religiosi, ermeneutici) mentre gli strumenti linguistici per esprimerli restano ancorati a griglie e registri consolidati.
Basti pensare a come questa scultura deve affrontare il modo di rappresentare la storia - e che storia: sono gli anni che seguono la Rivoluzione e vivono in prima persona Napoleone, hegeliana manifestazione dello “spirito del mondo” - al di fuori di se stessa, proiettata nell’eternità del piano ideale, oltre la narrazione a cui costringe l’episodio o il costume.
La fonte è la Grecia, ma la scultura che ne sgorga è differente e per motivi diversi. C’è prima di tutto una questione anagrafica.
Canova è uomo dall’educazione pienamente settecentesca, che assorbe il mondo classico prima di tutto attraverso la tradizione veneziana: e giustamente l’amico Leopoldo Cicognara lo colloca al vertice del percorso lunghissimo che copre tutta la storia della scultura italiana. A Roma il giovane Canova si preoccupa di traghettare il mondo tardobarocco verso una dimensione europea, fino a definire un vero e proprio standard per il classicismo internazionale: ma il suo greco, come quello di Winckelmann, resta ellenistico.
Per i contemporanei Canova, il solo paragonabile a Fidia e Michelangelo, fa letteralmente risorgere la scultura dandole nuova vita e gloria eterna: e attraverso di essa porta su un piano mitologico i personaggi del suo tempo (Napoleone-Marte; Paolina-Venere; Lubomirski-Eros...). Tanto epica quanto lirica, la scultura di Canova non fa dell’antico una ripresa meccanica ma una questione di metodo critico, una rilettura dell’oggetto come fonte e via alla vitalità della natura e della storia.
Thorvaldsen si pone il problema del classicismo da una prospettiva tedesca (non importa che sia danese, è una questione quasi “etnica”): e il classicismo tedesco parla “dorico”. Dorici sono i colonnati degli edifici di Schinkel attraverso cui la Prussia costruisce la propria immagine morale di nazione guida capace di riunificare politicamente sotto il suo manto le membra disperse del popolo tedesco. Un rispecchiamento che prosegue nell’“amore per la sapienza”, attraverso una lingua plastica e rigorosa come quella ellenica.
Su questo piano le scelte e il rigore di Thorvaldsen (si pensi alla sua capacità di ricostruire nel Giasone col vello d’oro le proporzioni del canone policleteo dalle molte derivazioni del Doriforo in un’epoca in cui la statua non era ancora stata identificata) vanno inseriti in un bacino culturale in cui parte notevole ha la forgiatura della scienza filologica, che sarebbe sfociata nel metodo di Lachmann.
Scrive Grandesso in catalogo: «Thorvaldsen doveva essere riconosciuto come il campione nordico del classicismo... Se ne era impadronito al massimo grado, risalendo alle più pure fonti dell’arte greca. Attraverso una tabula rasa della tradizione moderna così presente a Canova, Thorvaldsen rappresentava la riforma e la possibilità di una palingenesi dell’intera arte nordica e tedesca, che si sarebbe rigenerata come erede della grecità più incorrotta».
Il punto è questo: Canova, per il quale il classico è lingua naturale, appare come sintesi e culmine di un percorso; -Thorvaldsen, nell’astrazione di una lingua fatta propria con un atto intellettuale, come “inizio”. Il minimalismo del Novecento nordico (tedesco e scandinavo) è la versione distillata del distacco, dell’equilibrata solidità, della razionale e serena purezza dei volumi della scultura di Thorvaldsen tanto quanto dell’architettura di Schinkel.
Ma nella sintonia tra il classicismo aulico e austero di Thorvaldsen con la questione della “superiorità” del Volk tedesco (il riferimento alla Grecia più arcaica e pura come immagine guida nella costruzione di una nazione consente di aggirare l’eredità latina) trova anche genesi una retorica di forme che sarà amata dal Sonderweg (l’“eccezionalismo” prussiano) fino al totalitarismo nazista, il quale non a caso non conosce la fase rivoluzionaria delle avanguardie: tra questa scultura e le immagini degli atleti di Olympia, il film di Leni Riefenstahl, c’è una discendenza diretta. Il totalitarismo italiano di certo non potrà pescare dalle “mollezze” e dalla levità canoviane: molto più efficace la rude virilità di Roma e dell’arte dei popoli italici.
Canova e Thorvaldsen si muovono davvero su binari paralleli. Il confronto in mostra tra la Ebe canoviana e quella del danese è decisivo. La prima è un’apparizione, una polena che avanza danzando in volo, i cui abiti che aderiscono al corpo manifestandolo in trasparenza hanno la stessa densità della nuvola. La seconda è una figura immobile, casta, inattingibile: ma molto più solida della collega italiana.
Eppure in Thorvaldsen sembra esserci una sorta di compressione, un pulsare sotto la superficie. Lo si nota nei suoi ritratti, dove Thorvaldsen nasconde la modernità sottopelle all’antico, come ad esempio in quello di Vincenzo Camuccini, apparentemente all’antica ma efficacissimo nella resa psicologica con quello sguardo che taglia obliquo, i capelli arruffati e persino il dettaglio alla moda delle basette sul viso glabro e affilato. O come nel ritratto di Horace Vernet, dove la pelle appare tesa sopra ossa e muscoli. È un guizzo che i ritratti di Canova nella pur strepitosa resa naturalistica (memorabile quello del compositore Domenico Cimarosa) non sembrano avere.
O ancora nei gruppi delle Tre Grazie attorno a cui tutta la mostra sembra orbitare. Il capolavoro supremo di Canova ha eleganza e ricchezza di affetti: ma ciò che concatena le tre figure in un fluido infinito abbraccio circolare è un sentimento agapico. Thorvaldsen sceglie invece una forma salda, simmetrica: l’abbraccio si chiude sulla figura centrale, come le ali di un trittico. Ma i gesti (il dito, la mano) con cui le giovani ai lati ne dividono il moto, creando vettori di apertura della forma, suggeriscono una dimensione narrativa assente nel gruppo canoviano. A muoverle è indubitabilmente Eros, che suona la cetra ai loro piedi.
Arte.
Canova e Thorvaldsen: si scrive neoclassico, si legge modernità
Una mostra alle Gallerie d’Italia a Milano mette per la prima volta in confronto diretto Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, numi della scultura europea del primo Ottocento
di Alessandro Beltrami (Avvenire, giovedì 28 novembre 2019)
Stupisce, ma è così: è la prima volta che una mostra mette fianco a fianco Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, vertici non solo della scultura ma dell’intero fenomeno culturale che corre sotto il nome di neoclassicismo. Costantemente accostati nei volumi e nei manuali di storia dell’arte (per quanto con spazi diversi: in Italia sono ben più ampi quelli dedicati a Canova), ebbero entrambi i propri atelier a Roma nei primi due decenni dell’Ottocento, condivisero almeno in parte le committenze, godettero di una fama immensa che portò alla creazione di due musei personali: per Canova, post mortem, la gipsoteca nella nativa Possagno, mentre quello di Thorvaldsen a Copenaghen è il primo mai dedicato a un artista in vita.
L’occasione di questo faccia a faccia è la mostra, a cura di Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca, che ai due dedicano le Gallerie d’Italia a Milano (fino al 15 marzo. Catalogo Gallerie d’Italia - Skira), nuovo ulteriore tassello di un percorso di rilettura e recupero di un secolo complesso e spesso sottovalutato come l’Ottocento.
Sulla traccia narrativa di vite parallele, la mostra ricostruisce l’ambiente, le fortune, le pratiche, i temi (Amore e Psiche, la danza, le Grazie...) comuni ai due innanzitutto perché propri di un’epoca e poi perché campo di una prova a distanza: Thorvaldsen, più giovane di 20 anni, guardò sempre a Canova come esplicito termine di confronto - spesso anche per opposizione - mentre il veneto si limita a esprimere verso il collega giudizi di tipo critico, anche lusinghieri. Il risultato è che i due, portando al trionfo la scultura sulle altre arti, segnano - come dice il sottotitolo della mostra - l’atto di “nascita della scultura moderna”.
Questo può sembrare un controsenso, dato che per entrambi la radice è l’antichità. Non bisogna confondere però l’apparenza del linguaggio dai problemi che l’opera si pone. È difficile trovare un’epoca più “di transizione” del XIX secolo, dove si manifestano ed evolvono con decisione i temi e i nodi problematici della contemporaneità (sociali, politici, religiosi, ermeneutici) mentre gli strumenti linguistici per esprimerli restano ancorati a griglie e registri consolidati.
Basti pensare a come questa scultura deve affrontare il modo di rappresentare la storia - e che storia: sono gli anni che seguono la Rivoluzione e vivono in prima persona Napoleone, hegeliana manifestazione dello “spirito del mondo” - al di fuori di se stessa, proiettata nell’eternità del piano ideale, oltre la narrazione a cui costringe l’episodio o il costume.
La fonte è la Grecia, ma la scultura che ne sgorga è differente e per motivi diversi. C’è prima di tutto una questione anagrafica.
Canova è uomo dall’educazione pienamente settecentesca, che assorbe il mondo classico prima di tutto attraverso la tradizione veneziana: e giustamente l’amico Leopoldo Cicognara lo colloca al vertice del percorso lunghissimo che copre tutta la storia della scultura italiana. A Roma il giovane Canova si preoccupa di traghettare il mondo tardobarocco verso una dimensione europea, fino a definire un vero e proprio standard per il classicismo internazionale: ma il suo greco, come quello di Winckelmann, resta ellenistico.
Per i contemporanei Canova, il solo paragonabile a Fidia e Michelangelo, fa letteralmente risorgere la scultura dandole nuova vita e gloria eterna: e attraverso di essa porta su un piano mitologico i personaggi del suo tempo (Napoleone-Marte; Paolina-Venere; Lubomirski-Eros...). Tanto epica quanto lirica, la scultura di Canova non fa dell’antico una ripresa meccanica ma una questione di metodo critico, una rilettura dell’oggetto come fonte e via alla vitalità della natura e della storia.
Thorvaldsen si pone il problema del classicismo da una prospettiva tedesca (non importa che sia danese, è una questione quasi “etnica”): e il classicismo tedesco parla “dorico”. Dorici sono i colonnati degli edifici di Schinkel attraverso cui la Prussia costruisce la propria immagine morale di nazione guida capace di riunificare politicamente sotto il suo manto le membra disperse del popolo tedesco. Un rispecchiamento che prosegue nell’“amore per la sapienza”, attraverso una lingua plastica e rigorosa come quella ellenica.
Su questo piano le scelte e il rigore di Thorvaldsen (si pensi alla sua capacità di ricostruire nel Giasone col vello d’oro le proporzioni del canone policleteo dalle molte derivazioni del Doriforo in un’epoca in cui la statua non era ancora stata identificata) vanno inseriti in un bacino culturale in cui parte notevole ha la forgiatura della scienza filologica, che sarebbe sfociata nel metodo di Lachmann.
Scrive Grandesso in catalogo: «Thorvaldsen doveva essere riconosciuto come il campione nordico del classicismo... Se ne era impadronito al massimo grado, risalendo alle più pure fonti dell’arte greca. Attraverso una tabula rasa della tradizione moderna così presente a Canova, Thorvaldsen rappresentava la riforma e la possibilità di una palingenesi dell’intera arte nordica e tedesca, che si sarebbe rigenerata come erede della grecità più incorrotta».
Il punto è questo: Canova, per il quale il classico è lingua naturale, appare come sintesi e culmine di un percorso; -Thorvaldsen, nell’astrazione di una lingua fatta propria con un atto intellettuale, come “inizio”. Il minimalismo del Novecento nordico (tedesco e scandinavo) è la versione distillata del distacco, dell’equilibrata solidità, della razionale e serena purezza dei volumi della scultura di Thorvaldsen tanto quanto dell’architettura di Schinkel.
Ma nella sintonia tra il classicismo aulico e austero di Thorvaldsen con la questione della “superiorità” del Volk tedesco (il riferimento alla Grecia più arcaica e pura come immagine guida nella costruzione di una nazione consente di aggirare l’eredità latina) trova anche genesi una retorica di forme che sarà amata dal Sonderweg (l’“eccezionalismo” prussiano) fino al totalitarismo nazista, il quale non a caso non conosce la fase rivoluzionaria delle avanguardie: tra questa scultura e le immagini degli atleti di Olympia, il film di Leni Riefenstahl, c’è una discendenza diretta. Il totalitarismo italiano di certo non potrà pescare dalle “mollezze” e dalla levità canoviane: molto più efficace la rude virilità di Roma e dell’arte dei popoli italici.
Canova e Thorvaldsen si muovono davvero su binari paralleli. Il confronto in mostra tra la Ebe canoviana e quella del danese è decisivo. La prima è un’apparizione, una polena che avanza danzando in volo, i cui abiti che aderiscono al corpo manifestandolo in trasparenza hanno la stessa densità della nuvola. La seconda è una figura immobile, casta, inattingibile: ma molto più solida della collega italiana.
Eppure in Thorvaldsen sembra esserci una sorta di compressione, un pulsare sotto la superficie. Lo si nota nei suoi ritratti, dove Thorvaldsen nasconde la modernità sottopelle all’antico, come ad esempio in quello di Vincenzo Camuccini, apparentemente all’antica ma efficacissimo nella resa psicologica con quello sguardo che taglia obliquo, i capelli arruffati e persino il dettaglio alla moda delle basette sul viso glabro e affilato. O come nel ritratto di Horace Vernet, dove la pelle appare tesa sopra ossa e muscoli. È un guizzo che i ritratti di Canova nella pur strepitosa resa naturalistica (memorabile quello del compositore Domenico Cimarosa) non sembrano avere.
O ancora nei gruppi delle Tre Grazie attorno a cui tutta la mostra sembra orbitare. Il capolavoro supremo di Canova ha eleganza e ricchezza di affetti: ma ciò che concatena le tre figure in un fluido infinito abbraccio circolare è un sentimento agapico.
Thorvaldsen sceglie invece una forma salda, simmetrica: l’abbraccio si chiude sulla figura centrale, come le ali di un trittico. Ma i gesti (il dito, la mano) con cui le giovani ai lati ne dividono il moto, creando vettori di apertura della forma, suggeriscono una dimensione narrativa assente nel gruppo canoviano. A muoverle è indubitabilmente Eros, che suona la cetra ai loro piedi.
La mostra di Canova al MANN, grande evento europeo,
chiuderà con oltre 300.000 presenze.
L’Universiade Napoli2019 è il più grande evento sportivo
in Italia dalle Olimpiadi di Torino2006.
Eppure, sui grandi media, nulla accade a Napoli
se non scippi, pizza e sfogliatelle
8 giugno 2919
Canova e l’antico attravero il legame profondissimo tra la sua arte e la città
di Antonia Storace
NAPOLI - Svelati i corpi delle Tre Grazie, così Canova e l’antico apre al pubblico. Immaginate l’emozione dell’apertura della cassa? Ho visto la mostra in anteprima per voi grazie alla conferenza stampa che si è tenuta nella Sala del Toro Farnese del MANN, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e vi racconto del profondo legame tra il grande artista e la città.
Si intitola Canova e l’antico, la mostra allestita nelle sale espositive del MANN e dedicata ad Antonio Canova. Ma avrebbe potuto chiamarsi anche Canova e Napoli, per quel legame profondissimo che il Maestro dei marmi ebbe con la mia terra, della quale scrisse: “Per tutto sono situazioni di Paradiso”, in riferimento alla rete di grazia ideale e concreta sul cui basamento Napoli si regge.
“Il Canova ha avuto il coraggio di non copiare i greci e di inventare una bellezza, come avevano fatto i greci: che dolore per i pedanti! Per questo continueranno ad insultarlo cinquant’anni dopo la sua morte, ed anche per questo la sua gloria crescerà sempre più in fretta. Quel grande che a vent’anni non conosceva ancora l’ortografia, ha creato cento statue, trenta delle quali sono capolavori!”. Con queste parole, Stendhal esprimeva il suo pensiero su Canova. Citarle equivale a carpire, fin da subito, la grandezza di un talento creativo senza eguali.[...]
(per proseguire la lettura, cfr. l’intero art. di Antonia Storace)).
Canova europeo, a Napoli ritrova l’antico
Fino al 30 giugno al Museo Archeologico con prestiti Ermitage
di Redazione ANSA NAPOLI *
NAPOLI - "Se le scoperte di Ercolano e Pompei sono alla base della nascita del Neoclassicismo la figura di Canova ne è, forse, la massima espressione artistica". Lo sottolinea Paolo Giulierini, direttore del Museo Archeologico, spiegando perché sia Napoli la sede giusta per il grande omaggio al maestro veneto (’Canova e l’Antico’, dal 29 marzo al 30 giugno) che lavorò per quasi tutte le corti dell’epoca, "in nome di un codice interpretativo e culturale connaturato all’Europa che sarà delle Nazioni poi".
Curata da Giuseppe Pavanello, e organizzata da Villaggio Globale International, la mostra porta a Napoli, per la prima volta, oltre 110 lavori, 12 straordinari marmi, grandi modelli e calchi in gesso, bassorilievi, modellini in gesso e terracotta, disegni, dipinti e tempere, tutti in dialogo con le collezioni del MANN. Prestigiosi i prestiti internazionali a cominciare dal nucleo di sei marmi provenienti dall’Ermitage di San Pietroburgo che per la prima volta escono in gruppo dal circuito del museo russo.
PERDITA DELLA MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA: LA “X” (“CHI”, GRECO) DIVENTA “X” (“ICS”, LATINO; E, SEMPLICEMENTE, "C", IN ITALIANO) E GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") DIVENTA IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ...
opinioni
La dittatura della X fra affetti e affari
di Vittorio Zucconi (la Repubblica D, 25.11.2017)
Il Medioevo italiano la mise al bando, ma ora si usa ovunque, perché, evidentemente, attira l’attenzione. Che si tratti di business o di baci
ATTESO DA ALMENO cento milioni di esseri umani, molti dei quali in fila da giorni, è arrivato l’ultimo totem per il villaggio globale: l’iPhone X della Apple. Niente di misterioso in quella X, solo la celebrazione in numeri romani del decimo anniversario dell’iPhone lanciato da Steve Jobs: così dicono dalla Mela, ma mentono sapendo di mentire. Per segnalare il decennale, avrebbero potuto benissimo chiamarlo iPhone 10, come i predecessori 6, 7 o 8.
I geni del marketing hanno scelto la X per lo stesso motivo che ha spinto i concorrenti della Microsoft a chiamare la loro scatola da giochi XBox e (nell’ultima edizione diffusa negli stessi giorni dell’iPhone X, per tormentarci il Natale) addirittura XBoxOneX. Tre X al prezzo di una. Non è necessario essere geni dell’enigmistica e dei cruciverba per notare la fissazione per una lettera-simbolo che, da secoli e mai come ora, è uscita dal recinto dell’algebra per invadere i territori del commercio, dell’immaginazione, del calcio e del sesso, pardon, del sex.
La X vende, piace, intriga, nella sua invadenza. L’epidemia di questa lettera (che, nel Medioevo, l’alfabeto italiano aveva escluso, insieme con K e Y, presenti invece nell’alfabeto latino) è naturalmente partita dagli Stati Uniti ed è un indizio del dominio culturale anglofono. È ovunque e le femmine ne hanno pretese addirittura due nei propri cromosomi, XX, lasciando a noi maschi l’umiliazione di quella Y solitaria.
S’insinua nella vita di ogni paziente, che ha sicuramente inghiottito una pillola il cui nome conteneva una X o è stato esposto ai raggi X. Ci sono almeno 50 farmaci da ricetta che la esibiscono, dal tranquillante Xanax, che raddoppia per sembrare più efficace, all’antibiotico Ciprofloxacina, somministrato a milioni di persone afflitte da infezioni delle vie urinarie.
Qualche linguista Usa ha cercato di spiegare l’attrazione con il Cristianesimo, partendo dalla croce che i Romani usavano per uccidere i nemici più pericolosi e che era fatta appunto a X, e non a T come nell’iconografia ufficiale. Ma non c’è nulla di mistico in banali varietà musicali come X Factor, copiato anche in Italia. Dubbi religiosi riaffiorano in dicembre, quando gli americani, sempre impazienti, abbreviano Christmas, Natale, in XMas. Ma poi si sprofonda nel prosaico esercizio del voto, che utilizzò quel segno affinché anche gli analfabeti potessero manifestare sulle schede le scelte politiche.
Resta in esso sempre il brivido del mistero, dell’incognita, come nelle equazioni o nella fantascienza della serie X-Files. Sa di frutto proibito, nei film porno classificati come XXX o nei commerci erotici, in quei Sex Shop che, se si chiamassero "botteghe del sesso", farebbero ancora più schifo. Diventa il richiamo alla morte e alla ferocia dei pirati, con le ossa incrociate a forma - che altro? - di X sotto il teschio. È uno dei molti simboli satanici, ma anche di tenerezza, nella stenografia da chat o da sms, dove sta per "baci", insieme con O, per "abbracci": XOXO, "ti mando baci e abbracci". Tende a essere estremista nell’abbigliamento, con le taglie XS, XL o addirittura, aiuto!, XXL. Anche l’immagine che guardiamo sul televisore, sul computer o sullo schermo dello smartphone paga un tributo, essendo formata da pixel.
Non ha colpe, né meriti questa lettera prepotente, immigrata senza autorizzazione fra di noi, ma qualche segreta e scaramantica influenza negativa forse sì. Soltanto uno, fra i 45 presidenti degli Stati Uniti in 200 e più anni, ha osato avere una X nel proprio nome, Richard Nixon. Finì infatti, primo e unico dimissionario nella storia, crocefisso alla vergogna delle proprie colpe.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"!
Federico La Sala
LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andropologico" romano è finito:
Antonio (non più don) Potenza si è sposato a Westminster
di Alessio Porcu - 8 luglio 2017
Togliamoci subito di mezzo la notizia di gossip. Antonio (non più don) Potenza si è sposato. L’ex segretario del chiacchierato 191mo abate di Montecassino Pietro Vittorelli si è unito in matrimonio con Celeste, la ragazza di Cassino che aveva conosciuto nell’archivio del museo dell’abazia. E per la quale ha lasciato: la tonaca di benedettino, la carica di segretario dell’abate, nonché la carriera spianata verso i vertici dell’Ordine.
Il matrimonio è stato celebrato nel pomeriggio all’interno della cattedrale di Westminster a Londra, direttamente dal dean John Hall che è il decano di Westminster. Il rito è stato quello anglicano. Officiato in un giorno particolare: quello del compleanno della sposa. Tra le foto è possibile riconoscere con sicurezza l’assessore comunale e già cerimoniere abbaziale Benedetto Leone nonché l’avvocato Gianrico Ranaldi. Sono seduti l’uno accanto all’altro nell’immagine che li vede nel chiostro di Westminster Abbey durante il concerto per violino che si è tenuto al termine della cerimonia religiosa.
Puntare sul pettegolezzo, di fronte ad una notizia così sarebbe un grave limite.
Perché Antonio (non più don) Potenza poteva convolare a nozze ovunque gli fosse garbato. Ma farlo a Westminster ha un significato molto profondo e particolare. Il suo matrimonio rappresenta un segnale forte alla Chiesa di Roma ed a Papa Francesco. E’ un messaggio con il quale sollecitare a rimettere nell’agenda il tema del celibato dei preti.
Non è un caso che il rito sia stato celebrato dal dean John Hall: non è solo il decano di Westminster. In quanto tale, è anche il capo del capitolo dell’abbazia. Che è prelatura personale della Corona. Quindi il dean risponde direttamente alla Regina (che è il capo della Chiesa anglicana) non al Vescovo di Londra come ordinario, né all’arcivescovo di Canterbury come metropolita. L’abate Pietro Vittorelli ed il suo segretario Antonio Potenza avevano lavorato molto sui rapporti tra Chiesa di Roma e Anglicani. Avevano cercato di favorire il dialogo ecumenico. Più volte erano stati a Londra ed avevano ospitato a Montecassino i vertici della chiesa di Sua Maestà.
Antonio Potenza in questo momento è formalmente un exclaustrato. E’ cioè un monaco che non conduce più vita monastica ed ha lasciato l’ordine. L’iter lo aveva avviato a gennaio 2016, presentando la domanda e trasferendosi quasi subito a Londra. Ma avendo preso i voti monastici resta sempre un consacrato: il sacramento è per sempre e in nessun modo può essere tolto.
Il suo matrimonio celebrato a Westminster può essere un modo per tentare di accelerare i meccanismi di dialogo che in qualche modo erano stati attivati proprio dai due vertici dell’abazia di Montecassino negli anni scorsi.
«E’ la visione di una Chiesa pre Tridentina - analizza il filosofo Biagio Cacciola - in quanto a quel tempo era prevista la possibilità dell’unione matrimoniale pur conservando il sacerdozio. Soltanto dopo il secolo XI con papa Gregorio VII, Ildebrando di Soana, ci fu il radicamento del celibato. Che era però legato soprattutto ad una questione di convenienza. Infatti, il papato era egemone sotto il profilo territoriale ed avere figli, essendo sacerdoti, avrebbe tolto alla Chiesa strutture e terreni»
Il tema è aperto. In Puglia esiste una diocesi di rito Bizantino Orientale che è incardinata nella Chiesa di Roma. Non è di rito Ortodosso. E prevede l’istituto dell’uxoriato cioè i sacerdoti sono sposati.
Quel matrimonio, celebrato a Westminster, paradossalmente è anche una risposta ai preti sposati anglicani passati al Cattolicesimo, motivo di attrito tra Chiesa Anglicana e Cattolica, cinque anni fa.
In questo periodo Antonio (non più don) Potenza lavora per anglicani in una delle loro strutture di Londra. Alcuni sostengono trattarsi di un hotel nel cuore della City. Formalmente, potrebbe rivendicare il titolo di don. Ma per ora, tolti i formalismi farisaici, per i fedeli di Roma non lo è. Le prossime settimane, con i successivi passi, diranno come stanno le cose.
Napoleone li rubò, Canova li riportò a casa
La nuova vita dei capolavori recuperati
Duecento anni fa tornarono in Italia le opere sottratte dalla Francia, ora riunite in mostra
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 15.12.2016)
È il 4 gennaio 1816 e il «Diario di Roma», il giornale politico dello Stato Pontificio, scrive: «Giunsero in questa Capitale diversi carri contenenti vari dei migliori capi d’opera in Pittura e Scultura, che con trasporto di giubilo e per il Bene delle Arti, ritornano ad associarsi a questi Monumenti Romani, vale a dire a quel centro di riunione ch’è il solo capace di formare gli Artisti e d’inspirar loro la sublimità de’ concetti. Questo avvenimento ha eccitato il più grande entusiasmo del Popolo Romano». È una delle tante cronache del ritorno nei diversi Stati italiani preunitari delle splendide opere d’arte sottratte tra il 1796 e il 1814 nella penisola italiana per volere di Napoleone Bonaparte.
Sullo sfondo, il progetto di un Louvre che fosse Museo Universale, apoteosi culturale del nuovo ordine imperiale napoleonico, simbolo estetico delle sue conquiste territoriali. Da Roma partono persino opere monumentali e delicatissime come il Laocoonte e l’ Apollo del Belvedere. Caduto l’Empereur, i diversi Stati italiani ottengono, nel Congresso di Vienna, la restituzione dei loro capolavori, che rientrano nel 1816.
Sono passati duecento anni e le Scuderie del Quirinale a Roma propongono da domani, 16 dicembre, e fino al 12 marzo 2017 la mostra Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova a cura di Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce.
L’accostamento di Canova a Napoleone è una delle chiavi della rassegna: fu il grande scultore, come commissario dello Stato Pontificio, a organizzare da Parigi il rientro delle opere romane.
Il Laocoonte rischiò danni irreparabili, cadendo sul ghiaccio del Moncenisio dalla carrozza che lo trasportava. La mostra offre autentici capolavori. Il vero divo sarà sicuramente Raffaello, col suo Ritratto di papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, che arriva con un prestito eccezionale dalla Galleria degli Uffizi. E poi ecco La strage degli innocenti di Guido Reni dalla Pinacoteca di Bologna, l’immensa Assunzione della Vergine di Tiziano dal Duomo di Verona, il Compianto sul Cristo morto di Correggio e la Deposizione di Annibale Carracci dalla Galleria nazionale di Parma, la Cattedra di San Pietro del Guercino dalla Pinacoteca di Cento, il Battista tra i Quattro Santi di Perugino dalla Galleria nazionale dell’Umbria. E poi verranno esposti due capolavori della statuaria classica come la Venere Capitolina dai Musei Capitolini e il Giove di Otricoli dai Musei Vaticani.
La diversa provenienza geografica intende testimoniare, nelle intenzioni dei curatori, non solo la quantità e la qualità delle opere disseminate in Italia (testimonianza di una produzione artistica fertile in ogni regione) ma anche l’effetto prodotto da quel rientro: molte opere, dopo essere state conservate in depositi organizzati sull’onda dell’emergenza del ritorno, non vennero ricollocate nel loro contesto originario ma dettero vita, a loro volta, a molti musei moderni italiani, così come li conosciamo ora, proprio sul modello ideale del Louvre.
Per esempio il definitivo arricchimento della Pinacoteca di Brera a Milano voluta proprio da Napoleone nel 1805, la creazione della Galleria Nazionale dell’Umbria, o le Gallerie dell’Accademia di Venezia, la Pinacoteca di Bologna. Tutti musei pubblici figli dei tempi ormai cambiati per sempre.
La mostra segna l’esordio delle «nuove» Scuderie del Quirinale, spazio espositivo autonomo ormai sganciato dall’Azienda speciale Palaexpo (che lo ha gestito fino a settembre e ha avviato la preparazione dell’evento). Le Scuderie del Quirinale sono state affidate dalla presidenza della Repubblica al ministero per i Beni e le attività culturali e quindi ad Ales, la società in-house del ministero, presieduta da Mario De Simoni. Il progetto è farne una sorta di Grand Palais italiano, il punto di riferimento delle grandi mostre temporanee di respiro nazionale.
Spiega De Simoni:«Dopo i grandi successi registrati negli anni scorsi, il ministero punta a stabilire un’alleanza organica tra le Scuderie e il sistema museale italiano. Parliamo di uno spazio di enorme prestigio, di superbo posizionamento nel cuore di Roma ma privo ovviamente di una propria collezione. Questo elemento solo apparentemente di debolezza può essere brillantemente superato inserendo le Scuderie in un circuito espositivo nazionale ma ovviamente di respiro internazionale. Faccio un esempio concreto proprio parlando del Grand Palais. Molte grandi mostre organizzate dal Louvre, come quella dello scorso anno sul Velàzquez, sono state allestite al Grand Palais con un accordo con La Réunion des musées nationaux, ovviamente il Grand Palais e il musée du Louvre di Parigi e il Kunsthistorisches Museum di Vienna».
Intanto Raffaello con Leone X accoglieranno i visitatori alle Scuderie. Ed è già un magnifico esordio, visto che si tratta di uno dei pezzi più importanti dei 63 selezionati nella collezione granducale toscana, tra il marzo e l’aprile 1799, dal pittore Jean Baptiste Wicar e destinati a far parte del futuro Musée Napoléon al Louvre. Proprio Leone X apriva, nel 1804, l’elenco dei dipinti di Raffaello nel catalogo del nuovo museo parigino.
Caduto l’Impero, il ritratto di Leone X venne incluso nella seconda spedizione di rientro da Parigi in Italia. Partì dal Louvre il 23 ottobre 1815 e arrivò a Firenze il 27 dicembre dopo aver passato (come il Laocoonte) il passo del Moncenisio, aver fatto tappa a Torino e quindi a Milano. Un’avventura straordinaria, per i tempi. Infine, il ritorno nelle collezioni granducali, non più agli Uffizi ma a Palazzo Pitti nella Sala di Marte il 21 febbraio 1816: segno visibile della Restaurazione, con sommo gaudio del granduca Ferdinando III.
DIALOGHI
Le lettere di Winckelmann, il tedesco padre dei greci
Maria Fancelli ha curato per l’Istituto Italiano di Studi Germanici i tre volumi delle «Lettere» di Winckelmann: la rete di relazioni per il fondatore del mito della classicità
di CLAUDIO MAGRIS (Corriere della Sera, 22.09.2016)
«È grigia qualunque teoria, ma verde è l’albero della vita», dice nel Faust Mefistofele burlandosi di uno studente che vorrebbe spendere la sua vita fra i libri e gli studi eruditi. Questa contrapposizione tra vita e cultura, nata soprattutto nella Germania dello Sturm und Drang e del Romanticismo, è presto divenuta un diffuso luogo comune, sino all’esaltato vitalismo dilagante tra fine Ottocento e primo Novecento. A essere celebrata è la vita nel suo scorrere, morire e rifiorire come una pianta, ma presto sarà la vitalità ad apparire distruttiva e angosciosa, come un’indomabile radice che affiora squarciando il terreno e devastando la rassicurante casa costruita su quel terreno dall’uomo e dalla sua ragione. Nell’ultimo e più affascinante dei suoi libri, il vecchio Croce è sgomento dinanzi alla «vitalità verde» che sconvolge il classico e solido edificio dei concetti e delle categorie filosofiche.
Quella contrapposizione è seducente ma falsa e pochi la smentiscono come Winckelmann, infaticabile e geniale studioso fondatore di quel mito della grecità, indagato con precisione antiquaria e appassionata partecipazione sensuale, che avrebbe rivoluzionato non solo la storia dell’arte ma in generale lo spirito, il gusto, la sensibilità, lo stile della Germania e dell’Europa.
La sua Storia dell’Arte nell’Antichità è una monumentale opera storiografica e un canone di bellezza assoluta, non soggetta ai mutamenti della Storia. Bellezza della classicità greca - conosciuta da lui peraltro non nei capolavori originali, bensì nelle copie romane - che è modello della bellezza universale umana, perfetta sintesi di «nobile semplicità e serena grandezza». Serenità dell’anima e armonia del corpo rispecchiate dall’insondabile serenità del mare, dalla trasparente lievità dell’acqua non increspata e dalla perfezione del marmo pario. Una minuziosa ricerca erudita e un’inesausta passione vitale, permeata di eros omosessuale, porta Winckelmann a formulare il primato assoluto dell’arte e dunque dell’umanità greca - la perfezione dell’Ercole Farnese, l’Apollo del Belvedere «sopra ogni cosa» - e a vedere nella Germania la nuova Ellade dell’Europa moderna.
Filologia e passione, archivi e biblioteche e sogno del mare ellenico, enorme lavoro a tavolino e una rete di relazioni con personalità di tutto il mondo, che esigono e creano un epistolario ricco come un’enciclopedia e affascinante come un romanzo; anzi che è pure un vero romanzo epistolare, come scrive Maria Fancelli che ha pubblicato, insieme a Joselita Raspi Serra, tre fondamentali volumi di Lettere (1742-1768), in un lavoro di anni.
Lavoro filologico, storico e letterario che rappresenta un evento di eccezionale importanza nella cultura italiana. Edita dall’Istituto Italiano di Studi Germanici, l’eccellente traduzione delle lettere in tedesco - molte Winckelmann le scrisse in italiano - è dovuta a Bianca Maria Bornmann, Barbara Di Noi, Paolo Scotini, Francesca Spadini e Delphina Fabbrini, col coordinamento di Fabrizio Cambi.
Per realizzare quest’opera, di una ricchezza culturale e di una chiarezza classica degne del grande autore studiato, è sceso dunque in campo uno Stato maggiore della germanistica italiana. Maria Fancelli, formatasi alla grande scuola fiorentina di Vittorio Santoli da lei originalmente proseguita, è autrice di studi fondamentali (per esempio In nome del classico, 1979; Il secolo d’oro della drammaturgia tedesca; l’edizione italiana del Werther).
I suoi saggi - su Goethe, Kleist, Heine, Stifter o Benn - e la sua ventennale direzione di una notevolissima collana di classici tedeschi per l’editore Marsilio e il suo impegnato e creativo insegnamento le hanno valso una laurea ad honorem presso l’Università di Bonn, che ha premiato una singolare simbiosi di rigore filologico e originale e generosa intelligenza critica, una sanguigna e fresca comprensione delle cose e delle persone e una innovativa attività di scambio culturale che coinvolge Italia, Germania e Francia.
Joselita Raspi Serra, storica dell’arte allieva del grande Cesare Brandi, ha curato tra l’altro l’edizione in quattro volumi Il primo incontro di Winckelmann con le collezioni romane (2002-2005) e ha scritto il saggio La Fortuna di Paestum e la memoria moderna del Dorico 1750-1830, importante per la comprensione di quel mito dorico così presente e talora inquietante nella cultura tedesca.
Come nasce - chiedo a Maria Fancelli - l’idea di questa edizione? Cosa significano queste lettere per un lettore di oggi?
Maria Fancelli - A parte l’occasione del duplice giubileo di Winckelmann, la nascita a Stendal e la tragica morte a Trieste, l’idea nasce anzitutto per rendere accessibile agli italiani un’opera che è insieme un grandioso affresco culturale sovranazionale e un appassionante romanzo di vita vissuta, uno spaccato di grande storia europea e italiana, in cui sfilano protagonisti dell’arte, della cultura e della politica di vari Paesi, vicende di danaro, di passione, di accorta diplomazia, di indomabile entusiasmo, mentre grazie a Winckelmann, alle verità e alle menzogne della sua vita, nasce una nuova storia dell’arte e un nuovo senso dell’arte e nasce una nuova Germania, rinnovatrice ed erede della civiltà e dell’arte greca.
Uno dei grandi libri che hanno indagato questo binomio di Grecità ed Età di Goethe - come dice il titolo, Griechentum und Goethezeit - l’ha scritto non a caso il grande germanista che ha curato la prima edizione di queste Lettere di Winckelmann, Walther Rehm, che del resto tu hai conosciuto e frequentato...
Claudio Magris - Sì, quando studiavo a Freiburg im Breisgau, in quei semestri 1962-63 che sono stati fondanti per il mio percorso germanistico, ho seguito in modo particolare le lezioni di Walther Rehm, anche perché il mio Maestro Lionello Vincenti, che era suo amico, mi aveva per così dire un po’ affidato a lui. E Rehm - credo fosse il suo ultimo anno di insegnamento - parlava proprio di Grecità e Germania goethiana, riprendendo e rinnovando i suoi antichi studi. È stata per me un’esperienza molto importante, in quella piccola vivacissima Freiburg nella Selva Nera, in cui c’erano anche Heidegger e ogni tanto compariva Celan, che però non ho mai visto, nonostante fossi legato a un altro germanista, più giovane, Gerhart Baumann, che era molto vicino a quella cultura così radicalmente diversa da quella classica. Ma è a Freiburg che, per così dire, ho incontrato la classicità tedesca e anche Winckelmann. Ma Winckelmann fonda forse non tanto il Classico, la Classicità tedesca, quanto il Neoclassicismo - che differenza c’è tra i due?
Maria Fancelli - La nozione di Classico è estesa e antica, ha molte variazioni di senso e spesso si definisce per opposizione (classico-romantico), è difficile da definire sinteticamente, e lo stesso vale per Neoclassico. Comunque, classico è ciò che è divenuto esemplare, che è riconosciuto quale modello e che dispiega la sua esemplarità nel corso delle generazioni e della lunga durata. Questo termine raggiunge il suo massimo potenziale a metà Settecento, quando classico diventa idea portante di un progetto, aspirazione a un sapere organico e unitario, mito fondativo del nuovo.
Classico indica l’esemplarità del mondo greco nella sua fase più alta ma anche la potenzialità più autentica e più duratura del moderno. Classico per eccellenza è il prodigioso decennio della collaborazione tra Goethe e Schiller (1795-1805), straordinario cantiere della modernità. Neoclassico indica piuttosto movimenti definibili in senso temporale e spaziale, legati a un’epoca o a un periodo storico nel quale si torna a sentire l’esemplarità dei valori etici, formali ed estetici del Classico, il bisogno del decoro e della misura. Epoche in cui le speranze del rinnovamento politico paiono meno forti e prevale il ritorno a modelli antichi più imitati che ricreati, forme levigate e nobili, Antonio Canova, il Foscolo de Le grazie.
Claudio Magris - Forse Winckelmann è il padre di entrambi, classico e neoclassico... Nei mesi trascorsi a Firenze tra il 1758 e il 1759, si è occupato pure di arte etrusca, come testimonia la mostra in corso (fino al 30 gennaio 2017) al Salone del Nibbio del Museo Archeologico di Firenze, curata da Giovannangelo Camporeale e Stefano Bruni. Quale significato ha questa sua esperienza nella sua vita e nella sua opera?
Maria Fancelli - La mostra lascerà un segno nel campo degli studi winckelmanniani e, quel che più conta, susciterà domande e nuove ricerche: sulla malinconia degli Etruschi, sulla linea che lega gli Etruschi all’arte di Michelangelo. Lo dimostra il prestigioso catalogo uscito in versione italiana e tedesca a cura di Barbara Arbeid, Stefano Bruni e Mario Iozzo per l’Ets di Pisa. Pur affascinato dagli Etruschi, che comunque conosceva solo in parte, Winckelmann scrive che alla loro arte mancava «la grazia», un concetto chiave del Neoclassicismo. Sì, forse Winckelmann è stato il padre del Classico e del Neoclassico, ma è stato soprattutto il fondatore di quell’età che sarà detta classica per eccellenza e che altri renderanno, per sempre, «esemplare», da Goethe a Schiller a Hölderlin. Una classicità non certo levigata ma vitale, inquietante, anche esplosiva.
di Antonio Gramsci (Eddyburg, 11 Agosto 2016)
Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.
Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.
Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.
Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.
Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.
Ecco perchè molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.
[[Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55]->http://www.eddyburg.it/2016/08/perche-studiare-il-latino-e-il-greco.html]
La parola presente /4
BENESSERE. Equilibrio, ricchezza e salute, così è cambiata la "buona vita".
Se la religione dei corpi riduce l’uomo a merce
di Marino Niola (la Repubblica, 25.07.2016)
Well be or not to be. Benessere o non essere, questo è il problema. Il dilemma del nostro tempo che ha sciolto il dubbio amletico e lo ha trasformato in imperativo cosmetico. Estetico, dietetico, terapeutico. Dopo averne fatto a lungo un mantra economico. Ma in entrambi i casi, sia che si tratti della salute del nostro corpo, sia che si tratti della salute delle nostre finanze, resta il fatto che la parola benessere ormai riguarda sempre più l’avere e sempre meno l’essere.
Con un avvitamento della lingua che riflette una metamorfosi del senso comune e dei suoi valori di riferimento. Che prendono un’accezione sempre più materiale, legando la soddisfazione, l’autostima, l’equilibrio personale, la realizzazione di sé, il proprio riconoscimento da parte degli altri, a qualcosa che si possiede. Fino a poco tempo fa era un reddito soddisfacente, adesso è un corpo efficiente. Un passaggio che nell’inglese è scritto a chiare lettere nella stretta parentela tra wealth,ricchezza, e health, salute. Mentre l’italiano chiama entrambe benessere. Con uno slittamento interno del significato che però non affiora alla superficie del vocabolario. Ne è la prova il fatto che non si sente il bisogno di creare due termini distinti.
In realtà il termine benessere finisce per riepilogare i valori, le aspettative, le proiezioni che in ogni epoca compongono gli algoritmi della buona vita. Per gli antichi si tratta di parametri spirituali, che hanno a che fare poco con la ricchezza, un po’ più con la salute, e molto con l’equilibrio. Che è alla base di una buona disposizione dell’animo. Platone la chiama eufrosine, cioè letizia, che è anche il nome di una delle tre Grazie, divinità dispensatrici di splendore, di bellezza e di prosperità. Peraltro il termine grazia è molto imparentato con la gratuità, il disinteresse, l’armonia, la giustizia. Lo dice il nome greco delle Grazie che è Cariti, da charis che significa dono, un concetto storicamente legato alla nostra idea di carità. E dunque il benessere non dipende dalla ricchezza. Ancor più chiaro in questo senso è Aristotele, che esclude categoricamente il possesso e il successo. Perché lo star bene degli uomini non consiste semplicemente in un soddisfacimento dei desideri e dei bisogni materiali, ma nel controllo razionale delle passioni e delle pulsioni. Che è condizione dell’equilibrio individuale e dell’equità sociale. Ma il filosofo della catarsi si spinge ancora oltre e, con un ragionamento che oggi definiremmo antiutilitaristico, arriva addirittura a separare la crematistica, la scienza che riguarda l’acquisto e la gestione della ricchezza, dall’economia.
Quest’ultima, infatti, insegna come soddisfare i bisogni primari e vivere bene in mezzo agli altri, mentre la crematistica, che mira a quella che adesso chiameremmo l’accumulazione del capitale, è artificiale e in un certo senso antisociale. Insomma, per l’autore dell’Etica Nicomachea, il benessere è di natura essenzialmente relazionale, nel senso che il rapporto con gli altri costituisce un bene in sé. È il fine e non il mezzo dell’economia. Una posizione declinata al presente da una filosofa come Marta Nussbaum, non a caso definita neoaristotelica. L’autrice di Non per profitto ritiene infatti che una delle cause del declino attuale della democrazia sia l’utilitarismo spinto all’estremo che riduce l’uomo a merce, il sapere a tecnica, la bellezza a dogma, la salute a obbligo. E il benessere a Pil. Che, naturalmente, per mantenersi su livelli elevati ha bisogno di lavoratori in piena forma, di macchine corporee senza difetti. Efficienti, performanti, scintillanti. È l’avvento degli “ultimi uomini”, per dirla con lo Zaratustra di Nietzsche, quelli che credono di avere inventato la felicità, che vivono sempre più a lungo, e per i quali ammalarsi è peccato.
Ed è proprio questo scivolamento della persona verso la risorsa umana, del well-being verso il well-ness, della comunità verso l’immunità, alla base della svolta biopolitica che stiamo vivendo. Dove gli uomini diventano energie rinnovabili e quindi anche rimpiazzabili. Del resto proprio questo vuol dire risorsa, dal francese resortir, nel senso di rinascere, rinnovarsi. È l’umano al servizio dello sviluppo e non lo sviluppo al servizio dell’umano.
Una critica in ipsis verbis di questo pensiero unico della crescita si trova in un apparente lapsus degli studenti della South-Pacific University di Suva, nelle isole Figi, che hanno trascritto in pidgin-english (la lingua franca di alcune aree del Pacifico), il termine development, sviluppo, facendolo diventare develop-men, ovvero piena realizzazione dell’umano. Così quello che sembrava un errore di spelling si rivela invece una straordinaria retroilluminazione della parola. Che fa brillare un altro senso possibile, a condizione di pensare altrimenti.
Oggi l’asse del benessere si è ulteriormente e decisamente spostato. Da richness a fitness. Col risultato di trasformare i nostri stili di vita in religioni del corpo, in idolatrie della longevità, in liturgie alimentari. Con il bio al posto del dio. E la dietetica al posto dell’etica. E, quasi inavvertitamente, siamo entrati nell’era di homo dieteticus, il figlio spaventato di homo oeconomicus. Quest’ultimo, spinto in avanti dal vento del progresso e convinto che le cose sarebbero andate sempre meglio, per sé e per i suoi, investiva sul futuro.
Mentre l’homo dieteticus, in preda a mille insicurezze, personali, ambientali, lavorative, sta facendo della salute il bene rifugio su cui scommettere tutto e subito, il capitale immunitario al quale destinare tempo, cure, energie e risorse.
Passione e ossessione. Narcisismo ed esorcismo. Ideologia e ipocondria. Forse perché non ci è rimasto altro da scambiare e da vendere nel mercato della forza lavoro globale, se non la nostra apparenza e la nostra efficienza. Ridotti come siamo a braccianti multitasking, cottimisti del tardo capitalismo, falangi della mano invisibile.
Così il corpo torna ad essere, come diceva Baudelaire, l’arcano della merce, la forma elementare dell’economia. E il benessere diventa l’algoritmo di una condizione umana ridotta a nuda vita.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOLOGIA, ARTE, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA. "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
CANOVA E IL VATICANO: LE GRAZIE, AMORE E PSICHE Una gerarchia senza Grazie (greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
Breviario
#Latino e greco
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.05.2016
Tra le mie varie funzioni presso la Santa Sede c’è quella di tutelare la Pontificia Accademia di Latinità, un’istituzione che coopta i maggiori studiosi di questa lingua. Ho, in tal modo, scoperto quanto forte - soprattutto all’estero - sia la passione per una cultura così alta che continua a vivere proprio attraverso la sua eredità. Agli italiani, e in primis alla scuola che invece la snobba, vorrei semplicemente ricordare le righe sopra citate che non hanno bisogno di commento, ma solo di riflessione. Non le ha scritte un vecchio precettore, ma Antonio Gramsci nel 1932, nei suoi Quaderni dal carcere, per ammonirci che chi non conosce il proprio passato non riesce a vivere il suo presente in modo vero ed efficace.
"Non vogliamo fare i preti, solamente contare di più"
Parla suor Carmen Sammut, paladina della richiesta di diaconato femminile.
"Dal Papa una scossa alla Chiesa maschilista"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 14 maggio 2016)
CITTÀ DEL VATICANO. "Ma lei ha mai riflettuto sull’Ultima cena?".
In che senso, madre?
"Nelle raffigurazioni fatte anche da grandi artisti quasi mai ci sono donne. Le pare possibile? Una cena senza donne? Eppure questa visione di una comunità ecclesiale senza donne, di una Chiesa nei suoi vertici solo maschile, ci è entrata dentro, l’abbiamo interiorizzata. Credo sia arrivato il momento di liberarcene e di dare il giusto peso alla presenza femminile nella Chiesa". Suor Carmen Sammut, presidente della Uisg (Unione internazionale superiore generali), ha raccolto insieme ad altre sorelle le domande fatte ieri a Francesco. Minuta, occhi svegli, in una pausa dei lavori del raduno delle 800 religiose all’Hotel Ergife a Roma ammette: "In ogni caso, che botta!".
Come, scusi?
"La risposta di Francesco sul diaconato femminile, una bella botta salutare. È ora che della cosa s’inizi a parlare".
Se ne parla troppo poco?
"Beh, è evidente. Non solo la Chiesa a Roma, ma la Chiesa in tutto il mondo ha eluso il problema. Invece molte di noi sono chiamate a svolgere un servizio che nei fatti è già un diaconato. Per questo abbiamo posto la domanda al Papa: ci sembra giusto che il diaconato ci venga riconosciuto perché ci siamo rese conto che la gente a cui siamo mandate ci guarda così. Il diaconato in questo senso può portare molto frutto".
Diceva dell’ultima cena. Gesù come discepoli ha scelto dodici uomini...
"Sì, guardi, ma con le donne nei Vangeli ha fatto cose scandalose, mi si passi il termine, per quell’epoca. Si faceva avvicinare, potevano toccarlo, stargli vicino. Le sembra poco? Poi purtroppo è stata la Chiesa a dividere uomini e donne, una divisione disastrosa".
Un Papa, Albino Luciani, ha anche parlato di Dio come madre.
"Dio non è pensabile semplicemente come padre, come uomo. Lo Spirito, del resto, è sempre stato visto al femminile".
Che impressione ha avuto dal Papa, è favorevole al diaconato oppure no?
"Ci ha detto che anche per lui dovrebbero esserci più donne nei posti di comando della Chiesa. E che questi posti vanno sganciati dall’idea che possono occuparli soltanto dei preti. In virtù del nostro battesimo possiamo contribuire al momento decisionale della Chiesa stessa. Sarebbe un valore per tutti".
E sul diaconato?
"Intanto non ha eluso la domanda, che gli è stata fatta perché da diverse parti del mondo ci è stato chiesto di porla. Gli abbiamo inviato le domande prima e ha accettato di rispondere a tutte. Anche a una dedicata al denaro, che era stata espunta. In ogni caso, la disponibilità a studiare il diaconato è un passo importante. Non vogliamo fare i preti e nemmeno i vescovi, per carità, ma che venga riconosciuto il nostro diaconato come servizio perché è utile per la gente".
Perché ritiene le donne importanti per i processi decisionali della Chiesa?
"Noi donne abbiamo un’altra visuale sui problemi. Senza la nostra visuale le decisioni sono monche, manca loro una parte. Donne e uomini devono lavorare insieme".
La Chiesa è troppo maschile?
"Secondo me nei suoi vertici sì".
Al Sinodo avete avuto spazio?
"Beh, troppo poco. C’erano delle donne, ma poche. Ma davvero non credo che sia solo un problema di Roma. È un problema della Chiesa in generale. A un certo punto si è iniziato a fare così e questa usanza è divenuta prassi".
Il cardinale Piero Parolin ha detto che di per sé una donna potrebbe diventare Segretario di Stato.
"Segretario di Stato non lo so. Ma andare alla guida di dicasteri sì, certo. Francesco l’ha ribadito ieri: si devono separare le funzioni, i ruoli nella Chiesa dai "sacramenti". Dunque, una donna può essere messa in qualsiasi ruolo. E poi ha detto un’altra cosa molto forte".
Quale?
"Ha parlato del codice di diritto canonico. E ha spiegato che se una cosa è vietata dal codice non significa che debba rimanere vietata per sempre. Il codice racchiude delle leggi, ma le leggi si possono cambiare".
L’urgenza di una riforma
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13.05.2016)
FORSE ci troviamo al cospetto della prima significativa mossa di quella che potrebbe essere una rivoluzione davvero epocale. Credo la più importante tra tutte le meritorie iniziative di riforma intraprese finora dal pontificato di Francesco. Se c’è una via privilegiata infatti per il rinnovamento di cui la Chiesa cattolica ha oggi un immenso bisogno, essa è la via femminile.
PIÙ della riforma della curia, più dell’ecumenismo, più della riforma della morale sessuale, più della libertà di insegnamento nelle facoltà teologiche, più di molte altre cose, l’ingresso delle donne nella struttura gerarchica della Chiesa cattolica avrebbe l’effetto di trasformare in modo irreversibile tale veneranda e anche un po’ acciaccata istituzione.
Prendendo atto dell’emancipazione femminile ormai giunta a compimento in Occidente in tutti gli ambiti vitali, Giovanni Paolo II aveva prodotto una serie di documenti altamente elogiativi verso ciò che egli definiva “genio femminile”, si pensi alla lettera apostolica Mulieris dignitatem del 1988 e alla specifica Lettera alle donne del 1995. Né in questi testi né altrove però il papa polacco definì mai cosa intendesse realmente con tale espressione, usata in seguito più di una volta anche da Benedetto XVI nei suoi interventi in materia. Anche papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 ha parlato di “genio femminile”. Ieri però, con l’apertura al diaconato femminile, parlando davanti a oltre ottocento suore superiore, questa ermetica espressione papale ha ricevuto finalmente la possibilità di passare da edificante proclamazione retorica a concreto sentiero istituzionale.
Forse a breve non si parlerà più di genio femminile, ma di geni femminili, perché le singole donne avranno finalmente la possibilità di tornare a donare a pieno titolo il loro patrimonio genetico all’intero organismo di madre Chiesa, la quale ora nella sua mente è femminile unicamente quanto alla grammatica, mentre quanto al diritto canonico è esclusivamente maschile (e da qui le deriva l’attuale sterilità, perché anche la vita spirituale, oltre a quella biologica, ha bisogno di cromosomi y e di cromosomi x).
Ho usato l’espressione “tornare a donare” perché l’apertura al diaconato femminile da parte di Francesco non è una novità assoluta, già nel Nuovo Testamento si parla di diaconesse. Anzi, tale apertura papale può comportare la rivoluzione epocale di cui parlavo proprio perché rimanda a una doppia fedeltà: a una fedeltà al presente, al fine di rendere la Chiesa cattolica all’altezza di tempi in cui l’emancipazione femminile è almeno in Occidente un processo pressoché compiuto, e a una fedeltà al passato, al fine di recuperare la straordinaria innovazione neotestamentaria quanto al ruolo delle donne.
Se si leggono i Vangeli infatti si vede come Gesù, in modo del tutto discontinuo rispetto alla prassi rabbinica del tempo, ricercasse e incoraggiasse la presenza femminile. Luca per esempio scrive che nel suo ministero itinerante «c’erano con lui i Dodici e alcune donne», dando anche i nomi delle stesse: Maria Maddalena, Giovanna, Susanna e aggiunge «molte altre», espressione da cui è lecito inferire un numero di seguaci donne più o meno pari a quello dei seguaci uomini.
Non deve sorprendere quindi che la Chiesa primitiva conoscesse le diaconesse, come appare da san Paolo che scrive: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencre» (Romani 16,1; il testo ufficiale della Cei purtroppo è infedele all’originale perché traduce il greco diákonon con “al servizio”! Ben diversa la Bible de Jérusalem che traduce correttamente “ diaconesse de l’Église”).
Che esito avrà l’istituenda commissione di studio sul diaconato femminile? Quanto tempo passerà prima che sia effettivamente al lavoro? Quanto prima che consegni i risultati? E questi che sapore avranno? Sono domande a cui al momento non è possibile rispondere, di certo però la riforma al femminile di papa Francesco è un’urgenza da cui la Chiesa non si può più esimere. Si tratta semplicemente di giustizia: quando si entra in una qualunque chiesa per la messa le donne sono sempre in netta maggioranza, com’è possibile che nessuna di esse possa commentare il Vangelo dall’altare? Il diaconato femminile metterebbe fine a questa ingiustizia e aprirà molte nuove strade.
È un sogno destinato ad avverarsi? Nessuno lo sa, certamente però il successo della riforma al femminile di papa Francesco dipenderà dalla capacità di saper mostrare la doppia fedeltà che vi è in gioco: fedeltà alle donne di oggi e fedeltà al Maestro di duemila anni fa, fedeltà all’attualità e fedeltà a quell’eterno principio di parità emerso al momento della creazione: «E Dio creò l’essere umano a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27).
La donna ritrovi lo spirito indomito dentro di sé
Incontro. Jean Shinoda Bolen, psicologa junghiana, autrice di "Artemide" presenterà il suo libro il 6 dicembre a "Più Libri più Liberi"
di Beatrice Cassina (il manifesto, 05.12.2015)
SAN FRANCISCO
Jean Shinoda Bolen, psicologa junghiana che da molti anni si dedica all’indagine e al racconto degli archetipi junghiani, ci ha raccontato la mitologia nel mondo femminile in molti libri.
Tra questi, a metà degli anni Ottanta, aveva pubblicato Le Dee Dentro La Donna (Astrolabio), in cui le tante divinità sono raccontate come rappresentanti delle caratteristiche dell’animo femminile. Jean Bolen ha vissuto da attivista i tardi anni Sessanta e gli anni Settanta, quelli della rivoluzione femminista e oggi, attivista forse, se possibile, ancora più convita e decisa, ha appena pubblicato Artemide, lo Spirito Indomito nella donna (Astrolabio 16,00 euro), che presenterà a Roma alla Fiera del Libro Più libri Più Liberi il 6 dicembre (e oggi, sempre a Roma, ne parlerà invece all’IAAP Conference degli psicologhi junghiani).
Il libro vuole ispirare e sostenere le donne di tutto il mondo, le donne di piccoli circoli e organizzazioni, di ONG più o meno grandi, cioè tutte le sostenitrici delle silenziose, lente ma inesorabili rivoluzioni del mondo femminile. Proprio dopo che, nel 1995, a Pechino, si era tenuta la Quarta Conferenza Mondiale sulla Donna (4th World Conference on Women - 4WCW), dove si erano riunite in 40.000, e dopo che anche le Nazioni Unite avevano supportato questo evento, oggi, dopo vent’anni di lotte, progressi e sempre più numerose organizzazioni in ogni continente, Jean Bolen è diventata sempre più - e lo provano anche le sue innumerevoli presenze alle conferenze delle Nazioni Unite sullo stato della donna - una sostenitrice convita e «battagliera» per una prossima e quinta Conferenza siglata Nazioni Unite (UN5WCW).
Il successo del 1995 aveva creato uno strumento politico, psicologico, spirituale e di auto determinazione per iniziare un processo di consapevolezza e supporto reciproco per ragazze e donne che, ancora oggi, rappresenta una forza che sostiene e influenza la vita di piccole e micro comunità, dalla Cina all’India, dall’Africa al Sud America.
Oggi, grazie anche e soprattutto al lavoro di moltissime piccole ONG nel mondo, si spera che il prossimo incontro sarà tenuto nel 2020 a Nuova Delhi, dove le proteste contro la violenza e lo stupro sulle donne hanno raccolto adesioni ovunque. Ci sono centinaia di migliaia, se non addirittura più di un milione, di piccoli progetti locali creati da donne, per stabilizzare le micro economie, per dare cibo ai poveri, per affrontare gli effetti devastanti delle guerre e delle malattie, tutti con l’obiettivo di creare situazioni di vita migliori. Jean Bolen si sta impegnando sempre più, anche con questi nuovo libro, perché ci si accorga di queste realtà rivoluzionarie femminili.
E cosa c’entrano mai la psicologia Junghiana, gli archetipi e le dee della mitologia classica che abbiamo conosciuto sui banchi del liceo, con le piccole e valorose battaglie delle ONG e delle organizzazioni femminili?
C’entrano, e molto, perché proprio la bella e atletica Artemide, la cacciatrice vergine e protettrice delle partorienti e delle ragazze preadolescenti, proprio lei, dea delle foreste e della natura, con il suo arco e le sue frecce, sorella gemella di Apollo, rappresenta l’archetipo del coraggio di chi sa cosa fare e che ha trovato un significato potente da perseguire nella vita.
Un filo che collega Artemide agli sforzi sempre crescenti e sempre più vincenti delle donne nella società è che, «l’effetto Artemide», come lo chiama proprio la psicologa americana, seduta di fronte alla natura potente di Mill Valley, nella Bay Area di San Francisco, «è che ci sono studi che mostrano che non esiste migliore indicazione per il benessere di un paese se non quello di un impegno dal basso delle donne. Nessun altra cosa riesce ad avere risultati tanto positivi sulla qualità della vita». Ci si dovrebbe allora chiedere se tutte le donne possiedono le qualità di Artemide.
«Sicuramente noi donne abbiamo il dono di creare legami con il mondo che ci circonda ma, una donna Artemide in piena regola si può riconoscere perché ha una marcia in più, ha la capacità di mobilitare le altre donne e il coraggio di parlare apertamente per cause in cui vede qualcosa che fondamentalmente non funziona». È importante riconoscere il lato Artemide anche - e chissà, forse soprattutto - negli uomini. «Sì, perché gli uomini hanno cominciato a unirsi a queste organizzazioni per incoraggiare e consentire maggiore indipendenza e autonomia a tutte le figlie, sorelle, mogli».
E forse, non è neanche tanto difficile scoprirla, la donna Artemide. «Spesso una piccola Artemide, una bambina anche di solo tre anni, se possiede le qualità della dea dei boschi e della caccia, solitamente sa già cosa vuole, e ha un forte senso del Sé».
Se però esistono imposizioni o pressioni dal mondo in cui vive o anche dalla famiglia o dai genitori, quella sua parte indomita sarà esclusa dalla vita. «Ma», precisa sorridendo, «escludere non significa mai cancellare o far morire. Reprimere un forte desiderio, può fare spesso in modo che quella parte di te andrà a finire nell’inconscio e, alla fine, quei lati che non sono stati mai lasciati liberi di vivere ed esprimersi, saranno i semi di quello che sei in realtà, o che potrai diventare. Quando senti di avere un compito, ecco, come ci diceva anche Joseph Campbell, si dovrebbe trovare il proprio mito personale, e quindi viverlo fino in fondo nella vita di ogni giorno. Lo stesso Jung parlava di processo di individuazione, come premessa dell’autorealizzazione».
Già, quelle caratteristiche specifiche, personali e uniche che rappresentano la propria storia e il proprio scopo nella vita. «Solo così, soprattutto se sei un’Artemide, troverai la tua famiglia particolare, quel mondo in cui il tuo dono, la tua capacità speciale, avranno modo di essere incoraggiati, seguiti, e dove avrai perciò modo di migliorare e crescere. È un processo che parte dall’interno, da necessità personali che arrivano poi al mondo. Il tuo tipo di sofferenza contribuisce - quasi paradossalmente - a vivere la vita che si suppone tu debba vivere».
Artemide, cocciuta? Forse. Ma soprattutto, decisa e cosciente di dovere agire in quel modo, per raggiungere il risultato desiderato. «Ci sono momenti in cui la donna Artemide si alza in piedi e prende una posizione ferma, perché sa che è suo dovere. L’istinto ci fa dire di sì e agire, perché questo ha un significato grande e particolare». Motivi diversi, certo, ma ci sono sempre ragioni che ci fanno capire che quella è la nostra strada.
La donna Artemide sa, perché le esperienze della sua vita le indicano una via da seguire, in cui impegnarsi e che ha significato. Impegnarsi, avendo un compito, diventa allora anche divertente, perché sai che sei davvero te stessa e puoi usare le tue capacità con persone che condividono i tuoi valori e vogliono, lavorando insieme, arrivare a un fine comune. All’obiezione che a volte, forse, ci si può auto ingannare e procedere verso un obiettivo sbagliato, la risposta è semplice e chiara: «Queste sono decisioni sempre motivate dall’amore, non certo dal potere. Parlerai perché sai cosa è giusto dire, che sia poi per diritti umani, per diritti degli animali, o qualsiasi altra cosa, andrà comunque bene. C’è sempre qualcosa che ti ha portato a fare quello che fai.
Sono scelte che hanno a che fare con l’amore e dove, spesso, c’è stato anche molto dolore». Nel momento in cui diciamo «questo non è giusto!», ecco, allora siamo la dea indomabile.
«Anche se ha subito violenza, Artemide non si riconosce mai nel ruolo della vittima. Probabilmente è una donna che ha avuto una iniziazione terribile da piccola, ma adesso esiste come attivista, e con gli altri. Questo è il tipo di energia che fa in modo che resti quello che è sempre stata. Una parte di Artemide resta sempre vergine e pura nel suo profondo».
La donna Artemide, la donna che ha lottato e lotta per i diritti delle donne - che esiste anche nell’uomo, con gli stessi obiettivi e con la stessa passione - si riconosce con le altre donne e con quello che è loro capitato. «Non si sente mai superiore perché, qualsiasi cosa sia successa, è come se fosse capitato anche a lei. Se si vive con questo archetipo, si farà sicuramente qualcosa che possa dare senso e significato al proprio dolore».
«La mitologia e i suoi archetipi», ci ricorda Bolen nel nuovo libro, «sono modelli, modi di essere e di reagire innati - alcuni più istintivi di altri - che sono nell’inconscio collettivo. Lo spirito indomito che io associo con l’archetipo di Artemide, può essere visibile anche fin dalla nascita. Per qualcuno Artemide rimane latente, e può emergere solo molto più tardi nella vita o anche mai. Tutti gli archetipi sono potenziali, e ognuno può, in un certo momento, essere molto importante ed essere alla base di una diversa fase di vita. Sono un modo di vedere la ‘disposizione delle cose’, la geografia psicologica di una persona».
Proprio nell’ultima parte del libro infatti, Bolen ci ricorda che nella vita dobbiamo cercare e trovare un significato. «Entusiasmo, e vitalità sono segni che stiamo vivendo la vita che ci stava aspettando. Ma se questo non succede, ci potrà essere un torpore emozionale, tristezza, ansia, e diversi dolori corporei dovuti a tensioni e stress. Sono cose che possono succedere quando mettiamo una maschera, una facciata sociale, e quando ci identifichiamo con un ruolo, facendo finta di essere felici di avere quel tipo di vita». Ma questo, inutile dirlo, non porta nessun senso di autenticità e spontaneità. Essere in grado di scegliere in base al cuore e all’archetipo che ci governa, dà davvero passione per la vita che stiamo vivendo e che ha un significato. «Questo è possibile solo quando abbiamo l’opportunità e la libertà di seguire la strada dell’anima e del cuore (...) E finiamo con l’amare quello che stiamo facendo e la persona che stiamo diventando».
Nel libro ci racconta il mito di Artemide, e ci fa capire come la dea sia diventata quello che è e come rappresenti proprio le donne che spesso si trovano anche per le strade in una manifestazione per i diritti. Diritti per chiunque ne abbia bisogno.
Ma ci racconta anche la storia, meno conosciuta, dell’altra Artemide, la favola mitologica della piccola Atalanta che, figlia del re di Arcadia e, proprio perché donna, abbandonata nei boschi, viene poi trovata e allevata per i primi anni da una mamma orsa. Atalanta, come Artemide, combatterà per proteggere se stessa e la sua «famiglia», cioè quegli animali e quel mondo selvaggio che le avevano salvato la vita. Ma la storia, la mitologia di Atalanta, è anche quella di un’Artemide donna che, crescendo e cambiando, riesce alla fine, contro ogni aspettativa, a tornare ad essere la figlia del re di Arcadia e ad accettare un compagno di vita.
Che lo si voglia credere o meno, le donne Artemide, che hanno sofferto ma hanno sempre avuto il coraggio e la forza di alzarsi in piedi e tenere la testa alta, la dice proprio Jean Bolen, generalmente riescono a raggiungere i propri obiettivi.
Per adesso, il progetto della Quinta Conferenza Mondiale sulle Donne per il 2020, a cui l’ attivista-psicologa Artemide-Bolen si dedica da almeno quindici anni, è già sul tavolo delle Nazioni Unite, in attesa di essere valutato. Considerando la gentile e simpatica tenacia della nostra psicologa di origine giapponese, che conosce molto bene la parola ottimismo, e forse la considera un efficace mantra, possiamo sperare che il progetto venga presto e promosso a pieni voti.
A Milano scoppia la febbre di Amore e Psiche
La coppia Canova Gérard anche nelle scuole e a teatro
di Sara Ricotta Voza (La Stampa, 20.12.2012)
«Ragazzi, oggi si va a una mostra». E di solito quelli alzano gli occhi al cielo. Per evitare questa scenetta fin troppo nota a genitori, professori e a chiunque abbia a che fare con adolescenti e adulti spiaggiati davanti al televisore, gli organizzatori di «Amore e Psiche a Milano» si sono posti il problema di come avvicinare all’arte suscitando interesse anziché imbarazzo. Per raggiungere l’obiettivo Eni Scuola sviluppa da tempo proposte didattiche innovative che proprio in questa mostra hanno trovato le applicazioni più avanzate nel segno dell’edutainment e della didattica digitale.
Per i bambini di prima e seconda primaria si è allestito lo spettacolo teatrale Amore e Psiche fra Pennello e Scalpello che già nel titolo rivela l’intento di spiegare rapporti e differenze tra pittura e scultura. Il tutto senza tralasciare la narrazione del mito, storia affascinante raccontata attraverso le rappresentazioni che ne hanno fatto negli anni diversi artisti. Lo spettacolo è stato affidato all’associazione Segni d’infanzia.
Per il secondo ciclo della scuola primaria, dalla terza alla quinta, si è pensato invece alla modalità dei laboratori di pittura e scultura, scelti anche per i ragazzi delle medie con focus sul tema delle emozioni e dei sentimenti e sulle modalità di rappresentarli. Anche in questo caso le attività sono curate da un’associazione specializzata (Senza Titolo). Le scuole coinvolte sono una sessantina, scelte in collaborazione con il Comune di Milano nelle realtà di periferia, con particolare riguardo a quelle che meno usufruiscono delle attività proposte durante l’anno.
Un ulteriore strumento didattico digitale pensato per i bambini delle elementari è un e-book interattivo creato dall’editore Giunti e fruibile da computer, tablet e smartphone scaricandolo gratuitamente dal sito di Eniscuola. La storia di Amore e Psiche qui è raccontata attraverso animazioni con cui interagire (il bambino tocca Cupido e... scocca la freccia)
Per le scuole superiori l’approccio scelto è quello della didattica digitale, con due strumenti in particolare: un e-book per iPad e il «learning object»; il primo è stato realizzato dall’istituto Majorana di Brindisi, scuola «2.0 » che ha curato video, gallery e quiz di verifica sulle opere ma anche su temi correlati.
Quanto al learning object, si tratta di una lezione multimediale accattivante tenuta direttamente dai ragazzi del liceo classico Manara di Roma, che è il caso di dirlo ci hanno messo la faccia. Dal pc individuale o dalla lavagna elettronica raccontano e alcuni più propriamente interpretano il mito di Amore e Psiche, e le vite degli autori delle opere in mostra. La lezione termina con quiz di verifica... tutt’altro che semplici da passare. E chi approfitterà dei prossimi giorni di festa per visitare la mostra troverà guide specializzate proprio per queste giovani fasce d’età.
Speciale /Palazzo Marino
Un mito in mostra.Amore e Psiche la favola di Apuleio incanta gli artisti
Il neoclassicismo la reinterpreta con la raffinatezza delle opere di Canova e Gérard esposte a Milano
Le vicissitudini della fanciulla che fa innamorare un dio narrano l’epopea di un’anima
di Marco Vallora (La Stampa, 5.12.2012)
Sul cartiglio delle cinquecentesche incisioni attribuite all’ancora misterioso «Maestro del Dado» (un pozzo, da cui tutti attingono, per l’iconografia pittorica della storia di Amore e Psiche) si legge: «Narra Apuleio, che (mentre egli cangiato in asino serviva a genti ladre) / una sposa rubbaro... ». Inizia così la gloriosa epopea d’una delle favole più note dell’antichità, piena di peripezie e sorprese narrative, inscatolate, a pressione, entro le Metamorfosi di Apuleio, scrittore nomade e «discepolo platonico».
Proto-romanzo d’avventura (secondo secolo d. C.) influenzato da Luciano, riscoperto da Boccaccio, tradotto da Boiardo. Racconta la magica trasformazione di Lucio in un asino, venduto a dei ladroni. Gli stessi che hanno rapito una fanciulla e la tengono a languire in una caverna. (Qui si ripara anche l’asino: sant’Agostino ribattezzò l’ Asino d’oro le Metamorfosi ). Una vecchia nutrice con fuso, interrompendo il suo filare, proprio come s’interrompe miracolosamente il romanzo, le racconta la favola di Amore (Eros) e Psiche, che si snoda per molti libri e numerosi «ricami» di luoghi, coinvolgendo cielo, terra, Inferi.
Psiche è una bella fanciulla non nobile, così bella che nelle sue contrade la nominano Afrodite. Ma Venere in persona s’ingelosisce di questo suo doppio terrestre, troppo bella e difficile, per trovare un marito. Ed invia il suo figliolo Eros sulla terra, a colpirla con le sue temibili frecce, per farla innamorare della prima persona che capiti, purché mostruosa. Ma è Eros ad essere colpito della sua venustà: s’innamora di Psiche, ottenendo da lei di amarlo solo di notte. L’iconografia pittorica omaggia spesso questo mistero: coltri e baldacchini manieristi, atmosfere notturne, lanterne e fiaccole, bende e panneggi, ed Eros che depone le sue frecce, accanto alle complici lenzuola, quasi fossero occhiali e cellulari messi in carica. Mentre Psiche si rode di curiosità, soprattutto se hai delle sorelle invidiose, che intrigano, come nella falsariga classica di Cenerentola. Facendole credere che lui è un obbrobrioso mostro serpentinato, e sennò, perché non si mostrerebbe, come un consorte qualsiasi?
Infatti, proprio come capita nelle fiabe migliori (che in fondo si equivalgono) è l’interdetto, che maggiormente le brucia e la scotta. Proprio come nella fiaba di Barbablù o nella storia nordica di Lohengrin, che un’unica cosa chiede, di non chiedergli il suo nome. Ed in più, in questo caso, d’essere amato senza immagine, senz’esser guardato: paradosso figurativo, che ha turbato molta pittura. Una notte, munita d’un coltello (in realtà sarebbe un rasoio) per tema di trovarsi di fronte ad un mostro, e di una lucerna, che finalmente le sveli l’enigma, e che in realtà c’illumina regalmente quelle perfette fattezze nude, di putto serenamente addormentato, Psiche rimane incantata a rimirarselo, come se il tempo non esistesse più. Ma la curiositàdonna va punita, così dalla lucerna esausta scende una goccia malandrina, che ustiona il corpo nudo e tradisce il tradimento. Sulle sue ali di Cupido, Eros fugge via irato, mentre desolata Psiche, che lo ha amato d’un amore invincibile, vaga per il mondo spoglio, impossibilitata a reincontrarlo. Ci si mettono gli Dei (consigli parlamentari nell’Olimpo, così ben rappresentati da Giulio Romano, a Palazzo Tè) a complicare le cose e a divertire il lettore.
Venere stessa, tra il piccato e il pietoso, offre ancora un’ultima chance alla peregrina disperata, infilandola come un fuso, dentro terribili prove iniziatiche, che il Flauto Magico, al confronto, la diresti una passeggiata galante e cicisbea. Discese agli Inferi a dialogare con Proserpina (mito dell’inverno e della resurrezione primaverile). Pecore furiose da tosare dei loro velli d’oro, coppe da riempire a fonti inesistenti, semi da dividere, come in una trasmissione misterica della Carrà.
Così ti rendi conto che Apuleio, nato a Madaura e nutrito di cultura orientalnordafricana, sacerdote e avvocato di grido chierico vagante ed iniziato dei Misteri Eleusini, è anche un adepto della cultura neo-platonica, che vuole conciliare la filosofia pagana con il messaggio cristiano. Tra l’altro Apuleio ha sposato Pudentilla, madre molto più vecchia e poco avvenente del suo compagno di studi Ponziano, che muore giovane, lasciandolo tra parenti che lo accusano di plagio e di magia, e lui deve difendersi da solo dalla pena di morte.
Dunque si tratta dell’epopea mistica quotidiana d’un’anima, o Psiche (con ali di farfalla, non a caso: vista l’omonimia in lingua greca di psyké) che deve ricongiungersi con il suo Amore incorruttibile e divino, perché Eros (come l’amore carnale) non è che un viatico graduale verso la Perfezione Ideale. Lo ritroverà in cielo, nel banchetto regale che gli Dei hanno allestito per lei, fanciulla povera e fortunata, assunta nei saloni eleganti d’una reggia chiamata Olimpo.
Allora si capisce perché Raffaello, quando deve celebrare, tra l’esubero di tutte le grottesche di Penni, Perin del Vaga, Giovanni da Udine (suggestionate dalla recente scoperta epocale della creduta «grotta» della Domus Aurea) la storia della fanciulla plebea Francesca Ordeaschi, che va sposa con il nobile senese Agostino Chigi, committente della villa, scelga proprio questa storia allegorica ed edificante. E via così, nel Rinascimento: con Giulio Romano a Mantova, Dosso Dossi nei suoi lividi rami, Zucchi con i suoi dettagli medicei, Vouet ed i caravaggeschi, che sfruttano gli effetti notturni e tenebrosi: una goccia bollente per un amore eterno.
Poi viene il neoclassicismo, con Canova e Gerard (protagonisti della mostra di Palazzo Marino), Cavaceppi & C., storie d’ali di farfalla, infragilite nei marmi, un Giove winckelmanniano, che approfitta per lumacare con Eros, ed infine il Romanticismo, che insiste sugli aspetti più terribilisti (per proiettarsi poi sulla nostra contemporaneità, con allusioni in Fabio Mauri, Pistoletto e Paolini). Un’anima, che nel periodo Impero si fa anche specchierina da camera, per riflettere i patemi ed i pallori di troppe signorine innamorate.
Canova. Nel marmo la leggerezza di una farfalla
Amore e Psiche stanti fu scolpito nel 1797. Gioachino Murat l’acquistò per 2000 zecchini
di Fiorella Minervino (La Stampa, 5.12.2012)
Gli orari L’ingresso alla mostra a Palazzo Marino di Milano è gratuito. Si entra tutti i giorni dalle ore 9,30 alle 20 (ultimo ingresso alle ore 19,30) giovedì dalle ore 9,30 alle 22,30 (ultimo ingresso alle ore 22) Chiusure anticipate 7 dicembre, chiusura alle 12. 24 e 31 dicembre, chiusura alle 18 Aperture straordinarie 8 e 25 dicembre e 1 gennaio 2013 Informazioni al pubblico 24h/24 Numero verde gratuito 800.14.96.17
L’allestimento Sopra la mostra nell’allestimento di Elisabetta Greci nella Sala Alessi di Palazzo Marino a Milano
Il giardino comincia già fuori, in piazza della Scala, all’entrata della mostra e procede tra i profumi che si diffondono nella Sala Alessi oltre le tre pareti ricoperte di erba sintetica fino all’ultimo spazio destinato all’incantevole Amore e Psiche stanti del Canova. Nulla meglio di questo prato ripensato alla maniera neoclassica per illustrare la favola di Apuleio nelle Metamorfosi, dove la coppia mitologica raffigura l’unione fra anima umana e amore divino. Un luogo adatto a ospitare il capolavoro, forse non il più celebre ma prediletto dall’autore, il campione italiano del Neoclassicismo.
Antonio Canova voleva calarsi nello spirito e nel clima dei classici, greci e latini, tanto da farsi leggere nel suo studio mentre lavorava fin tre volte al giorno i testi di Omero, Tacito, Polibio. Felice esito dell’amore intenso per la classicità evocata dal Winckelmann, il bello ideale universale e la quieta grandezza, la scultura in arrivo dal Louvre grandeggia nella luce che la avvolge e nella platonica serenità che promana.
Due teneri giovinetti sono fissati nel marmo candido (Canova li definiva «un gruppetto pudico») e dominano la scena ravvicinati nel turbamento dei corpi nudi levigati e sinuosi sopra il piedestallo adorno di preziose ghirlande di fiori. Il dio poggia la testa sulla spalla di lei cingendola castamente con il braccio, Psiche di bellezza mirabile e dalla nudità appena celata dal delicatissimo velo ai fianchi, posa delicatamente la farfalla, simbolo dell’anima, nella mano di lui. È un gesto sublime, un attimo sospeso, fuori dal tempo, dove l’umano si lega all’eterno. Il prodigio delle dita, la grazia nelle pose, la finezza dei riccioli nella capigliatura di Psyche e lo squisito panneggio sui fianchi raccontano sino a che punto il marmo potesse piegarsi al soffio nuovo dell’arte di Canova, alla «bella natura», il suo ideale di bellezza perfetta.
Alti 150 centimetri circa, i due adolescenti si incontrano e congiungono a nozze, immemori delle mille prove sostenute e dei dissidi celesti nell’Olimpo che li hanno divisi, uniti nella lucentezza e candore del marmo di Carrara dove Canova agitava lo scalpello con la facilità d’un pennello. Figlio d’uno scalpellino di Possagno, dove era nato nel 1757, aveva presto imparato, anche dai copisti di marmi antichi a Roma, a modellare la materia con maestria e scienza personale. Un procedimento che conduceva dal bozzetto vibrante di creta al gesso affidato agli aiutanti, da volgere poi al marmo con numerose rifiniture, come raccontò Hayez. Canova realizzò il gruppo nel 1797 a Roma, mentre si diceva così preoccupato per la desolata nostra nazione e «l’Europa tutta talmente ruinosa che sarei contento di andare in America». L’opera era destinata al colonnello John Campbell in sostituzione della versione famosa (sempre al Louvre) Amore e Psiche giacenti 1787- 83; finirono entrambe nel 1801 per 2000 zecchini a Gioachino Murat, esposte nella galleria del castello di Villiers, dove Napoleone potè ammirarle.
Fama e gloria coronarono il Canova già in vita, come forse nessuno degli artisti amici o ammirati, quali Mengs, Thorwalsen, e fin Piranesi o Batoni, Gavin Hamilton, Proudhon, neppure David. Non volle o mai riconobbe allievi, collezionò cariche e incarichi, con l’esimio merito di ricondurre nel 1815 in Italia dal Louvre alcune opere sottratte dai francesi, incaricato da Pio VII come delegato dello Stato Pontificio a Parigi. Fu venerato e onorato da Papi e dai sovrani d’ Europa, per cui lavorò, compresi Napoleone e Giuseppina Beauharnais e il figlio Eugenio vicerè d’Italia con sede a Milano e Monza. Fedele alla propria arte e condizionato da una salute cagionevole mori a Venezia nel 1822, per poi riposare a Possagno dove è affidato alla storia nel museo a lui dedicato. Oggi il suo genio torna a risplendere in questa mostra a Milano, città che seppe apprezzarlo e amarlo.
Ed è occasione davvero rara questa offerta dall’Eni, di mettere a confronto il celebre scultore con il pittore francese Gérard, nato a Roma da madre italiana, il maggior allievo di David. Le curatrici dell’evento Valeria Merlini e Daniela Storti, si dichiarano assai soddisfatte della formula annuale e di presentare i due esponenti del Neoclassicismo in una città neoclassica come Milano.
La Merlini aggiunge che questa è l’opportunità di raffrontare pittura e scultura nelle differenze e aspetti comuni, come le diverse sensibilità e sensualità degli autori. Poi spiega: «Ci lavoriamo dalla scorsa primavera e aspettiamo oltre 200 mila visitatori. Negli anni passati siamo stati premiati da un pubblico vario per età, cultura e provenienza. Per spiegare a chi viene il valore e i segreti di due capolavori sullo stesso tema, creati a un anno di distanza e per la prima volta esposti insieme, ci affidiamo a un gruppo di giovani storici dell’arte che guidano i visitatori della Sala Alessi».
Gèrard. La moderna sensualità di due innamorati
Piaceva anche ad Ingres Psyché et l’Amour che tiene testa quasi ad armi pari alla scultura con cui si confronta
di Francesco Poli (La Stampa, 5.12.2012)
Ingres, molto spesso acidamente critico nei riguardi dei suoi colleghi, aveva dichiarato una volta che «Gérard ha abbandonato la pittura e la pittura ha abbandonato lui », aggiungendo però che «quando ha realizzato Psiche e Amore è stato un grande pittore; ha realizzato un capolavoro...».
E in effetti per l’ingrato Ingres (Gérard era stato tra i pochi ad aiutarlo agli inizi, quando era entrato nello studio di David) questo dipinto, esposto con grande successo al Salon parigino del 1798, è stato un punto di riferimento fondamentale. Non tanto come esempio (già allora in auge) di una tematica mitologica disimpegnata e «graziosa», con algide e sofisticate valenze erotiche, ma anche soprattutto per la peculiare elaborazione del linguaggio neoclassico. Gérard lo caratterizza con una straordinaria levità e levigatezza pittorica, e con un formalismo purista tale da subordinare persino la correttezza anatomica all’armonia complessiva dell’impianto compositivo (basta osservare la «impossibile» spalla di Psiche o il collo di Cupido).
Nella suggestiva messa in scena allestita dentro il grande salone di Palazzo Marino, il quadro di François Gérard è il co-protagonista insieme al capolavoro di Antonio Canova, Amore e Psiche stanti, del 1797. La pittura che si confronta con la scultura una bellissima sfida (incentrata su un tema mitico e intramontabile) che nonostante la celebrità dell’avversario, e il fascino assoluto della sua opera marmorea, Gérard è in grado di sostenere quasi ad armi pari.
Bisogna guardarlo a lungo il suo dipinto con le figure in grandezza naturale, per rendersi conto, con uno sguardo attuale (al di là della valutazione storico -critica della indubbia importanza dell’artista) della straniante e «moderna» qualità di questa composizione figurativa ma irreale, e non solo perché mitica.
Più rispettoso di Canova del racconto che si legge nell’ Asino d’oro di Apuleio, Gérard ci presenta Psiche nel momento in cui l’invisibile (per lei) Amore le sta per dare un bacio abbracciandola. Ed è per questo che, sorpresa e misteriosamente incantata, i suoi occhi non guardano lui ma davanti verso il vuoto, o meglio (e qui l’artificio del pittore è geniale) verso di noi, i curiosi esterni.
Questo incrocio di sguardi fra lei e noi crea una sottile e intensa tensione estetica, che fissa visivamente e direi anche strutturalmente tutta la visione pittorica. Dico fissa, perché l’artista ha dipinto i personaggi in modo tale da quasi annullare l’illusione della forza di gravità, senza ombre portate e senza una convincente integrazione con il paesaggio che fa da sfondo. Inoltre, una ulteriore essenziale magia (o astuzia) pittorica è determinata dalla raffinatissima strategia dell’abbraccio che non è tale.
Infatti le braccia di Amore sono attorno e vicinissime al corpo di Psiche ma non lo toccano (anche se c’è una intenzionale ambiguità per quello che riguarda la mano sinistra che sembra toccare la spalla in direzione del seno). Tutto ciò crea un effetto di sospensione, una sensazione di aerea immaterialità e di metafisica idealità.
Così Gérard riesce a trasmettere attraverso la forma (molto più che nella raffigurazione descrittiva) un aspetto cruciale del significato profondo della favola mitica, che ci parla di cose indefinibili come l’anima e l’amore, e cioè del mistero della vita umana terrena e del sogno di quella ultraterrena.
Nell’iconografia antica (per esempio nella copia romana da un originale ellenico) Psiche ha delle ali di farfalla, ma come nel caso di Canova anche Gérard ha pensato che fossero sufficienti quelle di Cupido, e ha inserito una farfalla vera, non nelle mani dei personaggi come ha fatto lo scultore, ma in volo nel cielo sopra la testa di lei ( psiche in greco vuol dire farfalla). Questo lepidottero ha una sua precisa valenza simbolica ed è allo stesso tempo un particolare naturalistico, dalla fragile e delicata leggerezza. Ma si può leggere formalmente anche come una metafora strutturale di tutto l’insieme della composizione, che si libra sulla tela con la stessa eterea grazia sospesa.
Il matrimonio di due capolavori
di Cesare De Seta (la Repubblica, 1.12.2012)
Sin dall’antichità la pittura è considerata da Plinio la più nobile tra le arti figurative. Leonardo da Vinci eleva la pittura a “discorso mentale”, anche perché l’artista non deve sottoporsi al labor fisico che comporta la scultura, e ne esalta la dignità di conoscenza considerandola superiore alla scultura e la colloca tra le arti liberali. Mettere a confronto due opere dello stesso soggetto quale Amore e Psiche di Antonio Canova e di François Gérard, di uno scultore e di un pittore, è idea felice in sé, ma anche o soprattutto per la specifica e singolare pertinenza del marmo e della tela in oggetto. Succede per la prima volta a Milano, a Palazzo Marino. Nella Sala Alessi è allestita da oggi grazie ad Eni, in partnership con il Louvre, questa mostra, che si inserisce nel solco di quelle fortunate promosse dall’azienda negli anni passati: il San Giovanni Battista di Leonardo (2009), la Donna allo specchio di Tiziano (2010) e L’Adorazione dei pastori e il San Giuseppe falegname di Georges de La Tour.
Tornando a Canova, lo scultore di Possagno aveva già realizzato tra il 1789 e il ’92 una Psiche stante con una farfalla in mano, da questa prima idea sboccia il gruppo con le due figure stanti abbracciate tra loro.
I due bozzetti, al Museo Correr di Venezia e al Museo e Gipsoteca di Possagno, fissano la prima idea: «rapidissima, striata con la stecca sull’argilla per cogliere un istante della rappresentazione che sarebbe stata sviluppata nel primo modello al naturale ed in argilla», ben scrive Mario Cuderzo. Dal bozzetto fu tratta la forma per la realizzazione del modello in gesso definitivo, che è nella Gipsoteca.
Il marmo, alto 145 cm, ha un’intenzionalità che per la modulata finezza è proprio definire pittorica; come in un inconsapevole specchio, Gérard dipinge una tela il cui modellato è proprio definire scultoreo. Ciò detto le due opere, accomunate da questo sottile gioco del ribaltamento dei ruoli formali, non hanno nulla in comune nel rappresentare il mito di Amore e Psiche.
Canova a partire dal 1796 per alcuni anni lavorò a questo gruppo su commessa del colonnello inglese John Campbell che aveva incontrato a Napoli nel soggior- no del 1787, ma l’opera non giunse mai in Inghilterra per la difficoltà del trasporto e fu acquistata dal maresciallo Gioacchino Murat, futuro re di Napoli, che la collocò nel castello di Compiègne: questo è l’esemplare al Louvre, mentre la seconda versione con variazioni sul panneggio di Psiche - dopo un giro per l’Europa - giunse in Russia ed è all’Ermitage di San Pietroburgo.
Il soggetto di Amore e Psiche risale ad Apuleio, ma Canova nell’iconografia attinse a un dipinto di Ercolano con Fauno e Baccante, e sappiamo quanto fu importante per lo scultore la visita agli scavi delle città vesuviane dissepolte. Quel che va sottolineato è il pensiero che ispira il gruppo: non è né grazioso né eroico, poetiche congeniali a Canova e al Neoclassicismo, come nota Fernando Mazzocca, è piuttosto una riflessione sul concetto di anima, cioè “psiche” in greco, che assume le sembianze della farfalla che la fanciulla regge per le ali.
Il dio sembra quasi farsi proteggere dalla fanciulla, è visto di profilo e reclina il capo sulla spalla di lei, un braccio la cinge ponendole la mano sulla spalla. L’altra mano di Amore sembra voglia custodire la farfalla che l’amata ha in mano: Psiche è raffigurata frontalmente e c’è un arcano senso di mistero in questo gruppo che s’evince dall’amorosa intesa tra i due che è pura, esaltata questa purezza dalla straordinaria venustas con cui sono modellati i corpi dei giovani. Che il referente sia la statuaria antica è fuori discussione.
François Gérard, nato a Roma nel 1770 dove visse fino a dieci anni, aveva madre italiana e sposò un’italiana, ritornò a Roma dal 1782 al ’86, e poi ancora tre anni dopo all’Accademia di Francia, per essersi guadagnato il secondo posto al Prix de Rome, dopo Girodet.
A Parigi nel 1786 era stato ammesso nell’atelier di Jacques-Louis David che lo protesse evitandogli la coscrizione e lo considerò sempre tra i suoi allievi più dotati, tra i quali figurano Girodet, Serangeli, Chaudet e Prud’hon. Ingres entrò nello studio di David nel ’97.
È questo il clima culturale in cui matura Amore e Psicheche viene presentata al Salon del 1798, suscitando reazioni contrastanti. Sylvaine Laveissièr ce ne dà conto in catalogo, ricordando il tema del primitivismo e la consonanza con l’antico che furono evocati. Quantunque avesse uno studio al Louvre, Girodet si guadagnò da vivere facendo per anni l’illustratore per opere di lusso dell’editore Pierre Didot, assieme a altri allievi di David, che era il regista di questa prestigiosa collana.
Infatti Gérard aveva illustrato lo stesso tema per Les Amour de Psiché et de Cupidon di La Fontaine: ma l’iconografia è assai diversa dal dipinto. I due giovani sono in piedi e si abbracciano con una certa voluttà.
Pierre-Paul Prud’hon aveva presentato al Salon del 1793 L’unione di Amore e Amicizia, che è una variazione del tema, ma in tal caso dio e fanciulla sono seduti e inseriti in un contesto paesistico non esente da reminiscenze roccaille.
Dunque il dipinto di Gérard è l’esito di una ricerca innovativa e nell’iconografia prescelta ha una variazione molto sensibile rispetto al gruppo canoviano: Psiche è seduta su un sasso, Amore si accosta a lei in piedi, le bacia la fronte e ha due vistose ali.
La tela, che misura 186 per 133 cm, fu esposta al Salon dell’anno VI nel 1798 e incarna un’idea di bellezza raffinata e sublime, che evoca la pittura rinascimentale. Psiche ci guarda con il suo bellissimo volto di raffaellesca eleganza, mentre il giovane è visto di profilo col corpo reclinato per accostarsi all’amata. In questa tela alita un’intenzionalità metafisica e neoplatonica, così diffusa in età rinascimentale e resuscitata in età neoclassica, vale a dire l’unione dell’anima umana e dell’amore divino. In tal caso la farfalla volteggia sul capo della fanciulla e non è tra le sue mani.
La tela, che era stata preceduta dal gruppo di Canova di alcuni anni, esprime originalmente la sottile mescolanza tra una contenuta sensualità e una certa freddezza. La fanciulla è nuda, solo un velo ricopre gambe e bacino, ha un sguardo sognante. Il paesaggio, in cui sono immersi gli eroi di questo dolce mito amoroso, è idillico, forse con una inclinazione poussiniana.
Il tabù di Eros, dio bello e invisibile
Perché nel mito alla fanciulla-Anima è vietato vedere il suo amante
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 1.12.2012)
Narra il mito che una fanciulla di nome Psiche, figlia di un re, a causa della sua straordinaria bellezza, aveva suscitato l’invidia di Afrodite. La dea allora incarica Eros, suo figlio, di accendere in lei un amore insopprimibile per il più brutto degli uomini, ma Eros, quando la vide, si innamorò di Psiche, la rapì e, dopo averla portata in un luogo segreto, ogni notte, senza farsi riconoscere, la incontrava, per poi lasciarla ai primi raggi di sole senza svelare la sua identità. Ma Psiche, su istigazione delle sorelle che le fecero credere che ogni notte abbracciava un mostro orribile, si accostò ad Eros dormiente con una lampada accesa. E fu allora che si accorse che non di un mostro si trattava ma di un giovane e bellissimo dio. Accadde però che una goccia d’olio cadde sul corpo di Eros che, destatosi, abbandonò Psiche, la quale, in preda alla disperazione per la perdita dell’amato, prese a vagabondare disperata finché giunse nel palazzo di Afrodite che la ridusse in schiavitù. Ma Eros, che non poteva a sua volta trovar pace senza Psiche, riprese a incontrarla, e alla fine i due l’ebbero vinta sulla gelosia di Afrodite e restarono uniti per l’eternità.
È curioso che uno dei miti più amati e rappresentati nella storia dell’arte occidentale sia basato proprio sull’invisibilità: Eros non vuol farsi riconoscere da Psiche (l’anima), perché l’amore non ha un volto, non ha un’identità, non ha dei lineamenti riconoscibili, per la semplice ragione che amore è una “forza” che, quando invade l’anima, la possiede e la fa peregrinare, tra entusiasmi e sofferenze, in un mondo fantastico che ha poca attinenza col mondo reale. Infatti, conosciamo Amore non perché lo “vediamo”, ma perché lo “sentiamo”, non perché sta di fronte a noi o abbracciato a noi, ma perché ci “possiede”, e in questo stato di possessione ci fa delirare, ossia uscire dal “solco (lira) ” in cui monotonamente trascorreva la nostra vita, gettandoci in un’altra vita piena di “entusiasmo” perché, posseduta da amore, l’anima è abitata dal dio (en-theos).
Ma chi sono gli dèi se non la rappresentazione trasfigurata della follia che ci abita, e che quotidianamente teniamo a bada con i nostri sforzi di ragionevolezza che amore rende vani, mettendoci in questo modo a contatto diretto con la nostra follia? Sarà per questo che Platone, che pure ha inventato il nostro modo di pensare e ragionare, parla di amore come di una “divina follia”, anzi della «più eccelsa sotto l’influsso di Afrodite e di Eros» (Fedro, 265 b), e perciò dice che «la follia dal dio proveniente è assai più bella della saggezza d’origine umana» ( Fedro, 244 d). La follia generata da amore non ha un volto, perché tutti i volti sono suoi, perciò non è riconoscibile, non la si può “vedere”, la si può solo “sentire”, anzi “subire”, anzi “patire”. Per questo parliamo d’amore come di una “passione”, perché in preda alle cose d’amore il nostro io, la nostra razionalità “patiscono” una dis-locazione che Socrate chiama a-topia. Amore infatti porta fuori dal luogo (topos) dove solitamente si svolge la vita. Crea uno stato di estraneità rispetto agli spazi e ai tempi che scandivano la nostra esistenza. E-straneo al consueto svolgersi della quotidianità, l’amore e a-topos, è fuori luogo.
Si dirà, ma a differenza di Psiche, io vedo in volto chi mi ha catturato l’anima e mi possiede. Certo, ma non è da lui o da lei che sei posseduta o posseduto, ma dalla tua follia che lui o lei ha risvegliato e con la quale ti ha messo in contatto. Non diresti altrimenti nell’acme dell’amore: “mi fai perdere la testa”, “mi fai impazzire”. Non sono modi di dire, ma modi d’essere nella possessione d’amore.
Per effetto di questo contatto con la propria follia, grazie all’altro o all’altra che l’ha risvegliata, dopo una storia d’amore, qualunque sia il suo esito, non siamo più quello che prima eravamo. Perché, prima della violazione dei corpi, è la nostra anima che è stata violata squilibrando la nostra identità e le sue difese. Siamo entrati in contatto con l’altra parte di noi stessi e il nostro volto non è più riconoscibile come eravamo abituati a conoscerlo. Per questo Psiche non può vedere il volto di Eros. Amore non ha volto. Amore è una forza che possiede l’anima e, dopo averla posseduta, con la potenza che può avere solo un dio, la ri-genera.
“Amore e Psiche” da oggi al 13 gennaio 2013 al Palazzo Marino di Milano, Sala Alessi, grazie ad Eni in partnership con il Museo del Louvre i capolavori di Antonio Canova e François Gérard per la prima volta insieme. La mostra gratuita è curata da Valeria Merlini e Daniela Storti. Catalogo: Rubbettino Editore. A Palazzo Reale gli incontri moderati da Lella Costa (4, 11 e 18 dicembre alle 18, gratis con prenotazione)
Amore e psiche
.***Nel Settecento con l’inizio degli scavi di Pompei ed Ercolano si sviluppa l’attenzione per i particolari archeologici: nasce l’estetica del Neoclassicismo
Quando esplose la passione per l’antico
di Anna Ottani Cavina (la Repubblica, 1.12.2012)
La passione bruciante per il mondo antico era scoppiata più o meno negli anni Quaranta del Settecento e coincide con la “resurrezione” delle città sepolte di Ercolano e Pompei e la conseguente caduta dei modelli correnti di conoscenza. L’incontro con i primi scavi era stato a dir poco uno choc, se l’eccitazione di quegli anni, segnati dalle scoperte archeologiche (130 campagne di scavo investirono la città di Roma nei soli cinque anni del pontificato di papa Pio VI), può essere còlta nella reazione esaltata di Giovan Battista Piranesi che «aveva escogitato di cuocere ogni domenica una grande caldaia di riso che potesse bastare per tutta la settimana» per potersi precipitare sui luoghi di scavo senza perdere un solo minuto. Nasceva allora il mito di un’antichità esemplare, origine e anche rimpatrio dell’anima classica, paradiso perduto e ancora promesso. Antichità come futuro.
Ma le “colorazioni” dell’età neoclassica, sull’onda di una nuova travolgente passione per l’antico, erano tante e molto diverse. Canova, nell’intero suo percorso di pittore e scultore, legge l’antichità filtrata dal pensiero di Winckelmann, che del Neoclassico era stato il profeta e il teorico. E sceglie il versante di una grazia intellettuale e sublime, tenera e sentimentale, nutrita dal mito di Atene: incontro fra bellezza e natura. Mentre il rapporto bellezza-libertà (dove l’ideale estetico veniva a coincidere con l’ideale politico) aveva alle spalle la fierezza di Sparta e l’etica austera della Roma repubblicana, trovando nelle icone statuarie del pittore Jacques-Louis David la sua definitiva consacrazione nel presente.
L’estetica della grazia come “aurora” della bellezza - chiave di lettura per L’Amore e Psiche di Canova e anche per quello di François Gérard esposti in questi giorni a Milano - fa riferimento a una grazia filtrata dall’intelletto, lontana dall’epidermica sensualità rococò che aveva caratterizzato il primo Settecento, reattiva invece alla purezza, all’innocenza e a quelle inclinazioni affettive, esaltate nell’età dei Lumi e poi di nuovo nell’età romantica.
Il manifesto di questa poetica della grazia è naturalmente in una dichiarazione di Winckelmann, che celebra l’eterea eleganza delle Danzatrici dipinte su fondo nero, scoperte in una villa romana a Pompei: «fugaci come un’idea, fluide quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle Grazie». Da allora, le danzatrici-libellule della decorazione parietale romana si sono librate per un lunghissimo volo, conquistando l’Europa a un ideale di grazia immateriale e alessandrina.
Canova ne è folgorato. Risponde con una suite di disegni e di tempere su tela grezza, variazioni bellissime sul tema delle danzatrici. E butta all’aria in un soffio il lungo tempo di posa che aveva caratterizzato l’immagine antica. I giochi d’amore della civiltà ellenistica, conosciuti attraverso le campagne di scavo e riletti con lieve ironia, acquistano allora uno scatto e una tensione improvvisa, che affiora in quegli anni anche nelle odi di Foscolo («quando balli disegni, e l’agile corpo all’aure fidando... »).
Contro la lastra compatta di un nero che simulava l’encausto romano, le ballerine di Antonio Canova (oggi si vedono nel museo di Possagno) danzavano gonfiando le loro vesti moderne di mussola à pois, scintillanti ed estrose come in un girotondo di fate, inafferrabili a due passi da noi. Reintroducevano una cifra stilistica antica, ma erano anche l’emblema di una bellezza scattante e moderna che scivolava nel quotidiano della vita se è vero che un artista inglese, John Flaxman, disegnando “from Nature” (dal vivo) i giochi di due bimbe nel sole italiano, le ritrae a piedi nudi e vestite di veli, sulla falsariga delle danzatrici dipinte a Ercolano.
Come si vede, l’antico era un filtro inevitabile, un codice linguistico accettato e universale, fondato sulla validità del modello classico. Ma quel modello non era neutrale ed univoco. Il passato poteva essere inteso come mito rassicurante e positivo, come archetipo per potersi orientare e agire sul presente, attraverso il rilancio di quelle virtù civiche e politiche che furono il canone della Rivoluzione. Ma il passato, nell’età neoclassica, poteva essere percepito anche come fardello, per via della sua perfezione inattingibile e paralizzante.
La disperazione dell’artista davanti ai frammenti dell’antichità, immagine celeberrima disegnata da Füssli, è l’espressione di quella condizione frustrante, che una distanza infinita separa dalla grazia ellenistica di François Gérard e dalla bellezza adolescente, luminosa e spirituale che è il lascito di Antonio Canova.
Amore e Psiche
Due capolavori in mostra
Da oggi e per sei settimane le opere di Canova
e Gérard potranno essere ammirate a Palazzo Marino, Milano
di Flavia Matitti (l’Unità 1.12.2012)
‘LA FAVOLA DI AMORE E PSICHE, NARRATA DA APULEIO NEL SUO CELEBRE ROMANZO INIZIATICO dal titolo Le Metamorfosi o L’asino d’oro (II sec. d.C.), è tra le più ricche e complesse che l’antichità ci abbia trasmesso. La vicenda, che ha per protagonisti l’eroina Psiche e il suo amante Eros (Cupido), in origine era legata ai misteri di Iside, ma in quanto allegoria dell’anima umana, nel suo travagliato destino di caduta e redenzione, ha incontrato poi il favore del mondo cristiano, divenendo fin dal Rinascimento un’importante fonte di ispirazione per gli artisti. Tra tutti spicca naturalmente Raffaello autore di un magistrale ciclo di affreschi dipinto nella Villa Farnesina a Roma.
Ma anche a Milano da oggi e per sei settimane, fino al 13 gennaio 2013, si avrà la straordinaria opportunità di ammirare due capolavori neoclassici dedicati a questo soggetto: il gruppo scultoreo di Amore e Psiche stanti (1797) di Antonio Canova e il dipinto Psyché et l’Amour (1798) di François Gérard, entrambi provenienti dal Museo del Louvre ed esposti ora insieme, per la prima volta, nella Sala Alessi di Palazzo Marino (catalogo Rubbettino, a cura di V. Pomarède, V. Merlini e D. Storti; ingresso gratuito).
Grazie all’ospitalità del Comune di Milano e al sostegno di Eni, che con il Louvre (di cui è mécène exceptionel) ha stretto un accordo di partnership, per la quarta volta consecutiva giungono sotto Natale nella città lombarda i capolavori del museo francese. E dopo le passate edizioni, che avevano visto protagonisti nel 2009 il San Giovanni Battista di Leonardo, nel 2010 la Donna allo specchio di Tiziano e nel 2011 due dipinti di Georges de La Tour, quest’anno viene presentato un inedito confronto tra pittura e scultura e tra due artisti eccezionali, che attraverso la loro sensibilità hanno dato della favola di Amore e Psiche due diverse letture.
Le due opere sono state realizzate ad appena un anno di distanza. Nel 1797 la scultura di Canova fissa i canoni estetici delle sue divinità ricche di dolcezza e di bellezza sensuale. Il dipinto di Gérard, pur essendo ispirato all’opera di Canova, è invece intriso di un erotismo conturbante molto apprezzato al Salon del 1798. Sia la Psiche di Canova sia quella di Gérard, esprimono il pudore e l’innocenza della fanciulla, sorpresa dal tenero gesto dell’altro. Ma mentre Gérard mostra i turbamenti dell’amore che sboccia tra due adolescenti, l’Amore di Canova ha sembianze quasi infantili. Le due opere sprigionano perciò una sensualità diversa e riflettono un diverso modo di intendere la bellezza.
La proposta di Eni, basata sulla gratuità e su un ampio corredo di strumenti di approfondimento, ha ottenuto un ampio consenso dimostrato dagli oltre 210mila visitatori della passata edizione. Quest’anno intorno al tema di Amore e Psiche è stato organizzato anche un ciclo di Incontri, moderati da Lella Costa (4, 11 e 18 dicembre ore 18, ingresso gratuito con prenotazione), tenuti presso il centro congressi della sala conferenze di Palazzo Reale.
Info 24h/24 numero verde gratuito 800.14.96.17
www.amoreepsicheamilano.it
Il racconto di Apuleio sul destino dell’anima
Amore e Psiche: mistero, magia e passione
di Franco Manzoni (Corriere della Sera, 14.06.2012)
U n autore dalla personalità polimorfa, complessa e contraddittoria. Le fonti lo tramandano mago, alchimista, avvocato, scienziato. E ancora filosofo platonico, sacerdote del dio Asclepio e di culti misterici, appassionato di occulto, esoterismo e riti iniziatici come quelli di Eleusi, Mitra, Iside. Nato verso il 125 d.C. a Madauro, nell’odierna Algeria, da famiglia benestante, Apuleio studiò a Cartagine e ad Atene. Si vantava di conoscere a fondo ogni artificio retorico e di padroneggiare con virtuosismo il greco e il latino. Per il resto poche e incerte sono le notizie sulla vita di uno scrittore che fu il personaggio più poliedrico dell’età degli Antonini. Di lui più nulla sappiamo dopo il 170.
Apuleio esercitò un naturale fascino sull’ultimo paganesimo e sulla cultura medievale. La sua opera maggiore, le Metamorfosi, divisa in undici libri, è l’unica testimonianza pervenuta intera di un romanzo antico in lingua latina, la cui diffusione si deve a Boccaccio, che ritrovò il codice e ne fece una trascrizione. Il titolo nei manoscritti è Metamorphoseon libri XI, ma l’opera è conosciuta anche come Asinus aureus, così indicata da sant’Agostino nel De civitate Dei (XVIII 18). La storia delle eccezionali avventure di un uomo trasformatosi in asino non è un’invenzione di Apuleio. La trama deriva da un modello greco di Lucio di Patre, opera che non ci è giunta, ripresa in modo sintetico da Luciano di Samòsata, poligrafo coevo di Apuleio, che scrisse in greco Lucio o l’asino.
L’originalità dell’autore latino consiste nel fatto di essere riuscito a rielaborare materiali preesistenti, assegnando significati mistici, metafisici e simbolici autoctoni, che cambiano radicalmente la struttura e gli intenti della narrazione. Non solo puro intrattenimento. Vi è sottesa una progettualità geniale, che riesce a unificare una folla di racconti popolareschi, passionali, erotici, iniziatici. Sullo sfondo dell’odissea di un uomo-asino, Apuleio crea il libro nel libro, mettendo al centro dell’opera la celebre Favola di Amore e Psiche, una narrazione interna in forma di apologo, che occupa i libri IV, V e VI e rispecchia fedelmente l’andamento del romanzo. È il testo in edicola con il «Corriere» ed è la chiave di lettura che permette di comprendere la trama generale in un gioco di parallelismi a specchio.
Il mito, che unisce l’amore e l’anima, viene ascoltato dall’uomo-asino in una caverna di banditi. Qui è trattenuta una fanciulla di nome Càrite, rapita per ottenere un buon riscatto. Per consolarla, la vecchia che la custodisce narra una storia a lieto fine. Figlia di re, Psiche è così bella da suscitare la reazione di Venere, che chiede al dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione per l’uomo più brutto della terra.
Ma Amore s’innamora di Psiche. La trasporta nel suo palazzo, dove ogni notte il dio, invisibile al buio, a lei si unisce. Vedere il viso del misterioso amante, però, romperebbe l’incantesimo. Spinta dalla curiositas, la stessa che nella trama generale delle Metamorfosi «costringe» Lucio a provare l’unguento magico che invece lo trasforma in asino, Psiche decide di conoscere Amore, illuminandolo con una lucerna. Si punge con una saetta presa dalla faretra del dio e, perciò, s’innamora perdutamente. Tuttavia, una stilla d’olio cade sul corpo di Amore, svegliandolo. L’incantesimo è finito, il dio fugge e Psiche, disperata, si mette alla sua ricerca. Seguono peripezie e terribili prove da superare, congeniate dalla gelosissima Venere. Alla fine Amore sposa Psiche, ottenendo per lei da Giove l’immortalità. Dalla loro unione nasce la figlia Voluttà.
La storia dell’interpretazione allegorica è plurisecolare. Il racconto ha un iter travagliato: una sequela di cadute, riscatti, dolori, piaceri spirituali dell’Anima umana. Giace sotto ogni evento il pensiero platonico, nella favola come nell’intero romanzo. La vicenda di Amore e Psiche, così ben colta nel capolavoro scultoreo neoclassico di Canova, è incentrata sul destino dell’Anima, che, per aver commesso il peccato di hybris, vale a dire «tracotanza», tentando di penetrare un mistero che non le era consentito svelare, è costretta a scontare la propria colpa con umiliazioni e affanni di ogni genere, prima di essere degna di ricongiungersi al dio. Lo stile di Apuleio è denso di frequenti neologismi, rarità lessicali, giochi di parole, arcaismi, di toni ironici, patetici, delicati, di estrema tenerezza come nell’episodio della deflorazione di Psiche.
Una curiosità troppo umana
Corriere della sera 14.6.12
Il trentunesimo volume della collana propone in edicola la Favola di Amore e Psiche di Apuleio, con la prefazione inedita di Daniele Piccini. Si tratta di uno dei brani più noti e belli delle Metamorfosi del poeta latino. È la storia di una fanciulla, Psiche, visitata ogni notte da uno sposo di cui non può conoscere il volto, pena l’abbandono. Mossa dalla curiosità e soprattutto istigata dalle sorelle, Psiche viola il patto - più un ordine che un accordo paritario - e riconosce Amore, che subito diserta il talamo.
Tuttavia, attraverso dure prove, l’umana si renderà di nuovo degna del dio. Piccini nota che si tratta di «un racconto che in cifra tratteggia il rapporto dell’anima umana con l’elemento divino»: se gli elementi religiosi e filosofici implicati nella favola sono molteplici, anche dal punto di vista narrativo la vicenda di Amore e Psiche è godibile e avvincente (la curiosità umana di Psiche, la gelosia delle sorelle, il rapporto con le dee cui Psiche chiede aiuto per riconquistare lo sposo). Una delle più affascinanti storie giunte a noi dall’antichità. (i.b.)
Un Canova autentico del 2012
Ricostruite le braccia della «Danzatrice con i cembali»
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 01.03.2012)
Un risultato perfetto, dove il massimo errore di misura è nell’ordine di 0,05-0,1 millimetri, quindi invisibile a occhio nudo e impercettibile persino al tatto. Un restauro peraltro reversibile perché, volendo, i due «nuovi» arti possono essere eliminati in qualsiasi momento e senza problemi.
Il modello originale in gesso della Danzatrice con i cembali (1809) di Antonio Canova, conservata nell’Ala Scarpa della Gipsoteca di Possagno (Treviso), torna all’antico splendore con le magnifiche braccia al loro posto quasi cent’anni dopo la granata austroungarica che, durante i cannoneggiamenti del novembre 1917 a ridosso del Monte Grappa, colpì la collezione canoviana e danneggiò molte opere. Tra cui proprio lei, la Danzatrice, che perse entrambi gli arti nonché il bacino e la ciotola, cioè i cembali: tutto in mille pezzi, polverizzato. E sarà sempre lei, la Danzatrice ripristinata, protagonista della mostra «Canova e la danza» che si aprirà dopodomani, sabato 3 marzo, a Possagno.
Impossibile, dal punto di vista tecnico, parlare di un falso. Semplicemente perché le braccia recuperate sono il frutto di una scansione in 3D realizzata sulla scultura in marmo, copiata per l’ambasciatore russo a Vienna Andrej Razumovskij, ora patrimonio inamovibile del Bode Museum di Berlino. Come si legge nella relazione tecnica firmata da Ivano Ambrosini, responsabile della ditta Unocad che ha realizzato i rilievi, «in questo impegnativo progetto due tecniche collaudate come l’ingegneria inversa e la prototipazione rapida testimoniano il crescente connubio tra tecnologia e arte, sia nelle metodologie utilizzate che per i risultati ottenuti».
Per i particolari tecnici, nel singolo scan shot due camere in alta risoluzione colore catturano più di 1,4 milioni di coordinate 3D ciascuna. Ancora altri dati: 310 scan shots (cioè scatti su prospettive diversamente angolate tra loro), 8 milioni di punti alla massima risoluzione, diciotto ore di scansione, altre diciotto di elaborazione per l’ottimizzazione del modello poligonale 3D.
La Gipsoteca canoviana è la collezione dei gessi originali del grande maestro, che li realizzava come «originali» per poi passare alla produzione delle copie in marmo, come testimoniano i buchi lasciati dalle «repere», i chiodini-punti di riferimento per permettere ai lavoranti della bottega di riportare col pantografo le misure esatte sul marmo: in questo caso l’opera commissionata dall’ambasciatore Andrej Razumovskij.
Sostiene Mario Guderzo, direttore del museo: «Questo risultato si propone come un interessantissimo paradigma non solo per la conservazione, ma anche per il ripristino delle opere d’arte danneggiate. Qui, vorrei sottolinearlo, non stiamo ragionando su un "falso", poiché è tutto perfettamente autentico grazie alla strumentazione elettronica più sofisticata ed efficace esistente sul mercato internazionale. In più le braccia realizzate grazie alle indicazioni della scansione sono perfettamente eliminabili. Quindi l’originale canoviano non solo non soffre di un’aggiunta posticcia, ma ritrova la sua integrità con un intervento non invasivo. E si aprono orizzonti concreti di intervento anche per le altre dieci opere danneggiate nel 1917».
Guderzo ricostruisce due anni di lavoro tra analisi della fattibilità, primi studi operativi, scansione vera e propria («grazie alla cortese disponibilità del Bode Museum di Berlino»). Quanto è costato tutto questo? «Circa 30 mila euro, ma abbiamo potuto contare sul supporto di uno sponsor, la ditta Fassa Bortolo, specializzata in intonaci e in lavorazioni del gesso, che non è intervenuta nel merito, ma ha aderito per interesse legato al proprio lavoro».
Il risultato finale, agli occhi di Guderzo, «è anche la cancellazione di una traccia legata all’idea di guerra, di distruzione. In più il pubblico può constatare come oggi esistano mezzi e strumenti non solo per conservare i beni culturali, ma anche per riportarli alla loro antica bellezza, seguendo con la dovuta attenzione tutte le regole per un buon restauro».
Come spiega il restauratore dell’opera Giordano Passarella, «per fissare le parti ricostruite alla scultura sono stati inseriti dei perni in alluminio e acciaio (maschio-femmina) fissati con resina epossidica», quindi «niente materiali collanti, e immediata reversibilità». Durante l’operazione di ripristino sono state rimosse le tracce di altri interventi di restauro, tentati negli anni Venti dal restauratore Stefano Serafin.
Nelle Memorie (1890) del pittore Francesco Hayez si trovano parole di grande ammirazione per la «modernità» di Canova, per la sua capacità di realizzare una vera e propria «fabbrica di multipli» in marmo di incommensurabile qualità, alla guida di una squadra di operai specializzati. E addirittura oggi, nel 2012, da quel modernissimo Canova arriva una lezione per la contemporaneità.
Al Museo e Gipsoteca di Possagno un’esposizione dedicata al genio del marmo
Protagoniste le "ballerine" di inizio ’800 ispirate ai reperti di Pompei ed Ercolano
La danza della scultura tra eros e neoclassicismo
di Cesare De Seta (la Repubblica, 18.03.2012)
Salendo verso Possagno si scorgono le colline d’argilla, solcate dai castagni, da cui Antonio Canova traeva la materia per i bozzetti. La sua straordinaria mano conferisce al marmo il morbido fraseggio che realizza tra il nudo anatomico e il peplo che talvolta lo ricopre. Il modellato delle vesti e le trasparenze hanno una sottile carica erotica sottolineata dalla movenza dei gesti o della danza. Molte sue opere sono ispirate ai modelli di Ercolano e Pompei che visitò nel 1779: l’avevano tanto affascinato, che, circa vent’anni dopo, dipinse una serie di tempere su carta con fanciulle che danzano, e a più riprese vi ritornerà negli anni a seguire.
A un uomo colto, quale fu Canova, non potevano essere sfuggite le pagine, commosse fino all’eccitazione, che Winckelmann aveva dedicato alle sognanti immagini di bellezza rinvenute sulle pareti dipinte nelle città dissepolte alle falde del Vesuvio: le Danzatrici «sono fluide quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle Grazie» scrisse il sassone.
È geniale l’idea che una forma dipinta possa essere fluida come qualcosa di assolutamente immateriale quale il pensiero. Canova, che amava la musica e la danza, seppe trasferire il moto e la danza in scultura: la Danzatrice con le mani sui fianchi (1806), la Danzatrice col dito al mento (1809) e la Danzatrice con i cembali (1809, come inciso nel gesso) sono un trittico che incarna il mito del Sublime, uno dei cardini dell’estetica settecentesca. Nelle danzatrici Canova, con ineguagliata maestria, si libera dalla soggezione della gravità: il movimento è sempre una sfida per uno scultore e Canova aveva ben studiato il Laocoonte in Vaticano e quello scritto da Lessing, aveva sotto gli occhi Bernini.
Tra i capolavori del Museo e Gipsoteca di Possagno, si conserva il gesso originale della Danzatrice con i cembali, affidandone poi la trasposizione in marmo ai collaboratori, su cui interveniva alla fine nell’intento di rappresentare «la vera carne». Attorno alle tre fanciulle, ruota la mostra Canova e la danza, a cura di Mario Cuderzo, (fino al 30 settembre, catalogo Terra Ferma), ma la Danzatrice con i cembali è la vedette della rassegna. Dall’originale in gesso fu tratta la scultura in marmo, eseguita per l’ambasciatore russo a Vienna Andrej Razumovskij, ora patrimonio inamovibile del Bode Museum.
Il museo di Berlino ha consentito che si ripristinasse il gesso originale. Le tecnologie adottate dai restauratori sono un’eccellenza dell’Italia che andrebbe coltivata assai più di quanto non accada. Infatti il gesso (cm 187 x 80 x 55) fu gravemente mutilato nel 1917, perdendo le morbide braccia, che, alzate sul capo reclinato della fanciulla, avevano tra le mani, i cembali, piatti cavi originariamente in bronzo da usare a percussione.
Girando attorno alle tre figure muliebri ci si avvede che esse sono delle fanciulle felicemente prese in una danza su un’aia: non scendono dal Parnaso, non sono dee come Ebe (1796) ancora legata al revival neoclassico e, nella perfezione delle sue movenze, irraggiungibile: come nel bassorilievo della Danza con il figli di Alcinoo (1790-92).
Non sono neppure associabili ai sofisticati tableaux vivants che Emma, nel palazzo di Sir William Hamilton, metteva in scena a Napoli per spettatori ammirati come Goethe. C’è piuttosto in esse la grazia spigliata della giovinezza, sono gioiosamente spontanee nelle loro movenze e mi spingerei a dire che Canova qui sfiora un’aura protoromantica, la stessa che aleggia in Foscolo e Goethe. Perché esse non sono menadi sfrenate in danze dionisiache e, nell’inudibile musica che ispira i loro movimenti, risuona l’eco dei loro giovanili anni: «Quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi», dice Leopardi. Le gambe e i panneggi del gesso hanno un moto rotatorio che parte dal piede sollevato, mentre le braccia lo bilanciano in virtù della loro disposizione asimmetrica. Il capo reclinato s’accosta alla spalla e lo sguardo volge in basso, mentre tutta la figura si libra da terra in elevazione. Un equilibrio sapiente che dà vita all’idea stessa della danza.
La storia della scultura la ricama Alvar González-Palacios. Ma del maestro qui si vedono anche il gesso del suo busto del 1812 e la testa della Danzatrice con i cembali, attornianti da quaranta tempere e dalle incisioni dedotte. L’Ala Scarpa del museo, tutta bianca, ha due lucernari in alto: da uno di essi si scorge una edificio attiguo con intonaco rosso che lede l’armonia di questa splendida sala. Dipingerla in bianco eviterebbe un’assai sgradevole intrusione cromatica.
Le Tre Grazie tornano a casa
Dal Louvre alla Galleria Borghese le sculture volute da Napoleone
Rientrano a Roma, per un allestimento eccezionale, 60 marmi che il principe Camillo cedette al cognato Bonaparte nel 1807
Una compravendita definita allora una "vergogna" da Canova
La gigantesca collezione fu accumulata nel Seicento dal cardinale Scipione
L’imperatore francese recupera il senso ideologico dell’antico e se ne impossessa
di Claudio Strinati (la Repubblica, 08.12.2011)
Nel piccolo spazio e nella lunga storia della Galleria Borghese a Roma è possibile rintracciare momenti che hanno lasciato segni indelebili e momenti che quasi non sono più rintracciabili dalla coscienza attuale.
La mostra I Borghese e l’Antico ci restituisce proprio l’aspetto più dimenticato di quella storia gloriosa per comprendere quanto si è perso nel corso del tempo. L’esposizione (organizzata dalla Soprintendenza per il Polo Museale Romano con la Direzione della Galleria Borghese in una collaborazione eccezionale con il Louvre sostenuta da Arcus, Enel, BNP Paribas, Ferrero e Air France sponsor tecnico), ha riportato "a casa" oltre 60 meraviglie che Napoleone aveva comprato per il Louvre: tra queste capolavori come l’Ermafrodito, Le Tre Grazie, il Centauro cavalcato da Amore.
Nella palazzina Borghese c’era infatti una gigantesca raccolta di statue, bassorilievi e ritratti antichi accumulata nel Seicento dalla passione collezionistica del fondatore, il cardinale Scipione Borghese.
Nel catalogo (Skira) invero magistrale, la direttrice della Galleria Borghese Anna Coliva ne ripercorre la personalità di uomo totalmente dedito alle Belle Arti, amico degli artisti suoi contemporanei e ricercatore infaticabile della scultura antica. Poi le generazioni successive arricchirono quel patrimonio fino a che, a fine Settecento, il principe Marcantonio Borghese, degno continuatore delle eccezionali attitudini culturali del cardinale, fece ristrutturare la palazzina riorganizzando la collezione di antichità secondo criteri "moderni" che sembravano destinati a durare nei secoli. E invece, dopo pochi anni, il principe Camillo Borghese marito di Paolina Bonaparte, la splendida Paolina immortalata dal Canova nella scultura che oggi tutti ammirano nel museo, si fa convincere a vendere una cospicua parte della collezione antica a Napoleone che voleva glorificare il suo impero trasportando a Parigi le bellezze del passato.
Viene affidato il compito della scelta e valutazione all’imperatore degli archeologi e antiquari, Ennio Quirino Visconti, che - dopo essersi consultato con il direttore del Museo del Louvre Vivant Denon, un altro super esperto - sceglierà 695 opere antiche su una raccolta di 2200 stabilendo il prezzo in 3.907.300 franchi. Vi sono incluse statue memorabili e sublimi, importanti bassorilievi, ritratti insigni. Ma il prezzo è destinato a levitare parecchio e alla fine quando Napoleone firma il decreto di acquisto viene indicata la cifra stratosferica di 13 milioni di franchi. Ma anche se la somma pagata è enorme (alla fine furono versati 8 milioni), per Roma è uno choc privarsi di tanta bellezza. Antonio Canova, che sulle sculture della Villa ha condotto il suo appassionato studio dell’antico, nel 1810 davanti a Napoleone definisce la vendita "una incancellabile vergogna" per la famiglia che possedeva "la villa più bella del mondo".
Il paradosso è che quando le casse contenenti le opere arrivano al Louvre, tra il 1808 e il 1811 l’imperatore comincia a preoccuparsi: dove mettiamo tutte queste statue, si chiede e ben a ragione dato che il museo era strapieno di cose antiche e non solo, prelevate già in abbondanza in precedenti campagne di spoliazione sistematica del territorio conquistato. E comincia l’amaro destino di questi capolavori, di cui il catalogo ci informa ampiamente con dati sovente inediti e curiosi.
In un primo momento le opere principali vengono collocate in poche ma belle sale e l’occasione, nel 1811, del battesimo del Re di Roma, l’infelice erede dell’imperatore, dà modo di organizzare una grande e solenne inaugurazione di quei beni preziosi in cui pare identificarsi il destino dell’epoca nuova. Ma poi le opere Borghese sembrano seguire proprio la vicenda del figlio del Bonaparte, deportato in Austria, mortificato e annichilito quasi da una separazione che non sarà mai più ricomposta. Le povere statue vengono continuamente spostate, messe in deposito, mandate a arredare altre sedi. Sempre veneratissime e sempre maltrattate. Guai però a chiederle in prestito per poterle degnamente esporre di nuovo a Roma.
Sembrava impossibile ma oggi un autorevole comitato che annovera due funzionari del Louvre, Jean-Luc Martinez e Marie-Lou Fabrega Dubert con Anna Coliva e Marina Minozzi per la Borghese, ha compiuto il miracolo. Tornano a Roma e ritrovano posto nella Galleria ben 60 opere. E si rivedono pezzi mitici come l’Ermafrodito (180.000 franchi per il Visconti) il Sileno e Bacco bambino (200.000) il meraviglioso Vaso Borghese (200.000) del primo secolo a.C. che da solo giustificherebbe una mostra, il Centauro cavalcato da Amore che, a onta della fama strameritata dell’Ermafrodito, è forse il capolavoro dei capolavori.
Si ricrea una situazione che riporta al gusto e alla mentalità sei e settecentesca. Ma quale era? La Coliva spiega come il gusto di Scipione Borghese per l’Antico fosse stato ben diverso da quello, certo analogo, di chi lo aveva preceduto, specie quello riferibile alla casata Farnese.
Quando i Farnese nel Cinquecento avevano raccolto una collezione immane di opere antiche vi avevano impresso una sorta di sigillo ideologico potente, quale legittimazione di una continuità storica e politica calata nel loro dominio. Ma con Scipione l’arte antica è apoteosi del puro gusto della bellezza e del conseguente diletto che ne promana , un "edonismo reaganiano" ante litteram contrapposto a una specie di "pragmatismo kennediano" dei Farnese. Nel Settecento questo nobile abbellimento dell’esistenza tocca un suo culmine di alta consapevolezza ma poi Napoleone recupera il senso ideologico del patrimonio antico impossessandosi proprio di parte della raccolta borghesiana. La ruota della storia gira implacabile e oggi ci fa intravedere, sia pur affievolito, quel grandioso momento di conflittuale pacificazione.
Se la fede non dialoga con l’arte
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 9 luglio 2011)
Era negli intenti del Cardinal Ravasi - con la mostra che si è aperta questa settimana in Vaticano - rilanciare quel dialogo tra arte e fede che in un passato, ormai remoto, ha offerto grandi capolavori e una fioritura di arte sacra di inarrivabile livello. Qualche perplessità, tuttavia, suscita l’iniziativa. E non solo per la constatazione desolante di che cosa abbia significato per la Chiesa l’arte negli ultimi secoli - tra orrendi edifici, terrificanti dipinti e raccapriccianti sculture (l’ultima delle quali un controverso omaggio a Giovanni Paolo II) - ma soprattutto per il venir meno del linguaggio con cui tutto questo dovrebbe esprimersi. In altre parole che idea di bellezza ha la Chiesa e in quale direzione va l’arte contemporanea, chiamata da Ravasi ad assolvere a un compito di testimonianza?
È un problema non irrilevante, per chi adotta la fede come criterio, osservare il profondo relativismo delle nuove tendenze, le quali sempre meno sono interessate alla bellezza (il cui ripudio è discusso da Roger Scruton in un libro appena edito da V&P) e sempre più al mercato.
L’arte del passato è stata grande perché grande fu il potere della Chiesa. Potente la committenza dei papi, fecondo il dialogo con gli artisti, e indiscutibile la tradizione. Niente di tutto questo è rimasto. E neppure un miracolo, crediamo, potrebbe far tornare ciò che è definitivamente sparito.
Tra fede e arte dialogo riaperto
La Chiesa incontra l’arte contemporanea, voce delle nostre inquietudini, ma anche segno della nostalgia del Totalmente Altro, che ha pervaso le culture specialmente dell’Occidente dopo il tramonto dei «grandi racconti» delle ideologie.
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2011)
Come aveva intuito Friedrich Nietzsche con la sua critica alla «volontà di potenza», queste sono entrate in crisi a causa proprio del potenziale di violenza che hanno generato specialmente nelle avventure totalitarie del Novecento. Per tutti è necessario oggi trovare ragioni di vita e di speranza, lontane dagli orizzonti totalizzanti delle ideologie.
La bellezza è una via singolare perché questo avvenga: e perciò essa incontra in modo nuovo la fede. Cifra intensa di questo incontro si annuncia la mostra organizzata in Vaticano per festeggiare il sessantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI, celebrato il 29 giugno scorso. Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha invitato a partecipare all’esposizione, che verrà inaugurata domani a Roma, sessanta artisti di fama mondiale, domandando loro di esprimersi in un «gesto di omaggio al Santo Padre».
Tra pittori, scultori, architetti, fotografi, scrittori, musicisti e registi che esporranno loro opere in omaggio al successore di Pietro, ci saranno il brasiliano Oscar Niemeyer, ultracentenario maestro dell’architettura, lo spagnolo Santiago Calatrava, lo svizzero Mario Botta, il greco Jannis Kounellis, gli italiani Ennio Morricone, Renzo Piano, Pupi Avati, Mimmo Paladino, Paolo Portoghesi, Arnaldo Pomodoro, Ettore Spalletti, Omar Galliani, Mimmo Jodice, e - fra gli scrittori - Roberto Mussapi, Luca Doninelli e Davide Rondoni. Come ha detto Ravasi, intento della mostra - intitolata "Lo splendore della verità, la bellezza della carità" - è «approfondire la ricerca di un dialogo che si è interrotto, quello tra arte e fede, che insieme in passato hanno prodotto grandi capolavori, ma le cui strade da tempo si sono divaricate... Si tratta di un dialogo necessario, vista la parentela di questi due aspetti dell’animo umano che, su strade diverse, tendono entrambi all’infinito».
Come e perché? La risposta che vorrei dare parte dalla meditazione di Hans Urs von Balthasar - una delle menti più alte del cosiddetto "secolo breve", oltre che uomo di straordinaria erudizione - per il quale il bello è l’offrirsi del "Tutto nel frammento" ("das Ganze im Fragment"), l’evento di una donazione che supera l’infinita distanza. Come può l’infinito abitare in ciò che è minimo? O l’eterno abbreviarsi senza annullarsi? O l’immenso contrarsi senza negarsi? La risposta che una vasta tradizione del pensiero occidentale dà a queste domande è che questo è possibile o mediante la proporzione della forma, che riproduca l’armonia del Tutto - formosus è il bello! -, o attraverso lo splendore, per cui il Tutto irraggia nel frammento per via d’irruzione e di rapimento: speciosus, splendido è il bello!
Nel primo caso, il Tutto può dimorare nel frammento in quanto questo si offra come determinazione spazio-temporale dell’infinito grazie alla riproduzione della corrispondenza dei rapporti: è l’idea della bellezza classica, consacrata specialmente dai capolavori della Grecia antica e assunta dall’anima cristiana di Agostino, ad esempio nel suo De Musica. Nel secondo caso, il Tutto irrompe nel frammento come movimento che sorge dall’alto o dal profondo, e schiude una finestra verso l’illimitato, sì che il minimo appaia come "abbreviazione" dell’eternità nel tempo, dell’infinito nel finito.
È la meditazione che ha portato a considerare la bellezza come "bonicellum", piccolo bene, "verbum abbreviatum" dell’eterno splendore di Dio: da questa considerazione cristiana medioevale si forma in tutte le lingue romanze il termine per dire la bellezza ("bello" in italiano, "bonito" nelle lingue della penisola iberica, "beau" in francese e "beautiful" in inglese). Qui l’anima greca s’incontra con la novità cristiana.
Qui il cristianesimo assume e tradisce Atene, perché - mentre aspira anch’esso a contemplare il Tutto nel frammento - confessa che l’evento della bellezza si è compiuto una volta per sempre nel giardino fuori di Gerusalemme, dove sulla roccia del Calvario sta la Croce della bellezza. È convinzione essenziale della fede cristiana che il Verbo eterno si dica in questo mondo per via della contrazione suprema, grazie all’atto per il quale - in nulla costretto dall’infinitamente grande - il Figlio si è lasciato contenere dall’infinitamente piccolo.
Veramente divino è questo contrarsi: "Non coërceri maximo, contineri tamen a minimo, divinum est" - "Non essere costretti dal più grande, ma lasciarsi contenere dal più piccolo, questo è divino" (la frase, "elogium sepulcrale" di Sant’Ignazio di Loyola, è stata usata da Hölderlin nel 1794 come esergo al frammento di romanzo Hyperion)! Questa estasi del divino è al tempo stesso l’appello più alto che si possa concepire all’estasi dal mondo, a quel trasgredire verso il mistero che è il rapimento della bellezza che salva, reso possibile appunto dall’"abbreviarsi" del Verbo nella carne. Il Tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel finito: il Dio Crocifisso è la forma e lo splendore dell’eternità nel tempo. Sulla Croce il "Verbum abbreviatum" - "kenosi" del Verbo eterno - rivela la bellezza come dono di amore e offerta di senso e di speranza per tutti!
Perché questo è così importante per noi, donne e uomini del "post-moderno"? E perché al servizio di questa causa fede e arte devono lavorare insieme? Dopo l’utopia delle grandi visioni ideologiche, assetate di totalità e divenute totalitarie e violente nei loro effetti storici, la grande tentazione è la decadenza, la rinuncia a pensare in grande e a sognare e impegnarsi per un domani più bello per tutti, degno dell’umano che è in noi.
A questa tentazione occorre reagire offrendo orizzonti di senso e di speranza, che non siano asfissianti come quelli delle ideologie: occorre riconoscere il Tutto nei frammenti della vita e dell’opera dei giorni. È a questo precisamente che educa la bellezza: essa è perciò decisiva per la fede, chiamata a riscoprire come Colui in cui si crede, oltre a essere il vero e il bene, sia il bello da amare e da cui lasciarsi amare, capace di dare senso alla vita. E la bellezza è decisiva per la cultura e per l’arte, perché sulle sue vie gli umani potranno riscoprire la nostalgia del senso perduto e cercarla in forme non violente come quelle della ragione ideologica, ma tanto vere, quanto umili e vivificanti.
È insomma la bellezza a operare quel miracolo, che Mario Luzi - altissima voce poetica del Novecento - chiamò «il battesimo dei nostri frammenti». Chi di noi può dire di non averne veramente bisogno? La mostra in Vaticano potrà ricordarlo a tanti...
Il Censis ha chiesto a uomini e donne di scegliere la bellezza preferita, dipinta o scolpita
A sorpresa vince la statua di Canova, surclassando le modelle di Leonardo e Tiziano
Paolina Borghese meglio di Venere è la miss dell’Arte per gli italiani
La Monna Lisa non rappresenta un ideale estetico: piace solo all’8,4%
Afrodite Callipige è apprezzata dal 70,4% dei maschi specie al Sud e nelle isole
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 05.07.2011)
Pareva che le più belle e desiderate fossero Belén Rodríguez nuda, e Kate Middleton vestita, magari anche la di lei famosa sorella Pippa, blandamente callipigia. Ma si tratta di ragazze straniere, soprattutto vere, vive e contemporanee. Invece no, la figura femminile che più piace agli italiani, maschi e femmine, giovani e anziani, è una celebrità vecchia di duecento anni. È una signora di marmo semidistesa e seminuda, una Venere Vincitrice con in mano una mela, scolpita dal solerte Canova nel momento in cui la bella aveva 25 anni, già aveva sepolto un primo marito generale e il secondo, di gran casato italiano, ne aveva ordinato la statua, mentre lei si apprestava ad accumulare generosa una trentina di amanti in vent’anni. Si tratta naturalmente di Paolina Bonaparte in Borghese, star della sontuosa Galleria Borghese di Roma, una bellezza classica che attira frotte di scolaresche in gita culturale.
Si è arrivati a questa scelta bizzarra, certo non contemporanea ma forse postmoderna, attraverso un’approfondita indagine curata dal Censis per la Fondazione Marilena Ferrari, «che ha come obiettivo quello di avvicinare il pubblico all’arte soprattutto italiana» facendola uscire «dal contesto polveroso dei musei, per diventare un bene usufruibile e comprensibile a tutti». Anche la signora Ferrari non si immaginava «che sarebbe stata la femminilità elegante e pudica di Paolina ad avere la meglio su bellezze più celebrate. Una conferma che per essere amata l’arte deve essere conosciuta».
Elezione quindi di Miss Arte Italiana e ingresso sul web di un Atlante dell’Arte Italiana (www.atlantedellarteitaliana.it) «favorito da un livello di risoluzione molto alto, in modo da rendere le riproduzioni particolarmente fedeli all’originale». La consultazione è gratuita, e il sito può già contare su 14mila immagini di 1.700 autori italiani, e arriverà a 25mila immagini di 2.500 autori. Superando oltre i siti di molti musei, anche googleartproject.com, che consente tour virtuali in 17 musei tra cui gli Uffizi di Firenze, e promette di ingrandire i particolari di certe opere.
Comunque nel sito italiano, si fa clic e son lì, piccoline, a migliaia, le opere d’arte italiane e non solo, e in riferimento al sondaggio si possono ammirare dalla Scapigliata di Leonardo (classificata quarta) alla Suonatrice di liuto di Orazio Gentileschi (10°), dalla Fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini (22°), alla Salomè con la testa del Battista ancora fresca di taglio, del Tiziano (29°): e la celeberrima Monna Lisa di Leonardo? Un disastro, piace come donna solo all’8,4% degli italiani, classificandosi al 62° posto: e forse l’avrebbero gradita di più con baffi e pizzetto Dada.
Volendo perder tempo, gli appassionati potranno votare online la propria Venere o Odalisca o Sibilla preferita, vuoi del Giorgione, dell’Hayez o di Andrea del Castagno, sulla pagina facebook.com/missarteitaliana, come appunto si trattasse di figure più semplici e note, di Miss, di Veline, di Showgirls, magari pure di Olgettine.
Per l’ironico gioco, esperti dell’arte e dei consumi di massa hanno selezionato 120 bellezze dall’antichità all’800, viste e riviste anche su scatole di cioccolatini e t-shirt, immortalate dai grandi artisti italiani più celebri; e le hanno sottoposte a un campione di 1032 persone tra i 25 e i 64 anni, dal che si è chiarito che anche i giovani ambosessi che magari tifano per Lady Gaga o i vecchi che un tempo sognavano Madonna, se li metti davanti a una signora scolpita o dipinta, regrediscono nei gusti sino ad appassionarsi per femmine taglia minimo 48, bellissime in tempi in cui la femminilità piaceva carnosa, ondulata e anche un po’ cellulitica. Nude naturalmente, perché vestite, anche allora erano forse più pompose ma certo meno attraenti: come la stessa Paolina ricoperta di sete e ricami e gioielli in un ritratto di François-Joseph Kinson o molto malmostosa in un dipinto di Robert Lefèvre. E per fortuna che gli esperti hanno deciso di eliminare dalla gara le immagini sacre, se no Miss Arte Italiana sarebbe stata certamente una Madonna, una santa, una vergine, una martire.
Tanto per non sbagliare, i votanti si sono appassionati a varie Veneri che comunque abbondavano nella lista sottoposta al campione. E infatti tra le prime venti Miss Arte Italiana la metà sono Veneri (del Tiziano, del Botticelli, del Cignani, del Canova, del Giorgione, dell’Allori, ecc.): la seconda classificata, dopo Paolina (amata più dalle donne che dagli uomini, mah!) è infatti quella meravigliosa sederona di Afrodite Callipige, anche di spessa caviglia, che volge la testa soddisfatta per ammirare il suo ampio didietro, conservata al Museo Archeologico di Napoli: approvata dal 70,7% dei maschi, dal 78,4% degli ultraquarantacinquenni, dal 71,4% di meridionali e isolani. Terza bellezza, «un’opera misconosciuta, una bellezza mediterranea, ma apprezzata specialmente al Nord (è Miss Padania)...»; cioè l’Odalisca di Francesco Hayez, gli occhi bassi, pronta a sottomettersi e a lasciar cadere il telo che le copre appena il seno.
I gusti son gusti, e infatti due anni fa ci fu una mostra a New York, più bel libro, intitolati Extreme Beauty in Vogue, che raccoglievano le fotografie più chic dei fotografi più esagerati, che pur immortalando le natiche sublimi della modella Gisele o un seno encomiabile della modella-attrice Lauren Hutton, poi divagavano nell’horror presentato appunto come estrema bellezza: una Vegetable face (Irving Penn) coperta di fette di cetrioli, un ventre nudo stretto da una cintura di castità (Irving Penn), un viso tumefatto con applicazione di bistecca sull’occhio pesto (Helmut Newton) e ancora di Arthur Penn Epic proportions, una signora grassissima nuda, seduta ed assopita. L’iniziativa punta a un vasto successo, tanto che si sta già preparando un’indagine per eleggere Mister Arte Italiana.
«Arte e fede devono dialogare»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 18 giugno 2011)
È come nella morte di Bergotte, narrata da Marcel Proust ne La prigioniera. L’anziano scrittore che crolla esanime mentre ammira la perfezione d’una «piccola ala di muro gialla» dipinta da Vermeer, «nelle condizioni della nostra vita su questa terra, non c’è nessuna ragione (...) perché un artista ateo si creda in dovere di fare cento volte un "pezzo"...» , la tensione verso «un altro mondo, fondato sulla bontà, lo scrupolo, lo spirito di sacrificio» , un «oltre» misterioso che l’autore della Recherche tratteggia in quello che forse è l’omaggio più bello della letteratura contemporanea alla fatica creativa: «Durante l’intera notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri disposti a tre a tre vegliarono come angeli dalle ali spiegate e sembravano, per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione».
Il cardinale Gianfranco Ravasi ne è convinto da tempo e ora ripete: «Il dialogo tra arte e fede è necessario, data la parentela che intercorre tra queste due espressioni diverse dello spirito umano, che tendono entrambe, su strade diverse, verso l’eterno e l’infinito». Eppure, spiega, le due strade «si sono divaricate». Da una parte «la teologia, la liturgia sono andate su altre traiettorie quando dovevano introdurre nell’interno dei loro spazi il tema estetico». Dall’altra «le arti hanno avuto i loro percorsi, spesso in maniera abbastanza sorprendente e sconcertante, fino al punto di essere blasfeme, quindi provocatorie nei confronti del punto di partenza: quello religioso che, per secoli, è stato complice della cultura».
Fede e arte devono tornare a parlarsi. È questo il senso profondo della mostra Lo splendore della verità, la bellezza della carità che il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura ha voluto come omaggio a Benedetto XVI nel sessantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Era il 29 giugno 1951 quando Joseph Ratzinger ricevette la consacrazione nel Duomo di Frisinga. E così, per festeggiare i sessant’anni, il cardinale Ravasi ha invitato sessanta artisti a celebrare l’occasione con le loro opere, come anticipato dal «Corriere» la settimana scorsa: la mostra, inaugurata dallo stesso Papa il 4 luglio, troverà spazio nell’atrio dell’aula Paolo VI, in Vaticano, e si potrà visitare dal 5 luglio al 4 settembre.
Ad ogni artista è stato chiesto di presentare un’opera per l’evento - e quindi su «lo splendore della verità, la bellezza della carità» - in modo da riprendere quel dialogo interrotto, anche se mai del tutto: Ravasi ha ricordato il Crocifisso che Andy Warhol teneva in camera o i celebri «tagli» che Lucio Fontana descriveva come «spiragli sull’assoluto» . Ognuno si regolerà come crede. Il grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer, 103 anni, ha mandato il modello del campanile della cattedrale in costruzione a Belo Horizonte «perché voleva che il Papa lo vedesse», ha spiegato il cardinale. Il poeta Davide Rondoni ha scritto invece Autoritratto con Papa, una poesia inedita che allude alla definizione che Benedetto XVI diede di sé («un umile operaio nella vigna del Signore») e affronta il tema con un incipit sul filo dell’ironia: «Vendemmia o bestemmia?».
Certo la scelta degli inviti non è stata facile e non ha mancato di creare discussioni. L’idea era di abbracciare le più svariate forme di arte: e nell’elenco ci sono pittori e scultori, architetti e musicisti, poeti e scrittori, registi, fotografi e orafi. Nomi celebrati come Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino e Kengiro Azuma, Santiago Calatrava, Mario Botta, Renzo Piano e Paolo Portoghesi, e ancora Ennio Morricone o Pupi Avati. E altri meno conosciuti, almeno al grande pubblico. C’è anche Oliviero Rainaldi, l’autore della discussa statua di Wojtyla alla stazione Termini.
Lo spirito è quello del grande incontro con Benedetto XVI nella Cappella Sistina, il 21 novembre del 2009: l’invito «all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione» che il Papa rivolse agli artisti come «custodi della bellezza nel mondo». Solo che allora ne arrivarono 260 e stavolta, per mantenere la simmetria con l’anniversario del Pontefice, c’era posto solo per 60 persone. Gli esclusi rispetto ad allora sono la maggioranza e nell’ambiente trapela qualche malumore anche fra gli invitati. Ma una scelta si doveva pur fare: «Nei 60 ogni arte doveva essere rappresentata, cercando di far essere presenti esponenti di diverse aree geografiche e culturali, e in più c’era poco tempo», allarga le braccia il cardinale Ravasi. «Come sempre le selezioni possono creare giudizi e critiche, ogni artista siconsidera insostituibile...».
oops!
di Mirella Camera
in “a latere...” (http://alatere.myblog.it) del 13 aprile 2011 *
Annunciato con squilli di tromba in tutto il mondo cattolico, Youcat (furbo acronimo di Youth catechism), il mini-catechismo che Benedetto XVI vuole dedicare ai giovani, dopo essere apparso per pochi giorni in libreria è stato ritirato in fretta e furia. Motivo? Un “errore” di traduzione nella versione italiana, che alla domanda 420: "Può una coppia cristiana fare ricorso ai metodi anticoncezionali?" risponde: "Sì, una coppia cristiana può e deve essere responsabile nella sua facoltà di poter donare la vita".
Nella versione originale non si parla di “anticoncezionali” ma di “controllo del numero dei figli”. Detto a latere, questo è il secondo errore di traduzione che mette in imbarazzo la gerarchia: l’altro era relativo, guarda caso, all’uso del condom da parte di “una prostituta” che poi nell’originale dell’intervista al papa si è rivelato essere “un prostituto”. Si vede che la lingua batte dove il dente duole.
Ma andiamo avanti. Questo mostra, ancora una volta, la distanza siderale che c’è tra l’insegnamento dottrinale e la vita reale delle persone.
L’intenzione e la volontà di pianificare il numero di figli è definita dalla Chiesa cattolica nei suoi documenti ufficiali “paternità responsabile”. Ci sarebbe da chiedersi perché non “maternità responsabile”, che sarebbe molto più logico, vista la parte che ha la donna nella faccenda. O, meglio ancora, “genitorialità responsabile” in modo che siano ben chiari i soggetti della decisione. Comunque sia, questa volontà è ritenuta cosa responsabile, quindi buona e giusta.
E’ sui mezzi che scatta una feroce idiosincrasia, come se questi fossero di per sé molto più importanti dell’intenzione stessa. La spirale no, e fin qui possiamo capire: agisce sulle cellule già fecondate, quindi sarebbe una sorta di proto-aborto. Ma la pillola neanche, perché "distorce la natura e gli obiettivi del sesso". E il preservativo, innocuo aggeggio di lattice che ha solo una funzione di barriera meccanica e che più povero di così non potrebbe essere? Nemmeno quello, perché banalizza la sessualità. Anzi, contro il preservativo la Chiesa ha scatenato una vera guerra come se fosse uno strumento del diavolo, visto che lo vieta persino in caso di Aids fra coniugi.
Salvo, a sorpresa, sentirsi dire dal papa stesso che può essere concesso in un rapporto omosessuale a pagamento. Forse perché in quel caso l’intenzione di regolare le nascite proprio non si pone?
Al posto di tutti questi mezzi, normalmente usati con efficacia dai non osservanti, la Chiesa propone solo l’astinenza sessuale, magari guidata dai cosiddetti “metodi naturali”; che in realtà sono metodi molto macchinosi, di gestione a volte irrealizzabile nella vita reale di una famiglia e per nulla sicuri (metodi Billings, Ogino-Knaus, temperatura basale).
Che si tratti di catechismo per i giovani o di quello degli adulti, su questo tema, sulla sessualità in genere e su moltissimi altri argomenti la Chiesa cattolica dovrebbe fare un profondo ripensamento. Di forma ma soprattutto di contenuto. Se ne parla da anni e lo chiedono in molti, non certo eretici o secolarizzati persi. Ma la risposta è sempre un arroccamento nella Dottrina.
Se il papa pensa che presentando un catechismo in formato quiz con una simpatica copertina gialla si venga incontro alle domande dei credenti di nuova generazione, sbaglia di grosso. Sarà infallibile ma sbaglia. Per passare il testimone della fede ai ragazzi non gli si dà in mano una sorta di manuale d’uso, come se dovessero mettere in moto la loro fede alla maniera di un frullatore o di un microonde. Manuale oltretutto vecchio e datato, le cui affermazioni sono desunte da una logica filosofica tramontata da secoli (il tomismo) e che non risponde più alle domande di oggi.
Tra i primi atti di Benedetto XVI c’è stata la consegna del Compendio, un catechismo "leggero" cheevidentemente lui considera strumento imprescindibile per un credente. Ora la replica con i giovani. Ma non sarebbe molto meglio dare il Vangelo?
* Fonte: Fine settimana.org
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Se la Chiesa non ha più padri
di Susanna Tamaro (Corriere della Sera, 2 agosto 2010)
Poche settimane fa il Papa ha istituito un nuovo organismo, nella forma di «Pontificio Consiglio», con il compito di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi che stanno vivendo una «progressiva secolarizzazione» e una sorta di «eclissi del senso di Dio». Da cosa, da chi dipende questa «grave crisi del senso della fede cristiana e dell’appartenenza alla Chiesa» di cui parla Benedetto XVI e a cui questo nuovo dicastero vorrebbe porre rimedio?
Da anni mi trovo a vivere in una posizione di confine. Non ho avuto, in famiglia, un’educazione cattolica, anzi, provengo da un ambiente ateo, anticlericale e massone ma avendo una natura inquieta, nel corso della mia vita, ho fatto un lungo cammino spirituale che mi ha riavvicinato al Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo. Non è stato un cammino lineare né sempre luminoso, la via interiore, infatti, è un continuo confronto con il male. Se la mia fede esiste - e resiste - è perché continuo a studiare, a leggere, a interrogarmi e ad accettare anche giorni in cui mi sembra di non credere.
Negli ultimi dieci anni molte altre persone della mia generazione hanno intrapreso un percorso simile, lasciandosi alle spalle ideologie politiche, new age e vari movimenti orientali per tornare alla fede del Vangelo ma, nella maggior parte dei casi, questi figli prodighi non hanno trovato nessun padre ad attenderli. Così, dopo un periodo di grande trasporto, non trovando interlocutori né accoglienza, si sono nuovamente allontanati.
La Chiesa infatti - nonostante i molti dibattiti tra laici e credenti - continua a essere autoreferenziale, a respingere chi è in ricerca e a diffidare profondamente di chi ha fatto un percorso spirituale diverso. Come mi disse un giorno un prete irritato - al quale stavo spiegando il sentito e tardivo riavvicinamento alla fede di un’amica di cui avrebbe dopo poco celebrato il funerale - «gli ultimi mesi non contano niente, bisogna stare da sempre nella Chiesa», dimostrando così un’ammirevole pienezza evangelica.
Malgrado tutti i discorsi sull’apertura, sulla nuova evangelizzazione, la Chiesa continua a essere una struttura solo apparentemente accogliente, accoglie giustamente i poveri, si prodiga con generosità per alleviare le sofferenze degli ultimi, ma spesso, in questa bulimia di buone azioni, si dimentica delle inquietudini delle persone normali. Mancano i padri e le madri spirituali, persone credibili, che abbiano fatto un cammino, che conoscano la complessità e la contraddittorietà della vita e che, con umiltà e pazienza, sappiano accompagnare le persone lungo questa strada, senza giudicare e senza chiedere risultati. Nel padre o nella madre spirituale non c’è niente di nuovo, bensì qualcosa di straordinariamente antico: la sete di un’anima che incontra un’altra anima in grado di aiutarla a cercare l’acqua. Non occorrono nuovi «input», nuovi dicasteri, nuove sfide, nuovi raduni oceanici.
Occorre soltanto ricordarsi che nell’uomo esiste una parte di mistero e che questa parte va nutrita. La natura umana è sempre uguale e, per crescere interiormente, richiede le stesse cose oggi come ai tempi dei padri del deserto. Se così non fosse, non si spiegherebbe il fascino che ancora ha, ad esempio, San Francesco che da più di ottocento anni continua a parlare e a commuoverci con le sue parole e la sua vita. San Francesco infatti era un Santo. E cosa vuol dire Santo? Essere una persona integra, totale, una persona che non ha doppiezze, fraintendimenti, che conosce solo il «sì sì, no no» di evangelica memoria.
Sono così la maggior parte delle persone di Chiesa che ci vengono incontro, che parlano dai pulpiti delle parrocchie, in televisione, sui giornali? Hanno sguardi luminosi? Le loro bocche parlano davvero della pienezza del cuore? Sono forze di santità? E se lo sono, perché non arrivano, perché le loro parole lasciano per lo più indifferenti, se non irritati? Perché non faccio altro che incontrare persone buone, rette, etiche, che si sono allontanate per sempre dalla Chiesa dopo esperienze deteriori con i suoi rappresentanti? Dove «deteriore» non è solo il caso estremo del pedofilo, ma anche quello più semplice del sordido, dell’ignavo, del gretto, comunque del doppio?
Perché, nel cattolicesimo, è concessa questa doppiezza? La bocca si riempie di parole alte, ma la vita, spesso, non le manifesta. La coerenza non sembra essere richiesta. Eppure, dove la coerenza c’è, dove c’è testimonianza della pienezza della vita di fede, le chiese sono piene, i nuovi eremiti sparsi sull’Appennino hanno il problema di gestire il flusso delle persone che ininterrottamente va da loro. Già, perché questi sono tempi di grande inquietudine e di grande ricerca. L’uomo in cammino non si accontenta più di formule, di luoghi comuni, di convenzioni sociali, è molto più esigente, cerca risposte vere e profonde alle domande che ha dentro. Questa sete di verità e bellezza non può venire soddisfatta dalla mediocrità delle vite e delle testimonianze né da una liturgia che ha abbandonato il sacro diventando sempre più simile a una sorta di intrattenimento televisivo.
Se una nuova evangelizzazione ci deve essere, dovrebbe dunque riguardare prima di tutti gli uomini e le donne della Chiesa, responsabili purtroppo - in molti, troppi casi - dell’allontanamento dalla fede di tante persone di valore. Forse è il momento di capire che non è la quantità dei sacerdoti, ma è la qualità a fare la differenza. E la qualità non dipende dalla preparazione teologica, dai convegni, dai master accumulati, ma dalla purezza dell’anima che si arrende alla Grazia. Un’anima arresa è un’anima che converte, che disseta. Un’anima che traffica, organizza, o si assopisce sui suoi privilegi, è un’anima che allontana.
Viene il sospetto che questo nuovo dicastero rischi di diventare soltanto l’ennesimo coperchio messo sulla pentola, per non guardare quello che bolle dentro. Nuove cariche, nuovi poteri, nuovi segretari, nuovi bilanci. C’è davvero bisogno, è questo che avvicinerà la gente? O c’è bisogno piuttosto di una grande cura di umiltà? Cancellare i moralismi, i pregiudizi, la pigrizia, la sete di potere e tutta quella zavorra che nulla ha a che vedere con la fede e appesantisce e rende tanto ostile il cattolicesimo agli uomini contemporanei. I nostri tempi hanno bisogno estremo di santità, come ha detto il Papa di recente all’anno sacerdotale, perché davanti alla cosificazione dell’uomo, è l’unica condizione che lo riporta alla straordinaria grandezza per cui è nato. Santità non è un’inerme arrendevolezza, ma è una forza di pienezza, un essere dell’uomo nella totalità compiuta dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, capace così di compiere ogni suo atto nella luce dell’amore.
iconografia
Una bellezza di nome Grazia
di ALESSANDRO ZACCURI (Avvenire, 30.01.2010)
Norma? E chi è, una ragazza che abita a Brooklyn? La battuta circolava ai tempi della pop art e stava a indicare il deliberato superamento di ogni consuetudine. Il gioco di parole torna in mente, leggermente variato, al termine del saggio che Raffaele Milani, docente di Estetica all’Università di Bologna, ha dedicato a I volti della grazia. Concetto del tutto centrale per quasi tre millenni dell’esperienza artistica e letteraria dell’Occidente, ma oggi apparentemente emarginato da una mentalità intenzionata a respingere proprio l’intuizione di quel « più in là » con cui il « non so che » della grazia tende a identificarsi. Grazia, a questo punto, potrebbe davvero essere soltanto il nome di una ragazza che vive in qualche periferia, non per questo però cesserebbe di avere un significato profondo, autentico e necessario.
Documentatissimo sul piano delle letture e dei riferimenti, il libro di Milani è molto preciso nell’indicare nei tempi di passaggio, e quindi di crisi, la stagione più feconda per il dibattito sulla grazia. Accade nel mondo tardoantico, quando per merito di Agostino il concetto classico di charis si connota definitivamente in senso teologico, divenendo così charitas. E accade nel Rinascimento, con la riscoperta dell’antico quale fonte di armonia, e poi ancora nella temperie inquieta che sfocerà nel Romanticismo, con le riflessioni di autori come Schiller, Schelling e Winckelmann, al quale si deve l’insuperata definizione della grazia come «il piacevole secondo ragione».
È un itinerario complesso e affascinante, non estraneo alle suggestioni del sogno e agli squarci visionari dell’esperienza mistica. Un intreccio che giustamente Milani ricostruisce anche attraverso un continuo raffronto fra tradizione occidentale e sapienza orientale, riuscendo a individuare più di un punto di contatto ( manifestazione della grazia è anche l’atman , il respiro cosmico delle scritture vediche).
In generale, si potrebbe sostenere che la storia della grazia si muove lungo due direttrici, non sempre in equilibrio fra loro. Da un lato la bellezza si riempie di significato sino a rivelare il proprio nucleo sacro, ma sull’altro versante è il sacro stesso a estetizzarsi, riducendosi a emozione passeggera oppure a ricognizione erudita. Si sarebbe quasi tentati di affermare che, in questo senso, la disaffezione nei confronti della grazia è in effetti una conseguenza del processo di secolarizzazione, per cui la cultura contemporanea, dimenticato il lessico elementare del cristianesimo, non riesce più a immaginare un sovrasenso che sappia dare senso alla bellezza delle forme.
Il che non significa negare l’origine classica della riflessione sulla grazia ( il nome di Plotino, più volte richiamato nel saggio, basterebbe da solo a rivendicare questa primogenitura), quanto piuttosto interpretare alcuni specifici momenti della riflessione antica, tra cui la meditazione di Seneca nel De beneficiis, come avvisaglie di un fecondo, e in parte ancora inesplorato, cristianesimo naturale. Non per niente, le pagine più intense del lavoro di Milani riguardano il ruolo della Madre, dolorosa e « lacrimosa » già nei racconti del mito e infine pienamente rivelata nel suo ruolo salvifico dalla mediazione di cui è protagonista Maria.
Resta aperta, in ogni caso, la questione del «lutto dell’arte » che nel saggio viene riferita all’intera esperienza contemporanea. Studioso attento anche al cinema e alle diverse diramazioni del fantastico, Milani potrebbe forse verificare questa ipotesi con una campionatura più legata agli ultimi anni, nei quali romanzi come La strada di Cormac McCarthy e film come American Beauty di Sam Mendes hanno dato nuova centralità al sentimento di un « essere nella bellezza » che diventa, da ultimo, un «essere nella misericordia».
Sperimentare la grazia, insomma. E scoprire dove ha deciso di abitare oggi questa ragazza tanto sfuggente, tanto straordinaria.
Raffaele Milani
I VOLTI DELLA GRAZIA
Il Mulino. Pagine 258. Euro 22,00
Il bello non ha etichette né religione
di Alain Elkann (La Stampa, 23 novembre 2009)
Caro direttore,
ho letto l’articolo «Noi artisti davanti al Pontefice» pubblicato da La Stampa domenica 22 novembre 2009 a firma Ferdinando Camon. Vorrei dire all’autore che ho trovato nel racconto della cerimonia in certi punti una licenza poetica scherzosa e ironica che faceva assomigliare la solenne giornata di ieri a una sfilata di moda. Io non mi sarei mai permesso di scrivere tali cose data la solennità e la simbologia di tale giornata viste le personalità presenti e la sacralità del luogo prescelto da Benedetto XVI: la Cappella Sistina.
Avrei scritto che ringraziavo Monsignor Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per aver organizzato con i suoi collaboratori un evento così significativo.
Voglio ringraziare il Santo Padre per aver scelto un luogo così importante, un’icona così unica per coniugare la bellezza - su cui era incentrato il discorso del Pontefice -, la religione, la spiritualità, il talento e la Chiesa, visto che nella medesima Cappella Sistina, come ha ricordato Benedetto XVI con commozione, si tengono i conclavi e proprio lì in quel luogo Lui è stato eletto al Soglio di Pietro. Devo dire che pareva strano vedere arrivare in quella Cappella così famosa architetti, poeti, pensatori, cantanti, cantautori, registi, romanzieri che si stupivano di vedersi lì laici, cristiani, buddisti, ebrei e musulmani credenti e non credenti ma tutti in attesa del Papa. Tutti curiosi di sapere o di provare a capire con quali criteri il Vaticano avesse scelto proprio loro per presentare il mondo dell’arte e della cultura. Il regista Maselli parlando del Papa e del perché era venuto e del perché aveva accettato quell’invito, ha detto: «Comunque non capita ogni giorno di essere invitato da un Capo di Stato».
A un certo punto ci è stato chiesto in italiano e in inglese di spegnere i nostri cellulari, di stare in silenzio, in raccoglimento ad attendere il Padre. Quel silenzio rispettoso dell’attesa era bello perché metteva tutti ad un livello di parità e di rispetto verso il Papa e il suo atteso discorso, poi quando è arrivato c’è stato un applauso e quando ha finito di parlare ce n’è stato un altro lunghissimo che confermava l’ampio consenso verso le parole del Pontefice ma soprattutto verso quell’iniziativa.
Nell’ultima parte dell’articolo di Camon ho letto, a dir poco con stupore, certi propositi tra l’altro accomunando nomi di persone che conosco bene e che so avere pensieri ben diversi, mi riferisco all’amico Lorenzo Mondo, biografo di Pavese e all’amico Ernesto Ferrero, biografo di Primo Levi. C’era scritto: «Sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni 10 anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro». Sarebbe meglio se fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge di area cristiana).
Non credo che persone quali Zaha Hadid, Arnoldo Foà, Daniel Libeskind (architetto che ha realizzato il Museo dell’Olocausto di Berlino) o altri siano stati invitati lì per caso e se ricordo bene nel discorso il Papa si è rivolto a «Cari e illustri artisti, appartenenti a Paesi, culture e religione diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa Cattolica...».
Io credo di essere stato invitato in quella giornata in quanto scrittore di lingua italiana, ebreo che ha sempre lavorato per il dialogo interreligioso. Allora quando si legge «solo artisti cristiani» mi viene un brivido «non piacevole» e mi accorgo con tutto il rispetto che abbiamo interpretato in modo assai diverso una grande giornata alla quale sono grato e orgoglioso di aver partecipato con tanti uomini e donne di talento, tutti accomunati, dovunque fossero seduti, innanzitutto uguali, assolutamente uguali, in quella Cappella Sistina che Michelangelo e altri grandi maestri come Perugino, il Ghirlandaio, il Botticelli hanno saputo elevare a capolavoro assoluto dell’arte e patrimonio comune dell’umanità al di sopra di qualsiasi razza o religione.
Ieri nella Cappella Sistina e poi nei lunghi corridoi e nei saloni di Palazzo Vaticano ho sentito che si respirava un clima di soddisfazione, di consenso. La Chiesa aveva deciso in modo solenne dicendo: noi abbiamo bisogno di voi, di gratificare l’arte e gli artisti e questo dal Papa ai Cardinali ai Vescovi fino alle Guardie Svizzere che battevano i tacchi e facevano il saluto al poeta Conte, al poeta Rondoni, all’architetto Botta, allo scrittore Raffaele La Capria e molti altri. L’arte in quel sabato 21 novembre in Vaticano ha ritrovato il suo posto e anche il rispetto dovuto. Si capiva bene che tre grandi Pontefici quali Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI in un filo rosso sottile che li univa sentivano che gli artisti nella storia spirituale della Chiesa avevano un ruolo centrale. Del resto l’ispirazione di un artista e la fede sono cose tra loro molto molto vicine. Ma la vera lezione che ho tratto dalla giornata di ieri nella Cappella Sistina è che il bello non ha etichette perché è soltanto bello.
Colori vivaci e sfumature rompono il luogo comune di una ’classicita’’ in bianco e nero
Roma, alle Scuderie del Quirinale ’La pittura di un impero’
Polignoto, Parrasio, Zeusi, Apelle. Nomi di grandi maestri greci di livello così alto da essere paragonati ai grandi geni del Rinascimento italiano come Raffaello o Giotto, ma dei quali, purtroppo, si è preservato pochissimo nel corso dei secoli Magazine» Cultura invia stampa
Roma (Adnkronos) - Polignoto, Parrasio, Zeusi, Apelle. Nomi di grandi maestri greci di livello così alto da essere paragonati ai grandi geni del Rinascimento italiano come Raffaello o Giotto, ma dei quali, purtroppo, si è preservato pochissimo nel corso dei secoli. Ora, per la prima volta, una mostra tenta di riportare in luce i fasti della pittura dell’antica Roma. Organizzata sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica ‘Roma. La pittura di un impero’, alle Scuderie del Quirinale fino al 17 gennaio 2010, si propone di raccontare il ruolo centrale della pittura nella società civile romana, superiore anche a quello della scultura, sottolineandone l’originalità nel tentativo di superare il concetto acquisito di una sua dipendenza passiva dall’arte greca.
“Il senso di questa mostra - ha spiegato il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci - è far capire il perché i modelli di questa pittura, che riflettono una gloria per noi incognita, si sono tramandati in tutto l’Impero. Nomi che forse superano quelli del grande Rinascimento italiano come Raffaello, Goya, Rembrandt e altri, e nonostante questo sono a noi sconosciuti”.
Cento opere che abbracciano un vasto periodo, dal 1° secolo a.c. al V° secolo d.c. tra cui grandi affreschi, ritratti su legno e su vetro, decorazioni e fregi provenienti dalle domus patrizie, dalle abitazioni e botteghe popolari dei più importanti siti archeologici e dai musei di tutto il mondo.Un mondo di inaspettata vivacità cromatica, dove prorompe il rosso pompeiano, il verde, l’azzurro dei lapislazzuli, sfatando il luogo comune che identifica il ‘classico’ con la trasparenza dei marmi bianchi. “Il mondo antico, greco e romano, era un mondo colorato - dice il curatore della mostra Eugenio La Rocca - mentre noi siamo abituati a statue bianche. Colorati erano i templi, gli edifici pubblici e le case, sia all’esterno che all’interno”.
“Nei decenni, l’immagine di Roma è stata veicolata soprattutto attraverso gli aspetti militareschi e caricaturali della filmografia - ha sottolineato l’assessore capitolino alla cultura Umberto Croppi - meno attraverso quelli artistici.Questa mostra riempie un vuoto importante, e lo fa dando conto di un genere importantissimo come la pittura”.
La scenata durante la registrazione della puntata: Maria Sung visibilmente arrabbiata
dopo una danza del ventre eseguita da una ballerina in abiti succinti
Milingo ospite di Chiambretti
moglie gelosa cerca di portarlo via
MILANO - Scenata di gelosia durante la registrazione di Chiambretti night con monsignor Milingo ospite della puntata in onda stasera su Italia 1. Il fuori programma è scoppiato dopo che una ballerina in abiti succinti ha eseguito la danza del ventre davanti al vescovo scomunicato: la moglie Maria Sung non ha resistito alla provocazione e ha cercato di portarlo via. Qualche minuto di suspence nello studio televisivo milanese e poi la registrazione è ripresa.
LE IMMAGINI La scenata della moglie
Tutto è andato bene per la prima parte dell’intervista in cui Milingo ha risposto a un paio di domande sul matrimonio e poi si è iniziato a parlare del "diavolo". Chiambretti lo ha incalzato chiedendogli se il diavolo è internet, la televisione, la danza del ventre. A questo punto è partita la musica e in un palco laterale si è messa a danzare una ballerina più che discinta.
Subito dopo è iniziata una pausa pubblicitaria e Maria Sung, la donna che Milingo ha sposato nel 2001 in un matrimonio collettivo, si è precipitata sul palco avvicinandosi al monsignore cercando di farlo andare via. In un primo momento è stata calmata e si è messa insieme al pubblico lamentandosi del fatto che ci fosse la ballerina.
La trasmissione è ricominciata con il gruppo delle Sisters che cantavano e alla fine dell’esibizione delle quattro singers di colore Maria Sung, durante la registrazione, è risalita sul palco e a Chiambretti ha detto "vergogna" spiegando che le cose non erano andate come concordato. E’ stato un fuori programma che ha tenuto con il fiato sospeso per qualche minuto mentre Milingo se ne stava placidamente seduto al suo posto. La signora si è nuovamente allontanata e Milingo ha finito la sua intervista.
Con Milingo "noi abbiamo mantenuto gli accordi" ha detto Piero Chiambretti al termine della registrazione, spiegando che il patto era che il resto del cast non interagisse con il vescovo scomunicato. "Resto convinto - ha aggiunto - che la signora Maria Sung abbia esagerato". Alla domanda se l’intervista con tanto di fuori scena andrà in onda, ha risposto: "Non so. Penso di sì, perché questa è una trasmissione libera. Gli accordi li abbiamo mantenuti".
Emmanuel Milingo, vescovo, esorcista e guaritore è salito alla ribalta dopo la scomunica della chiesa cattolica. Ha attirato l’attenzione dei media internazionali nel 2001 per essersi sposato con la coreana Maria Sung e, dopo aver dapprima ripudiato quel matrimonio, nel 2006 si è apertamente schierato contro le attuali norme del codice di diritto canonico che impongono il celibato ai sacerdoti cattolici di rito latino fondando l’associazione Married Priests Now. Avendo successivamente consacrato alcuni vescovi senza mandato pontificio, è incorso nella scomunica che lui ha platealmente respinto "rimandandola al santo padre".