I DUE CORPI DEL PAPA-RE E LA NOSTRA SOVRANITÀ.
Lettera aperta al filosofo Karol Wojtyla (in occasione della visita di Giovanni Paolo II a Gerusalemme) - [21.03.2000] *
Caro WOJTYLA
sono anch’io un filosofo e Le scrivo in quanto tale. Non ho scritto molto, né sono tanto famoso come Lei, ma, se permette e vuole, desidererei sottoporre alla sua attenzione alcune mie idee e riflessioni relative al comportamento della persona, di cui Lei è autorevole e strettissimo collaboratore e consigliere, il Papa Giovanni Paolo II.
Entriamo subito in argomento. Il Suo recente, spettacolare, MEA CULPA, lo trovo inconsistente e, per così dire, furbetto ("Di voi pastor s’accorse il Vangelista, / quando colei che siede sopra l’acque / puttaneggiar coi regi a lui fu vista; [...] Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!": Dante, Inf., XIX, vv 105-7, 113-7).
Mi spiego, velocemente: ha notato i segni (io, di origini contadine, a queste cose sono stato abituato da mia madre, mio padre, e dai miei nonni e dalle mie nonne, a farci attenzione: sono piccole conoscenze tecniche di interpretazione che servono - come dice il Galileo della Toscana, non della Galilea, per vedere come va il cielo e per leggere il grande libro della Natura e del mondo, non per capire come si va in cielo) apparsi, nella carne, sulla fronte del Papa (L. Accattoli, Spunta un "graffio" sulla fronte. La Santa sede: "Nulla di grave", Corriere della Sera, 19.04.2000)? Sono due vere e proprie piccole corna, da capretto. E, come Lei sa, molti possono essere i significati del fatto: i fatti sono stupidi - diceva giustamente Nietzsche (ma anche Marx e Freud... ma lasciamo correre. Torniamo al problema).
L’ interpretazione, la più ovvia, è che la gatta, il diavolo, o, più semplicemente, lo stesso Papa - agitandosi nel sonno e nei sogni (per i tanti conflitti latenti sul fronte interno ed esterno del suo Stato), si sia graffiato con le proprie mani - ha messo lo zampino... e tracciati i graffi-ti. Comunque sia, io trovo la cosa molto interessante, e da rifletterci su.
Io penso che, da parte sua, sia meglio invitarLo a farlo. Glielo dica: Papa, si guardi allo specchio, rifletta su se stesso. E lo faccia, sia persuasivo, con il suo cuore e con la sua intelligenza. Glielo dica: Ora, Basta! Non può andare nella Terra Santa con quella faccia, non può più giocare a fare il furbo... deve togliersi di dosso le insegne imperiali di quello Stato Romano del passato, che, con la fede delle armi e con le armi della fede, dovunque arrivava faceva il deserto e lo chiamava pace!
Glielo dica - Gli illumini la mente: il Dio dei nostri padri, come dicono gli ebrei, e come diceva Pascal come Kierkegaard, faceva tutto il contrario, trasformava il deserto in giardini, nel deserto portava l’acqua, non induceva [ripetiamo. 23.03.2000 d. C) e non induce in tentazione nessuno il Padre nostro, non chiedeva né chiede sacrifici di esseri umani (come il dio di quelli e di quelle che tenevano per Baal e che ne dicevano di menzogne!) ma di caproni e capretti...
Glielo dica: Ora, Basta! Lo fermi... prima che si identifichi con l’agnello da sacrificare al suo dio, o che il suo dio vuole sacrificare, e trovi coloro che fanno il ‘gioco’ dello specchio e lo sacrifichino. O, per caso e per assurdo, questi già esistono e sono tutti i suoi Generali che hanno iniziato la lotta di tutti contro tutti (sono solo uomini... Giuseppe e i suoi fratelli!) per prendere il Suo posto e vestire le insegne della Sua carica?
Nessun essere umano è un agnello [Lezione del Dio della Vita ad ABRAMO e ISACCO: Non confondete Baal (l’amore di uno solo, cieco, egoistico, narcisistico, ed edipico) con Me. Io sono UNO, l’Unità dell’uno e dell’altro (di tutte e due). L’Amore non induce in tentazioni! 23.03.2000 d.C] - solo nel sogno, nella follia, o nel gioco vero e terribile della guerra-specchio, questo avviene. Lo svegli: questo è il ‘gioco’ del dio delle menzogne e degli imbrogli - altro che il Dio dei nostri padri e delle nostre madri, degli uomini e delle donne di tutto il mondo.
Caro Illustre collega, riconsideriamo la questione fondamentale - è più attuale che mai. E vediamo, da uomo (io sono colui che sono...) a uomo (io sono colui che sono...) e, più correttamente, da esseri umani (=gli animali che hanno la capacità e la facoltà di ascoltare, pensare, e parlare a un altro animale, e dire io sono colui che sono capace di trattare l’essere umano che ho in me, fuori di me, come un animale ... che non ha questa capacità e facoltà, e lo fa), di sciogliere l’enigma, e finire la partita tra filosofi atei, materialisti, scettici, spiritualisti... e poi vedrà e valuterà se darsi da fare, subito, e di corsa, per salvare il suo Papa dalle grinfie del diavolo - cioè, di quei problemi che si mettono di traverso e rischiano di bloccarlo o farlo cadere rovinosamente. E noi, noi tutti e noi tutte, con lui.
Riepiloghiamo, e chiariamo, per sommi capi:
1) La tradizione ebraica ci dice che " il Signore [SOVRANO, RE, PAPA, SAPIENTE...] è il nostro Dio, il Signore è UNO solo", e che il posto e il ruolo, di questo Uno che regge e governa il Tutto, sul piccolo tutto della nostra Terra, può essere occupato e interpretato solo da un Uomo, Israele, appunto, Giuseppe....e così anche nel campo della tradizione cattolico-romana, fino a Giovanni Paolo II, il Suo Papa;
2) La tradizione greca ci dice che il principio di tutte le cose, è Uno solo, la Natura, che l’Uno è il Dio, l’Essere, che non ha ... né esseri né il Non essere (Parmenide); e che, infine, l’UNO, al di sopra degli esseri e del non -essere e dello stesso Essere, è il Bene, la Misura-Valore di tutte le ricchezze, materiali e spirituali (Platone). Pitagora, come Parmenide, e come Platone (e anche Aristotele) interpreta la cosa come Parmenide: solo l’Uomo che sa giungere a conoscere l’Idea del Bene-Valore può diventare sapiente e re , come e un DIO, sposare la DEA Giustizia (e possedere l’Idea del Bene-Valore).
Le ho reso l’idea di chi ha nella tradizione greca chi ha il diritto di avere in mano la Bilancia e la Misura delle cose e della società? Mi spiego meglio: un figlio (uomo) di Madre Natura, con la conoscenza - furba e astuta, come quella di Zeus (Meti) e di Ulisse (Atena) - di chi non sa del proprio (e di tutti e tutte) padre, nega di non saperlo, lo uccide, e prende il suo posto, quello del RE, il Padre di tutti gli uomini (e quindi anche di lui stesso) e di tutte le donne (e quindi anche della donna che è sua madre) della Città - e si fa sposo della stessa REGINA, la Madre-Città, di tutti (quindi anche di lui stesso!) e tutte (quindi anche della donna che è sua madre), e della stessa Madre Natura.
Chiariamo. Egli, l’uomo-figlio, cieco, ignorante e avido di potere, prende il posto del Padre-RE (di tutti e tutte) e sposa (si allea con) la donna-madre, che ha preso il posto della Madre-REGINA (di tutti e tutte). Ella, cieca e ignorante, avida di potere e corresponsabile (con l’uomo-sposo, della negazione del loro figlio, e della negazione della loro stessa sovrana e reciproca RELAZIONE di Amore e di Amicizia e della vita di loro stessi), come e più del figlio, sposa (si allea con) l’uomo-figlio e, alla fine, resasi conto di cosa ha fatto, si impicca ...
Come l’uomo, così la donna, sono caduti nella stessa trappola - dello specchio, della morte e della cecità... Siamo, alla preistoria - di ciò che è tuttora la nostra storia, all’omicidio del padre Laio, all’incesto, alla follia e alla cecità di Edipo e al suicidio della madre Giocasta, alla peste, alla morte della Città - e della stessa Natura...
Il mio grande amico ebreo, Sigmund Freud, ne ha parlato molto e ha messo a disposizione di tutti e di tutte la chiave per risolvere l’enigma della Sfinge di Tebe di Grecia, come della Tebe di Egitto, del Faraone e di Mosè.
Mi auguro che Lei e il Suo Papa lo conosciate, e che non l’abbiate solo condannato!, e che lo ‘incontriate’ - certamente sarà pure lui a Gerusalemme. E mi auguro che l’incontro a Gerusalemme con il popolo di Israele, di Giuseppe e tutti gli altri fratelli, e con lo stesso Sigmund Freud, sia l’occasione per chiarirsi le idee e ristabilire rapporti di giustizia, verità, di amore e amicizia..
Ricordi tutte queste cose al Papa, quando insieme a tutto il popolo di Israele ("I figli di Giacobbe furono dodici. I figli di Lia: il primogenito di Giacobbe, Ruben, poi Simeone, Levi, Giuda, Issacar e Zàbulon. I figli di Rachele: Giuseppe e Beniamino. I figli di Bila, schiava di Rachele: Dan e Nèftali. I figli di Zilpa, schiava di Lia: Gad e Aser": Genesi, 21-26), riaffermerà e ripeterà dentro di sé le parole-chiavi "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno solo".
Forse Ognuno dell’uno e l’altro campo, armato della propria fede, non potrà non riconoscere l’errore e capire la cecità in cui, insieme ai greci e ai romani, era - ed eravamo tutti e tutte - caduto, e, tutti e tutte apriranno gli occhi, si riconosceranno, e si abbracceranno come figli e figlie dello stesso UNO, il DIO dei nostri padri e delle nostre madri - la RELAZIONE di AMORE e di AMICIZIA, che fa di ogni io di fronte a un altro io, di tutti e tutte, re e regine, figli e figlie dello stesso Dio (così dentro di sé, così nella famiglia, nella società civile, e nello Stato).
Il Padre nostro di Gesù, il figlio del popolo ebraico e della Madre Terra, era ed è lo stesso Padre nostro di Giuseppe e Maria! Dinanzi a Gesù, nel suo tempo, siamo stati tutti ciechi e tutte cieche: era troppo luminoso per i nostri occhi, e tutti e tutte - come ha detto il nobilissimo e straordinario figlio del popolo ebraico, Franz Kafka - abbiamo abbassato e dovuto abbassare gli occhi ... e poi ci siamo dimenticati di riaprirli e alzarli. Oggi, forse, possiamo capire... e prima che sia troppo tardi.
Ciò che è successo in Sudafrica. Può succedere anche a Gerusalemme... Se l’ho persuasa, e ritiene che nelle cose dette ci sia un granellino di verità, agisca, agisca subito. Anche il Suo Papa, forse, lo sa, e sotto il Sinai ha detto: "Dobbiamo fare presto". Cosa voleva dire? Questo? Allora, glielo ricordi. Consigli il suo Amico. Lo esorti a portare a compimento la sua grande Riforma della Chiesa Cattolica, che faccia un grande dono a stesso, a suo padre e a sua madre, e a tutti gli uomini e a tutte le donne, e al Dio dei nostri padri e delle nostre madri. Lo solleciti a togliersi dal posto che occupa, e a dichiarare che mai più nessun uomo e nessuna donna più lo faccia.
Egli lo sa già, e benissimo. Glielo ricordi! Solo Dio è il Signore - Egli è il Padre nostro - di tutti i nostri padri e di tutte le nostre madri, degli uomini e delle donne, senza nessuna eccezione ed esclusione, di tutto il Pianeta Azzurro - della Terra, la Madre nostra.
Intorno a noi, la Terra, c’è il "cielo puro" e il "libero mare" - come scriveva Nietzsche, non ci sono gli extra-terrestri, che ci verranno a salvare o a distruggere. Gli extra-terrestri siamo noi! Cosa vogliamo fare? Forse ci conviene deporre le armi e cominciare a dialogare in spirito di verità. Cominciamo.
La discussione è appena agli inizi, continuiamo .... La ringrazio della umana e filosofica attenzione e La saluto. Molto cordialmente.
Milano, 21.03.2000 d.C.
Federico La Sala
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
JACQUES DERRIDA. LA DEMOCRAZIA, IL PRINCIPIO-FANTASMA ARCAICO DELLA SOVRANITA’, E LA LIBERTA’ INCONDIZIONALE.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
Doc.:
A) Testo latino
B) Testo italiano
COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
42. « Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine [132]. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
* PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
UNITAMENTE AI PADRI DEL SACRO CONCILIO
A PERPETUA MEMORIA
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO... *
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Australia: l’inno nazionale cambia in nome degli aborigeni
Scompare la parola ’giovani’ da sempre contestata dai nativi, al suo posto ’uniti’
di Redazione ANSA *
SYDNEY L’Australia cambia con il nuovo anno una parola chiave nell’inno nazionale ’Advance Australia Fair’ (Avanza Australia giusta) per dare riconoscimento alle Prime Nazioni, i popoli aborigeni cha vivono in questo continente da 65 mila anni, e per riconoscerne meglio il ruolo, le culture e la storia. Nell’ultimo giorno del 2020 il primo ministro Scott Morrison ha annunciato che il verso ’siamo giovani e liberi’ è sostituito da ’ siamo uniti e liberi ’.
E il cambiamento è stato approvato dal governatore generale David Hurley, che rappresenta la regina, tuttora capo di stato anche dell’Australia.
Scompare così la parola ’giovani’, a cui da tempo obiettavano i leader aborigeni, per far posto alla parola ’uniti’. Un riconoscimento del multiculturalismo di una nazione cha ha accolto immigrati e profughi da ogni paese del mondo, ma sta riscoprendo e recuperando le lingue e le culture di centinaia di ’nazioni’ aborigene.
"L’Australia, come nazione moderna, è relativamente giovane, ma la storia del nostro paese è antica, come lo sono le storie delle Prime Nazioni, di cui riconosciamo e rispettiamo lo spirito", ha dichiarato Morrison. La modifica "non toglie nulla, ma credo che aggiunga veramente senso al testo", ha detto.
’Advance Australia Fair’ è opera del compositore nato in Scozia Peter Dodds McCormick e fu eseguita la prima volta nel 1878, ma solo nel 1984 ha sostituito come inno nazionale ’God Save The Queen’, in vigore dal tempo dell’insediamento britannico.
Il simbolico cambiamento viene in un tempo in cui gli australiani indigeni ancora devono affrontare ostacoli significativi nel raggiungere uguaglianza di opportunità. Gli uomini indigeni hanno un’aspettativa di vita di 71,6 anni, quasi nove anni meno degli australiani non indigeni. Per le donne indigene, l’aspettativa di vita è 75,6 anni, circa otto anni meno delle donne non indigene. E la mortalità sotto i cinque anni è doppia rispetto al resto della popolazione. All’inizio del 2020, sull’onda del movimento Black Lives Matter, manifestazioni in diverse città d’Australia hanno domandato di mettere fine alle morti di aborigeni in stato di arresto o di detenzione, più di 400 negli ultimi 30 anni.
* ANSA, 01 gennaio 2021 (ripresa parziale).
CHARITÉ: SOCIALISMO O BARBARIE ....
Riccardo Cristiano. Bergoglio o barbarie *
Riccardo Cristiano racconta il suo saggio Bergoglio o barbarie, pubblicato da Castelvecchi nel 2020. L’idea di scrivere questo libro è venuta a Cristiano dopo l’incontro con un teologo che lo invitava ad andare negli Stati Uniti d’America per verificare di persona che l’alternativa a Bergoglio è la barbarie. Un’alternativa che ricordava quella famosa di Rosa Luxemburg tra socialismo o barbarie. Sostituire l’ideologia socialista con una persona come Bergoglio ha mostrato che il problema non era l’idea ma la realtà, perché la realtà è più importante delle nostre idee e il sole è quello che brilla oggi non quello dell’avvenire.
I suoi atti pontificali principali sono stati, secondo Cristiano, il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza, che è l’antefatto dell’enciclica Fratelli tutti, l’accordo provvisorio con la Cina e il Sinodo per l’Amazzonia che è un po’ la sintesi del suo pontificato:
Riccardo Cristiano, particolarmente attento al dialogo interreligioso, a lungo coordinatore dell’informazione religiosa di Radio Rai, è fondatore dell’Associazione Giornalisti amici di padre Dall’Oglio e collabora come vaticanista con «Reset» e «La Stampa». Ha pubblicato con Castelvecchi Medio Oriente senza cristiani? (2014), Bergoglio, sfida globale (2015), Siria. L’ultimo genocidio (2017) e ha curato il volume Solo l’inquietudine dà pace. Così Bergoglio rilancia il vivere insieme (2018).
* FONTE: RAI CULTURA/FILOSOFIA
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.
FLS
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA.... *
Siamo fili dell’unico arazzo dell’essere
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 31 dicembre 2020)
II Domenica dopo Natale
Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.
In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).
Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui.
«In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.
In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini.
Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera.
Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia».
Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
FLS
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
PROFETI, SIBILLE, E MESSAGGIO EVANGELICO:
ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS". Un invito a ...
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (Patricia Salomoni, "Rosmini Studies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva:
E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della Cappella Sistina è ancora un grosso problema!
Federico La Sala
La statuina.
La devozione e l’affidamento di papa Francesco a san Giuseppe «dormiente»
Una devozione che risale alla giovinezza di Bergoglio e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale
di Mimmo Muolo *
Papa Francesco e san Giuseppe. Una devozione che risale alla giovinezza del Pontefice e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale. Come pure all’inizio del suo ministero petrino.
È infatti nella chiesa di San José di Buenos Aires che nel 1953 il diciassettenne Jorge Mario Bergoglio scopre la vocazione al sacerdozio. Ed è il 19 marzo 2013 - sei giorni dopo l’elezione a Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale - che egli inaugura il proprio Pontificato con un’omelia incentrata sul ruolo di custode del padre putativo di Gesù. Non stupisce dunque la decisione di dedicare al santo la Lettera apostolica di ieri e di proclamare l’anno "giuseppino" (con relative indulgenze plenarie). Si può anzi dire che questi due gesti del Pontefice costituiscano gli ultimi anelli (per il momento) di una catena di affetto e devozione che lega Jorge Mario Bergoglio al casto sposo della Vergine.
Francesco ha del resto raccontato più volte come a san Giuseppe sia solito affidare intenzioni di preghiera e speciali intercessioni per il suo ministero. Nel suo studio personale a Casa Santa Marta, ci sono infatti due statue che raffigurano il santo. Una in particolare gli è molto cara e lo accompagna da sempre, da quando viveva nel Collegio Maximo di San Miguel di cui era rettore. Si tratta di un’immagine insolita, per noi italiani ed europei, ma molto diffusa tra i fedeli sudamericani: una statua che raffigura san Giuseppe dormiente.
Ora, sappiamo dalla Scrittura quanto il sonno sia stato determinante nella vicenda terrena del falegname custode della Sacra Famiglia. E anche nella Lettera apostolica di ieri papa Francesco si sofferma sui sogni in cui Giuseppe dà ascolto all’Angelo per prendere in sposa Maria, per fuggire in Egitto onde sottrarre Gesù Bambino alla persecuzione di Erode e infine per fare ritorno a Nazaret, una volta morto il malvagio re.
Per questo il Papa ha l’abitudine di infilare sotto la statua del santo addormentato biglietti che contengono problemi, richieste di grazia, preghiere dei fedeli. È come se invitasse san Giuseppe a "dormirci su", e magari a mettere una buona parola davanti a Dio, per risolvere situazioni difficili e aiutare i bisognosi, rinnovando così il suo ruolo di padre misericordioso e tutto proteso verso coloro che ama.
Lo confidò egli stesso il 16 gennaio 2015 a Manila nell’incontro con le famiglie: «Io amo molto san Giuseppe perché è un uomo forte e silenzioso. Sulla mia scrivania ho un’immagine di San Giuseppe mentre dorme e quando ho un problema o una difficoltà io scrivo un biglietto su un pezzo di carta e lo metto sotto la statua di San Giuseppe affinché lui possa sognarlo. (...) Ma come san Giuseppe, una volta ascoltata la voce di Dio, dobbiamo riscuoterci dal nostro sonno; dobbiamo alzarci e agire».
In definitiva, per papa Francesco lo sposo della Madonna è un santo davvero speciale, che protegge e aiuta perfino quando dorme.
Più volte nei suoi discorsi il Pontefice ha fatto riferimento alla figura del santo. In una delle omelie di Santa Marta, il 18 dicembre 2018, Francesco disse: «Giuseppe è l’uomo che sa accompagnare in silenzio» ed è «l’uomo dei sogni». Il 1° maggio scorso ha accolto a Santa Marta la statua di san Giuseppe lavoratore solitamente posizionata all’ingresso della sede nazionale delle Acli a Roma. Ma sicuramente, prima di ieri, l’espressione più compiuta della devozione giuseppina del Papa si trova nell’omelia di inizio pontificato.
«Giuseppe è "custode" - disse -, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge». L’eco di queste parole risuona ora nella Lettera apostolica "Patris corde".
Leggi anche
* Fonte: Avvenire, mercoledì 9 dicembre 2020
Sul terma, nel sito, si cfr.:
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
FLS
Ilaria Capua: "Spiragli non solo dal vaccino, ora scongiurare il contagio animale"
La virologa ad Huffpost: "Se Covid 19 diventa panzoozia e colpisce tante specie animali ne perdiamo il controllo"
di Giulia Belardelli (Huffpost, 17/11/2020)
“Contro la pandemic fatigue non ci sono pozioni magiche: ciascuno di noi è chiamato ad alzare il proprio tollerometro. Stiamo vivendo una fase di trasformazione epocale: accanto a tutte le difficoltà, abbiamo l’occasione di abbandonare alcuni percorsi obsoleti e provare nuove mappe mentali. C’è un arcobaleno alla fine della tempesta Covid, tra le nuvole possiamo già intravederne i colori...”. Ilaria Capua, direttrice del One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, ha sempre esortato a guardare la pandemia da una prospettiva più ampia, includendo anche l’ambiente e il mondo animale. Perché è in questa trama di relazioni che si intrecciano i rischi e le opportunità di domani.
Dottoressa Capua, il caso visoni in Danimarca ha acceso i riflettori sul rischio che il virus si diffonda incontrollatamente in altre specie animali. Quanto è concreto questo rischio?
“È una prospettiva che il mio gruppo di ricerca aveva già segnalato in tempi non sospetti, prima che scoppiasse il caso in Danimarca e altrove. In un articolo pubblicato a maggio scrivevamo che questo rischia di essere il primo virus pandemico che diventa una panzoozia, cioè che colpisce anche tante specie animali; in un’altra pubblicazione uscita a settembre osservavamo che i mustelidi (la famiglia dei visoni e dei furetti, per intenderci) sono animali che possono diventare serbatoio per questo fenomeno panzootico. Ad oggi sappiamo che i mustelidi sono molto ricettivi - ci sono stati casi anche in Olanda e negli Stati Uniti - e non abbiamo dati sui mustelidi selvatici”.
Quali sono i pericoli per l’uomo di un’ampia circolazione del virus tra altre specie animali?
“È tutto molto complicato. Il rischio che il virus circoli negli animali, e soprattutto negli animali selvatici, è che si perda definitivamente il controllo dell’infezione. È impensabile fare sorveglianza e andare a controllare le donnole o le faine nel loro habitat naturale. Il virus chiaramente potrebbe mutare in un’altra specie animale e questo potrebbe minare le nostre possibilità di controllare la pandemia. Le parole d’ordine non possono che essere flessibilità e attenzione, perché il virus sta facendo esattamente ciò che ci si aspetta da lui: si sta endemizzando in tutte le specie ricettive, compresi i mustelidi”.
In che modo queste mutazioni possono minare le nostre strategie di contenimento del coronavirus? I pericoli maggiori vengono dagli allevamenti intensivi o dagli animali selvatici?
“È un virus completamente nuovo quindi non lo sappiamo. Di certo però gli allevamenti intensivi sono controllati, gli animali selvatici molto meno”.
L’ultima copertina dell’Economist mostra una chiara luce in fondo al tunnel. “Suddenly, hope”, è il titolo. Il riferimento è alle notizie incoraggianti che arrivano sul fronte dei vaccini. È davvero così? Si vede la luce in fondo al tunnel?
“La luce alla fine del tunnel c’è e c’è sempre stata. Da questi fenomeni epocali l’umanità è sempre sopravvissuta, anche quando non c’erano i vaccini, i monoclonali, gli antibiotici. Pensiamo alla Spagnola, cent’anni fa: era un virus influenzale, molto più aggressivo di questo e che colpiva i giovani. Eppure, nonostante tutto, siamo qui. Oggi, a circa un anno dall’emersione di questo virus, sappiamo alcune cose, a cominciare dal fatto che eravamo del tutto impreparati”.
Nell’attesa di un vaccino e cure più efficaci, le misure di contenimento restano l’unico strumento per frenare la corsa del virus. Quella luce in fondo al tunnel però è bene raccontarla. Proviamo?
“Il tasso di letalità oggi è molto più basso rispetto alla scorsa primavera. Questo perché adesso la luce in fondo al tunnel è più chiara e fatta di molti elementi. Non parlo solo del vaccino, ma di una serie di vaccini che avranno caratteristiche diverse e andranno a unirsi a un armamentario di strumenti che abbiamo collezionato in questi mesi: una migliore comprensione della malattia, protocolli di intervento precoce, trattamenti come la sieroterapia, farmaci come gli antivirali e i cortisonici, e poi addirittura una terapia miracolosa come quella basata sugli anticorpi monoclonali”.
Una terapia che però è impensabile usare per tutti, giusto?
“È una terapia efficace se si fa entro un certo periodo: l’anticorpo monoclonale blocca la replicazione del virus, quindi se una persona sta già male e il virus ha fatto i suoi danni, non serve più. Sono delle proteine di sintesi, degli anticorpi fatti in laboratorio che però si producono in volumi bassissimi e dunque hanno un costo molto alto. Non è pensabile che questo sia il farmaco che possa essere dato a tutti per girare liberamente. Magari fosse così! È un trattamento che non si riesce a produrre in grandi quantità, è come la pappa reale, che è l’alimento destinato all’ape regina. Ne abbiamo visto gli effetti su Donald Trump, la cui cura è costata centinaia di migliaia di dollari”.
Questo fatto fa comprensibilmente un po’ rabbia, un sentimento che non aiuta ad assumere un atteggiamento costruttivo...
“I costi, purtroppo, sono pazzeschi anche per un normale ricovero in terapia intensiva. È per questo che ciascuno di noi deve cercare di non ammalarsi. Noi per primi - le persone che non devono essere in prima linea o svolgere lavori ad alto rischio - dobbiamo dimostrare che tenendosi lontani dal virus è possibile non prenderselo. Se proprio ci si deve ammalare, più tardi avviene, meglio è: se oggi, a un anno dalla scoperta, vediamo la luce grazie a 5-6 protocolli che funzionano, tra un mese potremmo averne 20”.
Torniamo ai vaccini, volutamente al plurale. Qual è il vantaggio di averne diversi? Quali le sfide?
“Siamo di fronte a una situazione unica. È per questo che bisogna organizzarsi per avere dei piani di distribuzione che tengano conto delle specificità dei diversi vaccini che verranno approvati. Ce ne potrebbero essere alcuni che funzionano meglio su determinate categorie di persone, altri che danno una protezione più immediata, magari con una sola dose; alcuni andranno conservati a -70, altri a -20... Bisognerà tenere conto non solo delle caratteristiche del prodotto ma anche delle esigenze della distribuzione e della somministrazione. Bisognerà mettere in campo un mix di organizzazione e flessibilità”.
Secondo uno studio dell’Istituto Tumori di Milano, il virus circolava in Italia già a settembre 2019. Cosa ne pensa? La storia dell’epidemia è ancora tutta da scrivere?
“Questo dovrebbe essere un dato confermato da altri studi europei. Non c’è ragione per credere che il virus sia arrivato in Italia mesi prima rispetto ad altri Paesi europei. Se questo dato verrà confermato da studi analoghi fatti in Germania, Francia, Spagna, allora vorrà dire che il virus è circolato per molto tempo sotto traccia: saremmo di fronte a un fallimento clamoroso del meccanismo di sorveglianza, un fatto gravissimo. C’è da augurarsi che si siano sbagliati; nell’attesa di conferme, meglio essere cauti”.
A fine aprile ci raccontava in anteprima del progetto concepito insieme a Fabiola Gianotti del Cern per “battere il Covid con le intelligenze collettive”. A che punto siete?
“Il progetto sta andando avanti, si chiama Circular Health. Abbiamo aggiunto diversi gruppi tra cui la Fondazione ISI di Torino e l’Universita’ Bicocca di Milano. Stiamo lavorando su molte tematiche interdisciplinari, dall’impatto della diversità di sesso e genere sul virus alla comorbidità (quali sono le patologie intercorrenti con le quali si è più a rischio), dalla resilienza della natura a quella urbana. Esattamente un anno fa, prima della pandemia, lanciavamo Beautiful Science, una campagna sul senso d’orgoglio per i propri scienziati: credo che l’Italia debba veramente ricordare quanto è importante avere dei team di ricercatori e ricercatrici che ogni giorno, nonostante tutto, si alzano e vanno a lavorare per proteggere e preservare la nostra salute”.
In questa seconda ondata si parla molto di pandemic fatigue, una sensazione di stanchezza diffusa che può generare meccanismi psicologici anche molto diversi, dalla depressione fino al negazionismo. Come far fronte a questa “fatica”?
“Innanzitutto riconoscerne l’esistenza è già tanto. Bisogna capire che esiste, che ci rende tutti molto più fragili e rende ancora più complessa la gestione di un fenomeno come questo, perché le persone mollano. La pandemic fatigue è proprio questo: quando le persone non ce la fanno più e dicono ‘basta’. È una resa alimentata anche dal fatto che arrivano messaggi contraddittori o segnali di grande speranza, che poi ovviamente vengono subito ridimensionati. Un tale zig zag emozionale - gioia / disastro - provoca per forza questo meccanismo psicologico. Ci si sente disorientati, stanchi, impotenti di fronte a un caos soverchiante. Aumenta il nervosismo, si litiga di più, si inizia a dire: ‘basta, me lo prendo il COVID e succeda quello che deve succedere’. Sta accadendo ovunque nel mondo, a livello delle istituzioni, delle strutture sanitarie, dei ragazzini che devono andare a scuola. Tutti sono stanchi e affaticati.
L’unica cosa che posso dire è: alziamo ciascuno il proprio tollerometro perché siamo in una situazione eccezionale, tiriamo fuori il nostro senso di gregge, secondo il quale se un lupo mangia la mamma pecora - gli agnellini li allatta un’altra mamma pecora. Diventiamo comprensivi, troviamo spazio per l’ascolto ma non per gli attacchi e lasciamo cadere le provocazioni. Alzare il tollerometro, mettere la mascherina e dare il buon esempio è tutto ciò che possiamo fare”.
Nel suo libro “Il dopo” spiega come il virus ci ha costretti a cambiare mappa mentale. Mentre le difficoltà sono evidenti a tutti, sulle opportunità si fa più fatica. Qual è la “cornice d’argento” di questo nuvolone in cui ci troviamo immersi?
“Ho addirittura aggiornato la cornice d’argento facendola diventare un arcobaleno. Ho scritto un editoriale che uscirà tra qualche giorno su una rivista del gruppo Lancet intitolato “L’arcobaleno nella tempesta Covid”. Credo che questa sia una grande opportunità: vivevamo lungo percorsi obsoleti che non possiamo più riprendere. Alcuni sistemi sono saltati: i trasporti, così com’erano, per un certo numero di anni non potranno più essere. Dobbiamo trovare il modo di continuare a fare quello che facevamo in epoca pre-Covid aggiornando i nostri sistemi. Dobbiamo confrontarci con un desiderio di mobilità che è completamente cambiato. Alcuni modelli basati sul turismo di massa non erano più sostenibili.
L’arcobaleno è la nostra possibilità di ripartire in un modo più sostenibile.
È tempo di occuparci della nostra salute in maniera circolare, cioè capendo che siamo dipendenti da tutto quello che succede dall’altra parte del mondo. In tempi recenti avevamo avuto molte avvisaglie: ci sono stati Ebola, Zika, l’influenza suina, la Sars... sono cose che succedono, le altre sono state fermate, questa no. Su un punto siamo tutti d’accordo: non possiamo permetterci un’altra emergenza come questa. Cambiare non è una scelta: è una necessità”.
La risonanza di teorie complottiste dimostra uno scetticismo diffuso attorno alla cultura scientifica e al pensiero razionale. È un fallimento della scienza? Del mondo della scuola? Come si rimedia?
“Uno dei pezzi dell’arcobaleno è che bisogna partire con un’alfabetizzazione scientifica maggiore. La pandemia è proprio l’occasione giusta perché ora tutti vogliono capire. Il mio invito è: prendiamo quello che di buono la pandemia ci lascia - consapevolezze, abitudini, comportamenti, la speranza di poter andare in una direzione in cui un fenomeno del genere, con questa gravità, non potrà più accadere.
“Ti conosco mascherina”, il libro che ho scritto per spiegare la pandemia ai bambini, contiene le 400 parole di sanità pubblica che spero abbiano più impatto di tutto ciò che ho scritto in questi anni. È un libro che va letto in famiglia: serve per normalizzare questo virus e far partire delle discussioni all’interno della famiglia su come lavorare insieme, come sviluppare insieme queste mappe mentali. Senza queste diventeremo obsoleti personaggi ‘vintage’ che rappresenteranno ai giovani di domani come era la vita prima della Grande Pandemia. Quella del 2020. ”.
Se il miglior interprete dei diritti non è la Corte ma il papa
Diritti. La pronuncia dei giudici costituzionali è pericolosa, perché indebolisce il principio che la Corte è argine ultimo e necessario proprio contro legislatore
di Massimo Villone (il manifesto, 23.10.2020)
È davvero uno scherzo della storia leggere nello stesso giorno di Papa Francesco e della Corte costituzionale. Il Papa apre alle coppie gay, e chiede una legge sulle unioni civili. Non sembra dubbio che, senza toccare il sacramento del matrimonio, dalle sue parole derivi un riconoscimento con pienezza di diritti, inclusa la filiazione. Mentre la Corte quei diritti li amputa.
Il fatto. A una coppia di donne, unita civilmente, nasce in Italia un figlio a seguito di fecondazione eterologa all’estero. La registrazione allo stato civile viene rifiutata. Nel giudizio conseguente viene sollevata dal Tribunale di Venezia una questione di legittimità costituzionale della legge sulle unioni civili e del decreto sugli atti dello stato civile. Il diritto.
La Corte si orienta per l’inammissibilità delle questioni sollevate. Il riconoscimento dello status di genitore alla cd madre intenzionale “non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale”. E dunque il diritto non esiste.
Le secche parole del comunicato chiudono la strada anche a interpretazioni secundum Constitutionem.
Al momento abbiamo solo il comunicato, e vedremo poi in dettaglio le motivazioni. Intanto possiamo dire che la Corte sembra aver sviluppato una allergia per i temi eticamente sensibili, con eccezioni per la fecondazione assistita. Cappato insegna, e certo la Corte sa bene che il rinvio al legislatore può tradursi nell’inerzia del medesimo.
Dobbiamo poi cogliere che oggi la Corte va oltre.
Al rinvio al legislatore si aggiunge la contestuale negazione di un diritto costituzionalmente protetto. Sul tema la Corte ha già balbettato in passato. Nella sentenza 138/2010 lesse nel matrimonio di cui all’articolo 29 della Costituzione la disciplina del codice civile del 1942, che ovviamente conosceva soltanto la coppia formata da due persone di sesso diverso. Ben si poteva invece dare una lettura evolutiva, che tenesse conto del nuovo.
Un recupero parziale è venuto poi dalla sent. 170/2014, sul cosiddetto divorzio automatico o imposto nel caso di cambio di sesso di uno dei coniugi. La Corte ha rinviato al legislatore, dichiarando però la incostituzionalità e affermando il diritto a una piena tutela giuridica della coppia del medesimo sesso.
Quella pronuncia ha avuto poi riscontro nella tormentata legge sulle unioni civili. Ma la Corte tiene oggi a precisare che la coppia omosessuale, pur riconosciuta dalla legge nella forma dell’unione civile, non ha gli stessi diritti della coppia eterosessuale unita in matrimonio. La Costituzione non garantisce che li abbia.
Si faccia una ipotesi di scuola. Una legge che limitasse forzosamente il numero dei figli consentiti nel matrimonio sarebbe incostituzionale. Mentre una legge che ponesse lo stesso limite a una coppia omosessuale unita civilmente potrebbe non esserlo.
Che ne è del nucleo incomprimibile dei diritti, di cui tanto abbiamo letto nella giurisprudenza costituzionale? E della razionalità, intesa come tutela contro distinzioni discriminatorie? Il presidio costituzionale diventa evanescente. Forse la stessa legge sulle unioni civili sarebbe in principio reversibile, se “l’interprete del sentire della comunità nazionale”, e cioè il legislatore maggioritario, maturasse un umore avverso.
L’odierna pronuncia della Corte, magari al di là delle intenzioni, è pericolosa, perché indebolisce il principio che la Corte è argine ultimo e necessario proprio contro il legislatore. E che dunque l’area della political question sottratta al suo scrutinio deve essere il più possibile ristretta.
“Il sentire della collettività” è sempre il pericolo più grande per i diritti e per le libertà, che sono appunto un argine contro quel sentire tradotto in potere politico e legislativo. Bisogna essere estremamente cauti nell’affermare che questa o quella fattispecie sfugge alla protezione costituzionale.
Non è un paese felice quello in cui ci si sente garantiti da un capo religioso piuttosto che dal massimo organo di giustizia costituzionale.
Ma potremmo suggerire che Papa Francesco tenga per i giudici della Corte un seminario di formazione, dal momento che più e meglio di loro si mostra consapevole del senso vero della Costituzione.
#COSTITUZIONE ED #EVANGELO: #DUESOLI. #PapaFrancesco apre la strada a #Dante2021: pagare il tributo a #Cesare «è un #dovere»; ma la #CorteCostituzionale con poco #spirito di #Salomone (di fronte a #due cittadine, unite civilmente, con bambino) fa "per viltade il #granrifiuto".
TEOLOGIA E ANTROPOLOGIA: GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA! O NO?!
Il punto.
Coppie omosessuali, sì alla tutela civile ma niente confusione col matrimonio
Tante reazioni alle parole del Papa nel docufilm “Francesco”. Parla Fernández arcivescovo argentino: Sin da quando era cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio ha distinto i due piani
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 23 ottobre 2020)
«Ciò che dobbiamo fare è una legge sulla convivenza civile, hanno diritto a una forma di tutela legale. L’ho già sostenuto». Al di là delle forzature mediatiche, l’opinione di Jorge Mario Bergoglio sulle coppie omosessuali non è cambiata negli ultimi dieci anni.
La frase riportata nel documentario di Evgeny Afineevsky ricalca quanto già espresso nel 2010 quando, come arcivescovo di Buenos Aires, si trovò ad affrontare l’infuocato dibattito sulle nozze gay, legge fortemente voluta dal governo dell’allora presidenta Cristina Fernández de Kirchner. A ricordarlo non sono solo accreditate fonti giornalistiche di quell’epoca, tra cui il biografo ufficiale Sergio Rubín.
Ieri, in un messaggio su Facebook, monsignor Victor Manuel Fernández, arcivescovo di La Plata, teologo e profondo conoscitore del pensiero bergogliano, ricostruisce la vicenda, sottolineando come per papa Francesco, prima e dopo l’elezione al soglio pontificio, si devono distinguere due piani.
Da una parte c’è il «matrimonio», termine con un significato preciso, applicabile solo a un’unione stabile tra una donna e un uomo, aperta alla vita. «Questa unione è unica, perché implica la differenza tra l’uomo e la donna, uniti da un rapporto di reciprocità e arricchiti da questa differenza, naturalmente capace di generare vita», spiega monsignor Fernández. Qualunque altra unione simile richiede, dunque, una denominazione differente.
Unioni o convivenza civile, appunto. «Jorge Mario Bergoglio ha sempre riconosciuto, pur senza necessità di definirli matrimonio, l’esistenza di legami molto stretti fra persone dello stesso sesso, che vanno al di là del mero piano sessuale, ma sono alleanze intense e stabili. Le persone si conoscono a fondo, condividono lo stesso tetto per molto tempo, si prendono cura e si sacrificano l’uno per l’altro», afferma l’arcivescovo di La Plata. In caso di malattia grave o morte, uno dei due può desiderare i suoi beni all’altro o che sia quest’ultimo ad essere consultato invece di un familiare. «Tutto ciò può essere contemplato da una legge» sulle «unioni civili o normativa di convivenza civile, non matrimonio».
A tal proposito, monsignor Fernández conferma quanto già riportato dai media dieci anni fa. Ovvero che, durante il dibattito sul cosiddetto matrimonio igualitario in Argentina, il cardinal Bergoglio sostenne tale posizione durante un incontro ad hoc con l’episcopato: la maggioranza, però, si oppose. La questione era già emersa subito il conclave del 2013. Da allora, il successore di Pietro ha sempre mostrato sensibilità e attenzione pastorale nei confronti delle persone omosessuali. Certo, nel docu-film di Afineevsky, Francesco torna espressamente sulla questione delle unioni civili e ripropone, da Papa, quanto già affermato dieci anni fa. Nemmeno questo, però, è un inedito assoluto.
Nel libro che raccoglie le conversazioni con il sociologo Dominique Wolton, pubblicato in Francia nel 2017 e in Italia l’anno successivo, c’è già un accenno al riguardo. «Matrimonio è un termine che ha una storia. Da sempre, nella storia dell’umanità e non solo della Chiesa, viene celebrato tra un uomo e una donna», afferma Francesco in Dio è un poeta, edito nel nostro Paese da Rizzoli. E aggiunge: «È una cosa che non si può cambiare. È la natura delle cose, è così. Chiamiamole unioni civili. Non scherziamo con la verità» .
Il documentario Francesco, insignito ieri, nei giardini vaticani, del premio Kinéo, non contiene, dunque, verità sconvolgenti.
Del resto non era questo l’obiettivo dell’autore, ebreo non praticante di origini russe. Attraverso la raccolta di testimonianze e immagini, il regista cerca di narrare le ferite del mondo: le guerre, l’esodo infinito a cui sono costrette migliaia di persone, i muri vecchi e nuovi, fisici e mentali che separano gli uni dagli altri. Il racconto segue il Papa nei suoi viaggi, da Lampedusa a Manila, da Ciudad Juárez a Santiago.
Il racconto su Francesco, spiega Afineevsky, però, piano piano, si è trasformato in un film «sull’umanità che commette errori, fatta di peccatori...». La chiave è contenuta in una frase di Oscar Wilde cara al Papa e riportata nel filmato: «Ogni santo ha un passato e ogni peccatore ha un futuro».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA !!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
Coppie gay, papa Francesco: “Sì a legge sulle unioni civili”
In un documentario in uscita oggi alla Festa di Roma Bergoglio dice che le persone omosessuali hanno diritto di essere una famiglia
di Paolo Rodari (la Repubblica, 21 Ottobre 2020)
CITTA’ DEL VATICANO - Papa Francesco in un documentario in uscita oggi alla Festa di Roma a firma di Evgeny Afineevsky dice che le persone omosessuali dovrebbero essere protette dalle leggi sulle unioni civili: "Le persone omosessuali - dice - hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo".
Le parole del Papa arrivano dopo un lungo percorso della Chiesa in merito. Soltanto negli ultimi anni la Chiesa ha riconosciuto la necessità di una legislazione ad hoc per le coppie omosessuali. Più volte diversi porporati hanno parlato della nececcità di dare ordine e forma giuridica ai diritti delle persone che compongono coppie dello stesso sesso, pur senza alcuna sovrapposizione con l’istituto del matrimonio, né alterando con problematiche costruzioni giuridiche la relazione tra genitori e figli.
Le parole di Francesco non si rivolgono all’Italia e alla sua legislazione, ma al mondo. Il suo è un discorso ampio che vuole sensibilizzare anzitutto la Chiesa al suo interno su un terreno delicato e sul quale non tutti parlano lo stesso linguaggio.
Tra i momenti più toccanti del film, la telefonata del Papa a una coppia di omosessuali, con tre figli piccoli a carico, in risposta ad una loro lettera in cui mostravano il loro grande imbarazzo nel portare i loro bambini in parrocchia. Il consiglio di Bergoglio al signor Rubera è quello di portare i bambini comunque in parrocchia al di là degli eventuali giudizi. Molto bella poi la testimonianza di Juan Carlos Cruz, vittima e attivista contro gli abusi sessuali oggi presente alla Festa di Roma insieme al regista. "Quando ho incontrato Papa Francesco mi ha detto quanto fosse dispiaciuto per quello che era successo. Juan, è Dio che ti ha fatto gay e comunque ti ama. Dio ti ama e anche il Papa poi ti ama".
L’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile *
Un piano d’azione per le persone, il Pianeta e la prosperità. È l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, sottoscritta il 25 settembre 2015 da 193 Paesi delle Nazioni unite, tra cui l’Italia, per condividere l’impegno a garantire un presente e un futuro migliore al nostro Pianeta e alle persone che lo abitano.
L’Agenda globale definisce 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals - SDGs nell’acronimo inglese) da raggiungere entro il 2030, articolati in 169 Target, che rappresentano una bussola per porre l’Italia e il mondo su un sentiero sostenibile. Il processo di cambiamento del modello di sviluppo viene monitorato attraverso i Goal, i Target e oltre 240 indicatori: rispetto a tali parametri, ciascun Paese viene valutato periodicamente in sede Onu e dalle opinioni pubbliche nazionali e internazionali.
L’Agenda 2030 porta con sé una grande novità: per la prima volta viene espresso un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale, superando in questo modo definitivamente l’idea che la sostenibilità sia unicamente una questione ambientale e affermando una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo.
Le cinque "P" dello sviluppo sostenibile
L’Agenda 2030 è basata su cinque concetti chiave:
Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile sono tutti collegati tra loro
Garantire un’istruzione di qualità, equa e inclusiva (Goal 4) vuol dire anche offrire pari opportunità a donne e uomini (Goal 5); per assicurare salute e benessere (Goal 3), occorre vivere in un Pianeta sano (Goal 6, 13, 14 e 15); un lavoro dignitoso per tutti (Goal 8) richiede l’eliminazione delle disuguaglianze (Goal 10). Gli SDGs sono fortemente interconnessi.
L’Agenda 2030 lancia una sfida della complessità: poiché le tre dimensioni dello sviluppo (economica, ambientale e sociale) sono strettamente correlate tra loro, ciascun Obiettivo non può essere considerato in maniera indipendente ma deve essere perseguito sulla base di un approccio sistemico, che tenga in considerazione le reciproche interrelazioni e non si ripercuota con effetti negativi su altre sfere dello sviluppo. Solo la crescita integrata di tutte e tre le componenti consentirà il raggiungimento dello sviluppo sostenibile.
Tutti sono chiamati a contribuire
Gli SDGs sono universali, rimandano cioè alla presenza di problemi che accomunano tutte le nazioni. Per questo motivo, tutti i Paesi sono chiamati a contribuire alla sfida per portare il mondo su un sentiero sostenibile, senza più distinzione tra Paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo. Ciò vuol dire che ogni Paese deve impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli SDGs e a rendicontare i propri risultati all’Onu.
Non solo. All’interno dei Paesi serve un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese al settore pubblico, dalla società civile alle istituzioni filantropiche, dalle università e centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura: per abbracciare lo sviluppo in ogni sua parte è fondamentale l’impegno di tutti.
E tu, come puoi contribuire al cambiamento?
Tutti siamo parte del cambiamento per un domani migliore, tutti ne siamo responsabili. E sono le nostre azioni che influenzeranno il futuro dei nostri figli e delle prossime generazioni. Stili di vita corretti e azioni individuali fanno la differenza. Informati sui 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile e interrogati su quel che puoi fare per contribuire al loro raggiungimento, condividi buone pratiche, partecipa alle campagne, racconta il tuo contributo alla realizzazione dell’Agenda 2030 sui social. Consulta i materiali di educazione allo sviluppo sostenibile, scopri come collaborare, chiunque può fare la sua parte!
Consulta i materiali per informarti e contribuire all’attuazione dell’Agenda 2030 [...]
* Fonte: ASviS (ripresa parziale).
DUE SOLI.
La Costituzione, la "Monarchia" di Dante, e la indicazione di Papa Francesco...
Pagare il tributo a Cesare «è un dovere»! Con la precisazione evangelica sulla necessità di pagare le tasse allo Stato (secondo la Costituzione della Repubblica italiana), Papa Francesco apre la strada a Dante -2021 e, insieme, a una comprensione più precisa e contestualizzata della "misteriosa" figura che "fece per viltade il gran rifiuto".
Federico La Sala
PLATONE, KANT, E I SOGNI DI UN VISIONARIO....
Il Bene e il conveniente sono ciò che lega e tiene insieme l’universo. Platone (Tweet Filosofici)
Ma perché questa #idea, questa #novella (il "#Bene...tiene insieme l’#universo") possa essere e intendersi come una novella-buona, è necessario #verificare se non è una #FakeNews: se no, la #buona-novella (εὐ-αγγέλιον) può #velare il contrario, che #Tutto "Va-(i)n-gelo"! O no?! (Federico La Sala)
fls
Papa Francesco indica l’ultima carta per cambiare il paradigma dell’umano
Fratelli tutti. Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in un unico codice
di Raniero La Valle (il manifesto, 07.10.2020)
È una lettera sconcertante e potente questa che papa Francesco, facendosi “trasformare” dal dolore del mondo nei lunghi giorni della pandemia, ha scritto a una società che invece mira a costruirsi “voltando le spalle al dolore”.
Per questo la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, prima ancora che quella di Francesco d’Assisi, è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito (e oggi sempre di più ci sono persone ferite, tutti i popoli sono feriti) ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva.
Ci si poteva chiedere che cosa avesse ancora da dire papa Francesco dopo sette anni di così eloquenti gesti e parole, cominciati a Lampedusa e culminati ad Abu Dhabi nell’incontro in cui si è proclamato con l’Islam che “se è uccisa una persona è uccisa l’umanità intera”, ragione per cui non sono più possibili né guerre né pena di morte.
E per Francesco neanche l’ergastolo, che “è una pena di morte nascosta”, e tanto meno le esecuzioni extragiudiziarie degli squadroni della morte e dei servizi segreti. Ebbene, la risposta sul perché dell’enciclica è che ormai non si tratta di operare qualche ritocco qua e là, ma si tratta di cambiare il paradigma dell’umano, che regge tutte le nostre culture e i nostri ordinamenti: si tratta di passare da una società di soci a una comunità di fratelli.
Perciò questa seconda lettera (l’altra è stata la Laudato sì, mentre la prima era in realtà di Ratzinger) non è un’enciclica sociale; solo una volta il papa si fa sfuggire di aver scritto un’”enciclica sociale”; in realtà essa non ha nessuna somiglianza con il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa” fatto pubblicare nel 2004 da papa Wojtyla, in cui si pretendeva di definire per filo e per segno tutto ciò che si doveva fare nella società.
Questa invece è un’enciclica sull’amore perché passare da soci a figli vuol dire passare dalla ricerca dell’utile all’amore senza ragione: i migranti non si devono accogliere perché possono essere utili, ma perché sono persone, e i disabili e gli anziani non si devono scartare perché una società dello scarto è essa stessa inumana.
Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, anzi di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in una sola proposta, in un unico codice. È impressionante come papa Francesco lasci aperte sempre altre possibilità, altre considerazioni del reale, altre strade possibili, perfino dinanzi al peccato e all’errore; sempre è invocata la pluralità, mai il relativismo, sempre il gusto delle differenze, dell’inedito, del non ancora compreso; il poliedro, mai la torre di Babele, dalla pretesa unificante.
Ci vuole fantasia per costruire la società fraterna e non è facile passare dal “legame di coppia e di amicizia” all’accoglienza verso tutti e all’”amicizia sociale”. Alle volte sembra di leggere una lezione di laicità al mondo, alle culture fissiste, come il liberismo, che fa della proprietà privata, che è “un diritto secondario”, un valore primario e assoluto, mentre originario e prioritario è il diritto all’uso comune dei beni creati per tutti; come c’è una lezione al populismo e al nazionalismo, incapaci di farsi interpellare da ciò che è diverso, di aprirsi all’universalità, chiusi come sono nei loro angusti recinti come in “un museo folkloristico di eremiti localisti”; il male è che così si perdono proprio beni irrinunciabili come la libertà o la nazione: l’economia che si sostituisce alla politica non ha messo fine alla storia ma ruba la libertà; e con la demagogia il rischio è che si perda il concetto di popolo, “mito” e istituzione insieme, a cui non si può rinunziare perché altrimenti si rinunzia alla stessa democrazia.
La stessa fraternità, dice Francesco, va strutturata in un’organizzazione mondiale garantista e efficiente, sotto “il dominio incontrastato del diritto”, anche se un progetto per lo sviluppo di tutta l’umanità “oggi suona come un delirio”.
Mentre l’enciclica si distribuiva in piazza san Pietro ed era tolto l’embargo, nelle chiese si leggeva, tra le letture del giorno, questa frase del profeta Isaia: “Egli (il Signore) si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Sembrava un giudizio scritto per l’oggi, mentre Francesco è assediato, fin dentro al tempio, da mercanti e falsi difensori della fede.
È forse questo il segreto di questa enciclica: c’è, per un mondo malato, dove “tutto sembra dissolversi e perdere consistenza”, da giocare l’ultima carta, cambiare i soci in fratelli. Si potrà poi essere anche cattivi fratelli, incapaci di memoria, di pietà, di perdono, però tutti si riconosceranno investiti della infinita dignità dell’umano, questa verità che non muta, accessibile a tutti e obbligante per tutti.
Ma per essere fratelli ci vuole un padre. Perciò tutto il ministero di papa Francesco è volto a “narrare” al mondo la misericordia del Padre; lui che è il primo pastore della religione del Figlio, si mette nei panni del Figlio (com’è del resto suo compito) per recuperare la religione del Padre, per dare agli uomini un Padre in cui si riconoscano finalmente fratelli. Una cosa così “religiosa” che la voleva perfino la Rivoluzione francese; solo che, dice ora papa Francesco, se la fraternità non si esercita veramente anche la libertà e l’uguaglianza sono perdute. E il mondo, ora, sarebbe perduto con loro.
Enciclica.
«Fratelli tutti»: la chiave di volta della fraternità universale
La nuova enciclica sociale di papa Francesco, firmata ad Assisi, per superare i mali e le ombre del mondo. Ecco i contenuti
di Stefania Falasca (Avvenire, domenica 4 ottobre 2020)
Un manifesto per i nostri tempi. Con l’intento di «far rinascere un’aspirazione mondiale alla fraternità». La nuova lettera enciclica di papa Francesco che si rivolge «a tutti i fratelli e le sorelle», «a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose» è «uno spazio di riflessione sulla fraternità universale». Necessaria, nel solco della dottrina sociale della Chiesa, per un futuro «modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana». Per «agire insieme e guarire dalla chiusura del consumismo, l’individualismo radicale e l’auto-protezione egoistica». Per superare «le ombre di un mondo chiuso» e conflittuale e «rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale che viva l’amicizia sociale». Per la crescita di società eque e senza frontiere. Perché l’economia e la politica siano poste «al servizio del vero bene comune e non siano ostacolo al cammino verso un mondo diverso». Perché quanto stiamo attraversando con la pandemia «non sia l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare». Perché le religioni possono offrire «un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società».
La fonte d’ispirazione per questa nuova pagina di dottrina sociale della Chiesa viene ancora una volta dal Santo dell’amore fraterno, il Povero d’Assisi «che - afferma il Papa - mi ha ispirato a scrivere l’enciclica Laudato si’, e nuovamente mi motiva a dedicare questa nuova enciclica alla fraternità e all’amicizia sociale».
Sulla scia dell’adagio terenziano ripreso da Paolo VI nella sua enciclica programmatica Ecclesiam Suam, papa Francesco ricorda nell’incipit stesso della sua lettera enciclica quanto «tutto ciò che è umano ci riguardi» e che «dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro». La Chiesa del resto, affermava Paolo VI, «chiamata a incarnarsi in ogni situazione e ad essere presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra - questo significa “cattolica” -, può comprendere, a partire dalla propria esperienza di grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore universale».
Francesco spiega poi che le questioni legate alla fraternità e all’amicizia sociale sono sempre state tra le sue preoccupazioni e che negli ultimi anni ha fatto riferimento ad esse più volte. L’enciclica raccoglie molti di questi interventi collocandoli in un contesto più ampio di riflessione. E se la redazione della Laudato si’ ha avuto una fonte di ispirazione dal suo fratello ortodosso Bartolomeo, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli che ha proposto con molta forza la cura del creato, in questo caso si è sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, con il quale il Papa si è incontrato nel febbraio del 2019 ad Abu Dhabi per ricordare che Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro».
Papa Francesco ricorda che quello non è stato «un mero atto diplomatico, bensì il frutto di una riflessione compiuta nel dialogo e di un impegno congiunto». E che questa enciclica, pertanto, raccoglie e sviluppa i grandi temi esposti in quel Documento firmato insieme e recepisce, nel suo linguaggio, «numerosi documenti e lettere ricevute da tante persone e gruppi di tutto il mondo».
La genesi della lettera tuttavia è stata accelerata da un’emergenza: l’irruzione inattesa della pandemia del Covid-19, «che - come scrive Francesco - ha messo in luce le nostre false sicurezze, e al di là delle varie risposte che hanno dato i diversi Paesi, è apparsa evidente l’incapacità di agire insieme». Perché «malgrado si sia iper-connessi - spiega ancora il Papa - si è verificata una frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano tutti». E adesso «se qualcuno pensa che si tratti solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà».
Il Papa afferma inoltre che se ancora una volta si è sentito motivato specialmente da san Francesco d’Assisi, anche altri fratelli non cattolici sono stati ispiratori: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi. In particolare cita però il beato Charles de Foucauld. E prendendo a prestito la sue parole così chiosa la sua conclusione agli otto capitoli e 287 punti di Fratelli tutti: «“Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese”. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”. Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen».
Le ombre di un mondo chiuso
Nel primo capitolo vengono passate in rassegna le tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale. Tra queste i diritti umani non sufficientemente universali, le nuove forme di colonizzazione culturale, lo scarto mondiale dove «certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti». «Mentre, infatti, una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati. «La storia - afferma il Papa - sta dando segni di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. Nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali». «Abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci. Spesso le voci che si levano a difesa dell’ambiente sono messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità quelli che sono solo interessi particolari. In questa cultura che stiamo producendo, vuota, protesa all’immediato e priva di un progetto comune, «è prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni». E non manca un’attenzione anche verso la condizione delle donne: «L’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la realtà gridano un altro messaggio». È un fatto che «doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti».
L’esempio del Buon Samaritano
Per il superamento delle ombre il Papa indica la strada d’uscita nella figura del Buon Samaritano a cui dedica il secondo capitolo, sottolineando come in una società malata che volta le spalle al dolore e che è “analfabeta” nella cura dei deboli e dei fragili, tutti siamo chiamati - proprio come il Buon Samaritano - a farci prossimi all’altro, superando pregiudizi, interessi personali, barriere storiche o culturali. «È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano». Dunque, afferma Francesco, «non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri». E spiega che «in quelli che passano a distanza c’è un particolare che non possiamo ignorare: erano persone religiose. Questo indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace». «Una persona di fede - spiega - può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri. Ci sono invece dei modi di vivere la fede che favoriscono l’apertura del cuore ai fratelli, e quella sarà la garanzia di un’autentica apertura a Dio».
Società aperte che integrano tutti
«L’individualismo radicale - afferma Francesco nel terzo capitolo “Pensare e generare un mondo aperto” - è il virus più difficile da sconfiggere». «Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune. Quando questo principio elementare non è salvaguardato, non c’è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza dell’umanità. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica». Francesco indica la necessità di promuovere il bene morale e il valore della solidarietà: «È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, si tratta di un’altra logica - spiega - Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne». Il diritto a vivere con dignità non può essere negato a nessuno, afferma ancora il Papa, e poiché i diritti sono senza frontiere, nessuno può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato. In quest’ottica, il Papa richiama anche a pensare ad «un’etica delle relazioni internazionali», perché ogni Paese è anche dello straniero ed i beni del territorio non si possono negare a chi ha bisogno e proviene da un altro luogo. Il diritto naturale alla proprietà privata sarà, quindi, secondario al principio della destinazione universale dei beni creati. Una sottolineatura specifica viene fatta anche per la questione del debito estero: fermo restando il principio che esso va saldato, si auspica tuttavia che ciò non comprometta la crescita e la sussistenza dei Paesi più poveri.
Interscambio e governance globale per i migranti
L’aiuto reciproco tra Paesi in definitiva va a beneficio di tutti e al tema delle migrazioni l’enciclica dedica l’intero quarto capitolo: “Un cuore aperto al mondo intero”. L’altro diverso da noi è un dono ed un arricchimento per tutti - scrive Francesco - perché le differenze rappresentano una possibilità di crescita. Nello specifico, il Papa indica alcune risposte soprattutto per chi fugge da «gravi crisi umanitarie»: -incrementare e semplificare la concessione di visti; aprire corridoi umanitari; assicurare alloggi, sicurezza e servizi essenziali; offrire possibilità di lavoro e formazione; favorire i ricongiungimenti familiari; tutelare i minori; garantire la libertà religiosa e promuovere l’inserimento sociale. Dal Papa anche l’invito a stabilire, nella società, il concetto di «piena cittadinanza», rinunciando all’uso discriminatorio del termine “minoranze”. «Quello che occorre soprattutto - si legge nel documento - è una governance globale, una collaborazione internazionale per le migrazioni che avvii progetti a lungo termine, andando oltre le singole emergenze, in nome di uno sviluppo solidale di tutti i popoli che sia basato sul principio della gratuità. In tal modo, i Paesi potranno pensare come una famiglia umana».
La politica di cui c’è bisogno e la riforma dell’ONU
“La migliore politica” è al centro del quinto capitolo. «Per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale - scrive Francesco - capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso». «Mi permetto di ribadire - afferma - che la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia». «Non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale». Al contrario, «abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi». «Penso - afferma - a una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose». Non si può chiedere ciò all’economia, né si può accettare che questa assuma il potere reale dello Stato. «Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. I politici sono chiamati a prendersi «cura della fragilità, della fragilità dei popoli e delle persone. Prendersi cura della fragilità e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce inesorabilmente alla “cultura dello scarto”.
Davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato, ricorda che «la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Compito della politica, inoltre, è trovare una soluzione a tutto ciò che attenta contro i diritti umani fondamentali, come l’esclusione sociale; il traffico di organi, tessuti, armi e droga; lo sfruttamento sessuale; il lavoro schiavo; il terrorismo ed il crimine organizzato.
L’appello del Papa si volge a eliminare definitivamente la tratta, «vergogna per l’umanità», e la fame, in quanto è «criminale». Un altro auspicio riguarda la riforma dell’Onu: di fronte al predominio della dimensione economica che annulla il potere del singolo Stato, infatti, il compito delle Nazioni Unite sarà quello di dare concretezza al concetto di «famiglia di nazioni» lavorando per il bene comune, lo sradicamento dell’indigenza e la tutela dei diritti umani. Ricorrendo «al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato» - afferma il documento pontificio - l’Onu deve promuovere la forza del diritto sul diritto della forza, favorendo accordi multilaterali che tutelino al meglio anche gli Stati più deboli.
Dialogo e amicizia sociale
Il vero dialogo - si afferma nel sesto capitolo - è quello che permette di rispettare la verità della dignità umana. Quanti pretendono di portare la pace in una società non devono dimenticare che l’inequità e la mancanza di sviluppo umano integrale non permettono che si generi pace. Che «senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società - locale, nazionale o mondiale - abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità». Per il Papa «se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi».
L’artigianato della pace
Il settimo capitolo si sofferma sul valore e la promozione della pace. «La Shoah non va dimenticata - afferma - è il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando, fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale merita rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui appartiene e la religione che professa». Non vanno neppure dimenticati i bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki. E nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare di essere umani. «Vanno ricordati sempre, sempre nuovamente. Per questo, non mi riferisco solo alla memoria degli orrori, ma anche al ricordo di quanti, in mezzo a un contesto avvelenato e corrotto, sono stati capaci di recuperare la dignità e con piccoli o grandi gesti hanno scelto la solidarietà, il perdono, la fraternità. Fa molto bene fare memoria del bene». E considerando che viviamo «una terza guerra mondiale a pezzi», perché tutti i conflitti sono connessi tra loro, l’eliminazione totale delle armi nucleari è «un imperativo morale ed umanitario». Piuttosto - suggerisce il Papa - con il denaro che si investe negli armamenti, si costituisca un Fondo mondiale per eliminare la fame. Non manca anche il riferimento alla pena di morte: «È inammissibile. È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone».
Le religioni al servizio della fraternità
Le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società. Il dialogo tra persone di religioni differenti non si fa solamente per diplomazia, cortesia o tolleranza. «Il comandamento della pace - spiega il Papa - è inscritto nel profondo delle tradizioni religiose che rappresentiamo. Come leader religiosi siamo chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Come credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo, in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione dell’altro. La verità è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni». Infine, richiamando i leader religiosi al loro ruolo di «mediatori autentici» che si spendono per costruire la pace, Francesco cita il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza”, firmato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi, insieme al Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib. Dalla pietra miliare del dialogo interreligioso, il Papa riprende l’appello affinché, in nome della fratellanza umana, si adotti il dialogo come via, la collaborazione comune come condotta e la conoscenza reciproca come metodo e criterio. La conclusione dell’enciclica è affidata a due preghiere: una «al Creatore» e l’altra «cristiana ecumenica» per infondere «uno spirito di fratelli».
Io esisto perché tu esisti, per farla finita con il colonialismo
di Andrea Staid *
Come donne e uomini nati o cresciuti nella parte occidentale di questo mondo, quando guardiamo alle pratiche culturali e politiche degli “altri” dobbiamo porre molta attenzione a non comportarci da etnocentrici e pensare che la nostra visone di società, nel mio caso libertaria, sia unica ed esportabile in tutto il mondo. Credo che anche in questo caso, per affinare il nostro sguardo sull’alterità culturale, l’antropologia ci possa venire in aiuto con l’approccio relativista.
Ma cos’è il relativismo? È una teoria formulata a partire dal particolarismo culturale di Franz Boas e dall’antropologo statunitense Melville Jean Herskovits secondo i quali, considerato il carattere universale della cultura e la specificità di ogni ambito culturale, ogni società è unica e diversa da tutte le altre, mentre i costumi hanno sempre una giustificazione nel loro contesto specifico. Questo significa che i bisogni umani universali possono essere soddisfatti con mezzi culturalmente e politicamente diversi. Direi che su questo le lettrici e i lettori di Matrika non dovrebbero avere dubbi.
Quindi l’idea che gli elementi di una cultura debbano essere compresi e analizzati a partire dal contesto in cui agisce la specifica cultura porta alla conclusione che non si può considerare una cultura superiore o inferiore ad un’altra. Anche su questo non dovremmo avere dubbi.
È stato l’antropologo Melville Herskovits ad affermare, sulla scia dei precedenti fondamenti espressi da Franz Boas, che la specificità di ogni ambito culturale non consente analisi di carattere generale sul confronto tra culture.
Questa visione del mondo culturale degli “altri” ci mette in crisi e più che certezze fa nascere dubbi, ma questo non ci deve spaventare; l’importante è far diventare questi dubbi la possibilità di risposte nuove, la creazione di corpi politici ibridi e inediti.
Dobbiamo farla finita con il pericoloso e dannoso sguardo coloniale [1] che ancora ci attanaglia, dobbiamo essere in grado di fare i conti con il colonialismo e liberare i nostri sguardi troppo spesso eurocentrici e giudicanti. Per decostruire i nostri immaginari coloniali ci possono aiutare gli studi (post)coloniali, semplificando, potremmo dire che si raccolgono attorno a tre distinti filoni d’indagine critica: il primo, inaugurato da Orientalism di Edward Said nel 1978 ed ispirato alla teoria del discorso di Michel Foucault, si fonda sulla interpretazione del colonialismo come formazione discorsiva alimentato dalle istituzioni materiali dell’Impero; il secondo filone affonda nel pensiero decostruzionista e, come chiarisce Gayatri C. Spivak nel 1990 in The Post-colonial Critic, definisce il discorso coloniale come il prodotto retorico degli assiomi imperialistici che attengono in particolare alle questioni di razza e di genere; il terzo filone, il cui fondamento va ricercato nella psicoanalisi lacaniana che Homi K. Bhabha rilancia in The Location of Culture del 1994, è caratterizzato da una analisi della formazione del soggetto coloniale e dei processi di ibridazione nei quali colonizzati e colonizzatori sono coinvolti.
Anche le antropologhe e gli antropologi hanno sviluppato pratiche e teorie post-coloniali e non egemoniche, dove l’altro non era più una stranezza culturale da studiare ma un soggetto interlocutore con il quale rapportarsi.
Per questo ancora oggi dal mio punto di vista il concetto di relativismo culturale è imprescindibile sul campo. Trovo fondamentale ricordare che è stata una donna, Margaret Mead, che grazie alla sua attività divulgativa, la cui opera più celebre, L’adolescente in una società primitiva, può essere considerata paradigmatica dell’utilizzo di argomentazioni di carattere relativistico come strumento di critica della società occidentale.
Il testo è frutto di una ricerca nelle isole Samoa, nella quale l’autrice sosteneva che le difficoltà personali incontrate dalle adolescenti occidentali, non sono universali e necessarie, ma contingenti e generate prevalentemente dalle costrizioni e dalle imposizioni che gli elementi più tradizionalisti e moralistici della cultura occidentale impongono. Le adolescenti samoane, al contrario, sarebbero lasciate libere di giungere alla maturità fisica, identitaria, sessuale, sociale, senza condizionamenti eccessivi e non soffrirebbero delle crisi e delle difficoltà incontrate dalle occidentali. Questo è un caso particolare, ma paradigmatico per capire il concetto relativista.
L’impegno dell’antropologia, soprattutto nel periodo che va dai suoi esordi fino alla seconda guerra mondiale produce come conseguenza il superamento dell’antitesi tradizionale tra la superiorità della cultura europea e l’inferiorità degli altri popoli. Sono convinto che il pensiero libertario deve abbandonare completamente un approccio etnocentrico; non può pensarsi unico, giusto ed esportabile tout court nel pianeta, dobbiamo comprendere l’importanza di uno sguardo relativista. Il relativismo culturale è una risposta all’etnocentrismo e nega l’esistenza di un’unità di misura universale per la comprensione dei valori culturali e politici, poiché ogni cultura è portatrice di valori e norme che non hanno validità al di fuori della cultura stessa.
L’emergenza del relativismo culturale ha facilitato una comprensione più profonda e meno superficiale delle culture differenti da quella occidentale. Ma facciamo attenzione, quello che io propongo è un metodo per comprendere l’altro, non una sospensione totale del giudizio e del posizionamento politico dell’individuo. Per questo è molto importante fare una distinzione tra relativismo culturale e relativismo etico; il primo è quello che io propongo per meglio comprendere la cultura e la politica degli “altri”.
Il relativismo culturale (metodologico) va tenuto distinto dal relativismo etico: mentre il primo costituisce un approccio metodologico, indica cioè quale debba essere la metodologia corretta per analizzare i fenomeni culturali, il secondo si riferisce ad un atteggiamento di sospensione del giudizio etico e morale circa usanze, politiche e costumi presenti nelle varie culture.
Per il relativismo etico, vale il principio di equivalenza di ogni prescrizione morale; se infatti non esiste una verità assoluta di riferimento in base a cui poter distinguere il bene dal male, allora tutto è lecito, affermazione che pretende di porsi a sua volta come una norma assoluta, a dispetto del presunto carattere “non prescrittivo” del relativismo. Non è tutto relativo, al contrario; ma per comprendere gli “altri” dobbiamo relativizzare il nostro sguardo. (Andrea Staid Blog)
1 Per colonialismo si intende la politica di conquista, invasione e depredazione di territori e risorse (materiali e umane) attuata dalle potenze europee a partire dal XV secolo. Indica inoltre l’insieme dei principi a sostegno di tale politica e, infine, l’organizzazione del sistema di dominio. Lo sviluppo del colonialismo può essere distinto in due fasi: la prima, che parte dal XV secolo fino alla metà del XIX secolo; la seconda, che parte dagli ultimi decenni del XIX secolo e termina a metà degli anni Settanta del Novecento con il crollo del sistema coloniale portoghese. Purtroppo la mentalità colonialista e i soprusi economici e politici colonialisti delle potenze occidentali sono ancora in atto anche se formalmente e storicamente il periodo coloniale dovrebbe essere concluso.
* Fonte: Matrika.
Papa Francesco, la nuova enciclica discrimina le donne già dal titolo «Fratelli Tutti». Critiche violentissime
di Franca Giansoldati *
Città del Vaticano - L’enciclica «Fratelli Tutti» non è ancora uscita che è già oggetto di feroci critiche. Stavolta da parte di donne che si battono per un linguaggio meno discriminatorio e per la parità di diritti, dentro e fuori la Chiesa. Il titolo scelto da Papa Francesco - secondo diverse teologhe, opinioniste, accademiche - sembra essere ben poco inclusivo visto che non tiene conto - esplicitamente - del mondo femminile. Praticamente la «spina dorsale della Chiesa».
Che il linguaggio racchiuda in sé anche un germe sessista non è una novità. Gli studi accademici in materia sono numerosissimi. Il linguaggio del resto serve a collegare, unire, relazionare ma può benissimo diventare strumento per discriminare, escludere, segregare. E così - anche nella Chiesa - modificare il linguaggio significa incidere sulla realtà con la consapevolezza che la questione non sia tanto grammaticale, ma culturale e che la lingua sia uno strumento utile per produrre i cambiamenti.
Ad essere al centro del dibattito è il titolo della imminente lettera enciclica che Papa Francesco firmerà ad Assisi il 3 ottobre dedicata alla pandemia. Un tempo difficile e doloroso per tutti, marcato da una condizione di fragilità e al tempo stesso dal bisogno di creare una fratellanza universale, una rete super partes capace di far superare il gap tra poveri e ricchi, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne e ridisegnare i contorni di un mondo nuovo.
Il titolo scelto - tratto da uno scritto di San Francesco - uguale per tutte le lingue - Fratelli tutti - non è passato inosservato. Teologhe, accademiche e gruppi femminili che si battono per i diritti paritari a cominciare anche dal linguaggio hanno manifestato forti perplessità.
Naturalmente il termine “fratelli” - negli intenti del Papa - va inteso in senso estensivo, a chi è legato ad altri da un vincolo di affetto, di carità, da comunanza di patria. Un po’ come l’inno «Fratelli d’Italia» di Mameli o la celebre frase di Manzoni, «I fratelli hanno ucciso i fratelli». Il mancato riferimento alle sorelle ha però aperto il dibattito sui social e non sono mancati giudizi negativi e critiche.
Non è la prima volta che nei documenti magisteriali alle donne viene riservato una posizione marginale. Per esempio nella esortazione apostolica Evangelii Gaudium - praticamente il manifesto del pontificato di Bergoglio - alla enorme questione della donna vengono riservati solo 4 punti su un totale di quasi 300. Il tema della violenza viene poi liquidato in sette righe. Inoltre non si dice nulla sul fatto che la Santa Sede non ha finora mai voluto né firmare né ratificare la Convenzione di Istanbul - praticamente la magna charta per contrastare le radici culturali della violenza tra i sessi.
Fratelli Tutti di conseguenza non poteva non sollevare obiezioni. La teologa inglese Tina Beattie lamenta il solito linguaggio non inclusivo e così ha fatto Paola Lazzarini presidente di Donne Per La chiesa una associazione che appartiene alla Catholic Women’s Council, una realtà globale che lavora per il pieno riconoscimento della dignità e dell’uguaglianza tra i sessi nella Chiesa cattolica. «Chissà se qualcuno farà notare al Papa che le donne non possono essere fratelli e che questo linguaggio ci esclude» ha chiosato su Twitter. Lazzarini ha riportato un parere della Crusca sul termine di fratellanza, specificando che forse, in certi casi, sarebbe stato meglio parlare di sorellanza, perché «più appropriat»”.
Sul Tablet in un editoriale Lizz Dodd ha manifestato sconcerto. «Papa Francesco potrebbe rompere con la tradizione e chiamare l’enciclica con qualcosa di diverso dalla sua frase di apertura (...) Il fatto che questo titolo sia riuscito a superare ilproceso di editing mi suggerisce che nessuna donna sia stata consultata o che le donne hanno sollevato preoccupazioni che sono state trascurate». L’idea suggerita è di inserire la parola ’sorelle’ a quella di fratelli. «Sarebbe un gesto verso le donne che sono la spina dorsale della Chiesa da millenni, sebbene esclusa. Significherebbe sentirci dire che il nostro bisogno di sentirci incluse nella casa viene prima dei giochi linguistici. Cambiare titolo sarebbe come se Francesco dicesse: vi vedo».
Naturalmente in Vaticano la questione è finità già sotto il tappeto. Vatican News attraverso il direttore editoriale Andrea Tornielli è sceso in campo per spegnere gli incendi scrivendo in un editoriale: «Fraternità e amicizia sociale, i temi indicati nel sottotitolo, indicano ciò che unisce uomini e donne, un affetto che si instaura tra persone che non sono consanguinee e si esprime attraverso atti benevoli, con forme di aiuto e con azioni generose nel momento del bisogno. Un affetto disinteressato verso gli altri esseri umani, a prescindere da ogni differenza e appartenenza. Per questo motivo non sono possibili fraintendimenti o letture parziali del messaggio universale e inclusivo delle parole “Fratelli tutti”».
Nel frattempo sono partite anche appelli al Papa di cambiare il titolo della nuova enciclica. Sui social, per esempio, spicca quello dell’economista cattolico Luigi Bruni, editorialista di Avvenire. «Caro papa Francesco finchè è ancora in tempo per favore cambi il titolo della nuova enciclica. Quel Fratelli (senza sorelle) non si può usare nel 2020. Lei ci ha insegnato il peso delle parole. Il titolo si mangerà il contenuto e sarebbe un grande peccato. L’altro nome di Francesco è Chiara».
* Il Messaggero, Lunedì 21 Settembre 2020 Ultimo aggiornamento: 23 Settembre (ripresa parziale).
NELSON MANDELA, “IL GRANDE CAMMINO VERSO LA LIBERTÀ”, E L’ UBUNTUMANITÀ...
Una nota a margine di "Demobuntocrazia: cos’è?" *
TUTTAVIA, FORSE, E’ BENE RICORDARE CHE LA PAROLA “UBUNTU” viene dalla lezione di un “ragazzo della tribù Xhosa”, da Nelson Mandela: “[...] in Sudafrica, dove sembra che l’avventura di tutto il genere umano sia cominciata, si ricordano e sanno, come tutto ha avuto inizio, e, con un bel termine e un bel concetto - ubuntu, così traducono e dicono: “Le persone diventano persone attraverso altre persone”. Nelson Mandela (Rolihlahla, il suo nome originale e tribale significa “colui che tira il ramo di un albero”, o se si vuole e più chiaramente “colui che è un attaccabrighe” contro l’ingiustizia e la disumanità), questo l’ha appreso sin da piccolo, non l’ha più dimenticato, e ne ha fatto la stella-guida di tutta la sua vita e della sua lotta: “La struttura e l’organizzazione delle antiche società africane (prima dell’arrivo dei bianchi) mi hanno molto affascinato e hanno profondamente influito sull’evoluzione della mia visione politica. La terra, allora il principale mezzo di sostentamento, apparteneva a tutta la tribù, senza proprietà individuale. Non esistevano classi, né ricchi o poveri e nemmeno sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Tutti erano liberi e uguali e questo era il fondamento del governo [... ] Un tempo mitico nel senso proprio del termine, con tutti i valori pedagogici che ne derivano. L’obiettivo, a cui tendono gli anziani della tribù, è quello di trasmettere un messaggio ai giovani: la libertà è esistita; bisognerà riconquistarla” (cfr. Lungo cammino verso la libertà, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 20) [...]” (cfr. “CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ ...pdf, pp. 17-18: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5722).
Pax Christi.
«Abolire subito le armi nucleari, anche l’Italia firmi il trattato»
di Giacomo Gambassi (Avvenire, mercoledì 5 agosto 2020)
«Immorali». Non aveva usato mezzi termini papa Francesco in Giappone lo scorso novembre per condannare gli armamenti nucleari e il loro potere distruttivo che hanno lasciato un segno indelebile ad Hiroshima e Nagasaki dove il 6 e il 9 agosto 1945 vennero sganciate le bombe atomiche americane.
Le parole del Pontefice, la sua «condanna» della minaccia nucleare, la denuncia dell’«affronto mortale» che mina non solo il benessere della terra ma anche il rapporto con Dio tornano nella lettera aperta che Pax Christi invia alla Cei in occasione del 75° anniversario dei bombardamenti atomici in Giappone dove sollecita i vescovi italiani a chiedere al Governo di firmare il trattato sul bando totale delle armi atomiche approvato dall’Onu nel 2017.
Il testo «ha un sempre più crescente sostegno mondiale», scrivono il vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, Giovanni Ricchiuti, e don Renato Sacco, rispettivamente presidente nazionale e coordinatore nazionale di Pax Christi. Tuttavia, aggiungono, «per diventare effettivo c’è bisogno di altre firme per superare la soglia necessaria di cinquanta Stati. Il Vaticano lo ha da tempo ratificato e le Conferenze dei vescovi cattolici di Giappone e Canada hanno chiesto ai loro esecutivi di fare altrettanto».
In Italia, invece, il tema sta passando sotto silenzio. «Nel nostro Paese - racconta don Sacco ad Avvenire - esistono due siti che ospitano ordigni nucleari: Aviano, in provincia di Pordenone, e Ghedi, nel Bresciano. Non sappiamo quanti siano ma il loro potenziale è di gran lunga più elevato di quello impiegato nel 1945. E, come dice il Papa, non va censurato solo l’uso ma anche il possesso».
Don Sacco ricorda il cartoncino fatto distribuire da Bergoglio a fine 2017 con la foto di un bambino di 10 anni che trasportava sulle spalle il cadavere del fratellino ucciso dalla bomba a Nagasaki. «Il Papa aveva scritto: “Il frutto della guerra...”. La tragedia avvenuta in Giappone è un monito per l’oggi, un grido sempre più attuale».
La lettera del Movimento cattolico per la pace prende spunto dall’emergenza Covid per riflettere sulla piaga atomica. «Le conseguenze dannose della pandemia impallidiscono rispetto a quelle che sarebbero capitate alla famiglia umana, e alla terra stessa, in caso di guerra nucleare», affermano Ricchiuti e Sacco. E spiegano che, mentre si cerca un vaccino al virus, «stiamo sperimentando come investire centinaia di miliardi di dollari per lo sviluppo, la fabbricazione, i test e lo spiegamento di armi nucleari non solo non è riuscito a renderci sicuri, ma ha privato la comunità umana delle risorse necessarie per il raggiungimento della vera sicurezza umana: sufficienza alimentare, alloggio, lavoro, formazione scolastica, accesso all’assistenza sanitaria».
Ancora. «Di fronte al coronavirus le speranze di sopravvivenza nelle nostre comunità si sono fondate sul sacrificio in prima linea dei soccorritori. Eppure, ammonisce la Croce Rossa internazionale, tali soccorritori non ci sarebbero in caso di un attacco nucleare: i medici, gli infermieri e le infrastrutture sanitarie sarebbero essi stessi cancellati».
Ecco il richiamo. «La cosiddetta “sicurezza” offerta dalle armi nucleari si basa sulla nostra volontà di annientare i nostri nemici e la loro volontà di annientarci. A 75 anni dagli avvenimenti di Hiroshima e Nagasaki è giunto il tempo per rifiutare questa logica di reciproca distruzione e costruire una vera sicurezza».
Pax Christi chiarisce che in caso di una guerra nucleare, «anche se limitata», la vita sul pianeta «sarebbe messa in grave pericolo». Serve allora eliminare gli armamenti atomici. «Ma - conclude il movimento - la finestra temporale che ci resta potrebbe essere troppo breve. Se non riusciamo ad agire adesso e con decisione, giochiamo pericolosamente non solo con la pandemia ma anche con l’estinzione totale».
Hiroshima e Nagasaki. 75 anni dopo l’atomica: i vescovi Usa pregano con i giapponesi
Messaggio della Conferenza episcopale americana che chiede, richiamando papa Francesco, l’abolizione delle armi di distruzione di massa. A Hiroshima cerimonia annuale al cenotafio con misure antivirus
di Silvia Guzzetti (Avvenire, sabato 1 agosto 2020)
"Io e i miei confratelli vescovi piangiamo, insieme ai nostri fratelli giapponesi, per le vite innocenti che sono state annientate e per le generazioni che hanno continuato a soffrire le conseguenze sull’ambiente e sulla salute di questi tragici attacchi".
Comincia cosi il comunicato dell’arcivescovo José H. Gomez di Los Angeles, presidente della Conferenza episcopale cattolica statunitense, in occasione del 75esimo anniversario del lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki che ricorre rispettivamente il 6 e il 9 agosto prossimi e che sancì l’inizio della fine della Seconda Guerra Mondiale.
"In questa solenne occasione uniamo la nostra voce a quella di papa Francesco per chiedere ai nostri leader nazionali e internazionali di perseverare nei loro sforzi per abolire le armi di distruzione di massa che minacciano l’esistenza della razza umana e del nostro pianeta", scrivono ancora i vescovi degli Stati Uniti, "Chiediamo alla nostra Santa Madre Maria, la Regina della pace, di pregare per la famiglia umana e per ciascuno di noi".
Il comunicato continua con la speranza, espressa dai vescovi, che "ricordandoci la violenza e le ingiustizie del passato possiamo impegnarci ad essere costruttori di pace, vocazione alla quale ci chiama Gesù Cristo. Possiamo sempre cercare la strada della pace e alternative all’uso della guerra come mezzo per risolvere le differenze tra le nazioni e i popoli".
La commissione Giustizia e Pace Internazionale della Conferenza episcopale americana ha anche diffuso materiali di preghiera, studio e azione che aiutino i fedeli a organizzare iniziative per commemorare l’anniversario del lancio della bomba il prossimo 6 e 9 agosto.
A riprendere l’appello dei vescovi americani contro l’uso e il possesso di armi nucleari, facendo proprie le forti parole pronunciate lo scorso 24 novembre da papa Francesco in occasione della sua visita in Giappone, è anche la Conferenza episcopale cattolica giapponese che rilancia l’iniziativa della "10 giorni di preghiera per la pace", celebrata ogni anno tra il 6 e il 15 agosto. La "10 giorni" è partita dopo l’invito alla riconciliazione di san Giovanni Paolo II ad Hiroshima, il 25 febbraio 1981, durante la sua storica visita nel Paese.
Vi sarà anche quest’anno, anche se con misure molto rigorose per fermare il coronavirus, la tradizionale cerimonia davanti al cenotafio per le vittime della bomba atomica ad Hiroshima che non è mai stata cancellata a partire dal 1952, quando venne costruito il monumento. Alle 8.15 proprio quando la bomba venne lasciata cadere, il 6 agosto 1945, sulla città giapponese, suonerà la campana della pace e, in tutta la città, si sentirà l’urlo delle sirene. I cittadini, nelle case e negli uffici, si fermeranno per un minuto per ricordare le vittime e pregare per una pace mondiale duratura.
Quest’anno le misure antivirus prevedono che il numero dei partecipanti venga limitato a 880 persone, sedute a distanza di due metri le une dalle altre, sul prato davanti al monumento. Dovrebbe partecipare di persona il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres.
Il settimanale “Economist” racconta anche di un nuovo modo giapponese di preservare la memoria della tragedia di Hiroshima e Nagasaki. I Consigli comunali delle due città hanno, infatti, deciso di reclutare diversi volontari perché diventino “denshosha”, ovvero trasmettitori dell’eredità della storia della due bombe. I sopravvissuti, conosciuti col termine “hibakusha”, sono ormai ottantenni e, con la loro morte, i racconti di quel bombardamento, tristemente unico nella storia dell’umanità, rischiano di scomparire. I "denshosha" e, a volte, si tratta di figli o nipoti dei sopravvissuti, ascoltano con grande attenzione la storia dei due bombardamenti e la imparano per raccontarla a loro volta cosi che non venga dimenticata.
C’è grande preoccupazione, in Giappone, che la lezione delle bombe scompaia e, insieme ad essa, la consapevolezza degli orrori di quella tragedia. Meno del 30% dei giapponesi per esempio - e nelle due città di Hiroshima e Nagasaki la percentuale è anche più alta - è in grado di ricordare, con precisione, le date dei bombardamenti.
FILOLOGIA E "ANDROLOGIA". DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE: "UN UOMO, TUTTI GLI UOMINI"?! *
La raccolta.
Ivano Dionigi tra parola, vita e smarrimenti
Uno sguardo sul nostro tempo e le sue emergenze partendo dalla lettura dei classici e dei testi biblici. Un estratto dall’ultimo libro di Dionigi che trae linfa dalla rubrica “Tu quis es” per Avvenire
di Ivano Dionigi (Avvenire, giovedì 25 giugno 2020)
La parola, lógos per i Greci, verbum per i Latini, è il miracolo per cui l’uomo da creatura diventa creatore: essa può affascinare (delectare), insegnare (docere), mobilitare le coscienze (movere). La parola può unire e dividere, consolare e affannare, salvare e uccidere. Non solo custodisce e veicola il pensiero, ma lo genera. La Parola divina, quel Logos con cui si aprono l’Antico e il Nuovo Testamento: la Genesi («In principio Dio disse») e il Vangelo di Giovanni («In principio era la Parola»). Il lógos di Eraclito: «così profondo che della sua anima, per quanto tu possa camminare e neppure percorrendo intera la via, mai potresti trovare i confini». La parola che con Gorgia tutto può: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione ». La parola della “democratica” Atene, che uccise Socrate prima e più della cicuta.
La parola che, usata male, secondo Platone oltre a essere una cosa brutta in sé fa male anche all’anima. La parola che con Aristotele ci caratterizza come uomini distinguendoci dagli animali. La parola che con Cicerone salva la res publica, se prerogativa degli eloquentes e sapientes; la manda in rovina, se prerogativa dei disertissimi homines, i demagoghi. La parola della ragione di Lucrezio, l’arma più efficace per debellare i nemici interiori della cupido e del timor. La parola terapeutica di Seneca che interiorizza e consola. La parola che con l’apostolo Giacomo ora benedice ora maledice. La parola che con Elias Canetti si fa antidoto alla guerra. La parola che con don Milani diviene «la chiave fatata che apre ogni porta». La parola che con Mario Luzi «vola alta» e profonda, e «tocca nadir e zenith».
Questa parola oggi non gode di buona salute: ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque, ci chiede di abbassare il volume, di ricongiungerla alle cose, di imboccare la strada del rigore. Soprattutto in questo tempo di calamità, in cui ci apprestiamo a un lungo esodo e alla traversata del deserto, le parole note suonano inadeguate se non improprie. -Abbiamo bisogno di parole nuove per nominare questo presente imprevisto, inaudito, alieno. Uguale, eppure così frantumato; estraneo, eppure così invadente attorno a noi e dentro di noi.
Orfeo e Euridice
A Orfeo è concesso di riportare la dolce sposa dall’Ade sulla terra a patto di non girarsi a guardarla. Ma, racconta Virgilio (Georgiche, 4, 485 sgg.), lo sprovveduto amante uscendo dagli Inferi viene preso dalla follia d’amore e viola i patti (rupta foedera): «Quale furia d’amore ha portato me misera, ha portato te Orfeo, alla perdizione? » (4, 494 sg.: Quis et me [...] miseram et te perdidit, Orpheu, / quis tantus furor?), grida Euridice quando Orfeo si volta a guardarla. «Muto e impaziente» Orfeo, «mite nella sua pazienza» Euridice, dirà Rilke. Non è forse vero che non bisogna amarla troppo questa vita per non perderla? Come non è forse vero che non bisogna attaccarsi troppo a una persona per non soffocarla?
Se non sopportiamo il peso della privazione, il prezzo dell’attesa, il páthos della distanza, perdiamo coloro che amiamo e perdiamo noi stessi. Restiamo agli Inferi: nell’Inferno della nostra identità. Questa favola vale per la scuola come per la vita. -Penso al nostro modo di leggere i classici, oscillante fra due estremi malsani: o non cogliamo le interrogazioni dei testi e li consideriamo come fossili, muti, inanimati, cadaverici, oppure vi sovrapponiamo le nostre domande e li riduciamo a pretesti per le nostre ragioni. Non abbiamo forse pietrificato i classici tutte le volte che, affetti da miopia e incapaci di resistere all’impazienza e all’illusione del possesso, abbiamo anteposto le ragioni della vicinanza e della presenza, incuranti di ogni distanza passata e futura?
Parole per noi
Negata anche la pietas: non si può abbracciare né chi nasce né chi muore. Catastrofe, inferno, tragedia sono le parole giuste per questi giorni. Va pensata la genesi dopo l’apocalisse: la scienza medica deve curare e guarire, la politica provvedere e prevedere, con l’auspicio che i tanti eurobond siano affiancati da altrettanti neurobond. Avremo bisogno di Mosè, di tanti Mosè che ci guidino nella traversata del deserto. Non è l’ora delle nostre parole che suonano inutili o inopportune. Altro timbro possiedono le parole di coloro che hanno scritto per noi e di noi, che resistono al tempo e alle mode. Ci ricordano con il Prometeo di Eschilo e l’Antigone di Sofocle che l’uomo ha posto rimedio a tutti i mali ma non al suo destino mortale; con il Platone della Repubblica, che non si possono privatizzare i beni materiali ma neppure i sentimenti quali la gioia e il dolore, e che nella città al vertice dell’istruzione deve sedere il migliore; con l’Aristotele della Politica, che l’uomo dotato di norme civili e di senso del giusto è la migliore delle creature; con Lucrezio, che solo la scienza può rimuovere la paura, frutto dell’ignoranza e causa di tutti i mali; con Virgilio, che i vecchi valgono non meno dei giovani; con Seneca, che è cosa diversa vivere (vivere) dallo stare al mondo (esse); con Marco Aurelio, che ognuno di noi vale quanto la causa per cui lotta; con Agostino, che la qualità dei tempi dipende da quella degli uomini (Sermoni, 80, 8: Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora).
Lucrezio lo aveva detto
La storia ama non solo sorprendere ma anche ripetersi. Si vada alla peste di Atene (430 a.C.) descritta da Lucrezio nel finale del suo poema: vi si troveranno consonanze raggelanti con i nostri giorni. Sotto scacco, la medicina allora mostrava tutta la sua incertezza e impotenza: silenziosa e timorosa esitava e balbettava (6, 1179: Mussabat tacito medicina timore). Parimenti disarmata e svilita la religione (vv. 1276-1277: Nec iam religio divum nec numina magni / pendebantur): i templi stipati di cadaveri accatastati (vv. 1272-1273: omnia sancta deum delubra replerat / corporibus mors) e impediti in città perfino i riti della sepoltura (v. 1278: nec mos ille sepulturae remanebat in urbe). Anche la pietà parentale era messa a dura prova: quanti erano accorsi al capezzale dei loro cari, incorrevano nel contagio (v. 1243: Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant) e quanti si rifiutavano di portare soccorso morivano soli e abbandonati (vv. 1239 sgg.: Nam quicumque suos fugitabant visere ad aegros / [...] / poenibat [...] / desertos, opis expertis, incuria mactans).
Con i nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la compassione alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventate cimiteri, piazza San Pietro deserta e il Papa, solo, a testimoniare non la potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti negli ospedali i mariti separati dalle mogli, i fratelli dai fratelli, gli amici dagli amici. E morire senza potere prendersi la mano e neppure salutarsi.
Un uomo, tutti gli uomini
I rimedi per la ricostruzione del Paese dovranno essere proporzionati ai danni: incalcolabili. Ci vorranno braccia e menti, e una duplice chiamata: da un lato, quella dei migliori cervelli, in seduta permanente in una sorta di “cern” politico, economico, sociale, culturale per progettare il futuro; dall’altro, quella dei ventenni, perché siano i protagonisti della rinascita. Arrivati in un mondo fatto su misura dei loro padri, dovranno ora costruirne uno per i loro figli. A nulla valgono le retoriche consolatorie di questi giorni: il ricorso al patriottismo d’occasione, l’enfasi sull’eroismo dei medici oggi sull’altare e domani di nuovo nella polvere, l’illusione che ne usciremo migliori. I retti saranno ancora retti, gli acuti torneranno acuti, e gli ottusi resteranno ottusi. Più facile prevedere un indurimento degli animi, un ulteriore divario fra chi ha e chi non ha, un ripopolamento di umiliati e gregari che al riconoscimento delle istituzioni e alla rivendicazione dei diritti preferiranno panem et circenses. Avremo imparato che il mondo non è in equilibrio economico, ambientale, sanitario? Che sapere e potere, competenza e politica, cultura e amministrazione sono inseparabili? Che sarà il pronome noi a salvarci? Ce lo ricorda Borges: «Ciò che fa un uomo è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo» (La forma della spada).
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
FLS
Arcivescovo Canterbury: "Via statue razziste dalle chiese" *
Le statue legate al periodo del colonialismo e della schiavitù potrebbero essere rimosse dalle più importanti chiese britanniche. Lo ha detto alla Bbc l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, intervenendo nel dibattito avviato negli Stati Uniti, dove da giorni i manifestanti prendono di mira i monumenti dedicati a personalità che vengono legate ad un passato razzista. "Alcune dovranno essere rimosse - ha detto il capo della Chiesa anglicana - Alcuni nomi dovranno cambiare. Esamineremo molto attentamente la questione e vedremo se devono restare lì".
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. LA SAGGIA INDICAZIONE DEL SUDAFRICA DI MANDELA, DI TUTU, E DI DECLERCK
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FLS
RIPRENDERE IL LAVORO DI FREUD. IL MALE, L’AVVENIRE DI UN’ILLUSIONE ....
Nota a margine di "Il male, un’illusione ? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
PRIMA DI FARE DICHIARAZIONI STORIOGRAFICHE DI GRANDE IMPEGNO A SOSTEGNO DELLE PROPRIE ARGOMENTAZIONI :
E PARLARE DI “divinizzazione retroattiva del marchese de Sade” è bene ricordare che l’associazione indebita di “Kant e Sade”, fatta da Lacan, nasce sulla base di una interpretazione edipico-hegeliana e di un vera e propria distruzione della kantiana “critica dell’idealismo”.
E, ancora, quando Freud richiama all’inizio del suo lavoro sulla “Interpretazione dei sogni” le parole di Giunone “flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Eneide, VII, 312), sa già (“sibillina-mente”) di che cosa sta parlando e di cosa c’è in gioco e, come Giunone (“Non mi sarà dato, ahimé, di impedirgli di regnare sui Latini e Lavinia, immutabile, resta sua sposa in forza del destino, ma ho il potere di tirare per il lungo, di imporre dei ritardi a eventi così grandi ...” : Eneide, VII, 312- 315 ), va avanti e ricordando-si di Napoli comincia capire cosa c’è dietro la questione “Didone” (Eneide, IV, 625 ) e la sua infatuazione per Annibale, per il vendicatore: la vittoria di Roma, dell’Amore sulla Morte. Fiducioso, continua il suo lavoro!
La “Horrenda Virgo” (Eneide XI, v. 507) , la “ragazza terribilmente bella”, come Giunone (e Freud), lo sa: deve cedere il passo ad un’altra “Virgo”, ad Astrea, alla Giustizia: «Già viene l’ultima era dell’oracolo di Cuma, / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno, /già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo. » (Ecloga IV, 4-7). La “Horrenda SYbilla” (Eneide VI, 11), ispirata da Apollo, il profeta di Delo, ha rivelato ad Enea tutto il futuro (Eneide VI, 11-12).
PERCHE’ HANNAH ARENDT, nella sua “Vita della mente” (alla luce di un inedito dialogo con Kant) richiama ancora e di nuovo Virgilio e Dante, e dal “Libro del malumore” di Goethe cita: “Chi di tremila anni / Non sa darsi conto, / Rimane all’oscuro inesperto, /Vuol vivere così di giorno in giorno” ? Boh e bah ?!
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Festival di Filosofia
AMORE. Perché quando batte il cuore ci sentiamo veramente più umani
Un romanzo, "L’ imperatore del Portogallo", è un esempio di cosa significa amare. Ma c’è una risposta diversa al modo di diventare umani e l’ha fornita Kojève
di TZVETAN TODOROV *
Uno dei più bei romanzi del ventesimo secolo, L’ empereur du Portugal di Selma Lagerlof, inizia con l’episodio nel quale si descrive la nascita di una bambina così come viene percepita dall’ anima di suo padre Jan. Costui è un povero agricoltore, che non possiede nulla, non ha combinato nulla di rilevante. Si è sposato avanti con gli anni ed ecco che la gravidanza della moglie giunge ora al termine. Jan ha trascorso l’ intera giornata attendendo fuori dalla porta, ha freddo, è stanco, pensa a tutte le piccole seccature che la presenza della neonata comporterà per la sua casa. Tuttavia, alla fine entra nella stanza dove la moglie ha partorito e gli mettono tra le braccia un fagotto, dal quale spuntano un visino un po’ sgualcito e delle esili manine.
All’ improvviso sente il cuore battergli così forte in petto da essere quasi impaurito, e subito chiede aiuto alle altre donne lì presenti. Queste afferrano in un batter d’ occhio la situazione, e scoppiano a ridere. «Non avete mai amato abbastanza qualcuno in precedenza, da provare batticuore soltanto adesso?», gli chiede la levatrice. Jan deve ammettere di no, ma comprende che cosa ha appena vissuto. E Selma Lagerlof commenta: «Colui che non sente il proprio cuore battere, né nella tristezza né nella gioia, non può considerarsi un vero essere umano» (pag. 13).
L’ imperatore del Portogallo è la storia di un amore folle, quello di un padre per sua figlia. Ci si accorge immediatamente che la posta in gioco non è insignificante - né per il protagonista, né per l’ autore: si tratta, né più né meno, di identificare che cosa renda gli uomini davvero umani. L’ interrogativo sull’ identità umana può essere formulato nei contesti più disparati, e ricevere di conseguenza risposte quanto mai diverse. La risposta di Lagerlof si colloca su un piano che potremmo definire antropomorfo, che si estrinseca in una sola parola: l’ amore. Ciò che rende questo essere specificatamente umano è la sua capacità di amare. è facile dire di una simile affermazione che è bella o che è nobile, ma ci si potrebbe spingere ad affermare che è vera? Prima di pronunciarmi a questo proposito, vorrei ricordare un altro tentativo di spiegare la specificità umana, che si situa sul medesimo piano antropologico.
Negli anni Trenta del nostro ventesimo secolo, un giovane filosofo russo emigrato a Parigi, Alexandre Kojève, spiega a qualche attento ascoltatore il senso della celebre «dialettica del padrone e del servitore» nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Dopo la guerra, uno degli ascoltatori presenti nel pubblico, Raymond Queneau, pubblicherà quelle conferenze con il titolo Introduzione alla lettura di Hegel, un’ opera che eserciterà una profonda influenza su numerosi autori contemporanei.
La risposta di Hegel alla specificità umana (così come fu interpretata da Kojève) è molto diversa da quella di Lagerlof. In che cosa consiste la differenza tra l’ animale e l’ uomo? Il primo agisce sempre e soltanto in ragione del proprio istinto di conservazione, e a questo fine si appropria di tutto ciò che gli è necessario (per esempio il cibo), eliminando gli ostacoli (i rivali). Il secondo fa altrettanto, ma non si accontenta di questo, ricerca qualcosa di più della sua semplice soddisfazione fisiologica: aspira a far sì che il suo valore sia apprezzato, e questo non può venirgli se non da altri. Dunque l’umanità ha inizio là dove «il desiderio biologico della conservazione della vita» si asservisce «all’ umano desiderio di approvazione» (pag. 170). Ne consegue che essere umani significa essere pronti a rischiare la propria vita per qualcosa che va al di là di essa. Essere umani significa smettere di considerare la propria vita un valore assoluto. Questa situazione estrema agli occhi di Kojève rivela la verità insita nella ricerca di approvazione: poiché tutti desiderano ottenerla e poiché per ottenere ciò che si auspica di ottenere dagli altri è necessario prima di tutto conquistarli, la vita umana non è altro che una spietata lotta finalizzata ad averla vinta, che sfocia con la comparsa di un padrone - il vincitore - e di un servo - il vinto. La storia dell’ umanità è la storia della loro lotta e delle sue ripercussioni (della lotta di classe, dirà Marx).
Kojève può dunque concludere: «L’ esistenza umana, storica, cosciente di se stessa, non è pertanto possibile se non laddove vi sono - o per lo meno vi sono state - delle guerre sanguinarie, delle guerre per il prestigio». Ciò che è specificatamente umano non è più l’ amore, ma la guerra.
La risposta di Kojève è sicuramente meno attraente di quella di Lagerlof, ma è forse meno vera? Molti contemporanei paiono averla prescelta, temendo senza dubbio che li si possa accusare, in caso contrario, di sdolcinatezza (la verità deve essere sempre amara, questo è uno dei sorprendenti postulati della filosofia occidentale moderna).
Rivolgiamoci allora, per cercare di vederci più chiaro, non tanto alla problematica comparsa della specie umana all’ alba della storia, quanto a quella infinitamente più facile da osservare dell’ individuo umano (che ben descrive il primo capitolo de L’ empereur du Portugal). Alla sua nascita il piccolo d’ uomo non si distingue radicalmente da quelli delle altre specie animali, per esempio le scimmie superiori: il bambino aspira a essere confortato, scaldato e nutrito - ma i piccoli delle scimmie fanno altrettanto. Le differenze tuttavia vi sono, e una tra esse acquisisce un significato del tutto particolare. A un’ età che possiamo collocare approssimativamente intorno alla settima o l’ ottava settimana di vita, il lattante fa un gesto che non ha uguali nel mondo animale: non si accontenta più di guardare la madre (questo lo fa dal momento stesso della sua nascita), ma cerca di catturare il suo sguardo, per esserne guardato. Ricerca e contempla lo sguardo che lo contempla: questo è l’ avvenimento grazie al quale il bambino entra in un mondo inequivocabilmente umano.
Vediamo allora che la tesi di Kojève è accettabile soltanto in parte: in una prospettiva antropologica è corretto affermare che l’ esistenza specificatamente umana inizia con il riconoscimento di noi stessi che riceviamo dall’ esterno, da un altro essere umano. è la stessa cosa che aveva già affermato Rousseau, probabile ispiratore di Hegel a questo proposito: all’ alba dell’ umanità «ciascuno iniziò a guardare gli altri e a volerne essere guardato» (Inégalité, pag. 169).
Ma qualsiasi riconoscimento - e qui occorre voltare le spalle a Kojève - non implica necessariamente una lotta mortale. L’ esistenza dell’ individuo, in quanto specificatamente umana, non inizia su un campo di battaglia, bensì con il neonato che attira su di sé lo sguardo della madre - una situazione, ammettiamolo, che pochi uomini hanno avuto l’ occasione di osservare fino a un passato recente. Grazie a quello sguardo inizia a esistere.
Senza riconoscimento, senza intersoggettività, senza società non vi è umanità. E senza amore? Non sappiamo ciò che la sua assenza determinerebbe a livello di specie, ma sappiamo tutti che alcuni individui arrivano, ahimè, ad attraversare l’ intera vita senza mai conoscere l’ amore. «Signor Hamil, si può vivere senza amore?», domanda il piccolo Momo nel capolavoro di Romain Gary La vie devant soi. «Sì, rispose abbassando la testa, come se provasse vergogna. E si mise a piangere» (pag. 12). Coloro che vivono senza amore sono esseri sfortunati, certo, ma indiscutibilmente sono esseri umani.
L’ amore non è invero necessario né alla conservazione della vita né a quella dell’ esistenza, che nasce dal riconoscimento e non dall’ amore. Selma Lagerlof sarebbe forse in disaccordo con questa conclusione? Non credo, infatti l’ autrice non intendeva suggerire che prima della nascita della sua bambina Jan non fosse, sinceramente parlando, un essere umano. Lei ha inteso dire che grazie all’ amore che Jan prova per la figlia egli ha realizzato la propria potenziale identità, ciò che vi è di più elevato nella condizione umana.
Si deve dunque intendere che un «vero essere umano» non è una constatazione di fatto, bensì un giudizio di valore. La migliore vita umana (non la vita umana in sé e per sé, dunque) è quella che vive nell’ amore, pare dirci Lagerlof. E così dicendo anche lei condividerebbe una delle idee costitutive alla base dell’ amor cortese medievale - «nessun uomo ha virtù senza amore» scriveva Bernard de Ventadour - che avrebbe lasciato delle tracce profonde nel concetto europeo di amore.
Traduzione di Anna Bissanti
Statue abbattute e revisione storica.
Tutti quei crimini che oggi incominciamo a vedere
L’iconoclastia è una costante. E senza revisione (che non è revisionismo) la storia è nulla
di Franco Cardini (Avvenire, giovedì 11 giugno 2020)
Nella complessa geografia politica dell’Africa le aree centrali del grande continente sono fra le più difficili da decifrare perché emergono - a poco a poco e solo da poco - dalla grande nebulosa che chiamiamo, collettivamente, Congo, e che ha dato vita a diversi Stati venuti fuori dai domini coloniali all’indomani della seconda guerra mondiale. Fra questi l’antico Congo belga oggi Repubblica Democratica del Congo, rimasta sotto il dominio di Bruxelles dal 1908 al 1960: ma prima di allora, tuttavia, la corona belga con il sovrano Leopoldo II aveva già giocato un ruolo importante nell’area.
Torniamo a parlarne oggi perché ad Anversa una statua del sovrano è stata rimossa da una piazza a seguito del movimento che, tra Stati Uniti e Europa, sta abbattendo o imbrattando le statue di personaggi che sono venerati come simboli della nazione, ma che allo stesso tempo si sono macchiati di crimini coloniali e schiavisti.
In Belgio il movimento Réparons l’Histoire ha lanciato una petizione chiedendo di rimuovere tutte le statue di Leopoldo II. Intendiamoci: è chiaro che la storia non si ’ripara’ e non è compito degli storici giudicare il passato; il loro ruolo è studiarlo, comprenderlo e insegnarlo. Tuttavia, non bisogna neppur credere ingenuamente che la realtà politica e il pensiero etico si esprimano e si esauriscano tutti e solo all’interno delle aule universitarie e dei seminari accademici: l’iconoclastia, cioè l’abbattimento dei simboli di potere o la cancellazione delle immagini, sono una costante della nostra storia; e la dimensione simbolica di tale azione non può nemmeno essere posta alla stregua di una qualche conferenza erudita.
A Londra una statua di Winston Churchill è stata imbrattata con uno scritta che accusa lo statista inglese di essere stato un razzista, il che è noto è comprovato: Churchill definiva ’bestie’ gli indiani e diceva che gli espropri dei Nativi americani e degli aborigeni australiani erano giustificati dalla necessità del trionfo della razza bianca; e fece anche di peggio, come quando durante la Seconda guerra mondale non permise alle derrate alimentari di raggiungere il Bengala, sotto il controllo britannico, affetto da una grave carestia, preferendo stornarle verso i suoi compatrioti: un’azione che portò alla morte di quattro milioni di persone.
Eppure per gli inglesi Winston Churchill significa la vittoria contro il nazifascismo: ecco che, dinanzi all’assenza di una memoria condivisa e al fenomeno per cui l’eroe secondo alcuni è un aguzzino secondo altri, la rabbia iconoclasta si propone come una risposta antropologicamente pregnante.
L’ha benissimo spiegato, a proposito di altre iconoclastie, David Freedberg nel suo apprezzatissimo Il potere delle immagini. Nel caso di Leopoldo II la storia è forse meno nota. Nel 1876, il re belga organizzò l’Associazione Internazionale Africana con la collaborazione dei principali esploratori sul continente e il sostegno di diversi governi europei per la promozione dell’esplorazione e della colonizzazione dell’Africa. Dopo che Henry Morton Stanley aveva esplorato la regione in un viaggio che si concluse nel 1878, Leopoldo corteggiò l’esploratore e lo assunse per sostenere i suoi interessi nella regione e, dal momento che il governo belga mostrava scarso interesse per l’impresa, il sovrano decise di portare avanti la questione per conto proprio.
La rivalità europea in Africa centrale condusse presto però a tensioni diplomatiche, in particolare per quanto riguardava il bacino del fiume Congo che nessuna potenza europea aveva ancora rivendicato. Nel novembre 1884 Otto von Bismarck convocò a Berlino una conferenza di 14 nazioni per trovare una soluzione pacifica alla crisi congolese. Nel corso di essa, pur senza formale approvazione delle rivendicazioni territoriali delle potenze europee in Africa centrale, ci si accordò su una serie di regole per garantire una pacifica spartizione dell’area. Esse riconoscevano il bacino del Congo come ’zona di libero scambio’ (un eufemismo splendido!). Leopoldo II uscì dai lavori della dalla Conferenza con una grande quota di territorio a lui assegnata come ’Stato libero del Congo, organizzato come un’impresa corporativa privata gestita direttamente da lui attraverso un ’libero sodalizio’, l’Association Internationale Africaine, appunto.
L’entità definita ’Stato libero’, comprendente l’intera area dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, sussisté dal 1885 al 1908: solo allora, alla morte di Leopoldo, il governo belga procedette senza entusiasmo a un’annessione (molti i voti contrari in Parlamento). Sotto l’amministrazione di Leopoldo II, lo ’Stato libero del Congo’ era stato un disastro umanitario, un’autentica infame sciagura.
La mancanza di dati precisi rende difficile quantificare il numero di morti causate dallo spietato sfruttamento e dalla mancanza di immunità a nuove malattie introdotte dal contatto con i coloni europei: come la pandemia influenzale del 1889-90, che causò milioni di morti anche nel continente europeo tra cui il principe Baldovino del Belgio. La Force Publique, esercito privato sotto il comando di Leopoldo, terrorizzava gli indigeni per farli lavorare come manodopera forzata per l’estrazione delle risorse. Il mancato rispetto delle quote di raccolta della gomma era punibile con la morte. Le punizioni corporali, comprese crudeli mutilazioni, erano ordinarie.
I miliziani della Force Publique erano tenuti a fornire una mano delle loro vittime come prova che ’giustizia era stata fatta’. Intere ceste di mani mozzate erano poste ai piedi dei comandanti; a volte i soldati ne tagliavano a prescindere dalle quote di gomma, per poter accelerare il congedo dal servizio militare. Nei raid punitivi contro i villaggi uomini, donne e bambini venivano impiccati e appesi alle palizzate.
Il trattamento riservato agli indigeni, insieme alle epidemie, causò nel Congo di Leopoldo II una crisi demografica gravissima; anche se, come detto, le stime di morti variano, si parla di cifre che vanno tra i dieci e i venti milioni. Se tutti i regimi coloniali hanno accumulato una quota notevole di quelli che ormai definiamo ’crimini contro l’umanità’, e che nella pratica significano massacri impuniti di popolazioni locali, il caso di Leopoldo II è particolarmente efferato perché il Congo, prima del 1908, era una sua proprietà personale e le leggi provenivano direttamente da lui: da un sovrano costituzionale, cattolico e liberale.
Abbattere le statue dei responsabili di tali infamie non cambia certo il passato né risarcisce le vittime: semmai, chissà, forme più pesanti di damnatio memoriae sarebbero opportune soprattutto nei confronti di figuri che sino ad ieri venivano onorati come eroi civilizzatori. Il vero problema non è comunque l’iconoclastia quanto semmai il fatto che di questi crimini non si legga sui libri di scuola, che si continui a considerarli ’minori’ rispetto ad altri.
Forse gli iconoclasti di oggi segnalano che finalmente è arrivato il momento di parlarne. San Giovanni Paolo II aveva fatto in merito un gesto esemplare e decisivo, quando aveva chiesto al genere umano perdono per i delitti dei cattolici nella storia. Ma quella scelta implicava anche un severo mònito: s’invitava con essa altre Chiese e religioni, altre associazioni, altri sistemi sociali a fare altrettanto. Molti risposero riduttivamente, quasi insoddisfatti: ’era ora’ che la Chiesa di Roma riconoscesse i suoi crimini. Il fatto era però che altri non erano stati da meno e molti erano stati da più: e non bastava certo l’alibi dell’unanime condanna dei delitti di Hitler e di Stalin. Papa Francesco, come gesuita argentino, sa bene che la Compagnia, nel Settecento, venne disciolta soprattutto in quanto alcuni governi europei protestarono contro la sua azione in favore degli indios dell’America latina contro le razzìe e i lavori forzati loro imposti dagli schiavisti.
E non parliamo del genocidio dei native Americans che fa parte integrante della storia della costruzione della ’nazione americana’ statunitense. Troppo comodo sarebbe, anche nelle scuole, continuar a condannare genericamente il colonialismo senza conoscerlo e senza studiarlo, fingendo di non sapere che esso fu parte della marcia verso il ’progresso’ e l’arricchimento dell’Europa liberista. Finché non faremo radicalmente e sistematicamente tutto ciò, il lavoro di ’purificazione della memoria’ indirizzato a stigmatizzare i crimini nazisti e stalinisti sarà un esercizio ipocritamente lasciato a metà strada. Non esistono crimini ’condannabili’ e crimini ’giustificabili’: i crimini sono crimini e basta.
Ed è fino dalla scuola che bisogna imparare a riconoscerli, anche con una diversa lettura del passato. E ciò, attenzione, non è ’revisionismo’. È puramente e semplicemente revisione alla luce di criteri di approfondimento e di lucidità. Perché se la storia non è revisione - vale a dire esame e verifica continua del passato alla, luce del presente e in funzione del futuro -, allora non è nulla.
Giornata dell’Ambiente.
Il Papa: non possiamo fingerci sani in un mondo malato
La lettera di Francesco al presidente della Colombia, che ospita "virtualmente" la Giornata dell’Ambiente 2020: la casa comune va tutelata insieme
di Redazione Internet (Avvenire, venerdì 5 giugno 2020)
"Invertire la rotta", per un mondo "più vivibile" e una "società più umana". "Tutto dipende da noi, se lo vogliamo davvero". Lo scrive papa Francesco in una lettera, in spagnolo, al presidente della Repubblica di Colombia, Ivan Duque Marquez, in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente che ricorre oggi e che quest’anno è ospitata virtualmente dalla Colombia sul tema della biodiversità.
IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA
"Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo malato. Le ferite causate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi", denuncia il Papa. La cura degli ecosistemi, avverte, "ha bisogno di una visione del futuro. Il nostro atteggiamento verso il presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo tacere davanti al clamore quando verifichiamo i costi molto elevati della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema".
Da qui il monito di Francesco: "Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti ai segni di un pianeta che viene saccheggiato e violato, per l’avidità di profitto e in nome, molte volte, del progresso. È dentro di noi la possibilità di invertire la marcia e scommettere su un mondo migliore e più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi se lo vogliamo davvero".
Bergoglio ricorda il quinto anniversario dell’enciclica Laudato si’ appena celebrato e invita "a partecipare all’anno speciale" per il Creato. "E così, tutti insieme, per diventare più consapevoli delle cure e della protezione della nostra casa comune, così come dei nostri fratelli e sorelle più fragili e scartati nella società".
Infine Francesco incoraggia il presidente colombiano Marquez a deliberare "sempre a favore della costruzione di un mondo più vivibile e di una società più umana, in cui tutti abbiamo un posto e in cui nessuno sia lasciato indietro".
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI COLOMBIA IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELL’AMBIENTE
A Sua Eccellenza Signor Iván Duque Márquez,
Presidente della Repubblica di Colombia
Signore Presidente,
Sono lieto di rivolgermi a lei, a tutti i membri organizzatori e ai partecipanti della Giornata Mondiale dell’Ambiente, che quest’anno si sarebbe dovuta celebrare in modo presenziale a Bogotá, ma che a causa della pandemia covid-19 si terrà in forma virtuale. È una sfida che ci ricorda che dinanzi all’avversità si aprono sempre nuovi cammini per stare uniti come grande famiglia umana.
La protezione dell’ambiente e il rispetto della “biodiversità” del pianeta sono temi che ci riguardano tutti. Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo che è malato. Le ferite provocate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi. La cura degli ecosistemi ha bisogno di uno sguardo di futuro, che non si limiti solo all’immediato, cercando un guadagno rapido e facile; uno sguardo che sia carico di vita e che cerchi la preservazione a beneficio di tutti.
Il nostro atteggiamento dinanzi al presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo rimanere muti di fronte al clamore quando comproviamo gli altissimi costi della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema. Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti dinanzi ai segni di un pianeta che si vede saccheggiato e violentato, per la brama di guadagno e in nome - molto spesso - del progresso. Abbiamo la possibilità d’invertire la marcia e puntare su un mondo migliore, più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi; se lo vogliamo veramente.
Abbiamo da poco celebrato il quinto anniversario della Lettera enciclica Laudato si’, che richiama l’attenzione sul grido che ci lancia la madre terra. Invito anche voi a essere partecipi dell’anno speciale che ho annunciato per riflettere alla luce di quel documento. E così, tutti insieme, prendere maggiormente coscienza della cura e della protezione della nostra Casa comune, come pure dei nostri fratelli e sorelle più fragili e scartati dalla società.
Infine, vi incoraggio in questo compito che avete intrapreso, affinché le vostre decisioni e conclusioni siano sempre a favore della costruzione di un mondo sempre più abitabile e di una società più umana, dove ci sia posto per tutti e dove nessuno sia di troppo.
E, per favore, vi chiedo di pregare per me. Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa si prenda cura di voi.
Cordialmente,
Francesco
Vaticano, 5 giugno 2020
*L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLX, n. 128, 06/06/2020
La pandemia impone una verifica dei doveri e dei poteri
Fragilità dell’Antropocene. «Niente di questo mondo ci risulta indifferente». È un passo nell’enciclica «Laudato si’» ed è anche il titolo di un libro straordinario (in uscita nelle Edizioni Interno4)
di Marco Revelli (il manifesto, 26.05.2020)
La pandemia ci obbliga a un ripensamento globale e radicale. Perché ci ha toccato ferocemente «nell’osso e nella pelle», dice il Libro di Giobbe, richiede un’impietosa verifica dei doveri e dei poteri.
Tanto più ora quando, almeno qui in Italia e in Europa, par di vedere la fine del tunnel. E la verifica, per essere efficace, non potrà che avvenire all’insegna di un principio semplice e impegnativo: «Niente di questo mondo ci risulta indifferente».
È un passo nell’enciclica Laudato si’ (che compie esattamente in questi giorni cinque anni), collocato proprio all’inizio, nel secondo paragrafo dove si dà voce al pianto della terra devastata dall’uomo ammonendo: «Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora».
Ed è anche il titolo di uno straordinario libro (in uscita nelle Edizioni Interno4) dalla cui copertina un babbuino ci guarda perplesso sotto il motto «La normalità era il problema».
Libro «straordinario» - cioè che ci solleva al di sopra dell’ordinarietà - per due buone ragioni.
La prima riguarda il modo con cui è nato, è stato pensato e scritto: in tanti, a più e più mani, da decine di studiosi, competenti, militanti delle più varie associazioni, credenti e laici, facenti capo all’associazione «Laudato si’», che per mesi si sono riuniti, hanno discusso, verificato e confrontato le proprie idee, spesso discordanti, le hanno rielaborate, rese compatibili, ricondotte all’unitarietà di un discorso articolato e condiviso, come si dovrebbe fare sempre, tra chi partecipa del medesimo orizzonte di valori e soprattutto avverte l’urgenza del tempo.
LA SECONDA RAGIONE riguarda il contenuto: finalmente un approccio davvero «totale» ai mali che ci affliggono e alle necessarie soluzioni.
Lo stato del pianeta visto «come un tutto», in cui devastazione ambientale e devastazione sociale, catastrofe ecologica e diseguaglianza economica, non solo s’intrecciano ma appaiono aspetti dello stesso problema: disprezzo per la terra e disprezzo per gli uomini, persino disprezzo per sé e il proprio futuro sono il prodotto della stessa radice e dello stesso errore.
Un pensiero sbagliato, che ha dato origine a un paradigma socio-economico distorto, e a uno stile di vita insensato.
Il libro era stato elaborato prima, ma lo tzunami del coronavirus che ha segnato i tre mesi che hanno preceduto la pubblicazione ne ha prodotto la «cerchiatura del cerchio», confermandone la visione e rafforzandone il messaggio.
Come scrive Daniela Padoan, la curatrice, nel saggio Al tempo del contagio, che apre il volume: «Davanti alla pandemia, il titanismo della nostra cultura è costretto a imparare la lezione dell’essere in balia», spiegando come l’esperienza che stiamo vivendo - nel suo carattere totale e globale - sia in qualche modo «una figurazione» delle argomentazioni contenute nel testo.
Da essa abbiamo imparato, nel dolore, la fragilità strutturale dell’Antropocene, di questo mondo costruito a immagine e somiglianza del suo ospite umano.
Abbiamo avuto modo di vedere, messa a nudo, «la società spettrale del management totalitario», per dirla col filosofo canadese Alain Deneault citato dalla curatrice.
Di capire (per chi volesse capire) quanto fallace, e ingannatrice, sia quella razionalità strumentale che avevamo elevato a statuto dell’universo - garanzia della sua perfezione - e che invece si rivela mortifera, incapace di previsione e di prevenzione, foriera di disordine e caduta, pericolosa per il vivente.
E quanta hybris - quanta arroganza, nella nostra sfida cieca al cielo - ci fosse nel culto del fare, e nel mito di un’efficienza che nell’esaltare un solo aspetto dell’esistenza (quello economico e tecnico) sacrifica tutto il resto. Ovvero il tutto.
NEL LIBRO, dalla diagnosi dei mali emerge un programma, realistico, di risposta: sul Clima, alla «radiografia della catastrofe» si affianca il principio per cui «la giustizia climatica è giustizia sociale».
Sulla «Depredazione ambientale» la necessità di una lotta contro l’«agricoltura 4.0» che minaccia «i diritti umani, sociali e della natura».
Sulle migrazioni all’affermazione secondo cui «Migrare è un diritto» segue il dovere di denuncia della «morte in mare» come «vera emergenza».
Alla descrizione delle dimensioni della povertà s’intreccia la denuncia dell’«economia dello scarto» come anima del paradigma egemonico contemporaneo, drammaticamente visibile anche nella gestione dell’emergenza sanitaria.
Su «Finanza e debito» la definizione, forte, del «Capitale finanziario globale come forma di criminalità organizzata» si affianca alla valorizzazione dell’«economia del dono».
E poi il Lavoro: dall’affermazione perentoria che «non c’è libertà nel vendere la propria forza-lavoro» alla messa a nudo delle «molteplici solitudini delle lavoratrici e del lavoratori».
E poi l’Ecofemminismo: «Liberazione delle donne, della natura e del vivente». La Cultura del limite. E tanto altro.
Un vademecum perfetto per chi voglia inoltrarsi nel territorio nuovo che il virus ci lascia, nel lutto.
CON UNA CONSAPEVOLEZZA forte: che eravamo già malati prima che il Covid-19 arrivasse. Molto prima.
«Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato», ha detto papa Francesco in quella Piazza San Pietro metafisica e irreale, deserta e lucida di pioggia, il 27 marzo.
Dovremo pure ascoltare, oggi, quelle tante voci, e altre che si sono aggiunte, se non vogliamo ritrovarci infine a brancolare nel buio alla fine del tunnel.
CIELO PURO E LIBERO MARE.... *
L’anima e la cetra /9.
L’altro nome della fede
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 23 maggio 2020)
«Il cuore degli ottenebrati parla così: "Dio non c’è". Il Signore dal cielo si affaccia e si china sui figli dell’uomo per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio» (Salmo 14, 1-2). Un inizio originale per un salmo unico nel salterio. Un inizio speciale perché speciale è la posta in gioco. È infatti la sola volta che nella Bibbia troviamo scritto: Dio non c’è. Anche il mondo religioso antico conosceva il dubbio che gli dèi fossero una invenzione dell’uomo. L’uomo biblico è più vicino a noi di quanto pensiamo e scriviamo. Anche la domanda sull’esistenza di Dio tra le domande legittime della Bibbia.
Il Salmo 14 fu scritto con ogni probabilità durante l’esilio babilonese. I babilonesi non erano atei. Ci hanno lasciato raccolte di preghiere bellissime, avevano in grande considerazione i loro dèi che onoravano con processioni, templi e statue spettacolari. Quindi i babilonesi non dicevano esplicitamente "Dio non c’è", tantomeno lo dicevano gli ebrei. Quella del salmista era allora un’accusa alla falsa religione? Era una critica idolatrica? No. La forma della negazione di Dio di cui parla questo salmo non è quella idolatrica. Quale allora?
Ce lo rivelano due elementi, uno linguistico e l’altro teologico. La parola ebraica che il salmo 14 usa per dire «Dio non c’è» è Elohim, che nella Bibbia è il nome generico della divinità (gli dèi). Se il salmista avesse voluto criticare l’idolatria, il culto di dèi «falsi e bugiardi», il nome di Dio usato doveva essere YHWH, il nome proprio del Dio biblico. Anche perché YHWH è il nome di Dio più usato nel salterio e quasi esclusivamente nel primo libro (salmi 1-41). Usare qui Elohim significa allora voler dare a quella negazione - Dio non c’è - un valore che va oltre la critica idolatrica. In quel «Elohim non c’è» si nasconde allora qualcosa di universale e di tremendamente importante per ogni religione (e per ogni ateismo). Di quale "ateismo" parla questo salmo?
Lo scopriamo guardando il secondo elemento: «Sono distorti tutti, è un reciproco guastarsi: non c’è nessuno che agisca bene, neppure uno. Si divorano il mio popolo come mangiassero un tozzo di pane... Voi deludete la speranza del miserabile» (3-4,6). Qui ritroviamo la tesi profetica che la negazione di Dio si rivela nella negazione dell’uomo, soprattutto dei poveri. «Dio non c’è» non va dunque letta come una affermazione atea del tipo di quelle che abbiamo iniziato a conoscere in Europa con la modernità, ma come una conseguenza di un’idea centrale nella Bibbia: Dio c’è se c’è l’uomo - è l’uomo l’altro nome della fede biblica. È il «divorare il popolo come un tozzo di pane» che dice questo tipo di ateismo. Non è faccenda filosofica né intellettuale, è molto di più.
Certamente la vita sociale dei babilonesi dovette esercitare un grande effetto sugli ebrei deportati. Quelle banche che prestavano a interesse e che generavano debitori schiavi, la corruzione del potere in quel grande impero, impressionarono molto gli ebrei e i loro profeti. Ezechiele, profeta in esilio, arrivò persino a formulare una versione del peccato dell’Adam nell’Eden come peccato economico: «Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari» (Ez 28,18). Ma l’ateismo pratico iscritto nelle prassi socio-economiche era qualcosa di ancora più generale di quanto avveniva in Babilonia. Lo ritroviamo già in Isaia, prima dell’esilio: «Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me... Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1, 13-17). Isaia accusava i suoi concittadini non i babilonesi; stigmatizzava gli assidui frequentatori del tempio e i praticanti che offrivano i sacrifici mentre calpestavano il diritto e la giustizia.
Il salmista vede allora l’assenza di Dio nell’assenza dell’uomo. Sono questi i passaggi da cui si comprende che la teologia biblica è immediatamente umanesimo: il Dio biblico si onora onorando gli uomini, le donne, i poveri. Ritorna ancora l’antropologia della Genesi: siamo immagine di Dio anche perché quando qualcuno - un impero o una cultura - non vede più l’uomo non vede più Dio, anche quando continua a pregarlo e lodarlo nei templi. È già ateo, anche se non lo sa ancora. Ci sono molti modi per dire "Elohim non c’è", "Elohim è nulla" (nella traduzione di Ceronetti). Quello che sta più a cuore alla Bibbia è chiaro: "l’uomo è nulla", "il povero è nulla". E che sia nulla lo dice l’unico linguaggio che davvero conta: quello del comportamento e dell’azione. Il mondo è stato sempre popolato di uomini religiosi che onoravano Dio e disonoravano gli uomini, che apprezzavano gli dèi e disprezzavano i propri simili. Non basta essere religiosi per non essere atei. E se il salmista ha scelto Elohim e non YHWH per parlarci di questo tipico ateismo, è anche per dirci che questa malattia di <+CORSIVO50>ateismo devoto<+TONDO50> attraversa tutte le religioni, comprese quelle bibliche. Gli uomini dicono "Dio non c’è" con il loro modo di trattarsi a vicenda e di trattare i poveri. La Bibbia non è un trattato di etica, ma dall’etica degli uomini si capisce se nel popolo c’è o non c’è la fede.
Il salmo chiama «stolto», «ottenebrato», «stupido», chi dice «Dio non c’è». Quale è la stoltezza di questo ateismo? Innanzitutto è un ateismo collettivo, una malattia che ha infettato l’intero popolo: «Non c’è nessuno che agisca bene, neppure uno». Questa stoltezza che porta a negare Dio non è dunque faccenda che riguarda qualche singolo intellettuale o filosofo scettico; quello denunciato dal salmista è un ateismo popolare: non è rimasto neppure un credente. Siamo in una situazione simile a quella di Sodoma e Gomorra, alla Gerusalemme dove Geremia non trovò neanche un giusto (Ger 5,1). Peggiore della terra osservata dal Satan in ricognizione che vi trovò almeno un uomo giusto: Giobbe (cap.1); un mondo più corrotto di quello prima del diluvio, dove almeno vi era rimasto un giusto: Noè.
È bellissima la radicalità della Bibbia - tutti, neppure uno. Tutti stolti. Lo siamo tutti quando dentro istituzioni, comunità, movimenti, imprese, chiese, si annida e si diffonde la corruzione. Precipitiamo in "un reciproco guastarsi". Il (raro) verbo ebraico usato qui, ’alàh, esprime il contagio reciproco, la mutua contaminazione. Anche se molti sono asintomatici la corruzione raggiunge tutti. Per uscire da queste situazioni ci vorrebbe un Noè, un Geremia, un Abramo, Maria. Ma non sempre ci sono. Quasi mai. Perché quell’«uno solo» per non essere stolto dovrebbe denunciare l’ingiustizia, resistere a lungo nella sua denuncia, sopportare le persecuzioni, e se non ottiene nessun risultato dimettersi, licenziarsi, uscire, dissociarsi. Ma queste azioni sono molto costose e quindi molto rare sulla terra. Anche in queste dinamiche di "guastarci a vicenda" siamo tutti figli di Adamo, siamo solidali nella corruzione, e anche quando i sintomi non sono evidenti siamo quantomeno complici e quindi stolti.
La parola che il salmo usa per dire "stolto" è nabal. Nabal era il nome del marito di Abigail. Nell’episodio del primo Libro di Samuele, Nabal non capì come doveva comportarsi con Davide. Non rispose ai suoi doni con altri doni, non "riconobbe" Davide. Stava per scatenare una guerra se non fosse intervenuta Abigail, che fece tutto quanto non aveva fatto suo marito: fu grata, riconobbe Davide, lo riempì di doni, fu generosa, e seppe onorare il suo ospite: «Non faccia caso il mio signore a quell’uomo cattivo che è Nabal, perché egli è come il suo nome: stolto si chiama e stoltezza è in lui» (25, 25). Abigail ricostruì il rapporto spezzato da suo marito, e con il suo dono ottenne il per-dono di Davide, che riconobbe in quelle relazioni curate la presenza di Dio: «Benedetto il Signore, Dio d’Israele, che ti ha mandato oggi incontro a me» (32). Abigail fu l’anti-Nabal, disse "Dio c’è" dicendo "l’uomo c’è", tramutando la guerra in pace. Non c’è modo migliore per dire-bene Dio, per bene-dire Elohim - le donne lo sanno bene, le donne lo sanno meglio.
Il Salmo definisce il "saggio" (maskil) non trovato da Dio sulla terra uno "che cerca Dio". L’opposto dello stolto è dunque il cercatore di Dio. Ma il primo cercatore che troviamo nel salmo è Dio-Elohim, che si affaccia dal suo balcone dei cieli per cercare almeno un uomo giusto. Dio cerca per trovare qualcuno che lo cerchi. La fede è un incontro di ricerche, una reciprocità di desideri, che diventa rapporto ternario: Dio cerca un uomo capace di cercarlo cercandolo nell’uomo - «...e il secondo comandamento è simile al primo». Ma allora ci può essere ancora un altro senso di questo Salmo 14: se il saggio è chi cerca Dio, allora lo stolto dice "Dio non c’è" perché, semplicemente, non lo cerca: e se l’ateismo stolto fosse quello di chi ha smesso di cercare?
Un giorno, un altro folle uomo «cercava Dio». Non lo trovò e annunciò a tutti che era morto. Forse perché lo aveva cercato nel «mercato», dove «si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio» (F. Nietzsche, La gaia scienza). Il mondo dove abbiamo trovato morto quel Dio che stavamo cercando è preferibile a quel mondo corrotto dove nessuno può dire "Dio c’è". E se lo dicesse direbbe qualcosa di più falso del "Dio non c’è" detto, in quella stessa situazione, dallo stolto. C’è un ateismo meno stolto di una fede proclamata in mezzo all’ingiustizia generale. Se il Dio cercato è morto possiamo sempre sperare e pregare che risorga.
Quando il «Figlio dell’uomo tornerà» non andrà nei templi e nelle chiese per vedere se «la fede è ancora sulla terra» (Lc 12,7-8). Guarderà ai nostri rapporti sociali: guarderà a come ci vorremo bene o male, guarderà le nostre banche, la nostra evasione fiscale, i nostri ospedali, gli stipendi ai braccianti e quelli ai manager. E se ci sarà ancora la fede la troverà soltanto dentro la giustizia e la verità dei nostri rapporti; se ci sarà ancora la potrà riconoscere da come risponderemo alla speranza del miserabile.
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Sul tema nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il Papa prega per gli addetti alle pulizie.
Solo in Dio Padre siamo fratelli
Nella Messa a Santa Marta, Francesco pensa a quanti svolgono servizi di pulizie nelle case, negli ospedali, nelle strade, un lavoro nascosto e necessario per sopravvivere. Nell’omelia ha affermato che nella società ci sono guerre, contrasti e insulti perché manca il Padre: lo Spirito Santo insegna l’accesso al Padre che fa di noi dei fratelli, un’unica famiglia, e ci dona la mitezza dei figli di Dio
Francesco ha presieduto la Messa a Casa Santa Marta (VIDEO INTEGRALE) nella sesta Domenica di Pasqua. Nell’introduzione ha rivolto il pensiero agli addetti alle pulizie:
Oggi la nostra preghiera è per tante persone che puliscono gli ospedali, le strade, che svuotano i bidoni della spazzatura, che vanno per le case a portare via la spazzatura: un lavoro che nessuno vede, ma è un lavoro che è necessario per sopravvivere. Che il Signore li benedica, li aiuti.
Lo Spirito Santo ci insegna la mitezza dei figli di Dio
Nel congedo dai discepoli (cfr Gv 14,15-21), Gesù gli dà a loro tranquillità, gli dà pace, con una promessa: «Non vi lascerò orfani»( v. 18) . Li difende da quel dolore, da quel senso doloroso, dell’orfanezza. Oggi nel mondo c’è un grande sentimento di orfanezza: tanti hanno tante cose, ma manca il Padre. E nella storia dell’umanità questo si ripete: quando manca il Padre, manca qualcosa e sempre c’è la voglia di incontrare, di ritrovare il Padre, anche nei miti antichi.
Pensiamo ai miti di Edipo, di Telemaco, tanti altri: sempre cercare il Padre che manca. Oggi possiamo dire che viviamo in una società dove manca il Padre, un senso di orfanezza che tocca proprio l’appartenenza e la fraternità. Per questo Gesù promette: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito» (v. 16). “Io me ne vado - dice Gesù - ma arriverà un altro che vi insegnerà l’accesso al Padre. Vi ricorderà l’accesso al Padre”. Lo Spirito Santo non viene per “farsi i suoi clienti”; viene per segnalare l’accesso al Padre, per ricordare l’accesso al Padre, quello che Gesù ha aperto, quello che Gesù ha fatto vedere. Non esiste una spiritualità del Figlio solo, dello Spirito Santo solo: il centro è il Padre. Il Figlio è l’inviato dal Padre e torna al Padre. Lo Spirito Santo è inviato dal Padre per ricordare e insegnare l’accesso al Padre.
Soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi. Sempre le guerre sia le piccole guerre sia le grandi guerre, sempre hanno una dimensione di orfanezza: manca il Padre che faccia la pace. Per questo, quando Pietro alla prima comunità dice che rispondano alla gente del perché sono cristiani (cfr 1Pt 3,15-18), dice: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza» (v. 16), cioè la mitezza che dà lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo ci insegna questa mitezza, questa dolcezza dei figli del Padre. Lo Spirito Santo non ci insegna a insultare. E una delle conseguenze del senso di orfanezza è l’insulto, le guerre, perché se non c’è il Padre non ci sono i fratelli, si perde la fratellanza. Sono - questa dolcezza, rispetto, mitezza -, sono atteggiamenti di appartenenza, di appartenenza a una famiglia che è sicura di avere un Padre.
«Io pregherò il Padre ed egli vi invierà un altro Paràclito» (Gv14,16) che vi ricorderà l’accesso al Padre, vi ricorderà che noi abbiamo un Padre che è il centro di tutto, l’origine di tutto, l’unità di tutti, la salvezza di tutti perché ha inviato il suo Figlio a salvarci tutti. E adesso invia lo Spirto Santo a ricordarci l’accesso a Lui, al Padre e da questa paternità, questo atteggiamento fraterno di mitezza, di dolcezza, di pace.
Chiediamo allo Spirito Santo che ci ricordi sempre, sempre, questo accesso al Padre, che ci ricordi che noi abbiamo un Padre. E a questa civiltà, che ha un grande senso di orfanezza, dia la grazia di ritrovare il Padre, il Padre che dà senso a tutta la vita e fa che gli uomini siano una famiglia.
* Fonte: Vatican News, 17 maggio 2020 (ripresa parziale).
L’anima e la cetra/7.
Non è bene che Dio sia solo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Alcune persone ricordano per tutta la vita il giorno in cui hanno visto per la prima volta il cielo stellato. Lo avevano "visto" altre volte, ma in una benedetta notte è successo qualcosa di speciale e lo hanno visto veramente. Hanno fatto l’esperienza metafisica dell’immensità e, simultaneamente, hanno avvertito tutta la propria piccolezza e fragilità. Si sono, ci siamo, visti infinitamente piccoli. E lì, sotto il firmamento, sono fiorite domande diverse, quelle che quando arrivano segnano una tappa nuova e decisiva della vita: dove sono e cosa sono i miei affari? e i miei problemi? cosa è la mia vita? cosa i miei amori, i miei dolori? E poi è arrivata la domanda più difficile: e io, che sono? È il giorno tremendo e bellissimo; per alcuni segna l’inizio della domanda religiosa, per altri la fine della prima fede e l’inizio dell’ateismo - per poi scoprire, ma solo alla fine, che le due esperienze erano simili, che magari c’era molto mistero nella risposta atea e molta illusione in quella religiosa, ma lì non potevamo saperlo. Non tutti fanno questa esperienza, ma se la desideriamo possiamo provare a uscire di casa in queste notti fatte più calme e nitide dai mesi sabbatici, cercare le stelle, fare silenzio, attendere le domande - che, mi hanno detto, qualche volta arrivano.
Per qualcuno, poi, c’è stato un altro giorno decisivo. Quando quell’infinitamente piccolo ha fatto l’esperienza che quell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» si interessava di lui, di lei, lo cercava, gli parlava, la incontrava. Giorno altrettanto decisivo, perché non basta l’esperienza vera del giorno delle stelle perché inizi la vita religiosa. Ci sono molte persone che sentono veramente vibrare lo spirito di Dio nella natura, odono la sua voce risuonare nelle notti stellate e in molti altri luoghi, ma non si sono mai sentite chiamare per nome da quella stessa voce. Come ci sono altri che hanno fatto un autentico incontro personale con la voce dentro, ma che poi non l’hanno mai sentita vivere nell’universo intero, che non si sono mai commossi riconoscendola nell’immensità del cosmo. È l’incontro tra questi due giorni che segna l’inizio della vita spirituale matura, quando l’immensità che ci svela la nostra infinita piccolezza diventa un tu più intimo del nostro nome.
L’autore del Salmo 8 ha fatto, credo, l’esperienza di entrambi questi giorni. Ha riconosciuto la presenza di YHWH nel firmamento infinitamente grande e si è sentito infinitamente piccolo; e poi ha intuito che la voce che gli parlava tra le galassie era la stessa voce che gli parlava nel cuore: «Come splende, YHWH, il tuo nome su tutta la terra: la bellezza tua voglio cantare, essa riempie i cieli immensi... Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, io mi chiedo davanti al creato: e l’uomo che cos’è? perché di lui ti ricordi? Che cosa è mai questo figlio d’uomo perché tu ne abbia una tale cura?» (8, 2-5). Versi meravigliosi. Dovremmo avere il cuore e le stigmate di Francesco per cantarli.
Assistiamo in presa diretta a una esperienza dell’assoluto. Quell’antico poeta ha avvertito l’immensità e la piccolezza, non si è sentito schiacciato, e ha iniziato un nuovo canto. Il canto dell’umiltà (humilitas) vera, perché l’humus ci dice chi siamo veramente solo se riusciamo per un attimo a guardarlo da distanza siderale; l’adamah (terra) svela l’Adam solo se vista dall’alto. È questa la gioia per la verità finalmente rivelatasi, per una nuova ignoranza che non umilia. L’umiltà è l’opposto dell’umiliazione. E si sperimenta una nuova infanzia, una sconfinata giovinezza: «Da fanciullo e lattante balbetto» (8,3).
Al centro del salmo una domanda: cosa è il figlio d’uomo (Ben Adam: espressione cara ai profeti e ai vangeli), di fronte a tanta immensità?! Splendida è la risposta: nonostante la sua insignificanza in rapporto alle stelle e la sua piccolezza nel tempo e nello spazio, tu ti prendi cura dell’uomo, tu ti ricordi di lui. Come a dire: se tu tenessi conto, o Dio, di quello che l’Adam è oggettivamente in rapporto all’universo sterminato, non dovresti occupartene; e invece ti prendi cura di lui, di lei. E quindi la domanda necessaria: ma questa voce che mi parla dentro è proprio la stessa che ha parlato tra le galassie? La risposta del primo giorno può essere soltanto un sì, altrimenti il cammino non incomincia! Col passare del tempo la risposta diventa: forse. Poi arrivano i lunghi anni quando la risposta è: no. Infine ritorna il sì, ma - se e quando ritorna - è un sì detto con un’altra profondità e un’altra umiltà. E qui nasce una nuova meraviglia, trabocca la gratitudine, riaffiora la preghiera degli ultimi tempi.
Sta in questa tensione tra le stelle e il cuore, abitati entrambi dalla stessa presenza, la dignità dell’Adam, dei suoi figli e delle sue figlie, la sua gloria e il suo onore. Ci si perde nelle varie ideologie quando si perde uno di questi due poli. Dobbiamo leggere il Salmo 8 in parallelo con i primi capitoli della Genesi: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). Il versetto della Bibbia che, forse, amo di più. L’Adam è posto da Elohim al centro del giardino della creazione perché ne fosse custode e responsabile. Il Salmo ce lo ridice: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Salmo 8,7). L’Adam diventa il primo interlocutore di Dio, perché con la sua reciprocità potesse accompagnare anche la solitudine di Dio - «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) va letto insieme all’altra frase non scritta nella Bibbia ma altrettanto presente: non è bene che Dio sia solo.
Non mi stupirebbe se l’autore di quell’antico salmo mentre cantava avesse sottomano questi versi della Genesi. Forse stava meditando e contemplando "cosa è l’uomo" quando, ad un certo punto, non ha più retto l’emozione e ha composto uno dei versi più belli sull’uomo mai scritti da tutta la letteratura religiosa e laica. Dopo averlo visto sub specie aeternitatis, dopo essere andato con l’anima sulla luna e averlo perso di vista tanta era la sua piccolezza, tornato a quelle parole della Genesi ha rivisto un altro uomo. E ha pronunciato questo capolavoro, che va letto dopo qualche attimo di silenzio: -«Eppure l’hai fatto poco meno di Elohim, di gloria e di onore lo hai coronato» (8,6). Eppure: a volte la Bibbia sa racchiudere in una umile congiunzione tutta la sua profezia. Siamo effimeri, siamo come l’erba ... eppure... «Una voce dice: "Grida", e io rispondo: "Che cosa dovrò gridare?". Ogni uomo è come l’erba. Secca l’erba, il fiore appassisce ... Veramente il popolo è come l’erba» (Isaia 40,6-7).
Veramente ... eppure. Siamo stati pensati, cercati e amati tra un veramente e un eppure. Veramente effimeri come l’erba, veramente infinitamente piccoli, veramente infedeli e peccatori; eppure poco meno di Dio, eppure sua immagine e somiglianza, eppure amati, curati e attesi come figli.
Questa è l’immensa antropologia biblica. La letteratura antica conosceva la metafora dell’immagine di Dio applicata all’uomo. Ma era usata per il re, per il faraone. La Bibbia la usa per ciascuno di noi, per ogni uomo e per ogni donna, per te, per me. È l’Adam, ogni Adam, l’immagine e somiglianza di Elohim; e quindi lo siamo anche noi, tutti noi. È questa la magna carta di ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo e della donna, dei bambini, delle bambine, della dignità del creato. Il Salmo 8 è un inno a Dio e insieme un inno all’uomo. Esalta la persona dicendoci chi è quel Dio di cui egli è immagine, ed esalta Dio dicendoci chi sono l’uomo e la donna che lo riflettono. Perché se l’uno è immagine dell’altro, più l’Adam diventa bello più dice la bellezza del suo Creatore, e più lasciamo libero Dio di diventare migliore di noi, più abbelliamo noi stessi. Non capiamo l’antropologia biblica se usciamo dalla reciprocità intrinseca al simbolo dell’immagine.
Ma la bellezza e la forza di questo canto esplodono se immaginiamo il salmista cantare quel versetto 6 mentre leggeva anche i capitoli tre e quattro della Genesi: quelli della disobbedienza, della seduzione vincente del serpente, e poi Caino e il sangue di Abele, di cui il salmista sentiva ancora l’odore. È troppo semplice cantare la gloria e l’onore dell’uomo fermandosi al capitolo due. La sfida decisiva è riuscire a continuare il canto mentre i capitoli scorrono e si entra nelle pagine buie e buissime del no, quelle della rottura dell’armonia uomo-donna-creato-Dio, nelle pagine della cacciata da quel giardino meraviglioso, quelle della notte oscura del primo fratricidio della terra. E giunti lì, non smettere il canto. E poi continuarlo con l’urlo tremendo di Lamek l’uccisore di fanciulli, con la ribellione di Babele, con i peccati dei patriarchi, con le bugie e gli inganni di Giacobbe, con l’omicidio dei beniaminiti, fino all’omicidio di Davide, alle infedeltà di Salomone e di quasi tutti i re d’Israele. E non smettere mai di cantare: «Veramente ... Eppure lo hai fatto poco meno di un Dio».
Tutta la forza dell’antropologia biblica si sprigiona quando riusciamo a vincere il dolore e la vergogna e ripetiamo "veramente ... eppure" non solo di fronte al firmamento ma anche nelle carceri, nelle meschinità, nelle violenze, nei bassifondi di Calcutta, nelle via crucis che portano al Golgota. Non c’è condizione umana che non sia racchiusa tra quel veramente e quell’eppure, nessuno resta fuori. La Bibbia non ha avuto paura di narrarci i peccati e le bassezze dei suoi uomini perché credeva veramente all’immagine di Elohim. E ogni volta che nascondiamo nelle nostre storie le pagine più buie abbiamo smesso di credere che siamo immagine.
Caino ha cancellato la sua fraternità e i suoi figli continuano a cancellarla uccidendo ogni giorno Abele. Ma non ha potuto cancellare l’immagine - e se il "segno di Caino" fosse proprio l’immagine di Elohim? «O Dio, Signore nostro, come splende il tuo nome su tutta la terra!» (8,10).
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?! *
A cento anni dalla nascita.
Giovanni Paolo II. «Totus tuus»: una vita per amore
Il suo sguardo fisso in Cristo ci ha insegnato che tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa Il suo amore per Maria è un faro vitale, una strada maestra ...
di Gualtiero Bassetti (Avvenire, domenica 3 maggio 2020)
Il 27 ottobre 1986, Giovanni Paolo II - Papa da otto anni, sempre più amato e popolare - animò ad Assisi la Giornata di preghiera interreligiosa per la pace, rimasta nella storia. In quella come in molte altre occasioni, le telecamere di tutto il pianeta lo immortalarono come lo ricordiamo: intimamente, quasi dolorosamente raccolto, in dialogo profondissimo con Dio, la cui volontà non può che essere il bene e la pace di tutti. Pochi furono i testimoni di un altro momento, intenso e dolcissimo, che precedette lo storico incontro.
Il giorno prima, 26 ottobre, il Papa visitò Perugia, oggi mia diocesi. Incontrò tutte le fasce di popolazione, in particolare gli amati giovani. In un saluto a braccio, seppe fondere la bellezza del genio italiano e cristiano - l’arte di una piazza tra le più belle d’Italia - col prorompente entusiasmo dei giovani che lo stavano festeggiando.
«Mi piace stare qui, mi piace molto!», non poté trattenersi dall’esclamare. A Perugia trascorse la notte, in una struttura diocesana fuori porta voluta da un mio predecessore, il vescovo mantovano Giovanni Battista Rosa. Chi salutò il Papa al mattino, alla partenza, ricorda il suo sguardo limpido affacciarsi dalla terrazza sulla valle assisana, dove stava recandosi. Avvolse in una lunga occhiata sia la bellezza quasi mistica di quel panorama, sia la pace che ne emanava, chiedendo forse a Dio, col Salmo 19, di tradurla in tutte le lingue del mondo. Ma solo una fu la testimone del suo ultimo sguardo: la Vergine Maria, raffigurata, in una semplice statua, su una colonna al centro della terrazza.
Totus tuus. La dedica a Maria nel motto apostolico di Karol Wojtyla è tratta da una frase di san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Tuus totus ego sum, et omnia mea tua sunt».
Non è, come chiarì lo stesso pontefice, una semplice formula di devozione: si radica nel mistero della Santissima Trinità. Alla potenza teologica unisce una vigorosa efficacia. San Giovanni Paolo II era uomo di pensiero quanto di azione; era abituato così, sia dalla sua storia personale, sia da quella del suo popolo. Un’assonanza, una comune origine scritturale, si coglie nella mia cattedrale in un gonfalone votivo di scuola peruginesca, realizzato nella pestilenza del 1526 - una delle tante che sconvolsero la città e l’Europa. In un cartiglio, il popolo, ai piedi dei santi e della Vergine, grida: “Salus nostra in manu tua est, et nos et terra nostra tui sumus”.
Altri approfondiranno le concordanze storico- artistiche: ci sono, a Dio piacendo, inediti filoni di bellezza di cui trovare origini e parentele, per scoprire, una volta di più, quanti canali uniscano l’umanità. A me interessa sottolineare l’efficacia della preghiera, quando davvero affida tutto l’essere. Siamo tuoi. La preghiera è universalità, coralità, unione fraterna, come ricorda papa Francesco; e pure intimità, sponsalità, unione mistica, come il Totus tuus di Wojtyla, che comunque, sulle labbra di un papa, sigilla l’offerta dell’intera umanità. Maria è via privilegiata al Cristo, di cui fu figlia e madre, come dice Dante con poesia incomparabile.
Madre di Gesù, madre di tutti, dalle nozze di Cana all’affidamento a Giovanni, ai piedi della Croce. Cristo è veramente risorto! E ci attende come attese Maria, con le sorprese della gioia. In questi giorni difficili, ho rinnovato, sia come supplica sia come ringraziamento, l’affidamento della città e del mondo alla Vergine Maria: le parole accorate che il popolo ha reiterato nei secoli. Tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa. È una delle eredità di san Giovanni Paolo II, forse la più significativa. Raccogliere e offrire a Dio, nella preghiera e nell’azione, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del mondo; gli aneliti alla pace, alla sicurezza, alla liberazione dai mali dell’anima e del corpo. Portare briciole di umanità dove dominano ancora barbarie, sopruso e ingiustizia, egoismo e indifferenza.
Annunciare amore in nome di Cristo, come faceva san Giovanni Paolo II, significa portare Cristo stesso.
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?!
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è) !
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa"!) è già "oggi necessaria", ora e subito! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, «suprema fatica e suprema gioia», è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! (Federico La Sala)
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso) : in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?»(Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?! Boh?! O no?!
COSTANTINO, IL CONCILIO DI NICEA, E LA DICHIARAZIONE DELL’HOMOOUSIOS. *
BENEDETTO XVI
Il ritorno di Ratzinger: «Nozze gay e aborto segni dell’Anticristo»
L’anticipazione del nuovo libro del papa emerito
di Redazione Online (Corriere della Sera, 3 maggio 2020).
Il Papa emerito Ratzinger parla di crisi della società contemporanea paragonando al «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» al «potere spirituale dell’Anticristo», in una nuova biografia scritta dal suo amico giornalista Peter Seewald, «Ein Leben» che esce lunedì, mentre per la versione italiana e inglese occorrerà aspettare l’autunno, con una intervista dal titolo «Le ultime domande a Benedetto XVI» e che, come nel libro di Sarah, propone ai lettori un verbo che scalda gli animi dell’ala conservatrice della Chiesa, quella parte che gli è rimasta fedele anche dopo la rinuncia dell’11 febbraio 2013. Lo anticipa il sito americano conservatore LifeSiteNews, lo stesso che in questi mesi ha diffuso le uscite anti-Francesco dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, attacca a testa bassa l’’ideologia dominante’ nella società e opponendosi alla quale, spiega, si è scomunicati. Si percepisce, nel suo dire, l’eco del testo di un anno fa dedicato alla pedofilia, con quella condanna delle aperture iniziate nel ‘68, l’incipit a detta sua del decadimento morale della società e di una crisi irreversibile della Chiesa.
Il nemico è sempre il medesimo: la rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta. «Cento anni fa - afferma Benedetto - tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale». Mentre oggi, dice, si è scomunicati dalla società se ci si oppone. E lo stesso vale per «l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio». E ancora: «La società moderna è nel mezzo della formulazione di un credo anticristiano e se uno si oppone viene punito dalla società con la scomunica. La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è più che naturale e ha bisogno dell’aiuto delle preghiere da parte della Chiesa universale per resistere».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"NUOVA ALLEANZA" ?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PIANETA TERRA: L’ILLUMINISMO, OGGI. UNA COSTITUZIONE PER IL MONDO... *
Dibattito.
Una costituzione mondiale: da utopia a realtà?
Ritorna di attualità il tema di un governo mondiale, sorto subito dopo la guerra: il bene comune universale non può essere assicurato da una responsabilità politica frammentata. Un cammino però arduo
di Vittorio Possenti (Avvenire, mercoledì 22 aprile 2020)
Le gravi difficoltà planetarie, che non si riducono a quelle attuali della pandemia, e che sono messe impietosamente allo scoperto dal processo di globalizzazione dominato da tecnica e finanza, fanno affiorare il tema assolutamente primario di un governo politico della famiglia umana, in nome della comune umanità che non tollera discriminazioni, rifiuto della solidarietà e della fratellanza. Riemergono le questioni dell’unità politica mondiale, della pace perpetua, di istituzioni comuni aventi responsabilità a raggio mondiale. Tra innumerevoli ostacoli avanza la consapevolezza di un bene comune planetario dell’umanità e di beni comuni, che devono esseri assicurati allo stesso livello: è l’immensa questione di un’autorità politica mondiale o, come anche si dice, di una costituzione mondiale.
Pochi mesi fa si è formata in Italia l’associazione “Costituente terra” che persegue tale obiettivo. Domenica 5 aprile l’inserto “La lettura” del “Corriere” ha ospitato un articolo di Sabino Cassese dal titolo “Il sogno di una costituzione mondiale”, in cui l’attenzione si rivolge in specie al tragitto politico e intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese, che dall’Italia si trasferì in Usa negli anni ’30.
Borgese fece parte sin dall’inizio del comitato per la redazione di una costituzione mondiale, presieduto dal presidente dell’università di Chicago, Robert Maynard Hutchins, e composto da poco più di dieci membri che lavorò dal novembre 1945 al luglio 1947, preparando il progetto di una costituzione mondiale. Il gruppo tenne rapporti con persone esterne tra cui Jacques Maritain e Luigi Sturzo. Il testo fu pubblicato in varie lingue, e in italiano dalla Mondadori nel 1949, ma non ebbe grande accoglienza: era già cominciata l’epoca della guerra fredda.
Il lavoro non fu però inutile. Nel 1949 Maritain tenne alcune lezioni presso l’università di Chicago che formarono poi L’uomo e lo Stato, uno dei classici del pensiero politico novecentesco. In quest’opera l’autore dedica un capitolo a “Il problema dell’unificazione politica del mondo” che si riassume negli obiettivi di una pace permanente, nel superamento della sovranità degli Stati (severamente criticata) e nella formazione di un’autorità politica mondiale, garante della pace e della giustizia tra i popoli.
Non presento qui l’elaborazione maritainiana, che si differenzia alquanto da quella kantiana sulla pace perpetua. Mi interessa un altro elemento d’immenso rilievo: nel promulgare nell’aprile 1963 l’enciclica Pacem in Terris, Giovanni XXIII dedica profonda attenzione alla messa in opera di Poteri pubblici e Istituzioni a raggio planetario. Nella parte IV del testo il papa scrive: «Il bene comune universale pone ora problemi che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di Poteri pubblici cioè che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali Poteri vengano istituiti».
La prospettiva è stata rilanciata da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate (2009). È impensabile che la soluzione ai problemi globali che sono ulteriormente cresciuti possa essere trovata senza un grande progetto che conduca ad un’autorità politica globale: «Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti». Essa, che oltrepassa ma non cancella il livello dello Stato e/o quello di unioni politiche regionali, è necessaria in quanto esiste un bene comune universale che non può essere assicurato da una responsabilità politica frammentata.
Questo dislivello strutturale è forse la più grave causa del disordine mondiale. Il cammino verso un’autorità politica mondiale, da non intendersi come un Superstato e ancor meno come un impero mondiale, ma ricorrendo ai principi di sussidiarietà e solidarietà, è un itinerario lungo e arduo. Nonostante tutto dovrebbe imporsi se l’umanità globalizzata per il bene e il male, intenderà sopravvivere.
Intanto un certo cammino può essere compiuto, e già lo è stato, mediante la creazione di organismi mondiali in campi fondamentali quali l’economia, la salute, il commercio, il cibo: Fmi, Banca Mondiale, Wto, Oms, Fao ne sono esempi, mentre sull’ambiente bisognerebbe procedere a istituirlo. Non ci si inganni però, in quanto tali organismi spesso sono indirizzati dalle potenze dominanti. Il loro arrancante e precario funzionamento, in specie durante le crisi più gravi, è uno dei motivi della paura e della chiusura che colpiscono popoli e nazioni, conducendoli al nazionalismo e al sovranismo sotto la spinta di capi politici incapaci di guardare oltre.
Su questi nuclei il compito dell’Europa dovrebbe essere primario e l’appello di papa Francesco il giorno di Pasqua è chiaro. L’Europa è risorta dopo il 1945 grazie a un intento di unione per superare le rivalità passate: «È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero».
Da anni le ragioni del multilateralismo e dell’universalismo si sono gravemente indebolite. Alcune frasi del discorso del presidente Trump all’assemblea generale dell’Onu (24 settembre 2019) rappresentano il clima che si diffonde: «Il futuro non appartiene ai globalisti. Il futuro appartiene ai patrioti. Il futuro appartiene alle nazioni sovrane e indipendenti», chiaro invito a far pesare la propria forza sulle ragioni dell’equilibrio, e rilancio del primato dello Stato nazionale. È dunque ancor più necessario riprendere il progetto di un “costituzionalismo globale”, capace di creare istituzioni sovranazionali, e infine mondiali, di garanzia. Esse avrebbero il compito di controllare l’implementazione dei patti internazionali e del relativo diritto in ambiti vitali come l’ambiente, la corsa agli armamenti, l’istruzione, i diritti sociali, la lotta alle diseguaglianze, il contrasto alla tratta di esseri umani e alla criminalità internazionale. Qualcosa di analogo ai compiti svolti dall’Oms e dalla Fao nei loro campi rispettivi.
Jürgen Habermas ha parlato di “politica interna del mondo” e in Italia Luigi Ferrajoli ha sostenuto che il costituzionalismo ha un futuro solo se allargato oltre lo Stato. Le istituzioni di garanzia perseguono infatti fini universali nei modi prestabiliti dalla legge e dal diritto internazionali, e contribuiscono a limitare i poteri assoluti. Ma è proprio in questo campo che il cammino è più arduo, poiché mancano quasi completamente leggi di attuazione e di controllo, e il vecchio dogma della sovranità è lungi dall’essere superato.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS".
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Una Costituzione per il mondo: l’utopia concreta di Borgese contro i sovranismi (di Valter Vecellio).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Internazionale
La terra è malata, una quarantena lunga mezzo secolo
Earth Day. La Giornata mondiale della Terra: dai 20 milioni in strada nel 1970 alla maratona virtuale planetaria di oggi imposta dal coronavirus. L’esortazione del direttore generale dell’Onu Guterres: cambiare rotta, investire sul verde
di Marinella Correggia (il manifesto, 22.04.2020)
«È surreale, come se fosse un pianeta completamente diverso»: così il cosmonauta russo e i due astronauti statunitensi si sono espressi il 17 aprile al loro ritorno a casa dopo sei mesi nello spazio.
E nella quarantena mondiale, completamente diversa è anche la Giornata mondiale della Terra: l’evento compie 50 anni spostandosi completamente sul digitale.
QUELLO STORICO 22 APRILE 1970, invece, mobilitò 20 milioni di statunitensi (il 10% della popolazione dell’epoca) determinando un cambiamento anche politico e normativo.
Come Giorgio Nebbia ricordava sul manifesto tre anni fa, «le persone scoprirono l’ecologia, l’economia della natura», che diventò la «bandiera di una nuova contestazione del potere economico e militare, della violenza della società dei rifiuti, degli sprechi e delle armi - le merci oscene, con la richiesta di nuovi diritti, nuovi modi e processi di produzione, senza ignorare le domande delle classi e dei popoli poveri ed esclusi».
Come nasce l’Earth Day? Nel 1969, dopo una grave fuoriuscita di petrolio in California, il senatore Gaylord Nelson si propone di unire l’energia dei movimenti contro la guerra nel Vietnam con l’emergente consapevolezza ambientale. Recluta un attivista per organizzare eventi a partire dai campus.
La mobilitazione avviene il successivo 22 aprile. La Cbs parla di «giornata unica nella storia degli Stati uniti». Successo incredibile, strade, parchi, sale conferenze colmi di gente ed eventi. Manifestazione per la Giornata della Terra il 22 aprile del 1970
Gruppi impegnati contro fabbriche inquinanti, discariche tossiche, pesticidi velenosi, inquinamento idrico da petrolio, perdita della biodiversità marciano insieme.
Un po’ è anche il primo «sciopero per il clima»: le scuole non vengono chiuse ma molte annunciano che le assenze sono giustificate. In un intento eco-pax, a New York compaiono i poster di un personaggio dei fumetti che raccoglie i rifiuti lasciati da una manifestazione esclamando: «Il nemico siamo noi» (sottinteso: e non i vietcong).
LA PRIMAVERA ECOLOGISTA è sbocciata. Pochi mesi dopo negli Usa nasce l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) e in seguito si approvano leggi importanti (anche se poi poco rispettate) per l’aria, l’acqua, la biodiversità, il lavoro: il Clean Air Act, l’Occupational Safety and Health Act, l’Endangered Species Act, norme sull’uso dei pesticidi e il Clean Water Act.
Nel 1972 si svolge a Stoccolma la Conferenza delle Nazioni unite sull’ambiente umano. Solo nel 1990 l’Earth Day diventa mondiale. Vengono raggiunti in vario modo 200 milioni di persone in 141 paesi. Dopo due anni, Rio de Jaineiro ospita la Conferenza delle Nazioni unite su ambiente e sviluppo.
Con il nuovo millennio il focus della Giornata si sposta sui cambiamenti climatici, mentre inizia l’era digitale. Nel 2010 sono coinvolte 75.000 organizzazioni in 192 paesi. Secondo le stime, negli ultimi anni le iniziative della Giornata sono arrivate ad almeno un miliardo di persone. Nel frattempo cresce il movimento dei giovani per il clima.
2020: L’EARTH DAY DIVENTA digitale obtorto collo. Un virus riconducibile all’invasione e alla distruzione degli ecosistemi a opera degli umani ha rinchiuso in casa questi ultimi, mentre gli altri esseri della Terra hanno ripreso un po’ di spazio.
Cosa avverrà dopo questi mesi inediti? Per la Giornata, il segretario generale dell’Onu António Guterres ha proposto un programma in vari punti: investire fondi in posti di lavoro verdi, usare la leva fiscale per il passaggio dall’economia grigia a quella verde, porre fine ai sussidi ai combustibili fossili, introdurre il principio del chi inquina paga, incorporare i rischi climatici nel sistema finanziario e nelle politiche pubbliche.
Moltissimi gli eventi virtuali della Giornata, indicati sul sito www.earthday.org. Da Haiti dove il gruppo Fineste propone l’appuntamento di in-form-azione Sauvons la planète, agli Emirati dove un ospedale pediatrico infantile pianta tre alberi nel cortile, affigge poster nell’atrio e trasmette video sul tema; dall’India dove la tradizionale Veglia verde si trasferisce sui social media, a New York dove l’organizzazione dei parchi propone lezioni di pollice verde indoor; dalla Cina dove si muove la China Biodiversity Conservation, alla Svezia che organizza incontri digitali improntati su «quello che avete cercato di fare per l’ambiente e non ha funzionato».
IN ITALIA, FRA L’ALTRO, la maratona virtuale #onepeopleoneplanet sul canale Rai Play dalle 8 alle 20, il flashmob virtuale di Legambiente #abbracciamola, il dibattito a Brescia in streaming (con studenti, docenti, esperti, cittadini) su Covid e sostenibilità prima, durante e dopo l’emergenza.
EPIDEMIA, POLITICA, E TEOLOGIA: IL PROBLEMA JEAN-JACQUES ROUSSEAU E L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO...
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO: "[...] Rousseau cerca in tutti i modi di impostare bene il "trattato le cui condizioni siano eque" (Virgilio, Eneide, XI), ma perde il filo e, alla fine, si ritrova a riproporre la religione dei romani - la "religione civile", contro la "religione romana", cattolica ! Senza volerlo, prepara la strada "cattolico-romana" a Fichte, a Hegel, a Marx, a Gentile e a Lenin.
Kant reimposta il problema e riparte, bene : "tutto proviene dall’esperienza, ma non tutto si risolve nell’esperienza" o, diversamente, tutto viene dalla natura ma non tutto si risolve nella natura ; alla fine egli non riesce a sciogliere il nodo e resta in trappola. Al di là del mare di nebbia non può andare e - per non distruggere i risultati della sua esplorazione - si accampa lì dove è riuscito ad arrivare e decide: Io voglio che Dio esista.
Per Kant, Rousseau e Newton, come Locke, non sono stati affatto cattive guide per il suo viaggio. Il suo cammino è stato lungo, fruttuoso e coraggioso : la Legge morale dentro di me, il Cielo stellato sopra di me ! E, onestamente, rilancia di nuovo la domanda antropologica, quella fondamentale: "Che cosa è l’uomo?". Teniamone conto.
Ciò che essi cercavano di capire e quindi di sciogliere era proprio il nodo che lega il problema "religioso", il legame "sociale", il problema di "Dio", il problema della Legge, non quello o quella dei Faraoni e quella di una Terra concepita come un "campo recintato" o assoggettata alla "Moira" di Orfeo e alla Necessità.
Filosoficamente, è il problema dell’inizio ... e, con esso, dell’origine e dei fondamenti della disuguaglianza tra gli esseri umani. Il problema J.J. Rousseau, dunque: No King, no Bishop! Il problema della Legge - e della Lingua: il problema stesso del principio di ogni parola, la Langue, Essai sur l’origine des langues! Da dove il Logos e la Legge?! E, con queste domande, siamo già all’oggi, agli inizi del ’900 : Ferdinand de Saussure ! Ma ritorniamo al problema politico, della Legge della Polis o, come scrive Rousseau, della Citè. La questione è decisiva ed epocale: ed è al contempo questione antropologica, politica, e "teologica". In generale è la questione del rapporto Uno-Molti - una questione lasciata in eredità da Platone, e riproposta da Rousseau, nei termini del rapporto volontà generale - volontà di tutti o del cosiddetto "uno frazionario", e risolta ancor oggi nell’orizzonte moderno (cartesiano) - dopo Cristo, come dopo Dante, Rousseau e Kant - in modo greco, platonico-aristotelico. Una tragedia, e non solo quella di Nietzsche. In tutti i sensi.
Se continuiamo a truccare le carte e confondiamo l’Uno al numeratore con un "uno" degli "uno" o delle "uno" al denominatore finiremo per cadere sempre nella trappola della dittatura, e nel dominio del "grande fratello". E non riusciremo mai a distinguere tra "Dio" Amore [Charitas], e "Dio" Mammona [Caritas] - tra la "volontà generale" dell’Uno e la "volontà generale" di "uno", camuffato da "Uno". Liberare il cielo, pensare l’ "edipo completo" - come da progetto di Freud.
Vedere solo i molti (gli individui, meglio gli uomini e donne in carne ed ossa, le persone) che agiscono, discutono e lottano, e non vedere l’Uno, che è il Rapporto e il Fondamento di tutti e il Rapporto dell’Uno stesso con tutti i vari sotto-rapporti (economici, politici, religiosi, giuridici, pedagogici, familiari, e, persino, di amicizia) dei molti e tra i molti ... non porta da nessuna parte, se non alla guerra e alla morte. In tale orizzonte (relativistico, scettico e nichilistico), chi vuole guidare chi, che cosa può fare, che cosa può insegnare, che cosa può produrre ... se non il suo stesso "uno" - allo specchio ? Un narcisismo personale e istituzionale, imperialistico e ... desertificante !
È elementare, ma è così - come scriveva l’oscuro di Efeso, Eraclito : "bisogna seguire ciò che è comune : e ciò che è comune è il Logos" - la Costituzione, prima di ogni calcolo, per ragionare bene. La Costituzione è il fondamento, il principio, e la bilancia!!! Questo è il problema : la cima dell’iceberg davanti ai nostri occhi, e il punto più profondo sotto i nostri stessi piedi !!! E se non vogliamo permanere nella "preistoria" e, anzi, vogliamo uscirne, dobbiamo stare attenti e attente e ripensare tutto da capo, dalla radice (Kant, Marx), dalle radici: gli uomini e le donne, i molti, e il Rapporto-Fondamento che li collega e li porta - al di là della natura - nella società, e li fa essere ed esseri umani - dopo il lavoro in generale, il rapporto sociale di produzione in generale è la questione all’ordine del giorno nostro, oggi. [....]" . (Cfr.L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana").
PANDEMIA E “APOCALISSE”. La rivelazione del “lato nascosto” della lezione di Marx: vi è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo... *
A). A lezione di pandemia: "[...] La pandemia ha funzionato come l’apparizione di un nuovo idolo, terrificante e promettente al contempo, che imprigiona fisicamente ma libera lo spirito, che si presenta come un fenomeno brutalmente naturale - un’ennesima manifestazione della Natura matrigna indifferente all’Umanità - ma fin da subito agisce come enorme costrutto socio-culturale, ricettacolo di proiezioni immaginarie, dai sogni rivoluzionari più rosei agli incubi apocalittici più turpi. Soprattutto ha offerto la possibilità al cittadino di partecipare a un immane (e tragico) esperimento, la sospensione del modello produttivo capitalistico, e di riflettere a come uscire dal confino e al contempo dal mondo precedente, quello che sembrava avviato a un fatale deterioramento delle condizioni di vita sul pianeta. Insomma, il fenomeno virale si è manifestato all’insegna di una costitutiva ambivalenza, che ha messo in scacco tutta una serie di opposizioni concettuali che avevano ampio corso nel mondo precedente [...]"(Andrea Inglese, "A lezione di pandemia: vi è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo", 14 aprile 2020).
B). "VI è è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo": “[...] L’idea di - con un’espressione assai approssimativa - una socialità non capitalistica all’interno del capitalismo deriva da una visione antropologica e filosofica non solo del capitalismo, ma da una concezione globale delle società storiche e del loro funzionamento. In quest’ottica, questa idea vale come un dato di fatto. [...] Vi è una sorta di funzionamento solidale e coordinato che precede qualsiasi opzione morale specifica e qualsiasi opzione ideologica specifica. (Ed è questo tessuto sottostante che ha minacciato di rompersi, con l’opzione della moria indiscriminata dei più vulnerabili al virus.)
Detto questo, il discorso si puo’ fare anche rovesciato. Ossia, possiamo dirci anti-capitalistici finché vogliamo, ma ogni giorno il capitalismo, in tutti i suoi aspetti, funziona grazie alla nostra collaborazione, siamo noi che lo portiamo avanti a tutti i livelli dell’organizzazione sociale” (Andrea Inglese - cit. , 18 aprile 2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam) - Con Marx, oltre.
L’impero romano tra cambiamenti climatici e pestilenze
In un libro dello storico statunitense Kyle Harper
di Gabriele Nicolò (L’Osservatore Romano, 15 aprile 2020)
Si racconta che uno storico tedesco abbia addotto duecentodieci motivi per spiegare il crollo dell’impero romano. Molto più parco è lo storico statunitense Kyle Harper che nel libro Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero (Torino, Einaudi, 2019, pagine 520, euro 34) di cause - a parte quelle “istituzionali” legate sia alle farraginose dinamiche della ormai fatiscente struttura governativa che al logorio dell’esercito e delle forze di combattimento in generale - ne individua due: i cambiamenti climatici e le pestilenze. Vale a dire, due cause che rivestono, evidentemente, un valore di attualità sorprendente e disarmante.
È vero che Giulio Cesare si vantava che i suoi soldati erano così vigorosi nel fisico che potevano resistere sia ai rigori dell’inverno che ai torridi raggi del sole d’estate, ma è altrettanto vero - rileva lo storico statunitense in un’intervista al settimanale francese «Nouvelle Observateur» - che i bruschi cambiamenti del clima, attestati tra l’altro da numerosi documenti d’epoca, con graduale e non arginata pressione finirono per incidere profondamente sulla popolazione dell’impero, e in particolare sulla psiche dei soldati, resi più vulnerabili dalle continue privazioni, inevitabile prezzo da pagare in una vita spesa sui campi di battaglia. E a dare il colpo di grazia al già fatiscente impero - sottolinea Harper - furono le pestilenze, la cui propagazione fu alimentata dalla vertiginosa crescita del numero della popolazione, non solo a Roma, ma anche nelle zone limitrofe, ovvero nelle campagne che, col declinare dell’impero, non vennero più adeguatamente bonificate come invece accadeva nei giorni di gloria.
In particolare - sostiene lo storico - a sbaragliare ogni forma di resistenza fu lo Yersinia pestis, che corrisponde alla moderna accezione di peste bubbonica. Un inquietante intreccio di morbi e di germi invase vaste regioni dell’impero mietendo, senza pietà, lutti e devastazione. I romani - ricorda Kyle Harper - avevano saputo come sconfiggere i nemici, anche perché aveva saputo imparare dalle lezioni derivanti dalle sconfitte subite. Ma non avevano le conoscenze e i mezzi adeguati per fronteggiare le ricorrenti pestilenze che certo potevano “approfittare”, per attecchire e poi infuriare, anche della mancanza di social distancing, misura certo non praticabile visto che i romani solevano vivere in ambienti molto ristretti e in accampamenti sovraffollati.
NOTA:
L’Impero romano e la ragione nascosta della sua caduta: una questione "filologica", epocale! L’ "In principio era il logos" (e sulla testa di tutti e di tutte, c’era la corona-virtus) diventa piano-piano l’ "In principio era il Logo" (e sul capo c’era il coronavirus)!!!
Federico La Sala
LA "STORIA" DI IPAZIA, I "DUE SOLI", E L’"ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE" COSTANTINIANA ... *
Ipazia, sedici secoli di bugie
La filosofa di Alessandria d’Egitto fu uccisa nel 415 da un gruppo di fanatici cristiani. E’ passata alla storia come una martire della scienza, versione femminile di Galileo. Ma la sua vicenda nasconde un mistero ancora piu’ inquietante.
di Luisa Muraro ("Giudizio Universale", 11.12.2009)
Ipazia di Alessandria ha un conto aperto con la nostra civilta’ che dobbiamo incominciare a pagare.
Parlo, per chi ancora non conoscesse questo nome, della scienziata e filosofa neoplatonica, maestra nel Museo di Alessandria d’Egitto (non un museo, ma un centro di studi superiori) che, nell’anno 415 dell’era cristiana, venne trucidata da un gruppo organizzato di cristiani fanatici. Il delitto resto’ impunito perche’ l’inviato imperiale non fece il suo dovere.
Da parte di chi ha a cuore la tradizione religiosa cristiana, io mi aspetto un preciso contributo. Posto che le fonti non consentono di attribuire al vescovo di Alessandria, il futuro santo e padre della Chiesa Cirillo, alcuna responsabilita’ diretta nella morte violenta della filosofa, si stabiliscano le innegabili responsabilita’ indirette, nel contesto di una diffusione del cristianesimo che e’ piena di luci e ombre.
Da coloro che hanno a cuore le grandi conquiste della modernita’ (liberta’ di pensiero, pluralismo, liberta’ di ricerca, valore delle scienze sperimentali), mi aspetto che smettano di strumentalizzare la figura della filosofa deformandola in quella di una martire della libera scienza. Le fonti storiche non autorizzano questa rappresentazione che si alimenta da una serie di stereotipi, gia’ confutati, sulla storia delle scienze e la cultura cattolica. Non si faccia di Ipazia un anacronistico pendant femminile di Galileo.
Lei fu indubbiamente una scienziata di prima grandezza e, come Galileo, si dedico’ all’astronomia con avanzate tecniche di osservazione. L’analogia finisce qui. La famosa vicenda del processo di Galileo riguarda il protagonista di una svolta epocale nell’idea di scienza, che non ha nulla a che fare con l’epoca di Ipazia, il cui tempo fu agitato da una somma di problemi che non riguardavano la concezione della scienza, se non molto indirettamente.
Detto in breve, Galileo e’ il campione e il martire del nuovo che avanza. Ipazia e’ l’esponente di una tradizione secolare (millenaria, se contiamo l’Egitto) e venne schiacciata dal nuovo avanzante, il cristianesimo, che fu anche rivoluzione sociale, non dimentichiamo.
Il mio contributo al pagamento del debito che abbiamo verso Ipazia, consistera’ nell’esporre, in forma di racconto basato sulle fonti storiche, le circostanze che portarono alla sua uccisione.
Di Ipazia non abbiamo una data di nascita, possiamo immaginare che fu intorno al 370. Trascorse la sua vita ad Alessandria; non risulta che abbia fatto viaggi fuori dalla sua citta’. Le fonti la ricordano come figlia di Teone, scienziato del Museo; di lui fu allieva, collaboratrice e, in un certo senso, successora. Le fonti dicono che lei lo supero’. Della sua opera non si e’ conservato quasi nulla.
Intorno al 375 nacque ad Alessandria anche Cirillo, che crebbe all’ombra dello zio Teofilo cui succedette sul seggio episcopale nel 412. Come lo zio, era un uomo di grande decisione, al limite della spregiudicatezza.
Per favorire la Chiesa, Cirillo cerco’ l’alleanza del prefetto imperiale Oreste, un battezzato anche lui ma poco propenso a schierarsi con i cristiani.
Scoppiarono incidenti, uno gravissimo nel 415: un gruppo di monaci venuti dal deserto (i cosiddetti parabolani) per servire il vescovo, a che titolo non sappiamo, assaltarono il carro del prefetto e riuscirono a ferirlo con una sassata. Il loro capo fu catturato e duramente punito, Cirillo voleva farne un martire ma i cittadini si opposero, compresi alcuni cristiani. Siamo alla vigilia dell’uccisione di Ipazia.
Bisogna sapere che Oreste era un ammiratore della filosofa e aveva preso l’abitudine di consultarla sui problemi della citta’. All’epoca Alessandria era una citta’ multietnica, abitata da elleni, egizi, ebrei, costellata da vari edifici religiosi: sinagoghe, templi alle divinita’ greche ed egizie, chiese cristiane. Il gruppo dominante e’ costituito dagli elleni (gli abitanti di origine greca), molti dei quali stavano passando al cristianesimo, che era diventato la religione dell’imperatore.
Ipazia, che apparteneva a questo gruppo sociale, non era cristiana. Fra i suoi allievi aveva tuttavia dei cristiani, come Sinesio, il futuro vescovo di Cirene, che la chiamava "madre" e "patrona", e su di lei ha lasciato una preziosa testimonianza scritta.
Le fonti raccontano che un giorno il vescovo Cirillo si trovo’ a passare nei pressi della casa di Ipazia e noto’ un assembramento di carri, lettighe e guardie.
Il vescovo, possiamo immaginare, senti’ una fitta penosa nell’anima. Per certo il nome di quella donna, famosa in citta’, non gli era nuovo. Nuovo fu per lui scoprire che il prefetto si degnasse di farle visita, dopo che aveva rifiutato l’offerta fatta da lui, Cirillo, che era un uomo e un vescovo.
Le fonti ci autorizzano a immaginare anche il pensiero che segui’ a quel penoso, ma cosi’ umano! sentimento: "Ad Alessandria le cose andrebbero meglio se io e il prefetto fossimo amici. Io e il prefetto non siamo amici per colpa di Ipazia che si e’ messa di mezzo e ha attirato Oreste nella sua orbita".
Questo e’ l’antefatto. Il fatto e’ che un giorno del marzo 415 un gruppo di parabolani, guidati da un tale di nome Pietro il lettore, sequestro’ Ipazia, la porto’ in una chiesa e qui, al chiuso, la trucidarono usando strumenti taglienti che non erano coltelli, forse pezzi di vetro o di conchiglia. Poi ne portarono i resti in una localita’, il Cinarone, forse assegnata alla eliminazione di materie di scarto con il fuoco, e qui li bruciarono.
Da questo insieme di fatti risulta che Ipazia, se siamo alla ricerca di un titolo da dare alla sua morte, fu principalmente una martire politica.
Colpita per colpire il prefetto imperiale, e’ la prima supposizione, Ma, se allarghiamo lo scenario storico, le circostanze suggeriscono piuttosto che lei fu eliminata perche’ disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra due poteri, quello imperiale e quello ecclesiastico, che erano anche due uomini, Oreste e Cirillo, e impediva cosi’ che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza.
A cio’ si aggiunga un senso di rivalita’ del capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, aveva l’autorita’ di una sacerdotessa.
La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorita’ della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.
Sicuramente contarono anche altre circostanze, fra cui il conflitto tra la cultura del mondo antico declinante e la nuova religione cristiana, purche’ abbiamo chiaro che il conflitto non si configurava come un antagonismo e che la vittoria del cristianesimo era ormai evidente. Conto’ il fatto che non di un filosofo si trattasse, ma di una filosofa? La domanda va riformulata, considerato che non esistono culture in cui la differenza sessuale sia indifferente. Quanto conto’, nella vicenda di Ipazia? E abbiamo noi modo di stabilirlo? Senza addentrarci, consideriamo che la nascente religione cristiana, a differenza di quella grecoromana e di quella egizia, non rendeva pensabile e accettabile una donna con le prerogative di Ipazia, libera di se’, non subordinata a partiti o fazioni, presente e parlante in luoghi pubblici, sapiente, maestra dotata di una parola autorevole per donne e uomini.
Questa considerazione ci porta ai nostri tempi per costatare che il tipo umano femminile incarnato da una Ipazia non ha corso nella nostra cultura, forse perche’ essa deriva dalla versione cristiana del patriarcato. Il che ci fa capire il perche’ di certi stereotipi laici o laicisti: questi stereotipi resistono e si ripresentano per non poter ammettere che quello che faceva veramente problema ai cristiani di Alessandria, continua a fare problema anche ai nostri giorni, e non solo ai "cristiani"! Voglio dire che gli stereotipi anticlericali con cui si accosta la figura e la vicenda di Ipazia (Chiesa nemica della scienza, della ragione, delle donne) sono fatti per coprire una certa coda di paglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA" !!! IL MAGGIORASCATO : L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, -L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
“VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
DOPO I “VENTICINQUE SECOLI” DI DANTE, I "TREMILA ANNI" DI GOETHE, E I "MILLE ANNI DOPO DAVIDE E GIONATA" .. *
Idee.
Se gli amici fanno le ali della storia
La philia e l’eros dell’antica Grecia acquistano una diversa ricchezza di significato alla luce dell’agape evangelica. Il libro di Pietro Del Soldà
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 9 aprile 2020)
Uno degli effetti collaterali del covid19 è la ri-scoperta (o scoperta) della semantica dell’amicizia. Ci stiamo abituando a lezioni online, riunioni di lavoro via zoom, videochiamate, tesi di laurea online con il vestito buono e applauso dei genitori commossi e nascosti dietro la camera; ma ogni volta che terminiamo queste sessioni telematiche ci nasce, troppo spesso, una forte nostalgia per i nostri studenti, per i colleghi, per genitori e amici, per il bar dove andavamo per “consumare” prima la chiacchierata poi il caffé. Gli incontri che stanno continuando ad accadere in questa lunga quarantena non sono solo semplicemente incontri “virtuali” (parola che morirà con la fine della pandemia), sono comunque incontri ai quali mancano alcune dimensioni fondamentali, e tra queste il corpo. Ci sono voluti migliaia di anni per imparare a stare vicini a meno di un metro di distanza, a dare la mano allo sconosciuto per dirgli che su quella mano non c’era un pugnale, e poi ad abbracciare e baciare gli amici.
Ci sono voluti troppi millenni per apprendere l’arte delle distanze brevi per poter pensare di poterle dimenticare in pochi mesi. L’amicizia è l’arte delle distanze brevi. Distanze affettive, ma anche distanze fisiche, geografiche, spaziali. Perché se i verbi dell’amicizia sono quelli del tempo (fedeltà, durata, resilienza), anche i tempi dello spazio sono importanti: se non si va dall’amico o l’amicizia si è indebolita o c’è un ostacolo all’incontro o c’è solo un grande desiderio, come quello immenso che sta crescendo giorno dopo giorno. E mentre le distanze tra di noi sono cresciute, la lotta col virus si gioca sulla capacità di cura di medici e infermieri, che è anche talento delle mani, che devono toccare senza contaminare e contaminarsi.
L’ambivalenza della vita, la danza di communitas e immunitas, che ogni tanto diventa danza macabra. L’amore è uno, ma gli amori sono molti. Amiamo molte persone e molte cose, siamo amati da molti e in modi diversi. Amiamo i genitori, i figli, le fidanzate, le mogli e i mariti, fratelli e sorelle, maestre, colleghi, nonni e cugini, poeti e artisti. E amiamo, moltissimo, gli amici e le amiche.
Il mondo greco per dire amore aveva due parole principali, eros e philia, due parole che non esaurivano le molte forme dell’amore ma che offrivano un registro semantico più ricco del nostro per declinare questa parola fondamentale della vita. Un lessico che era capace di distinguere il «ti voglio bene» detto alla donna amata dal «ti voglio bene detto» detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che erano anche uguali. Il cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca per dire un’altra tonalità dello stesso amore, un tono già presente nella Bibbia ebraica e, soprattutto, già presente nella vita.
Questa terza, stupenda, parola è agape, l’amore che sa amare chi non è desiderabile e il non-amico. Il cristianesimo non ha inventato l’agape lo ha semplicemente visto ed esaltato. Tre dimensioni dell’amore che, spesso, si trovano insieme nei rapporti veri e importanti. Certamente sono tutti presenti nell’amicizia, che non è solo philia. Non dobbiamo, infatti, commettere l’errore di pensare che l’amicizia sia espressa dalla sola parola philia. No. Perché anche nel mondo greco la philia non è mai sola, è la philia la prima ad avere bisogno di amici.
La philia è sempre accompagnata dal desiderio-passione per l’amico ed è irrorata dall’agape che le consente di poter risorgere da fallimenti e fragilità. La philia poi lega l’eros e l’agape tra di loro e li affratella. In quelle pochissime amicizie che ci accompagnano per lunghi tratti di vita, a volte fino alla fine, la philia racchiude in sé anche i colori e i sapori dell’eros e dell’agape. Sono quegli amici che abbiamo abbracciato, baciato come e diversamente da altri abbracci e da altri baci. Pochi dolori sono più grandi di quello per la morte di un amico - in quel giorno, un pezzo di cuore smette di battere. Non c’è soltanto una lotta radicale tra eros e tanatos; ce n’è un’altra, simile e diversa, tra philia e tanatos.
Il bel libro di Pietro del Soldà, noto conduttore di Radio3 e filosofo, dal titolo suggestivo Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro (Marsilio, pagine 152, euro 16), ci offre una occasione propizia per riflettere, oggi, sull’amicizia. Del Soldà lo fa a partire dalla filosofia e dal mondo greco. Questa mia pagina lo fa prendendo le mosse dalla Bibbia, una seconda radice profonda dell’Umanesimo occidentale. La Bibbia non parla molto di amicizia. Ma ne parla, e in alcuni libri le ha dato un posto centrale.
A partire dall’Adam, l’essere umano, che è anche amico di Dio, prima di essere amico della donna e degli altri uomini. E non certamente a caso in uno degli ultimi episodi dell’ultimo vangelo, quello di Giovanni, troviamo un bellissimo dialogo sull’amicizia: «Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [philia]?» ( Vangelo di Giovanni 21,15-17). Un gioco di parole e di verbi che si perde nelle lingue moderne, ma chiarissimo nell’originale greco.
Il libro di Giobbe, ad esempio, è composto essenzialmente di dialoghi con i suoi amici: «Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Levarono la loro voce e si misero a piangere » (Giobbe 2,11-12).
Dal contesto si capisce che questi uomini che si recano presso il mucchio di letame di Giobbe siano amici veri: vengono a sapere della sua sventura, lo vanno a trovare, siedono e piangono con lui. Ma lo sviluppo dei dialoghi di Giobbe ci mostrerà che quei quattro uomini che lo vanno a trovare non sono, in realtà, amici di Giobbe ma difensori di astratte teologie che si riveleranno nemiche dell’uomo e di quel Dio che volevano difendere. Le grandi prove della vita sono anche test che distinguono il grano degli amici dalla zizzania dei finti amici. Ecco perché tra i canti più belli di Giobbe c’è una un’amara e stupenda riflessione sull’amicizia e sull’esistere: «I miei amici sono incostanti come un torrente, come l’alveo dei torrenti che scompaiono: sono torbidi per il disgelo, si gonfiano allo sciogliersi della neve, ma al tempo della siccità svaniscono e all’arsura scompaiono dai loro letti» (6,14-19).
Molti amici svaniscono nel tempo della sventura, e svanendo ci dicono che non erano amici. Ma è con Gionata, figlio di re Saul, che l’amicizia fa il suo grande ingresso nella Bibbia. Gionata è principe, è guerriero, ma è soprattutto l’amico. Questa amicizia prende le forme di un patto solenne, forse un “patto di sale”, dove la non corruzione del sale diceva simbolicamente il “per sempre”.
La Bibbia sa cos’è un patto- Alleanza, e se ricorre a questa parola per parlarci di un’amicizia, allora sta dicendo qualcosa di importante. Nell’Alleanza con Abramo, Dio passò in mezzo agli animali squarciati. Nei grandi patti d’amicizia, Dio passa “in mezzo” agli amici (Matteo 18,20). È quindi un patto che buca spazio e tempo. Coinvolge le nostre discendenze, i nostri figli che abbiamo e che avremo, genitori e nonni. I patti di amicizia, diversamente dai patti nuziali, non vengono in genere celebrati con la parola. Quasi sempre sono patti muti, non vengono pronunciati in pubblico. Qualche volta, però, in una amicizia che matura ci possono essere anche dei patti espliciti, celebrati anche con la parola. Sono, ad esempio, quei patti di amicizia alla base di nuove comunità e movimenti, civili o religiosi, generati da due o più amici che si dicono parole speciali in un momento speciale. Una grande amicizia biblica è quella tra Davide e Gionata, che prende la forma di un patto sacro, di un’alleanza solenne, di una vera e propria fraternità spirituale: la fraternità è una forma di amicizia. Un giorno Gionata, quando ormai infuriava la guerra civile tra suo padre Saul e Davide, aveva detto al suo amico Davide: «Andiamo ai campi» (20,11).
La Bibbia conosce molto bene questa frase. Era stata quella di Caino (4,8). L’amico è l’anti-Caino, qualcuno che ti invita ad andare nei campi non per ucciderci ma per salvarci. Sulla terra gli inviti di Caino, il fratricida, e quelli di Gionata, l’amico, coesistono, vivono l’uno accanto all’altro, si incrociano. Qualche volta scopriamo che l’altro non è Gionata ma Caino solo quando, arrivati nei campi, vediamo la sua mano diventare diversa. E sono i giorni più tristi. Altre volte scopriamo che chi pensavamo fosse Caino era in realtà Gionata. L’umanità continua la sua storia perché gli inviti di Gionata sono più numerosi degli inviti di Caino, perché le mani degli amici sono di più di quelle degli assassini.
Mille anni dopo Davide e Gionata, un altro amico dell’uomo, fondatore di una comunità di amici («non vi chiamo più servi ma amici»), fu messo su una croce da un’altra mano fratricida. Sotto la croce c’erano le donne, e un amico. Quella volta le donne e l’amico non riuscirono a salvarlo. Ma noi, suoi amici, continuiamo ad attenderlo, in compagnia di Abele e di tutte le vittime della storia. Lo aspettiamo perché ci ha promesso che tornerà, e perché la promessa dell’amico è vera.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
La realtà e i cowboy. A proposito del più grande evento mediatico della storia
di Pierangelo Di Vittorio ("Aut Aut", 07.04.2020)
Al contrario di altri scenari possibili - nei quali la catastrofe, provocando un blackout tecnologico, consegna la sopravvivenza a vecchie risorse “analogiche” - l’attuale pandemia, costringendoci a un confinamento domestico, ha invece esaltato l’uso delle tecnologie digitali. Collegarsi al computer o allo smartphone è diventata, non solo una necessità, per studiare, lavorare, comunicare, ma anche un’occasione per conservare o magari riscoprire le relazioni sociali. Chi in questi giorni non ha provato almeno una volta il piacere di ritrovarsi a chiacchierare con un gruppo di amici o di colleghi in una videochiamata collettiva? Questo potrebbe essere quindi il momento meno adatto per mettersi a fare le pulci al digitale.
Credo tuttavia che una delle poche riflessioni davvero urgenti in questo periodo riguardi, non tanto il digitale in sé, quanto alcuni effetti legati alla sua capacità di industrializzare e massificare alcune tendenze di più lungo periodo. Mi riferisco in particolare alla mediatizzazione o alla messa in spettacolo della vita quotidiana (che va beninteso di pari passo con la riduzione della realtà a merce-spettacolo). La cosiddetta rivoluzione digitale ha sicuramente introdotto delle novità rispetto all’epoca televisiva. In primo luogo, l’alta tecnologia è diventata “personale” (pc, tablet, smartphone); in secondo luogo, grazie all’accessibilità di tale tecnologia personale e di tutto quello che essa consente di fare, forse per la prima volta nella storia moderna è venuta meno la tradizionale distinzione tra proprietari dei mezzi di produzione e operai, tra produttori e consumatori, tra attori e spettatori. Si tratta quindi di una novità che introduce una discontinuità fondamentale, ma che può essere vista al tempo stesso come un ulteriore giro di vite nel lungo processo di “democratizzazione” delle nostre società, il cui esito, troppo spesso trascurato, è che l’uomo comune si ritrova al centro del sistema come una specie di divinità paradossale - essendo ciò che, per principio, si oppone a ogni forma di unicità, di eccezionalità, di trascendenza.
Ora, forse non ce ne siamo accorti, le priorità sono ben altre, ma quello che stiamo vivendo, anche per le ragioni che dicevo prima, è il più gigantesco evento mediatico della storia dell’umanità. Penso ai comunicati radio e ai cinegiornali durante la Seconda guerra mondiale; al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme nel 1961; all’allunaggio di Armstrong e compagni nel 1969; alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e agli eventi sportivi di rilevanza mondiale: la pandemia li ha surclassati tutti. Perché?
Per la sua globalità, certo. Per la sua durata, anche. Per la sua gravità, indubbiamente. Ma c’è dell’altro. Credo - e qui veniamo alla novità introdotta dal digitale - che la ragione stia soprattutto nel fatto che tutti, in tutto il mondo, tutti i giorni e per molti giorni, abbiamo contribuito alla “messa in scena” della realtà della catastrofe: dal papa che usa piazza San Pietro deserta come set di un thriller apocalittico alla Dan Brown; ai grandi filosofi che usano il virus come paesaggio su cui stagliare le loro più o meno logore o inopportune teorie; alle autorità governative e sanitarie che tengono messa ogni sera; ai sindaci che se vanno in giro nelle città deserte a fare i giustizieri stile Charles Bronson; all’esercito di politici, esperti, opinionisti, giornalisti che remano come schiavi dietro una prima pagina che non cambia mai; agli uomini e le donne del mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo che si autopromuovono con la scusa di #iorestoacasa; a ciascuno di noi, e siamo la maggior parte, persone comuni che, oltre a riverberare all’infinito le agenzie di cui sopra, offrendo al mondo le nostre quotidiane pillole di saggezza religiosa, filosofica, scientifica, politica ecc., celebriamo noi stessi attraverso l’auto(docu)fiction, i vari diari intimi della pandemia, gli improvvisati spettacolini firmati #iorestoacasa e #celafaremo, le continue valanghe di news e fake news, video, meme e altri contenuti “umoristici” che invadono i social network, saturano le chat di whatsapp ecc.
Sì, celebriamo noi stessi, perché l’uomo comune, non dimentichiamolo, è il centro del sistema, mentre la catastrofe fa da sfondo, come il Colosseo o la Tour Eiffel in tempi “normali”, anche se questo sfondo è fondamentale, trattandosi di “capitale mediatico”, anzi, in questo momento, della soglia mediatica che dà accesso a una condizione di “esistenza” (mediatica e tout court: si può esistere oggi senza passare dalla pandemia, senza parlare del virus, senza mostrarsi con il poster della catastrofe alle spalle?). Il selfie con il virus è diventato lo sport più praticato sul pianeta. Sarà salutare? In ogni caso sembra di assistere al più grande (auto)sciacallaggio mediatico della realtà che sia mai stato compiuto nella storia dell’umanità. Sarà giusto parlarne? O saremo tacciati di disfattismo, di terrorismo? Correremo il rischio. Però chi, in questi giorni, almeno una volta, non ha pensato che la viralità mediatica della pandemia fosse almeno pari a quella biologica del virus stesso? In fondo si tratta di questo. Poi ci sono le priorità. Certo.
A dire il vero, non abbiamo dovuto aspettare la pandemia per assistere all’affermarsi di tale fenomeno: da tempo l’uomo comune è diventato il protagonista del film ininterrotto (e autoprodotto: self-cinema, come si parla di self-publishing ecc.) della propria vita quotidiana. Un film nel quale la realtà stessa è l’unica scenografia, al punto da rendere difficile distinguere dove finisca il primo e dove inizi la seconda. Un film che è solo la mediatizzazione o la messa in spettacolo della realtà più immediata, banale o triviale. Un film che è il reality show della nostra vita quotidiana.
Sarà pure legittimo chiedersi che effetti produce tutto questo sulla nostra relazione con la realtà? E quindi sulla possibilità stessa di costruire delle relazioni - con noi stessi, con gli altri, con il mondo che ci circonda? Perché, attenzione: non si tratta di sostenere, ingenuamente, che la realtà è solo “quella cosa lì” che possiamo toccare, la realtà fisica, materiale, mentre tutto il resto, ossia ciò che chiamiamo genericamente “immateriale”, appartiene al mondo della fantasia. Nulla di tutto questo.
Si tratta invece di considerare la realtà come il piano delle relazioni “possibili” (in senso kantiano), materiali o immateriali che siano. E le relazioni sono possibili nella misura in cui c’è sempre qualcosa che ci sfugge, nel senso che in esse si apre una dimensione che non ci fa mai essere del tutto a casa nostra, che entra in gioco qualcosa che ha a che fare con l’“altro”.
La relazione di realtà è quel nesso che ci connette con e attraverso una forma di alterità (a cominciare dal rapporto con noi stessi), e che ci espone quindi a qualcosa che non “padroneggiamo” mai del tutto. La realtà è il non-padroneggiabile e la relazione di realtà è ciò che ci mette in contatto con l’altro, “alterandoci” in questo stesso contatto.
Intuiamo forse quanto la ricchezza, l’ipertrofia della nostra connessione sul piano mediatico (che tende a trasformare l’eterogeneo in omogeneo, l’estraneo in familiare) vada di pari passo con una profonda, galoppante miseria della nostra connessione sul piano della realtà. Il film continuo della nostra vita quotidiana, la sua trasformazione in reality ci dissocia in modo “sistematico”, e perciò drammatico, dalla realtà stessa; ci priva di quella rete di relazioni, rischiose ma creative, che ci fanno entrare in contatto con l’alterità, che ci fanno esperire la realtà stessa come e nella sua alterità; e che attraverso il gioco dei conflitti e delle alleanze, rendono possibile la trasformazione di quello che è in qualcos’altro.
Che cosa accade invece quando la realtà diventa la scenografia della nostra vita domestica? Quando è “addomesticata” in un dispositivo mediatico del quale siamo noi stessi gli artefici e i protagonisti? Gli eterni e immutabili padroni di casa? -Succede che la vertigine dell’alterità viene meno. E questo vuol dire che ci disconnettiamo dalla realtà come piano delle relazioni possibili, e cominciamo a coltivare l’idea che la realtà stessa sia come il giardino di casa: la pericolosa illusione che, qualsiasi cosa accada, noi siamo sempre in sella e teniamo saldamente le briglie. Che si tratti di migrazioni o di cambiamenti climatici, di crack finanziari o di epidemie, ci proiettiamo e ci vediamo come gagliardi cowboy che scorrazzano nella realtà. Il che, me lo concederete, più che infantile, è idiota.
L’idiozia del tizio che fa una rapina e poi si spara un selfie con il bottino in mano all’uscita della banca pubblicandolo immediatamente su facebook - è solo un esempio di fantasia, per ridere, cioè per non piangere citando il caso, realmente accaduto, di quei ragazzi di Manduria che per anni hanno vessato e picchiato un anziano, fino a causarne la morte, e che hanno continuato a filmare e diffondere in rete le loro belle gesta. Effettivamente, in questi casi, la dissociazione - dal rapporto con la realtà e dalle connessioni che il piano della realtà rende possibili - si nota con una certa evidenza. Ma sono casi singoli, si dirà. Eccezioni. Derive. D’accordo. Ma che dire allora del film apocalittico di massa, realizzato in tempo reale e intitolato vox populi “Ai tempi del coronavirus” (circa 1.400.000.000 risultati in 0,41 secondi, appena ho lanciato la ricerca, in italiano, di questa frase su Google: oggi 6 aprile 2020)?
Fare presa sul piano di realtà è sempre importante ma, potremmo chiederci, non diventa addirittura decisivo se la realtà ha un aspetto “catastrofico” - nel senso di un evento che, sottraendoci brutalmente alla nostra routine, ci obbliga a porci almeno il “problema” di come sopravvivere? Nel momento in cui la realtà è più altra e alterante del solito, quando la padroneggiamo meno del solito, o magari non la padroneggiamo affatto, non diventa primordiale costruire una serie di relazioni possibili - come per il naufrago diventa primordiale costruire una zattera con quel poco che ha a disposizione - invece di continuare a fare i cowboy?
Forse passeremo alla storia come i passeggeri di un nuovo Titanic, occupati a farci dei selfie mentre l’iceberg, a fauci spalancate, si avvicinava alle nostre spalle.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Le lacrime sono il vino del godimento
di Enrico Spadaro (Ondaiblea, 09 aprile 2020)
È con sensazioni di triste gioia che sembra avvicinarsi questa Pasqua, in cui quasi tutti i cristiani non possono fisicamente partecipare ai riti della Settimana Santa. Sembra quasi un paradosso, un ossimoro pronunciare queste parole, “triste gioia”: “gioia” nell’imminente resurrezione di Cristo, “triste” perché forse non totalmente vissuta.
Eppure esiste un termine greco, che racchiude un concetto forse maggiormente conosciuto nel mondo cristiano ortodosso, “charmolypi” (χαρμολύπη), che esprime al tempo stesso sentimenti di gioia (hara) e di tristezza (lypi). Si ritrova tale termine negli scritti di San Giovanni Climaco (525/575-603/650), monaco che visse quasi tutta la vita presso il monastero del Sinai. Nella sua dottrina, e in particolare nel suo scritto più celebre, La Scala della divina ascesa, vengono prevalentemente esaltati coloro che dopo aver peccato si pentono, poiché i dolori patiti permettono loro - attraverso il pentimento - di accedere alla vera “gioia” del Paradiso. Questi peccatori redenti sembrano aver provato la morte per poi essere risorti come Cristo, sono stati abbandonati e infine salvati dal Padre. Le lacrime che hanno versato sono così benedette: “Beati i sofferenti, perché essi saranno consolati”. (Matteo 5,4).
Il concetto espresso da San Giovanni Climaco potrebbe rinviare ad un elemento essenziale delle fiabe secondo lo scrittore britannico J.R.R. Tolkien (1892-1973), vale a dire la consolazione del lieto fine, per cui l’autore, nel suo saggio Sulle Fiabe (1939) conia il termine “eucatastrofe”, l’improvviso capovolgimento felice degli eventi, “ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore”.[1]
Con evangelium, Tolkien, fervente cattolico, non poteva che intendere il Vangelo, considerato come l’unica vera fiaba, e infatti continua il proprio saggio: “la Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia.”
L’immensa opera letteraria di Tolkien e soprattutto i due romanzi principali, Lo Hobbit (1937) e Il Signore degli Anelli (1954-55), sono pieni di momenti in cui si verifica un’eucatastrofe, ma forse uno di quelli più evocativi è rappresentato dagli istanti immediatamente successivi la distruzione dell’Unico Anello tra le fiamme del Monte Fato. Frodo e Sam si credono spacciati e svengono, ma vengono salvati dalle grandi aquile e si risvegliano a Gondor con Gandalf al loro capezzale.
Tolkien descrive il momento attraverso le sensazioni di Sam:
E qualche pagina dopo:
Gioia e dolore sembrano fondersi e le lacrime sono la via che porta alla gioia, secondo la teorizzazione tolkieniana dell’eucatastrofe, ma anche secondo il concetto di “charmolypi” di San Giovanni Climaco. Inoltre, occorre sottolineare la data della distruzione dell’Anello, il 25 marzo, che è sì il giorno dell’Annunciazione a Maria, ma nella tradizione medievale era anche il giorno della crocifissione, il Venerdì Santo, un giorno di dolore che anticipava la gioia della Pasqua.
I momenti d’eucatastrofe in Tolkien non saranno forse l’espressione totale di beautitudine, ma potrebbero essere una rappresentazione di gioia e dolore, che preannuncia la “Gioia” finale del Paradiso.
Enrico Spadaro
Note
[1] Tolkien. Il medioevo e il fantastico. Milano, Bompiani, p. 225.
[2] Tolkien. Il Signore degli Anelli. Milano, Bombiani, p. 1136.
[3] Ibid., p. 1139.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PASQUA: BUONA PASQUA DI RESURREZIONE E DI RISURREZIONE.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Scenari.
La società del virus tra Stato di polizia e isteria della sopravvivenza
In Asia e soprattutto in Cina la lotta al Covid-19 passa per il controllo totale dei singoli attraverso il digitale. Una biopolitica digitale che va di pari passo con una psicopolitica digitale
di Byung-Chul Han (Avvenire, martedì 7 aprile 2020)
.***Nato a Seul e docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino, Byung-Chul Han è considerato uno dei più importanti filosofi contemporanei. Di recente Nottetempo ha pubblicato la nuova edizione di uno dei suioi saggi più noti, Eros in agonia (pagine 96, euro 13,00).
Covid-19 è un test di sistema. Pare che l’Asia stia gestendo l’epidemia molto meglio dell’Europa. A Hong Kong, Taiwan e Singapore ci sono pochissimi contagiati. Taiwan ne dichiara 215, Hong Kong 386, il Giappone 1.193. In Italia invece si sono già infettate oltre centomila persone in un arco di tempo molto inferiore. Anche la Corea del Sud si è lasciata il peggio alle spalle. Idem per il Giappone. Persino il paese da cui si è originata l’epidemia, la Cina, sta tenendo la situazione sotto controllo. Né Taiwan né la Corea hanno vietato di uscire di casa o chiuso negozi e ristoranti.
Nel frattempo è iniziato l’esodo degli asiatici dall’Europa e dagli Stati Uniti. I cinesi e i coreani vogliono tornare in patria perché là si sentono più sicuri. I prezzi dei voli sono schizzati alle stelle. È ormai impossibile trovare un biglietto aereo per la Cina o la Corea del Sud. L’Europa incespica. I numeri dell’infezione aumentano esponenzialmente. Sembra che l’Europa non riesca a controllare l’epidemia. In Italia muoiono ogni giorno centinaia di persone. I pazienti più anziani vengono staccati dai respiratori per aiutare i più giovani. Si osserva inoltre un vuoto azionismo. La chiusura delle frontiere è ormai un’espressione disperata di sovranità. È come essere tornati all’epoca della sovranità. Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Sovrano è chi chiude le frontiere.
Si tratta tuttavia di un vacuo spettacolo di sovranità che non risolve nulla. Un’intensa collaborazione all’interno della Ue sarebbe molto più utile della cieca chiusura dei confini. La Ue intanto ha proclamato un divieto d’ingresso per gli stranieri, gesto completamente insensato visto che nessuno, al momento, vuole venire in Europa. Sarebbe più logico, semmai, un divieto di espatrio degli europei per proteggere il mondo dall’Europa, che in questo preciso momento è il fulcro dell’epidemia.
L’Asia sotto stretta sorveglianza
Di quali vantaggi sistemici dispone l’Asia rispetto all’Europa, tali da fare la differenza nella lotta all’epidemia? Contro il virus, i paesi asiatici fanno massiccio ricorso alla sorveglianza digitale. Credono cioè di trovare nei Big Data un enorme potenziale contro l’epidemia. Si potrebbe dire che in Asia le epidemie non vengono combattute solo da virologi o epidemiologi, ma anche e soprattutto da informatici e specialisti di Big Data. Un cambio di paradigma che l’Europa non ha ancora preso in considerazione. I Big Data salvano vite umane, direbbero a gran voce gli apologeti della sorveglianza digitale.
In Asia la coscienza critica nei confronti della sorveglianza digitale è pressoché inesistente. Della protezione dei dati non si parla quasi più, persino in paesi liberali come il Giappone o la Corea del Sud. Nessuno si oppone alla furiosa raccolta dati da parte delle autorità. La Cina nel frattempo ha introdotto un sistema di punteggio sociale impensabile per l’europeo medio, che consente una valutazione a tutto tondo dei cittadini. Ciascun individuo deve essere coerentemente valutato in base al proprio comportamento sociale. In Cina, nessun momento della quotidianità passa inosservato. Si controlla ogni clic, ogni acquisto, ogni contatto, ogni attività sui social. Chi passa col rosso, chi frequenta persone critiche nei confronti del regime o posta commenti critici sui social perde punti. E allora la vita può diventare davvero dura. Chi invece compra cibi sani via internet o legge giornali vicini al partito conquista punti. Chi dispone di un congruo punteggio ottiene un visto di viaggio o mutui a condizioni vantaggiose. Chi invece precipita sotto un certo livello rischia di perdere il lavoro.
In Cina questa sorveglianza sociale è resa possibile da un incessante scambio di dati tra i provider internet e di servizi mobili e le autorità. In pratica non vi è alcuna protezione dei dati personali. Il concetto di privacy non rientra nel vocabolario dei cinesi. In Cina ci sono duecento milioni di videocamere di sorveglianza, a volte dotate di efficientissimi dispositivi di riconoscimento facciale che captano persino i nei. Impossibile sfuggirvi. Queste videocamere animate dall’intelligenza artificiale sono in grado di osservare e valutare ciascun cittadino nei luoghi pubblici, nei negozi, per le strade, nelle stazioni e negli aeroporti. L’intera infrastruttura della sorveglianza digitale si sta ora rivelando molto efficace nell’arginare l’epidemia. Chi arriva alla stazione ferroviaria di Pechino viene automaticamente ripreso da una videocamera che misura la temperatura corporea. E in caso di valori allarmanti vengono informati via cellulare tutti coloro che hanno condiviso il vagone con quella persona. Del resto il sistema sa benissimo chi ha viaggiato insieme a chi.
Sui social si parla addirittura di droni impiegati a fini di sorveglianza della quarantena. Chi esce di nascosto viene intimato da un drone volante di tornare in casa. E magari il robot stampa anche una multa che svolazza sulla testa del malcapitato, chissà. Una situazione distopica per gli europei, che tuttavia in Cina non incontra alcuna resistenza. Non solo in Cina ma anche in altri stati asiatici come la Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan e il Giappone non vi è alcuna coscienza critica nei confronti della sorveglianza digitale o dei Big Data.
La digitalizzazione è una sorta di ebbrezza collettiva. C’è anche un motivo culturale. In Asia domina il collettivismo. Manca uno spiccato individualismo. E l’individualismo si differenzia dall’egoismo, che ovviamente abbonda anche in Asia. I Big Data sono in tutta evidenza più efficaci nella lotta al virus rispetto alla chiusura delle frontiere, ma in Europa, per via della protezione dei dati personali, un’analoga lotta al virus non è praticabile. I provider cinesi di servizi internet e mobili condividono i dati sensibili dei clienti con le autorità sanitarie e di pubblica sicurezza. Lo stato sa quindi dove mi trovo, chi incontro, cosa faccio e dove mi dirigo. In futuro anche la temperatura corporea, il peso, i valori glicemici ecc. saranno probabilmente controllati dallo stato. Una biopolitica digitale che va di pari passo con una psicopolitica digitale, influenzando emozioni e pensieri.
A Wuhan sono state formate migliaia di squadre di investigazione digitale che si mettono alla ricerca di potenziali contagiati solo sulla base di dati tecnologici. Solo grazie ai Big Data scoprono chi sono i potenziali infetti, chi continuare a osservare e chi va messo in quarantena. Anche in termini epidemiologici, il futuro è nelle mani della digitalizzazione. Forse dovremmo persino ridefinire la sovranità alla luce dell’epidemia. Sovrano è chi dispone dei dati.
L’Europa fa ancora affidamento su vecchi modelli di sovranità quando dichiara lo stato di emergenza o chiude le frontiere. Non solo in Cina, ma anche in altri stati asiatici vi è un impiego massiccio della sorveglianza digitale per arginare l’epidemia. In Taiwan o in Corea del Sud lo stato invia in contemporanea a tutti i cittadini un sms per rintracciare contatti o informare circa i luoghi e gli edifici frequentati da persone infette. Taiwan ha tempestivamente incrociato dati di diversa natura per rintracciare i contagiati sulla base degli spostamenti. In Corea, chi si avvicina a un edificio in cui si è trattenuta una persona contagiata riceve un avvertimento tramite una “corona app” che registra tutti i luoghi visitati dagli infetti.
Si fa poco caso alla protezione dei dati o alla privacy. In Corea del Sud le videocamere di sorveglianza sono installate in ogni edificio, a ogni piano, in ciascun ufficio o negozio. È praticamente impossibile muoversi in pubblico senza essere captati da una videocamera. Questo, insieme ai dati del telefonino, consente la ricostruzione integrale degli spostamenti di una persona contagiata. Dettagli che sono anche resi pubblici - con buona pace delle relazioni clandestine.
La risurrezione del nemico
Il panico nei confronti dell’epidemia di Covid-19 è smisurato. Nemmeno la spagnola, dalla letalità molto superiore, ebbe conseguenze così devastanti sull’economia. Qual è il motivo? Come mai il mondo reagisce così a un virus? Tutti parlano di guerra, di un nemico invisibile da sconfiggere. Abbiamo forse a che fare col RITORNO DEL NEMICO? L’influenza spagnola scoppiò durante la Prima guerra mondiale. A suo tempo erano tutti circondati da nemici. Nessuno avrebbe paragonato l’epidemia a una guerra o a un nemico. Ma oggi viviamo in una società molto diversa. Abbiamo vissuto a lungo senza un nemico. La Guerra Fredda è finita da un pezzo. Anche il terrorismo islamico è grossomodo scomparso all’orizzonte. Esattamente dieci anni fa, col saggio La società della stanchezza, ho sostenuto questa tesi: viviamo in un’epoca in cui non vale più il paradigma immunologico che scaturisce dalla negatività del nemico.
La società organizzata in chiave immunologica è contraddistinta, come ai tempi della Guerra Fredda, da confini e steccati che impediscono però la circolazione accelerata delle merci e del capitale. La globalizzazione abbatte tutte queste soglie immunologiche allo scopo di spianare la strada al capitale. Anche la promiscuità, la permissività generalizzata che oggi investe tutti gli ambiti della vita contribuisce ad abbattere la negatività dell’estraneo o del nemico. Oggigiorno i pericoli non emanano dalla negatività del nemico, bensì dall’eccesso di positività che si esprime in forma di sovrapprestazione, sovrapproduzione e sovracomunicazione. La negatività del nemico non appartiene alla nostra società sconfinatamente permissiva. La repressione perpetrata dagli altri cede il passo alla depressione, lo sfruttamento esterno all’autosfruttamento volontario e all’auto-ottimizzazione. Nella società della prestazione la guerra la si fa prima di tutto a se stessi.
Ora, d’improvviso, il virus irrompe in una società assai indebolita dal capitalismo globale. In reazione allo spavento, ecco che le soglie immunologiche vengono di nuovo alzate e si chiudono le frontiere. Il nemico è di nuovo tra noi. La guerra non la facciamo più con noi stessi, bensì contro un nemico invisibile che viene da fuori. Il panico sconfinato dinanzi al virus è una reazione immunitaria sociale, globale a un nuovo nemico. Una reazione immunitaria di rara intensità poiché abbiamo vissuto molto a lungo in una società senza nemici, in una società della positività. Ora il virus viene percepito come terrore permanente.
Vi è anche un ulteriore motivo per questo panico smodato. E ha di nuovo a che vedere con la digitalizzazione. La digitalizzazione smonta la realtà. La realtà la si esperisce tramite la resistenza, che può anche far male. La digitalizzazione, tutta la cultura del mi piace elimina la negatività della resistenza. E nell’epoca post-fattuale delle fake news o dei deep fake nasce un’apatia nei confronti della realtà. Ora il virus reale, quindi non informatico, scatena uno shock. La realtà, la resistenza, torna a farsi sentire nella forma di un virus ostile. La reazione di panico violenta ed esagerata va ricondotta a questo shock di realtà.
La società della sopravvivenza
Il timor panico dinanzi al virus rispecchia soprattutto la nostra società della sopravvivenza in cui tutte le energie vengono impiegate per allungare la vita. La preoccupazione per il viver bene cede il passo all’isteria della sopravvivenza. La società della sopravvivenza è peraltro avversa al piacere. La salute rappresenta il valore più alto. L’isteria del divieto di fumare è in fin dei conti isteria della sopravvivenza. La reazione di panico di fronte al virus svela questo fondamento esistenziale della nostra società. Se la sopravvivenza è minacciata, ecco che sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
La strenua lotta per la sopravvivenza subisce ora un inasprimento virale. Ci pieghiamo allo stato di eccezione senza opporre resistenza. La limitazione dei diritti fondamentali viene accettata senza colpo ferire. L’intera società si trasforma in una quarantena, variante liberale del lager in cui imperversa la nuda vita. Oggi il campo di lavoro si chiama home office. È solo l’ideologia della salute e della sopravvivenza a distinguerlo dai campi di lavoro del passato.
Nel corso dell’epidemia virale, la società della sopravvivenza mostra un volto inumano. L’Altro è prima di tutto un potenziale portatore di virus da cui bisogna prendere le distanze. Vicinanza e contatto significano contagio. Il virus aggrava la solitudine e la depressione. I coreani chiamano “corona blue” la depressione provocata dall’attuale società della quarantena. Alla lotta per la sopravvivenza va invece contrapposta la preoccupazione per il viver bene. Altrimenti la vita dopo l’epidemia sarà ancora più orientata alla sopravvivenza. E allora finiremo per essere come il virus, questo non morto che si limita a moltiplicarsi, a sopravvivere senza vivere.
La reazione di panico dei mercati finanziari all’epidemia è inoltre espressione di un terrore che cova già dentro di loro. Gli estremi fenomeni di rigetto tipici dell’economia globale la rendono molto vulnerabile. Malgrado il costante aumento degli indici borsistici negli ultimi anni, la rischiosa politica monetaria delle banche ha prodotto una forma di panico represso che attende uno sfogo. Il virus è forse solo la goccia che fa traboccare il vaso. Il panico dei mercati finanziari mette in rilievo, più che la paura del virus, la paura di se stessi. Il crash avrebbe potuto verificarsi anche senza virus. Forse il virus è solo l’avvisaglia di un crash ancora più grande.
Ci sarà una rivoluzione virale?
Žižek sostiene che il virus stia assestando un colpo mortale al capitalismo, ed evoca un oscuro comunismo. Crede persino che il virus condurrà alla caduta del regime cinese. Žižek si sbaglia. Tutto questo non accadrà. Ora la Cina venderà anche il proprio stato di polizia digitale come modello di successo nella lotta all’epidemia. La Cina dimostrerà con rinnovato orgoglio la superiorità del proprio sistema. Dopo l’epidemia, il capitalismo proseguirà con foga ancora maggiore. E i turisti continueranno a calpestare a morte il pianeta.
Il virus non rallenta il capitalismo, lo trattiene soltanto. Ci troviamo in uno stato di sospensione nervosa. Il virus non può sostituire la ragione. Inoltre, è possibile che in occidente finiremo per beccarci anche lo stato di polizia digitale su modello cinese. Come ha sostenuto Naomi Klein, lo shock è un momento propizio per il consolidamento di un nuovo sistema di potere. Dall’installazione del neoliberismo sono spesso scaturite crisi che hanno prodotto degli shock. S’è visto in Corea del Sud e in Grecia. Dopo questo shock virale è auspicabile che l’Europa non metta in piedi un regime di sorveglianza digitale alla cinese. In quel caso lo stato di eccezione, come teme Giorgio Agamben, diventerebbe la norma. Il virus riuscirebbe nella missione che il terrorismo islamico non è riuscito a portare a termine.
Il virus non sconfiggerà il capitalismo. La rivoluzione virale non avrà luogo. Nessun virus può fare una rivoluzione. Il virus ci isola. Non produce nemmeno un forte senso di comunità. Ora ognuno è preoccupato per la propria sopravvivenza. La solidarietà di prendere le distanze gli uni dagli altri non è solidarietà. Non possiamo lasciare la rivoluzione al virus. Speriamo invece che dopo il virus arrivi una rivoluzione umana.
Tocca a NOI ESSERI UMANI dotati di BUONSENSO ripensare e limitare drasticamente il capitalismo distruttivo e anche la nostra devastante mobilità senza confini - per salvare noi stessi, il clima e il nostro bellissimo pianeta.
(© Byung-Chul Han - Traduzione di Simone Buttazzi)
Doomsday clock, cento secondi alla fine del mondo. Ma non è colpa del coronavirus
di Filippo Mastroianni (Il Sole-24 Ore, 7 aprile 2020)
L’umanità non è mai stata così vicina alla mezzanotte. Un’ora simbolica che ci mette in guardia sui nostri comportamenti. Ricordandoci quanto siamo vicini a distruggere il mondo che conosciamo con tecnologie pericolose di umana produzione o, semplicemente, con i nostri comportamenti.
Mancano solo 100 secondi alla mezzanotte.
I motivi sono diversi. E no, non è colpa del coronavirus. Bando ai catastrofismi. Prima di raccontare cos’è esattamente il Doomsday clock anticipiamo una fondamentale informazione. Non è scienza esatta. È una metafora, un promemoria dei pericoli che dobbiamo affrontare e prendere sul serio se vogliamo sopravvivere ancora molte ere sull’amato pianeta Terra. Innanzitutto, perché ognuno di noi si informi e prenda coscienza di problematiche che sembrano così lontane dalla nostra esperienza quotidiana o al di fuori dal nostro controllo. Conoscere ma anche condividere discussioni su temi importanti. In terzo luogo, essere tutti partecipi della vita del nostro paese e delle tematiche che i rappresentanti dei governi dovrebbero affrontare.
Il Doomsday Clock è tornato a muoversi a inizio 2020. Ancora il mondo era all’oscuro di quello che sarebbe arrivato. O forse chiudeva gli occhi illudendosi che tutto sarebbe stato contenuto in Cina. A oltre settant’anni dalla sua creazione, da parte degli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago, le lancette si sono portate altri 20 secondi più vicine alla mezzanotte. Un orario che nelle intenzioni della sua creatrice, l’artista americana Martyl Langsdorf, simboleggiava la fine del mondo. Motivi principali dell’ulteriore spostamento il continuo riarmo nucleare e la mancanza di azione da parte delle grandi potenze nel contrastare i cambiamenti climatici. Un tema che, prima del covid-19, era tornato prepotentemente alla ribalta riassunto nella figura della giovane Greta Thunberg. Quanto quello che sta avvenendo sia legato anche ai nostri comportamenti sarà tutto da dimostrare nei prossimi studi scientifici sulle cause e le origini del virus. Quello che molti studi riportano è che due terzi dei virus umani sono di origine zoonotica. Ecco perché molti ritengono che esista un legame tra la devastazione ambientale e l’emergere di nuove malattie infettive.
Dal 2021, dopo l’evento tragico ed epocale che sta colpendo il mondo nella sua interezza, ci si aspetta un ulteriore spostamento delle lancette verso il Doomsday.
Oggi l’orologio segna le 23, 58 minuti e 40 secondi. Si tratta dell’orario più vicino all’Apocalisse dal 1953, quando lo sviluppo della bomba a idrogeno da parte di Stati Uniti e Russia aveva convinto gli scienziati che il mondo stesse avvicinandosi alla sua fine. Il risultato rappresenta ancora oggi un record. Mai le lancette saranno in seguito così vicine alla mezzanotte.
Le Motivazioni
Tra le principali motivazioni espresse nello Science and Security Board Bulletin of the Atomic Scientists del 2020, compaiono, come anticipato, la questione del riarmo nucleare e i cambiamenti climatici. Aggravati da molteplici altre minacce, tra cui la guerra informatica e la questione della cyber-security che deve tornare al centro del dibattito.
Poi il nucleare. I leader nazionali hanno posto fine o minato diversi importanti trattati e negoziati sul controllo degli armamenti nel corso dell’ultimo anno, creando un ambiente favorevole a una rinnovata corsa agli armamenti nucleari, alla proliferazione delle armi nucleari e alla riduzione degli ostacoli alla guerra nucleare. I conflitti politici inerenti i programmi nucleari in Iran e in Corea del Nord rimangono irrisolti e, semmai, stanno peggiorando. La cooperazione USA-Russia sul controllo degli armamenti e sul disarmo è ormai quasi inesistente.
Il pericolo di un olocausto nucleare è da sempre il motivo principale su cui si basano gli spostamenti delle lancette del Doomsday Clock. Nel 2007, per la prima volta, sono state citate tra le motivazioni non solo i pericoli derivanti dal nucleare, ma anche dai mutamenti climatici in atto nel nostro pianeta.
La consapevolezza dell’opinione pubblica sulla crisi climatica è certamente cresciuta nel corso del 2019. In gran parte grazie alle proteste di massa da parte dei giovani di tutto il mondo. Allo stesso tempo va però registrata un’azione governativa sui cambiamenti climatici non ancora all’altezza della grande sfida da affrontare. Alle riunioni del clima delle Nazioni Unite dello scorso anno, i delegati nazionali hanno tenuto discorsi eccellenti, senza presentare piani concreti per limitare ulteriormente le emissioni di biossido di carbonio che stanno sconvolgendo il clima. Una limitata risposta politica arrivata nell’anno in cui gli effetti dei cambiamenti climatici causati dall’uomo si sono manifestati nella forma di uno degli anni più caldi della storia, con estesi incendi e lo scioglimento più rapido del previsto dei ghiacci.
I dati e la grafica
La grafica riassume schematicamente i cambiamenti registrati dal 1947 ad oggi sul Doomsday Clock. Il quadro generale è fornito dalla radar chart, che mostra i singoli spostamenti, anno per anno. Gli anni in cui è stato più vicino alla mezzanotte, prima del 2020, sono quelli compresi tra il 1953 e il 1960. L’orologio segnava le 23 e 58 minuti, a soli 2 minuti dalla fine del mondo. Sono 17 gli spostamenti negativi, per un totale di 35 minuti e 20 secondi. Solo 8 quelli positivi, per un totale di 30 minuti. Il cambiamento più significativo è quello datato 1991. Un +7 che rappresenta anche il momento in cui le lancette hanno raggiunto la massima distanza dalla mezzanotte. Dopo la firma del trattato per la riduzione delle armi strategiche e la caduta dell’URSS, il Doomsday Clock si è infatti fermato alle 23 e 43 minuti.
L’ultimo spostamento tocca le 23, 58 minuti e 20 secondi per la prima volta dalla nascita dell’orologio. Il 2017 aveva segnato una grossa novità introdotta dagli scienziati del Bullettin. Mai le lancette si erano spostate prima di soli 30 secondi , ma sempre di interi minuti. Oggi altri 20 secondi ci avvicinano alla mezzanotte.
Cosa aspettarsi dal 2021? Certamente ulteriori secondi verso la mezzanotte, che tengano conto della grave pandemia che sta colpendo il mondo intero. Le speranze? Doverne aggiungere solo una manciata. Poter leggere nella relazione 2021 degli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists non solo un aggiornamento che racconti il dramma del coronavirus. Anche la sua soluzione. Una cura, un vaccino.
Un immaginario diverso
di Franco Lorenzoni *
Trovo profondamente errato e fuorviante il continuo riferimento alla guerra che si fa in queste settimane. Contrastare una pandemia e combattere una guerra sono due azioni che non hanno nulla a che vedere. La guerra, qualsiasi guerra, si fonda sull’assassinio e la soppressione del nemico, il contrasto a un virus letale può contare solo sulla cura, la ricerca scientifica, comportamenti coerenti che fermino il contagio. Inoltre, come ha giustamente notato un ragazzo, “ai nostri nonni e bisnonni, un secolo fa, veniva imposto di partire per il fronte e finire carne da macello in trincea, a noi si chiede solo di stare chiusi in casa su un divano: c’è una bella differenza”.
Di comune c’è solo la presenza di donne e uomini che rischiano la vita, anche se in guerra affrontano il pericolo per uccidere nemici e bombardare innocenti, mentre in ospedale o visitando pazienti, infermieri e medici rischiano prendendosi cura e cercando di salvare più vite possibili.
Questa metafora, sbagliata e abusata, non la dobbiamo tuttavia dimenticare. Quando si dovrà decidere come e cosa ricostruire per uscire da una crisi economica che si annuncia devastante, dovremo ricordare con lucidità che per difenderci da possibili e probabili nuove pandemie, per affrontare le gravissime conseguenze del surriscaldamento globale che provoca già oggi milioni di profughi e vittime per siccità, inondazioni e fame, sarà necessario mettere al centro di ogni rinascita futura la necessità e il valore della cura reciproca, della ricerca scientifica, dell’arte e della cultura intese nel senso più ampio. Dovremo ricordare che le spese militari e i soldi per acquistare armi sono del tutto inutili per affrontare le enormi sfide che abbiamo di fronte, perché delle forze armate abbiamo constatato che le uniche armi utili sono gli ospedali da campo montati dagli alpini e da altri reparti militari.
Ancora una volta è parso evidente che dell’esercito può essere utile solo ciò che non è esercito: infermieri e medici militari che, invece di addestrarsi a usare armi per ferire, si sono formati per curare ferite.
È tempo di ripensare con radicalità a ciò che davvero ci può difendere, riprendendo le intuizioni di Alexander Langer riguardo alla formazione in Europa di corpi civili di pace. Un solo sommergibile costa più di 5.000 posti letto di terapia intensiva, ha giustamente ricordato Gino Strada, che di guerre e ospedali ne sa qualcosa.
Abbiamo sicuramente bisogno di più posti letto e ospedali migliori in ogni regione del nostro paese, dunque non potremo più tollerare tagli alla sanità pubblica. Abbiamo bisogno di più scienza e ricerca, quindi migliori università e ricercatori pagati degnamente, abolendo ogni numero chiuso per l’accesso alle facoltà. Abbiamo bisogno di una scuola più ricca, aperta e di qualità, con insegnanti in continua ricerca e formazione per riuscire finalmente a dare a tutte le ragazze e ragazzi la possibilità di terminare con successo i loro studi. Dovremo cercare di aumentare considerevolmente il numero dei laureati, che ha percentuali ridicole nel nostro paese, e affrontare di petto la ferita sociale della dispersione scolastica perché la povertà educativa, che è drammatica fonte di discriminazione sociale, va contrastata con politiche coerenti e l’impegno di ciascuno in ogni campo - dall’educazione alla formazione, all’arte e alla cultura diffusa nel territorio - perché la scuola da sola non ce la può fare (leggi anche il Manifesto dell’educazione diffusa, ndr)..
Lo sconcerto planetario di fronte a una tragedia della pandemia, che sta coinvolgendo miliardi di esseri umani, offre una straordinaria lezione a tutti noi e ci ricorda che l’alternativa è, davvero, tra istruzione e distruzione, tra scienza, conoscenza lungimirante, capacità di cura reciproca e passiva rassegnazione a modi di produrre, accumulare ricchezze, costruire e abitare che portano alla distruzione del territorio e dei fragili equilibri del pianeta che abitiamo. Naomi Klein sostiene che
E allora è alle idee che circolano che dobbiamo prestare tanta attenzione quanta ne stiamo prestando al virus letale che attenta alle nostre vite. Ciascuno di noi - in particolare chi insegna - dovrebbe fare ogni sforzo per mantenere viva l’attenzione al linguaggio. Possedere un linguaggio per narrare questo tempo straordinario, tanti linguaggi per ragionare e provare a capire ciò che sta accadendo, è il più grande dono che la scuola deve tentare di offrire (anche a distanza) a bambine e bambini, a ragazze e ragazzi che stanno vivendo momenti che ricorderanno tutta la vita. Questo tempo straordinario non sarà dimenticato, ma non lo si può comprendere davvero senza matematica e statistica, senza intendere qualcosa di biologia e di chimica.
Stiamo assistendo a eventi inimmaginabili e spaventosi e, come tutto ciò che è spaventoso, porta in sé elementi sconcertanti ed eccitanti. Chi ha mai visto le strade di New York deserte? Chi ha mai visto la propria città vuota e silenziosa? E allora cercare e affinare linguaggi che ci permettano di vivere con intensità e pensare con coscienza e profondità questo tempo che stiamo vivendo è più che mai necessario per nutrire la nostra memoria. E la memoria è tutto. Noi siamo la nostra memoria.
Guardarci dalle metafore che informano il nostro sentire ci aiuta non solo a fare esperienza con maggiore consapevolezza, ma anche a provare a immaginare una società capace di contrastare le malattie e catastrofi che ci attendono.
Nessuno avrebbe immaginato, solo due anni fa, che la cocciuta coerenza di una ragazza quindicenne avrebbe potuto scatenare una protesta giovanile mondiale per il clima, che non ha ancora prodotto risultati ma ha scosso le coscienze, ricordandoci quanto sia necessario rivedere la categoria dell’impossibile.
Solo allargando il nostro immaginario e cimentandoci in un cambio radicale di paradigma possiamo ritrovare le radici della speranza.
* Comune-info, 05 Aprile 2020 (ripresa parziale).
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
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Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
* La Civiltà Cattolica,·Domenica 5 aprile 2020]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI : STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI : LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
SCIENZA, STORIA E MEMORIA. PORTARSI DOPO DEWEY ....
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ALLA LUCE DEL GRANDE “SUCCESSO” NELLA CAPACITA’ DI ANALISI DELLA DIFFUSIONE DEL CORONAVIRUS mostrato dal CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (“Coronavirus. Rischio basso, capire condizioni vittime”, 22/02/2020), e della condivisione dei suoi “risultati” da parte di Giorgio AGAMBEN (”Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata”, il manifesto, 26/02/2020) , CONDIVIDENDO l’urgenza di accogliere “La sfida del Covid-19 alle scienze umane”, mi sia lecito rinviare ad alcune note dell’anno scorso (2019) proprio sul tema del “processo di apprendimento nelle due culture”. Forse, è proprio ora di uscire dal letargo e riprendere la navigazione “sotto coverta” e “il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” con Galileo Galilei. O no?!
CONVERSIONE ECOLOGICA (ED EGOLOGICA). SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! *Federico La Sala
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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UN SONNAMBULISMO DI LUNGA DURATA: VIVERE NELLA CAVERNA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS....
Nota a margine di "Il virus e l’inconscio. Diario di una quarantena" (di Sergio Benvenuto) *
FINALMENTE, E PIANO PIANO, EMERGE LA RADICALE CONSAPEVOLEZZA CHE “NOI” VIVAMO all’interno della “caverna”, dopo la “caduta”, e che uscire dal “letargo” (cf. Dante) è sempre più urgente. L’immaginario platonico-hegeliano ha esaurito ogni sua risorsa. L’orizzonte “andrologico” adamitico (e “ginecologico” eva-itico!) si va a chiudere, definitivamente:
«Attualmente politici, filosofi, moralisti, giornalisti, ripetono in Italia la stessa cosa: “Questa sarà un’occasione per renderci migliori!” Ricorrente idea consolatoria: pensare che se si attraversano catastrofi, tragedie, guerre, flagelli, poi si sarà migliori. Le traversie temperano il carattere, si diceva un tempo. [...] Attribuire agli umani tutti i mali è l’altra faccia di quella divinizzazione dell’Uomo (che risale a Pascal) che la filosofia più moderna ha denunciato: se si pensa che l’essere umano sia nel fondo potente come Dio, si penserà anche che possa avere la malvagia onnipotenza di Satana. Ma gli uomini non sono né Dio né Satana. »(SERGIO BENVENUTO - "Il virus e l’inconscio", cit., sopra)
SE CONSIDERIAMO CHE LA “SCIENTIFICA” TEO-LOGIA CATTOLICA COSTANTINIANA condivide ancora la “verità rivelata” dal cardinale Dario Castrillon Hoyos: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” (dichiarazione alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio , “la Repubblica” del 17 novembre 2000, p. 35), -E CHE LEGGIAMO E INTERPRETIAMO l’ antropologico “Ecce Homo” di Ponzio Pilato ancora in temini “andrologici” e” viro-logici” (cf. il saggio “Ecce” di C. Ginzburg, in “Occhiacci di legno”; e il recente lavoro di S. Natoli su “L’uomo dei dolori”), ALLORA è più evidente che viviamo ancora NEL PASSATO, NELLA PREISTORIA, e che LA RISATA DI KANT ha ancora un carico di energia per svegliarci dal letargo, far crollare le pareti della caverna, e portarci fuori da millenni di labirinto (Nietzsche). Ricordiamo, su questo tema, anche la lezione di Elvio Fachinelli. O no?! Boh e bah?!
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PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria" ?
CORSI E RICORSI STORICI: CIVILTA’ AL COLLASSO.
Uno studio della Nasa : l’Occidente è destinato a crollare come Roma antica e gli altri grandi imperi del passato.
PER UN’ALTRA EUROPA E PER UN’ALTRA ITALIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni ... L’ITALIA AL BIVIO : VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova"
Federico La Sala
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
Coronavirus. Epidemia e teologia, l’ebook di Fazzini
Un istant ebook che individua nella pandemia in cui siamo emersi un fatto “apocalittico”, nel senso etimologico del termine: non un evento da fine del mondo, ma di una rivelazione
di Redazione Agorà (Avvenire, mercoledì 25 marzo 2020)
“Si può fare una teologia del Covid-19? È possibile pensare teologicamente il coronavirus? Che cos’ha da dire la parola umana su Dio di fronte alla pandemia che da alcune settimane stravolge la nostra vita e la storia del mondo?”.
Esordisce con queste domande l’istant ebook Dio in quarantena. Una teologia del coronavirus (Emi, 2020, scaricabile gratuitamente su https://www.emi.it/dio-in-quarantena-un-ebook-gratuito) firmato da Lorenzo Fazzini, giornalista e saggista, direttore dell’Editrice missionaria italiana, disponibile da oggi. Una breve e densa riflessione in cui Fazzini individua nella pandemia in cui siamo immersi un fatto “apocalittico”, nel senso etimologico del termine: non un evento da fine del mondo, ma di una rivelazione che “ci dirà il senso. Il perché. La ragione. Ovvero: eschaton come il tempo ultimo che ci dice il significato. Di noi, degli altri, del mondo, di Dio”.
L’analisi di Fazzini inanella una serie di eventi, da lui appunti interpretati in chiave apocalittica, che hanno segnato l’inizio di terzo millennio: l’11 settembre, lo tsunami asiatico, la crisi finanziaria, l’ecatombe del terremoto di Haiti, il dramma delle migrazioni, l’elezione di papa Francesco dopo le dimissioni di un pontefice. Fino a due segnali convergenti: simbolicamente, la fine della cristianità nel rogo di Notre Dame; la recente certificazione di papa Bergoglio - “non siamo più in un regime di cristianità” - rispetto al cambio di epoca che stiamo vivendo.
Fazzini arricchisce il suo ragionamento di vari spunti letterati, da Cormac McCarthy a Marilynne Robinson, filosofici (Hans Jonas, Paul Ricoeur) e teologici (Dietrich Bonhoeffer e il gesuita australiano Richard Leonard), per concludere che la forza della solidarietà e l’eroismo umano che questi eventi “da fine del mondo” ci offrono, e che il coronavirus sta mettendo sotto i nostri occhi nel sacrificio di medici, infermieri e operatori sanitari, dicono molto della “salvezza ancora possibile” che ci sta davanti.
Il riscaldamento globale al tempo del coronavirus
di GIUSEPPE DI CAPUA e SILVIA PEPPOLONI*
Il coronavirus (Covid19) ha eclissato la comunicazione e il dibattito nei media sul riscaldamento globale, i cambiamenti climatici, l’economia verde, le minacce antropiche agli ecosistemi, l’inquinamento da plastiche negli oceani, ed altro ancora.
Il dato aggiornato al 16 gennaio 2020 del livello di CO2 atmosferica, misurato al Mauna Loa Observatory nelle Hawaii, segna un nuovo incremento, raggiungendo il valore di 413 parti per milione.
Il mondo è giustamente spaventato dal coronavirus e dalle conseguenze sanitarie di una pandemia rapida e ancora parzialmente ignota. L’economia globale è entrata in una fase di crisi che potrebbe addirittura avere conseguenze superiori alla grande crisi del 2007-2009. Le catene di approvvigionamento mondiali in grado di spostare rapidamente enormi flussi di energia e materia da una parte all’altra del pianeta si sono bruscamente interrotte o hanno ridotto la loro capacità operativa. Crolla il prezzo del petrolio per ragioni legate anche a strategie economiche e geopolitiche guidate dal alcune nazioni produttrici: questo renderà il greggio una fonte energetica ancora più appetibile per far ripartire l’economia nel breve futuro, ricordandoci ancora una volta che la storia energetica dell’umanità non è fatta di transizioni, ma di addizioni energetiche (Bonneuil e Fressoz, 2019) e che nei prossimi anni occorrerà aspettarsi una modifica del mix energetico utilizzato dalle società umane (con un incremento delle fonti rinnovabili di energia), piuttosto che un completo abbandono delle fonti fossili.
L’unica notizia di rilievo, ripresa ampiamente dai social media e dai media tradizionali in tema ambientale, è la riduzione dell’inquinamento in Cina da biossido di azoto (NO2), un gas prodotto dalla combustione ad alta temperatura che provoca forte irritazione polmonare. La riduzione sembrerebbe essere dovuta in larga parte al blocco delle attività industriali e alla drastica riduzione del trasporto veicolare per effetto delle misure di contenimento della diffusione del Covid19. Anche nella Pianura Padana, area tra le più inquinate d’Europa, la riduzione dell’inquinamento da NO2 per il rallentamento dell’economia mostra una chiara evoluzione.
Il riscaldamento globale e tutti gli effetti associati sono quasi scomparsi dai media. Eppure non c’è da essere meno preoccupati della pandemia in corso, come fa notare il meteorologo Luca Mercalli in una recente intervista. Mario Tozzi su La Stampa collega l’epidemia in atto ai danni ambientali antropogenici. Allo stesso modo fa Simona Re sulla rivista Micron per la quale “clima e salute viaggiano in tandem” rifacendosi a quanto afferma il direttore dell’Istituto di Genetica molecolare del CNR-IGM di Pavia per spiegare la maggiore frequenza delle epidemie negli ultimi decenni. Del resto sempre Simona Re fa notare che “la sovrappopolazione e la crescente frequenza e rapidità dei nostri spostamenti sono fattori di rischio per lo scatenarsi di un’epidemia”.
Una cosa è certa: nella comune percezione il riscaldamento globale in questo momento non è un problema. D’altro canto, su La Stampa Jacopo Pasotti riflette sulle differenze nella risposta umana alla crisi ambientale e a quella sanitaria per pandemia, affermando che “dopo decenni di indifferenza”, l’emergenza climatica “sta forse cominciando a generare una comunque tiepida preoccupazione”.
In ogni caso, l’odierno atteggiamento generale delle persone verso l’emergenza climatica è del tutto comprensibile, viste anche le differenti scale temporali su cui gli effetti del coronavirus (da pochi giorni a qualche mese) e del riscaldamento globale (da qualche anno ad alcuni decenni) si sviluppano.
Ma come scrive Francesca Mancuso su greenMe, richiamandosi alle affermazioni di Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU, e di Petteri Taalas (segretario generale dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale) per i quali i cambiamenti climatici sono mortali, più del coronavirus, “Sembra incredibile agli occhi di un italiano, costretto a casa per paura del contagio, eppure il riscaldamento globale ci riguarda da vicino e può mettere a repentaglio la nostra vita e quella delle generazioni future”.
Di certo l’emergenza del Covid19 insegna, o meglio conferma, alcune riflessioni già emerse da alcuni anni nell’ambito della geoetica (etica per la gestione dell’interazione tra gli esseri umani ed il sistema Terra) (Peppoloni e Di Capua, 2020), utili proprio per affrontare la crisi ambientale in corso:
1) I comportamenti individuali fanno la differenza nell’affrontare anche le crisi globali. Alla base della catena di azioni che una società deve mettere in atto per risolvere i suoi problemi, c’è sempre il singolo individuo, chiamato a confrontarsi con il senso di responsabilità verso se stesso, gli esseri umani più prossimi, la società come comunità ampia delle relazioni umane.
2) Le responsabilità personali, inter-personali e verso la società sono fondamentali per vivere in salute e sicurezza in una società globalizzata, fortemente interconnessa.
3) La responsabilità di ciascuno verso il sistema Terra, implica il rispetto dei sistemi socio-ecologici (Berkes e Folke, 1998; Ostrom, 2009). La disattenzione e l’azione umana violenta nei confronti degli ecosistemi hanno l’effetto di accrescere l’esposizione e quindi il rischio di tutte le comunità umane a fenomeni imprevedibili che possono mettere a repentaglio l’attuale strutturazione della società globalizzata, portandola ad un collasso sistemico.
Da queste riflessioni, derivano alcune considerazioni etiche e sociali generali:
a) L’individuo non può sottrarsi dal confrontarsi con il proprio senso di responsabilità articolabile nei quattro domini etici dell’esperienza umana: il sé, la relazione prossimale con gli altri nelle comunità sociali di riferimento, la società per esteso, il sistema Terra da intendersi come aggregato complesso di sistemi socio-ecologici. Il comportamento irresponsabile anche di un solo individuo può generare nel tempo una crisi sistemica planetaria.
b) Le catene di approvvigionamento globale devono essere riprogettate per aumentare la resilienza in caso di shock. Una loro ridefinizione non può prescindere dall’intervento di “progettisti”/operatori capaci di pensare in modo sistemico e provvisti di una cultura del rischio non solo di tipo economico. La vulnerabilità dei sistemi integrati non è questione affrontabile semplicemente in termini ingegneristici, poiché si alimenta di fattori imprevedibili che sono noti, studiati e valutati da numerose discipline, tra cui la medicina e le geoscienze (o scienze della Terra). Una pandemia o un disastro innescato da un fenomeno naturale non sono imponderabili fenomeni della natura, ma eventi di cui è possibile quantificare incertezza e probabilità di accadimento e di impatto. L’approccio multidisciplinare alle questioni globali è una prassi da attuare con urgenza.
c) La creazione di una governance internazionale, chiara e strutturata preventivamente in campo sanitario e ambientale, non è più procrastinabile, ma impone scelte politiche all’interno degli stati nazionali e tra essi per favorire l’integrazione delle decisioni che impattano un sistema umano ormai globalizzato, a dispetto di azioni che si riferiscano solo a localismi e particolarismi. La diversità va tutelata, ma non totemizzata. Non si può continuare a posticipare una governance necessaria per affrontare una possibile grande crisi sistemica globale che in un non lontano futuro potrà interessare tutto il pianeta, se le attuali generazioni umane non saranno state in grado di prendere decisioni drastiche ed efficaci per ridurre gli impatti globali antropogenici.
d) Per la prima volta nella storia, l’umanità è chiamata a realizzare un quadro di riferimento di principi e di valori comuni che sappiano andare oltre la Carta dei Diritti dell’Uomo per diventare una Carta per lo Sviluppo Umano Responsabile, in grado di integrare in uno stesso orizzonte ideale la dimensione individuale e sociale della responsabilità umana e farsi prassi attraverso un sentimento di comune appartenenza di specie.
e) La modifica dei paradigmi economici, sociali e politici richiesti per dare una concreta ed efficace risposta ai problemi antropogenici globali ha bisogno di un cambiamento anche culturale nella società. Non è solo con leggi e provvedimenti che verrà impostato il cambiamento necessario. Occorre rendere i cittadini consapevoli e responsabili con un’azione sul piano educativo. Questo significa che nei prossimi anni gli investimenti nei sistemi scolastici, oltre che nella ricerca, dovranno costituire un obiettivo prioritario dell’azione dei governi. Il diritto non può sostituirsi all’educazione in una civiltà avanzata, specie se democratica.
f) Merito e competenza sono valori che devono essere messi al centro di un nuovo patto sociale tra i cittadini. Mai come in questo momento di emergenza sanitaria, chiunque esige risposte affidabili ed autorevoli da coloro che conoscono i problemi da un punto di vista scientifico, pur con incertezza e lacune, e da coloro che devono prendere di conseguenza delle decisioni difficili per la collettività. Allo stesso modo, affrontare il riscaldamento globale e tutti i problemi ecologici planetari esige competenza, studio, aggiornamento professionale, cooperazione onesta, confronto leale, apertura al dialogo, e decisioni politiche che siano scientificamente fondate e attentamente soppesate attraverso il parere di scienziati e tecnici.
Il tempo dell’improvvisazione e del pressappochismo sta per finire.
*Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia
Riferimenti
Berkes F. and Folke C. (Eds.) (1998). Linking Social and Ecological Systems. Cambridge University Press, Cambridge.
Bonneuil C. e Fressoz J-B. (2019). La Terra, la storia e noi - L’evento Antropocene. Trad.: A. Accattoli e A. Grechi. Istituto della Enciclopedia Italiana, pag. XVII-367. ISBN: 978-8812007363.
Ostrom E. (2009). A General Framework for Analyzing Sustainability of Social-Ecological Systems. Science, vol. 325, pp. 419-422. doi:10.1126/science.1172133.
Peppoloni S. e Di Capua G. (2020). Geoetica e impatti globali antropogenici. In: Matione G. e Romanelli E. (a cura di): Il Corpo della Terra: La Relazione Negata. Castelvecchi Editore, Roma. ISBN 8832828715.
SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini): oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE,OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS *, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa"!) è già "oggi necessaria", ora e subito! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, «suprema fatica e suprema gioia», è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?!
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La civiltà è Enea che porta Anchise sulle spalle
di Laura Marchetti (il manifesto, 24.03.2020)
«L’Italia vede decimata la generazione anziana, punto di riferimento per i giovani e per gli affetti». Le parole dette ieri dal presidente della Repubblica italiana, in maniera solenne e commovente, sembrano così voler far scudo contro quell’aberrante e diffusa convinzione, espressa in maniera più o meno sotterranea, che le morti così numerose non siano state poi così importanti perché riguardavano i vecchi, per di più già malati. Mattarella al contrario ci ricorda quale patrimonio siano i vecchi, come siano indispensabili per i bambini, proprio in quanto “rimbambiti”, ovvero anche loro bambini, disposti a giocare, a divagare, a trasgredire.
E come siano importanti per i giovani, per la possibilità che hanno di trasmettere loro antichi saperi, valori vissuti, comunitarie tradizioni, forme diverse di presa dello spazio e di percezione dei tempi. E come, in definitiva, siano importanti per ognuno di noi, perché nel tempo dell’effimero e dell’oblio, di fronte agli spettacoli e ai consumi, mostrano il valore degli affetti teneri, dei ricordi, della memoria e del compianto.
Le parole del presidente sono dunque dense di significato educativo ed esistenziale ma hanno anche un impatto politico radicale perché, per la prima volta, interrompono la filosofia eugenetica che è la pratica e lo spirito di questi insani tempi. Dal documento degli anestesisti spagnoli alla teorizzazione dell’immunità di gregge degli inglesi, fino alla sottrazione forzata dell’assistenza sanitaria accaduta in certi ospedali italiani, si teorizza la necessità, per la “medicina delle catastrofi”, di scegliere fra i vecchi e i giovani, come fra i deboli e i forti. Una scelta dovuta allo stato di eccezione e alla situazione estrema, tesa a sottrarre responsabilità alla coscienza personale, che porta però con sé la traccia indelebile di un giudizio di qualità dato alla vita, come se una vita - la più forte, la più abile - fosse solo per questo degna di essere mantenuta, mentre un’altra con più facilità dovrebbe essere rottamata.
In tale scelta gerarchica - che, perdurando lo stato di eccezione, potrebbe essere estesa anche a tutti i disabili e a tutti i fragili - si conserva il segreto del potere totalitario e della società “tanatologica”, la società di massa del ‘900 che si fonda su un continuo commercio con la morte.
Lo dice Elia Canetti in un libro magnifico e terribile scritto in anni bui e insani quasi come questi (Masse e Potere). In questa società tanatologica, potente diviene sia il capo, che acquisisce potere di morte, sia chi si distingue dalla morte sopravvivendo. La sopravvivenza è di per se stessa acquisizione di potere.
Chi è morto giace, sta per terra; chi sopravvive sta in piedi. Già solo questa collocazione spaziale rende “l’istante del sopravvivere, l’istante della potenza”, anche perché inconsciamente insorge la convinzione di una vera e propria “elezione”, una emozione comparativa che non risparmia nessun rapporto, nemmeno quello più affettivo, nemmeno quello con i figli o i genitori o i fratelli. Su questo senso di elezione si fonda dunque il totalitarismo, secondo Canetti. Ma, potremmo aggiungere, anche il capitalismo in quanto tale trasforma in Pil la sopravvivenza, poiché miglior produttori sono i vivi, cioè gli abili, i giovani, i forti.
C’è nel potere contemporaneo quindi, il persistere di una barbarie di fondo, una inciviltà. La civiltà si fonda invece al contrario e nasce quando Enea in fuga dall’incendio, porta con se il vecchio padre sulle spalle e, per mano, il giovane figlio. La pietà, che è la sua qualità esistenziale e la sua qualità sociale, lo spinge nell’aiutare, includere tutti, curare tutti, anche a scapito della propria sopravvivenza, del proprio potere.
Quella pietà è anche l’intelligenza della specie, in quanto la specie sopravvive, sottolineano i biologi della complessità, non nella lotta ma perché la madre continua ad allattare il figlio e perché gli uomini, anche quando vivono rintanati, non sono topi che si distruggono ma anzi si prestano soccorso.
Noi, nell’agenda delle cose che dobbiamo mettere in campo quando finirà la guerra e vorremmo fare il mondo nuovo, dovremmo mettere in campo la pietà. Fin da ora, in quanto già ora abbiamo due problemi. Il primo è quello di non morire, ma il secondo è quello di vivere civili.
ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA”
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?! E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
Il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana”...
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Questo doloroso digiuno eucaristico che ci rende ancor più Chiesa
di Andrea Monda (Osservatore Romano, 14 marzo 2020)
Oggi per quasi tutti noi cattolici sarà una domenica senza messa, senza eucaristia. È la prima volta che ci capita nella vita, in precedenza quando è successo era stato in genere a causa delle nostre condizioni di salute ma ora è diverso, sono le messe e le chiese a trovarsi in pessime “condizioni di salute”.
Domenica scorsa siamo andati a messa, giusto in tempo perché poi è arrivata la decisione di sospendere le messe pubbliche. Quindi ora, nel mezzo della Quaresima, dovremo avviare, nostro malgrado, un inedito tipo di digiuno, quello eucaristico.
La cosa provoca sconcerto, dolore e dà a riflettere. E il pensiero si muove dal qui e ora e vola nello spazio e nel tempo. È uno dei vantaggi di essere cattolici secondo Chesterton («La Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo»), quello di appartenere ad una storia più grande di me, che mi precede e mi supera, che si estende nello spazio e nel tempo e quindi mi mantiene in una comunione con tutti i miei fratelli nella fede sparsi nel mondo e in ogni epoca: nella Chiesa è tutto sempre presente e contemporaneo.
Il pensiero dunque vola, ad esempio, in Amazzonia. Negli ultimi mesi questa regione così grande, così cruciale e così fragile, grazie all’iniziativa di Papa Francesco che ha indetto un Sinodo della Chiesa su di essa, è stata come “trasportata” e messa al centro del mondo e ci siamo così trovati noi stessi come trasportati in quelle terre dove, tra le altre cose, il digiuno eucaristico è spesso la regola. E non per una settimana o due, ma per lunghi mesi. C’è un modo per capire gli altri ed è soffrire con loro. Domenica forse capiremo un po’ di più i nostri fratelli abitanti dell’Amazzonia, e si tratta, ripeto, del digiuno di una sola domenica, la prima, speriamo di una serie non molto lunga. La discussione scaturita dal Sinodo sull’Amazzonia è stata per mesi molto accesa all’interno della Chiesa cattolica, ora forse è il momento di “sentire con la Chiesa” che si trova in Amazzonia.
Il pensiero vola anche nel tempo e ci conduce ai primi secoli del cristianesimo. In questi tempi di digiuno eucaristico e di chiese chiuse, i nostri pastori stanno esortando i fedeli a riscoprire la pratica religiosa all’interno delle case, la preghiera in famiglia, soprattutto del rosario. Così, ad esempio, la Chiesa italiana sta promuovendo un momento di preghiera per il Paese, invitando a recitare in casa il Rosario, i Misteri della luce, alla stessa ora: alle 21 del 19 marzo. In quella occasione si propone di esporre alle finestre un drappo bianco o una candela accesa. Quando nasce la Chiesa e per i primi secoli del suo cammino, le comunità non si riuniscono in luoghi pubblici di culto ma tutto si svolge nelle “chiese domestiche”. È con la fine delle persecuzioni sotto l’imperatore Costantino che le cose cambiano e si prende la decisione, tanto inevitabile quanto gravida di conseguenze, di convogliare il culto in edifici dedicati esclusivamente al culto.
Oggi da un certo punto di vista siamo tornati alla condizione dei primi secoli, alla riscoperta del senso della comunità credente all’interno delle mura domestiche dove, a causa della diffusione dell’epidemia, ci troviamo costretti a vivere. Alcuni studiosi e teologi hanno riflettuto, a partire dalla metà del secolo scorso, sul fatto che la Chiesa con la fine del potere temporale e soprattutto con il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana” in cui il percorso della Chiesa si era strettamente intrecciato e a volte confuso con quello dei poteri civili e politici. E molti vedono in Francesco il Papa che, proseguendo nella realizzazione del concilio, sta definitivamente chiudendo quella pagina storica cominciata con la svolta dell’imperatore vincitore a Ponte Milvio nel segno della croce.
Proprio Francesco il 21 dicembre scorso, citando Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha ricordato alla Curia romana che «non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede - specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente - non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Proprio per questo, dice il Papa: «Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti».
Oggi chi scrive si trova nella grande città di Roma, culla del cristianesimo come spesso viene chiamata, e sente che gli è chiesto un sforzo di fede creativa per sviluppare nuove “mappe”, il che vuol dire anche tornare alle sorgenti della fede, della propria storia, perché per il cristiano anzi è sempre così: tornare all’essenziale, alle radici, al Vangelo, perché lì si trova la vita. Da questo punto di vista la Quaresima è il tempo forte, è il kairòs, il momento opportuno per purificare la nostra fede, rianimare la speranza e allora anche l’inedito e doloroso digiuno eucaristico potrà diventare un’occasione per allargare il cuore, farci sentire in comunione con tutta la Chiesa, il popolo che Dio accompagna sin dall’eternità, in ogni luogo e in ogni tempo.
QUESTIONE EPOCALE. Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito....
Nota a margine “Su Agamben e il contagio. Il ruolo della filosofia e la comune umanità” *
E’ DA DIRE che, nonostante “La veglia per Finnegan” (James Joyce), la “Storia notturna” (Carlo Ginzburg) continua: “Ulisse” prosegue il suo “folle volo” ancora nel mare eracliteo (“la stessa cosa sono Ade e Dioniso”)! E, nell’orizzonte cartesiano-heideggeriano, la traccia della “fanciulla straniera” è perduta e, con essa, ogni possibilità di distinguere tra “charitas” e “caritas” (“virus” e “virtus”, “Forza, Italia” e “Forza Italia”, ecc.)!!! Il tempo scorre ... e Dante Alighieri è già oltre!
Non è forse ora di svegliar-si e uscire fuori dall’ inferno epistemologico paolino-hegeliano e dallo “stato di eccezione” schmittico-agambeniano?! Non si è ancora capita la “battuta” di Ponzio Pilato (“Ecce Homo”), di Giuliano l’Apostata e di Keplero (“Vicisti, Galilaee”, 1610)?! Ennio Flaiano , nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia”, così scrive: “L’ Amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galileo”! Che dire?! In tempi di “peste”, non è male ricordare Manzoni, i “Promessi sposi”, e la sua “ardua sentenza” su Napoleone. Credo che sia meglio, ora e subito, uscire dal let-argo! O no?!
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Coronavirus.
Trump cede: crisi fuori controllo. L’Oms: «Un test per l’umanità»
L’Organizzazione mondiale della Sanità: «Allerta per il Sud del mondo La pandemia colpisce i più poveri. Muoiono anche i giovani»
Elena Molinari, New York (Avvenire, martedì 17 marzo 2020)
"E’ la crisi che segna la nostra epoca. I prossimi mesi saranno un test per la nostra risolutezza e la nostra fiducia nella scienza. Crisi come questa di Covid-19 tendono a far emergere il meglio e il peggio dell’umanità". Le parole del direttore dell’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, hanno risuonato come una tragica profezia negli Usa, dove ieri molti Stati hanno adottato misure drastiche di isolamento sociale, ma dove in molte città la vita continuava surrealmente nella normalità, come se i casi di coronavirus non stessero aumentando in modo esponenziale. «Se si guarda alle proiezioni - ha spiegato Jerome Adams, ossia il capo esecutivo del Public Health Service Commissioned Corps e portavoce delle questioni di salute pubblica all’interno del governo federale - ci sono tutte le possibilità di diventare come l’Italia».
Il bilancio dei contagi ieri negli Stati Uniti ha superato i 4mila, con 70 morti, e sono concentrati soprattutto sulle due coste. L’amministrazione di San Francisco ha ordinato ai 6,7 milioni di residenti di restare a casa: è la misura più severa presa finora. A New York, dove ieri i casi confermati sono balzati a 950 dai 729 di domenica, hanno chiuso bar, ristoranti e scuole. Vietato pure l’accesso alla statua della Libertà così come gli assembramenti di più di 50 persone (questo anche nei vicini Connecticut e New Jer- sey). Il governatore dello Stato, Andrew Cuomo, ha implorato Donald Trump di fare di più a livello federale, per armonizzare un approccio che, a detta anche di molti esperti, è stato lasciato troppo all’iniziativa delle singole amministrazioni locali. Un esempio clamoroso sono le elezioni primarie, che oggi si terranno come previsto in Florida, Illinois, Ohio e Arizona, mentre Lousiana e Georgia. hanno già di rimandato il loro appuntamento con le urne e New York prevede di fare altrettanto, sebbene nello Stato non si voti fino al 28 aprile. I risultati del voto di oggi potrebbero permettere all’ex vicepresidente Joe Biden di ipotecare la nomination democratica, facendo tramontare definitivamente le speranze presidenziali del rivale Bernie Sanders. Il presidente Usa anche ieri ha ribadito che la scelta spetta ai singoli. Ma - ha aggiunto - «il rinvio non sarebbe una buona cosa».
Eppure, almeno a parole, il capo della Casa Bianca è sembrato ricredersi sull’emergenza. «È una crisi davvero brutta» ha affermato sottolineando che l’epidemia negli Usa si fermerà a luglio o ad agosto. E, dopo aver a lungo minimizzato l’emergenza, ha ammesso: «La situazione non è sotto controllo». La Casa Bianca intende dispiegare almeno 800 miliardi di aiuti nelle prossime settimane per sostenere l’economia Usa e tra le priorità vi sono il rinvio del pagamento delle tasse, prestiti agevolati o pagamenti diretti alle compagnie aeree, all’industria dell’ospitalità e alle piccole e medie aziende colpite dall’emergenza.
Più forte e coordinata la reazione del Canada, dove i casi sono per ora 324. Il Paese ieri ha chiuso le frontiere a tutti i non canadesi, con l’eccezione, per ora, dei cittadini americani, e chiesto alla popolazione di rimanere in casa. È il tipo di precauzioni che il direttore dell’Oms ha invitato ieri tutti i Paesi a prendere, per proteggere la loro popolazione ma anche il resto del mondo, in un test globale di solidarietà. «Fate i test, fate i test, fate i test», ha implorato Tedros che si è detto profondamente preoccupato per l’arrivo dell’epidemia nel Sud del mondo. «Con il coronavirus che si sposta nei Paesi a basso reddito, siamo profondamente preoccupati per l’impatto che potrebbe avere sulle popolazioni a molto alta prevalenza di Hiv o sui bambini malnutriti. Non dimentichiamo che muoiono anche i giovani e i piccoli», ha precisato. Nella conferenza stampa a Ginevra, il direttore ha ringraziato i medici e le infermiere all’opera, e detto di essersi emozionato nel vedere i video delle persone che applaudono gli operatori sanitari dai loro balconi o dalle storie di persone che si offrono di fare la spesa per gli anziani della comunità.
LA RELIGIONE CATTOLICA NELLA TRAPPOLA DEL "PADRE NOSTRO", DEL "DEUS CARITAS"... *
Oikonomia /10.
Ambiguo è il sacrificio
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 marzo 2020)
Sacrificio è parola della religione, dell’economia, di ogni crisi. I sacrifici sono nati o si sono sviluppati durante le grandi crisi collettive - le guerre, le carestie, le pestilenze. Nel mondo antico, quando la vita diventava dura e un male minacciava le comunità, i nostri progenitori iniziarono a pensare che offrire qualcosa di valore alla divinità potesse essere l’essenziale strumento di management delle catastrofi e delle crisi. Il sacrificio agli dèi di animali e, in certi casi, di bambini e di vergini divenne un linguaggio per legare cielo e terra, la speranza collettiva di poter agire sui nemici invisibili. I sacrifici si nutrono di speranza e di paura, di vita e di morte. È una esperienza radicalmente comunitaria, che cura, ricrea e nutre i legami dentro la comunità e tra la comunità e i suoi dèi.
Il sacrificio è luce e buio insieme. Le luci sono chiare. Le comunità non nascono, non durano né crescono senza sacrifici - continuiamo a scoprirlo, e mai abbastanza. Abbiamo imparato a praticare il dono e la generosità in millenni di offerte sacrificali. Ogni dono vero porta intrinseco una dimensione di sacrificio (nel senso più comune della parola). Quei doni che non ci costano nulla non valgono nulla - una delle leggi sociali più antiche -, perché il dono vero è sempre dono della vita. Amiamo molto i doni, soprattutto da parte delle persone più care, perché sono sacramenti del loro amore per noi. Per i nostri ragazzi i giorni della pandemia che stiamo vivendo tra l’inverno e la primavera di questo anno 2020 possono essere anche un tempo meraviglioso per imparare il misterioso e decisivo rapporto tra sacrificio, dono, vita.
Venendo al suo lato oscuro, il sacrificio ha una intrinseca dimensione verticale e asimmetrica. Non si offre qualcosa a un pari grado, ma a una entità sentita superiore. Le comunità sacrificali sono sempre gerarchiche, perché il rapporto uomo-dio diventa immediatamente il paradigma dei rapporti politici e sociali, quindi del potere. La comunità che offre sacrifici e doni agli dèi deve anche offrire sacrifici e doni ai potenti e al re - che in certe religioni è di natura divina. Il dono fatto al re è il regalo (da rex: re), che si fa perché non lo si può non fare.
Se poi guardiamo le stesse parole che abbiamo appena usato per descrivere la luce del sacrificio (“costano”, “valgono”, “care”), ci ritroviamo subito dentro un’altra sua dimensione buia, legata ancor più direttamente all’economia. Il sacrificio non è un atto isolato, è un processo che si svolge nel tempo. All’inizio c’è in genere una aspettativa di ritorno che troppo facilmente diventa pretesa. La grazia desiderata nei sacrifici è oggetto di commercio. In genere il sacrificio si trova prima della grazia. E anche quando il sacrificio arriva dopo, quando torneremo al tempio per fare un’altra offerta sacrificale saremo già dentro un rapporto commerciale con il dio.
È possibile che molte comunità abbiano iniziato la pratica del sacrificio di oggi come riconoscenza per un dono ricevuto ieri dagli dèi, e che dal secondo sacrificio in poi sia prevalso il registro commerciale, e il sacrificio sia diventato il prezzo pagato in anticipo per lucrare una nuova grazia. Ciò che manca (o che è fortemente sfidata) nei sacrifici è proprio la gratuità.
Attraverso la mediazione del cristianesimo il sacrificio è entrato direttamente nell’economia medioevale e poi nel capitalismo, diventandone uno dei pilastri etici. Economia e sacrificio hanno entrambi a che fare con la dimensione materiale della vita. Nei sacrifici non basta offrire preghiere e salmi di lode: occorre offrire qualcosa di materiale, sacrificare cose o vite alla cose assimilate. I primi beni economici della storia umana sono stati gli animali offerti, i primi mercati quelli con gli dèi, i primi commerci quelli tra cielo e terra, i primi mercanti i sacerdoti dei templi.
Il sacrificio lo incontriamo oggi in molti luoghi del capitalismo. E non solo nei fenomeni più evidenti, quali i crescenti sacrifici chiesti dalle grandi imprese ai dipendenti, che oggi prendono spesso la forma di veri olocausti (distruzione totale dell’offerta) della vita intera, perché spesso inutili alla produttività dell’azienda, ma puri segnali di devozione totale e incondizionata.
La presenza più interessante del sacrificio nel capitalismo è però quella meno evidente. Nelle religioni il sacrificio non vuole solo cose: vuole cose vive che muoiono mentre le offriamo. Il sacrificio consiste proprio nel trasformare ciò che vive in qualcosa che muore perché vivo (solo le cose vive possono morire: gli oggetti non muoiono perché non sono vivi). Le monete, ad esempio, si trovano nei santuari di tutto il mondo, ma non sono usate come materia del sacrificio - servono per comprare animali da offrire, o si lasciano come accessori complementari al sacrificio vivo. Nei sacrifici quegli animali o quelle libagioni (vegetali), che come tutte le cose vive sarebbero destinate necessariamente e naturalmente alla morte, grazie al sacrificio riescono, paradossalmente, a sconfiggere la morte, ad acquistare una dimensione che le sottrae al ritmo naturale della vita. Perché se da una parte l’agnello muore prematuramente perché sacrificato quando è ancora vivo, mentre muore sull’altare diventa qualcosa di diverso che vince le leggi naturali. Entra in un altro ordine, acquista un altro valore. Non morendo naturalmente diventa, in un certo modo, immortale.
Anche l’economia vive e cresce trasformando cose destinate alla morte in beni che acquistano valore proprio in questa trasformazione. Ogni giorno le imprese prendono cose vive (materie prime, animali, grano, cotone, le nostre energie...), destinate in quanto vive alla morte, e creano valore aggiunto facendole “morire” trasformandole in merci. Quel valore che si aggiunge alle cose nel trasformarle somiglia molto al valore che gli animali e le piante prendevano mentre venivano offerte sull’altare.
La lettura della morte e risurrezione di Gesù è stata anche letta da questa prospettiva: il suo “sacrificio” sconfigge l’ordine naturale della morte e lo rende, con la risurrezione, immortale. Anche il martirio, o più tardi la verginità, furono lette nel cristianesimo come un’alchimia della morte in una vita diversa e superiore.
Il rapporto tra cristianesimo e sacrificio è però pieno di equivoci. Anche se la vita e le parole di Gesù si muovono dentro una logica anti-sacrificale («Misericordia voglio, non sacrifici»), il cristianesimo da subito ha interpretato la passione e morte di Gesù come un sacrificio, come l’«agnello di Dio» che con la sua morte toglie, definitivamente, il peccato dal mondo. Un nuovo e ultimo sacrificio (Ebrei 10), che sostituisce gli antichi e reiterati sacrifici nel tempio. Il sacrificio di Gesù, del Figlio, sarebbe stato il prezzo pagato a Dio Padre per estinguere l’enorme debito che l’umanità aveva contratto. Gesù il nuovo sommo sacerdote che offre in sacrificio non animali ma se stesso (Ebrei 7).
Questa teologia sacrificale ha attraversato e segnato l’intero Medioevo, ribadita dalla Controriforma, e ancora oggi molto radicata nella prassi cristiana. L’idea sacrificale informa molta liturgia cristiana, e ha trasmesso al cristianesimo anche la visione gerarchica tipica del sacrificio. Per tutto il Medioevo (e oltre) la cultura del sacrificio si è espressa infatti in pratiche sociali di sacrificio dove erano i sudditi, i figli, le donne, i servi, i poveri a doversi sacrificare per i padroni, per i capi, per i preti, per i padri e per i mariti. Il sacrificare a Dio divenne facilmente sacrificarsi per altri uomini che, come Dio, si trovano sopra e più in alto dei sacrificanti.
Il contesto teologico sacrificale ha offerto a rapporti di potere asimmetrici e feudali una giustificazione spirituale, chiamando sacrificio ciò che era, semplicemente, sfruttamento.
Il sacrificio sta finalmente uscendo dalla teologia più recente (grazie a una comprensione più biblica del mistero della Passione), ma sta entrando sempre più nella nuova religione capitalista. Infatti, il processo creativo delle cose vive che muoiono, e “morendo” aumentano il loro valore, è diventato particolarmente forte e centrale nel capitalismo del XXI secolo, dove, diversamente da quanto avveniva nel passato, le prime cose vive che acquistano valore morendo sono diventati i lavoratori.
Marx ci aveva spiegato che solo le persone sono capaci di creare valore aggiunto in economia - non bastano le macchine. Questa antica verità ha subìto recentemente una importante trasformazione. Fino a qualche decennio fa, il “sacrificio” richiesto dalle fabbriche non era eccessivo, tantomeno totale: era soltanto quello inquadrato nel contratto di lavoro e custodito dai sindacati.
Il sacrificio della vita lo si riservava solo alla fede, alla famiglia, alla patria. La mutazione in senso religioso del capitalismo e l’eclissi degli altri ambiti “sacrificali”, ha fatto sì che le grandi imprese siano diventate i nuovi luoghi del sacrificio totale. A questo capitalismo non basta più né interessa consumare la nostra forza-lavoro. Sono i lavoratori che devono offrirsi, spontaneamente, sull’altare. Il loro culto ha bisogno delle persone intere - in ogni religione l’offerta più gradita è quella intera, giovane e senza macchia -, che valgono tanto più quanto più grande è il loro sacrificio. È crescente e impressionante, ad esempio, il numero di manager single o senza figli nelle posizioni apicali delle grandi imprese, un numero che aumenta molto nelle capitali del capitalismo (da Singapore a Milano). Una nuova forma di celibato e di voto di castità, essenziali alla nuova religione. E, come nel Medioevo, la bella parola sacrificio copre la brutta parola sfruttamento. Questo capitalismo sta manipolando troppe parole.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL VANGELO DI PAPA RATZINGER E DI TUTTI I VESCOVI E IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ": LO STATO DI "ECCEZIONE UMANA" ....*
La comunità degli abbandonati
di DIVYA DWIVEDI - SHAJ MOHAN *
Per molto tempo l’India è stata un paese ricco di gente eccezionale, il che ha svuotato di significato il concetto di ‘stato di eccezione’ o quello della sua ‘estensione’. I bramini sono eccezionali perché solo loro possono presiedere ai rituali che regolano l’ordine sociale e perché non possono essere toccati (meno che mai desiderati) da coloro che appartengono alle caste inferiori per tema di minare la purezza del rituale. In tempi moderni, in alcuni casi, questo prevede servizi igienici separati per loro. A loro volta anche i Dalit, le persone delle caste più basse, non possono essere toccate, e tantomeno desiderate, dalle caste superiori perché ritenute le più ‘impure’. Come si può notare, l’eccezione del bramino è diversa dall’esclusione del Dalit. Una delle caste dei Dalit chiamata ‘paria’ è diventata nell’opera di Arendt un ‘paradigma’, illuminandone tristemente la realtà di sofferenza. Nel 1896, quando la peste bubbonica arrivò a Bombay, l’amministrazione coloniale britannica cercò di contrastare il diffondersi della malattia con l’emanazione dell’Epidemic Diseases Act (legge sulle malattie epidemiche) del 1897. Ma le barriere tra le caste, tra cui la richiesta da parte delle caste più alte di ospedali separati e il rifiuto di ricevere assistenza medica da persone di caste inferiori appartenenti al personale medico, andarono a sommarsi alle cause di morte per più di dieci milioni di indiani.
La diffusione del coronavirus[1], che ha infettato più di 100.000 persone a quanto dicono le cifre ufficiali, porta allo scoperto la domanda che oggi ci poniamo su noi stessi - Vale la pena di salvarci, e a quale costo? Ci sono da un lato le teorie complottistiche, che vanno dalle ‘armi biologiche’ a un presunto progetto globale di frenare le ondate migratorie. Dall’altro, ci sono fastidiosi equivoci, dalla convinzione che il COVID-19 si propaghi attraverso la birra Corona, alle notazioni razziste sui cinesi. Ma ancora più preoccupante è che, in questa con-giuntura di morte di dio e di nascita del dio meccanico, perdura una crisi che riguarda direttamente il ‘valore’ dell’uomo. Si vede nelle reazioni alla crisi climatica, nell’‘esuberanza’ tecnologica, e nel coronavirus.
Prima l’uomo si conquistava il proprio valore tramite svariate teo-tecnologie. Per esempio, ci si poteva immaginare che creatore e creatura fossero la determinazione di qualcosa di precedente, per esempio “l’essere”, dove il primo si dava come infinito e il secondo come finito. In una divisione di questo tipo, si poteva pensare a dio come uomo infinito e all’uomo come dio finito. Nel nome dell’uomo infinito gli dei finiti eleggevano i loro scopi. Oggi, deleghiamo la determinazione degli scopi alla macchina, quindi il suo ambito a questo punto si può definire tecno-teologico.
È in questa con-giuntura particolare che vanno considerate le recenti osservazioni di Giorgio Agamben, secondo il quale le misure di contenimento contro il COVID-19 vengono impiegate come un’“eccezione” volta a permettere un incredibile ampliamento dei poteri dei governi nell’imporre restrizioni straordinarie alle nostre libertà. Cioè, le misure adottate, con notevole ritardo, dalla maggior parte degli stati per prevenire la diffusione di un virus che potenzialmente può uccidere almeno 1% della popolazione, potrebbero condurre al livello successivo di “eccezione”.
Agamben ci chiede di scegliere tra “l’eccezione” e l’ordinario benché la cosa che lo preoccupi sia che l’eccezione diventi la regola.[2]
Jean-Luc Nancy ha in seguito risposto a questa obiezione osservando che oggi ci sono solo eccezioni, vale a dire, tutto quello che un tempo consideravamo ordinario è ormai infranto.[3]
Nel suo ultimo saggio, Deleuze si riferiva a ciò che ci interpella alla fine di tutti i giochi tra ordinarietà ed eccezioni come a “una vita”[4]; ovvero che si è afferrati dalla responsabilità quando ci si confronta con una vita individuale che è nella presa della morte. Morte e responsabilità vanno insieme.
Occupiamoci allora della non-eccezionalità delle eccezioni. Fino alla fine del 1800, negli ospedali molte donne incinte dopo aver partorito morivano di febbre puerperale o di infezioni post-parto. A un certo punto, un medico ungherese, Ignác Semmelweis, si rese conto che ciò succedeva perché le mani degli operatori sanitari veicolavano agenti patogeni passando da un’autopsia a un paziente, o dall’utero di una donna a un’altra, provocando così infezioni e morte. La soluzione proposta da Semmelweis fu di lavarsi le mani dopo ogni contatto. Per questa ragione fu trattato come un’eccezione e messo al bando dalla comunità medica. Morì di setticemia in manicomio, pare contratta dopo essere stato bastonato dalle guardie. In realtà, i sensi delle eccezioni sono infiniti. Nel caso di Semmelweis, la tecnica stessa per combattere le infezioni rappresentava l’eccezione. Nella Politica, Aristotele ha parlato del caso dell’uomo eccezionale, come di colui che sa cantare meglio del coro, che viene messo al bando in quanto dio tra uomini.
Non c’è un unico paradigma per l’eccezione. La via di una patologia microbica è diversa di quella di un’altra. Per esempio, gli stafilococchi vivono all’interno del corpo umano senza arrecare difficoltà, anche se scatenano infezioni quando la risposta del nostro sistema immunitario è “eccessiva”. Al punto estremo dei rapporti non-patogeni, i cloroplasti nelle cellule vegetali e i mitocondri nelle cellule del nostro corpo rappresentano delle convivenze antiche e ben assorbite tra specie differenti. In particolare, virus e batteri non ‘intendono’ uccidere il loro ospite, perché non è sempre nel loro ‘interesse’[5] distruggere l’unico tramite che gli permette di sopravvivere. Sul lungo termine - milioni di anni di tempo della natura - “tutte le cose imparano a vivere insieme” o per lo meno raggiungono un equilibrio reciproco per lunghi periodi. Questo è il senso che ha il biologo della temporalità della natura.
In anni recenti, in parte in seguito a pratiche agricole, microrganismi che vivevano in modo indipendente l’uno dall’altro si sono uniti e hanno cominciato a scambiarsi materiale genetico, a volte solo frammenti di DNA e RNA. Quando questi organismi hanno fatto il “salto” e sono passati agli esseri umani, a volte per noi sono cominciati disastri. Il nostro sistema immunitario percepisce questi nuovi arrivati come uno shock e, sopravvalutandone le risorse, induce infiammazioni e febbre che spesso uccidono noi e anche i microrganismi.
Etimologicamente il “virus”[6] è legato al veleno. È un veleno nel senso che quando un nuovo virus trova una soluzione negoziata con gli animali umani, noi siamo già morti da un pezzo. Ossia, ogni cosa può essere considerata secondo il modello del pharmakon (che è sia veleno che cura) se ci basiamo sul tempo della natura. Ma la distinzione tra farmaco e veleno per lo più riguarda il tempo dell’uomo, l’animale meraviglioso. Ciò che si definisce ‘biopolitico’ prende posizione partendo dal presupposto di una temporalità della natura, e di conseguenza trascura quello che è un disastro nell’ottica del nostro interesse in - la nostra responsabilità per - “una vita”, cioè la vita di tutti coloro che rischiano di morire per aver contratto il virus.
Qui sta il nocciolo della questione: siamo stati in grado di determinare gli ‘interessi’ del nostro sistema immunitario dando luogo a eccezioni in natura, per esempio attraverso il metodo di Semmelweis di lavarsi le mani e attraverso le vaccinazioni. Siamo una specie animale che non ha epoche biologiche a sua disposizione per poter perfezionare ogni intervento. Per cui, anche noi, come la natura, commettiamo errori di codifica e generiamo mutazioni in natura, rispondendo a ogni necessità nei modi migliori che possiamo.
Come ha fatto notare Nancy, l’uomo come eccezionale artefice di tecnologie e meraviglioso a sé stesso, fu pensato molto tempo fa da Sofocle nella sua ode all’uomo. Analogamente, diversamente dal tempo della natura, gli esseri umani si preoccupano di questo momento, che deve condurre al successivo con la sensazione che noi siamo gli abbandonati: coloro che sono condannati a chiedere “il perché” del loro esistere ma senza avere i mezzi per chiedere. O, come precisava Nancy in una lettera privata, ‘abbandonati da nulla’.
Il potere di questo “essere abbandonati” è diverso dagli abbandoni rappresentati dall’assenza di cose particolari le une rispetto alle altre. Questo essere abbandonati esige, come abbiamo visto in Deleuze, che ci si prenda cura di ogni vita in quanto preziosa, pur sapendo al contempo che nelle comunità degli abbandonati possiamo sperimentare la chiamata della vita individuale abbandonata di cui noi soli possiamo prenderci cura. Altrove abbiamo chiamato l’esperienza di questa chiamata dell’abbandonato, e la possibile nascita della sua comunità dalla metafisica e l’ipofisica, ‘anastasis’[7]
Tradotto dall’inglese da Fiorenza Conte. A cura dell’European Journal of Psychoanalysis.
[1] Per pura coincidenza, il nome del virus è ‘corona’, la metonimia della sovranità.
[2] Il che ovviamente è stato percepito come una non-scelta da quasi tutti i governi dopo il 2001 per rendere sicuri tutti i rapporti sociali in nome del terrorismo. La tendenza importante in questi casi è che la securizzazione dello stato è proporzionata alla aziendalizzazione di quasi tutte le funzioni dello stato.
[3] Si veda, Jean-Luc Nancy, L’intruso, Cronopio, 2005.
[4] Si veda, Gilles Deleuze, Immanenza: una vita, Mimesis, 2010.
[5] È assurdo attribuire un interesse a un micro-organismo, e i chiarimenti a questo proposito potrebbero occupare più spazio di quanto concesso per questo intervento. Oggi è altrettanto impossibile determinare l’“interesse dell’uomo”
[6] Da notare che i “virus” esistono sulla linea critica tra vivente e non-vivente.
[7] Shaj Mohan, Divya Dwivedi, Gandhi and Philosophy: On Theological Anti-Politics, prefazione di J.-L. Nancy, Londra, 2019.
* Fonte: "Antinomie", 12/03/2020 (ripresa parziale).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ" ! DI FRONTE A PONZIO PILATO E NON CAPIRE UN’ACCA ?!
Federico La Sala
L’ “8 SETTEMBRE”, LA “CORONA-VIRUS”, E UNA “PACE PERPETUA”. Ora il “capro espiatorio” siamo noi, l’intero genere umano ...
ALLA LUCE DEL FATTO che i “vescovi fiorentini hanno vietato di scambiarsi il segno della pace durante il rito della messa”, che a “Lourdes hanno chiuso l’accesso alle acque miracolose”, “per CARITA’, UN LAICO ILLUMINISTA” (cfr. Mario Pezzella, “Sarà un 8 settembre?, "Le parole e le cose”, 11 marzo 2020) può pure compiacersi di “quanto la fede religiosa sia diventata un gadget turistico, che non regge di fronte a uno stato di necessità”, MA NON PUO’ CONTINUARE A “DORMIRE”, A PENSARE COME SE FOSSE TUTTO COME “PRIMA” E RIPROPORRE LA STESSA “MINESTRA”:
SE NON SAPPIAMO ANCORA che cosa significa “pensare dentro l’emergenza”, forse, è bene CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO”, E CERCARE DI CAPIRE COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA SUA LEZIONE.
A DISTANZA DI SECOLI, e dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Lacan e dopo Foucault (il Foucault di “Che cosa è l’Illuminismo?”, 1983/1984), continuiamo a non capire che il “capro espiatorio” non è un caprone (cfr. “La crisi dell’Europa. Note per una riflessione storiografica”), ma un montone, un ariete, venuto a portarci in salvo (cfr.: “Guarire la nostra Terra. Necessità di “pensare un altro Abramo”), non a “sacrificarsi” per noi!!! Al contrario, oggi, l’intero genere umano, “noi stessi” ci apprestiamo a fare da “capro espiatorio” - e, pronti per la “pace perpetua” (cfr. Fine della Storia o della “Preistoria”?), abbiamo già messo sulla “nostra” testa la “corona” del sacrificio! O no?!
Federico La Sala
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
Italia
8 marzo, la protesta si fa diffusa
Non Una Di Meno. Cancellate le iniziative che prevedono assembramenti di massa. Si prende parola in forme creative. Flash mob a Roma e S-corteo a Milano. Un’occasione per ripensare un sistema che annulla i legami di solidarietà
di Shendi Veli (il manifesto, 07.03.2020)
La lotta ai tempi del corona virus assume aspetti imprevisti. Non si ferma la marea femminista, ma si riplasma in forme creative per prendere parola intorno alla data dell’8 marzo, momento di mobilitazione a livello globale. Ieri a a Roma la rete Non Una Di Meno insieme ai Fridays For Future ha messo in atto una performance. Un gruppo di persone vestite di tute e bianche e mascherine ha occupato Piazza dell’Esquilino intonando dei cori su una coreografia. Sulla schiena di ogni partecipante c’era un scritta che nominava le varie emergenze letali dei nostri tempi: il virus, certo, ma anche il lavoro, l’inquinamento e la violenza patriarcale.
«In un contesto di emergenza sanitaria abbiamo scelto di annullare tutte quelle iniziative che non garantiscono il rispetto delle norme previste per la salute di tutt*: la responsabilità collettiva è per noi da sempre centrale e sinonimo di cura reciproca» si legge nel comunicato del nodo romano. Ma la decisione è condivisa a livello nazionale, anche se restano le azioni simboliche, che ogni città declinerà a suo modo.
A Milano è stato lanciato per l’ 8 marzo lo «S-corteo», un primo esperimento di manifestazione diffusa «S-corteo è NON rimanere isolat* con la propria paura. S-corteo è un invito, a tutte le persone che l’8 marzo vorranno attraversare la città, a indossare qualcosa di fucsia così da riconoscerci a vicenda» spiegano nell’evento facebook.
A Roma, lo stesso giorno, è previsto un flash mob alle 12 a Piazza di Spagna, le manifestanti annunciano che saranno a distanza ma legate da un nastro fucsia, perché in un momento di crisi si pone l’accento sull’importanza dei legami di cura e solidarietà. Tra i turni estenuanti delle professioni sanitarie e le scuole chiuse, le donne rischiano di essere la valvola di scarico di un sistema non pensato per tutelare la vita.
PSICOANALISI, POLITICA, E SOCIETA’. "PADRI", "FIGLI", E QUESTIONE ANTROPOLOGICA - "EDIPICA"...*
I giovani infelici
di Pier Paolo Pasolini ("primi giorni del 1975")*
Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri.
Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti.
È il coro - un coro democratico - che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale.
Confesso che questo tema del teatro greco io l’ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto «altrove» e in un «altro tempo». Non senza una certa ingenuità scolastica, ho sempre considerato tale tema come assurdo e, a sua volta, ingenuo, «antropologicamente» ingenuo.
Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri. Senza scampo, perché i figli non solo sono nati, non solo sono cresciuti, ma sono giunti all’età della ragione e il loro destino, quindi, comincia a essere ineluttabilmente quello che deve essere, rendendoli adulti.
Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio, per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato molto di capire, di fingere di non capire, di contare sulle eccezioni, di sperare in qualche cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento è di condanna. I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Alla fine - cioè oggi, primi giorni del ’75 - il mio sentimento è, ripeto, di condanna. Ma poiché, forse, condanna è una parola sbagliata (dettata, forse, dal riferimento iniziale al contesto linguistico del teatro greco), dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è una «cessazione di amore»: cessazione di amore, che, appunto, non da luogo a «odio» ma a «condanna».
Io ho qualcosa di generale, di immenso, di oscuro da rimproverare ai figli. Qualcosa che resta al di qua del verbale: manifestandosi irrazionalmente, nell’esistere, nel «provare sentimenti». Ora, poiché io - padre ideale - padre storico - condanno i figli, è naturale che, di conseguenza, accetti, in qualche modo l’idea della loro punizione.
Per la prima volta in vita mia, riesco così a liberare nella mia coscienza, attraverso un meccanismo intimo e personale, quella terribile, astratta fatalità del coro ateniese che ribadisce come naturale la «punizione dei figli».
Solo che il coro, dotato di tanta immemore, e profonda saggezza, aggiungeva che ciò di cui i figli erano puniti era la «colpa dei padri».
Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo; ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine.
La colpa dei padri che i figli devono pagare è dunque il «fascismo», sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove - nuove senza equivalenti possibili nel passato?
Mi è difficile ammettere che la «colpa» sia questa. Forse anche per ragioni private e soggettive. Io, personalmente, sono sempre stato antifascista, e non ho accettato mai neanche il nuovo potere di cui in realtà parlava Marx, profeticamente, nel Manifesto, credendo di parlare del capitalismo del suo tempo. Mi sembra che ci sia qualcosa di conformistico e troppo logico - cioè di non-storico - nell’identificare in questo la colpa.
Sento ormai intorno a me lo «scandalo dei pedanti» - seguito dal loro ricatto - a quanto sto per dire. Sento già i loro argomenti: è retrivo, reazionario, nemico del popolo chi non sa capire gli elementi sia pur drammatici di novità che ci sono nei figli, chi non sa capire che essi comunque sono vita. Ebbene, io penso, intanto, che anch’io ho diritto alla vita - perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. Inoltre per me la vita si può manifestare egregiamente, per esempio, nel coraggio di svelare ai nuovi figli, ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.
I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.
Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti, che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, ne forse capacità di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto al loro coetanei di dieci o vent’anni prima, ma non abbastanza. L’integrazione non è un problema morale, la rivolta si e codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamente contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti - sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita - a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio - dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare. In questa enorme massa (tipica, soprattutto, ancora una volta!, dell’inerme Centro-Sud) ci sono delle nobili élites, a cui naturalmente appartengono i figli dei miei lettori. Ma questi miei lettori non vorranno sostenere che i loro figli sono dei ragazzi felici (disinibiti o indipendenti, come credono e ripetono certi giornalisti imbecilli, comportandosi come inviati fascisti in un lager). La falsa tolleranza ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce con l’essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse, naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione.
Certo: i gruppi di giovani colti (del resto assai più numerosi di un tempo) sono adorabili perché strazianti. Essi, a causa di circostanze che per le grandi masse sono finora solo negative, e atrocemente negative, sono più avanzati, sottili, informati, dei gruppi analoghi di dieci o vent’anni fa. Ma che cosa possono farsene della loro finezza e della loro cultura?
Dunque, i figli che noi vediamo intorno a noi sono figli «puniti»: «puniti», intanto, dalla loro infelicità, e poi, in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi (questo è il nostro sentimento, insopprimibile).
Ma sono figli «puniti» per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. È giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda, senza risposta, del motivo dominante del teatro greco.
Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione - che pareva cosi ciecamente irrazionale e crudele - del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati - in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano - dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi.
Resta sempre tuttavia il problema di quale sia in realtà, tale «colpa» dei padri.
È questo che sostanzialmente, alla fine, qui importa. E tanto più importa in quanto, avendo provocato una cosi atroce condizione nei figli, e una conseguente così atroce punizione, si deve trattare di una colpa gravissima. Forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana. E questi padri siamo noi. Cosa che ci sembra incredibile.
Come ho già accennato, intanto, dobbiamo liberarci dall’idea che tale colpa si identifichi col fascismo vecchio e nuovo, cioè coll’effettivo potere capitalistico. I figli che vengono oggi cosi crudelmente puniti dal loro modo di essere (e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile), sono anche figli di antifascisti e di comunisti.
Dunque fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari, hanno una colpa in comune. Tutti quanti noi, infatti, fino oggi, con inconscio razzismo, quando abbiamo parlato specificamente di padri e di figli, abbiamo sempre inteso parlare di padri e di figli borghesi.
La storia era la loro storia.
Il popolo, secondo noi, aveva una sua storia a parte, arcaica, in cui i figli, semplicemente, come insegna l’antropologia delle vecchie culture, reincarnavano e ripetevano i padri.
Oggi tutto è cambiato: quando parliamo di padri e di figli, se per padri continuiamo sempre a intendere i padri borghesi, per figli intendiamo sia i figli borghesi che i figli proletari. Il quadro apocalittico, che io ho abbozzato qui sopra, dei figli, comprende borghesia e popolo.
Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo.
Tale unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello «sviluppo». Non si può dire che gli antifascisti in genere e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario - per la prima volta veramente totalitario - anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività).
La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di non antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberarti della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti «i nostri fratelli cretini», come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l’accettazione - tanto più colpevole quanto più inconsapevole - della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo.
Perché tale complicità col vecchio fascismo e perché tale accettazione del nuovo fascismo?
Perché c’è - ed eccoci al punto - un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.
In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
* Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane. Roma 1991, 5-12.
*SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FACHINELLI, PASOLINI E IL LORO DIALOGO IN-INTERROTTO ... (Alfabeta 2, 28.06.2018)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
RIPRENDERE IL FILO DA "MEDEA" (E DA "GIASONE")! CON DANTE.... *
Scheda-Film
di Pier Paolo Pasolini
Medea è un film italiano del 1969, diretto da Pier Paolo Pasolini, basato sull’omonima tragedia di Euripide ed interpretato da Maria Callas. Il film, i cui esterni furono girati in Cappadocia (Turchia), ad Aleppo (Siria), a Pisa e a Grado, ebbe un’accoglienza positiva da parte della critica, ma non riscosse il successo commerciale sperato.
Trama
In Grecia a Iolco il re Esone è stato spodestato dal fratellastro Pelia, il quale governa con crudeltà e spietatezza, cercando in tutti i modi di uccidere l’erede al trono Giasone, mandato presso il suo mentore Chirone. In Scizia è stata raccolta una potente reliquia chiamata Vello d’oro, che in passato era appartenuta a Frisso. La pelle d’oro apparteneva al caprone sacro, inviato dagli dei per salvare il fanciullo e la sorella Elle da morte certa, ed aveva attraversato in volo tutto l’Ellesponto, mare che prenderà questo nome dalla sorella Elle che ci cadrà affondandovi. Giunto nella terra Colchide Frisso verrà sacrificato, la capra sarà scuoiata e la pelle data in dono ad Ares.
Nel prologo il centauro Chirone spiega al giovane Giasone in maniera filosofica l’armonia e l’equilibrio della natura e viene presentata la superba figura di Medea, sovrana della Colchide, una terra dall’altra parte del mondo, brutale e piena di usanze grottesche, che ospita la reliquia del Vello d’oro. Giasone, divenuto grande, ha ora la possibilità di sfidare suo zio e recuperare il suo regno. Quest’ultimo però gli chiede in cambio la preziosa pelliccia di capra, così inizia il viaggio alla ricerca della reliquia. Mentre Medea sta pregando nel tempio, ha una visione in cui vede per la prima volta l’eroe greco e se ne innamora perdutamente, così tanto da chiedere aiuto al fratello per rubare il Vello d’oro e partire con Giasone per la Grecia.
Il re suo padre lo viene a sapere e si getta all’inseguimento della figlia la quale al fine di rallentarlo, uccide il fratello lasciando pezzi del suo corpo lungo il cammino per costringere l’uomo a fermarsi. Dopo aver raccolto tutti i pezzi del corpo di suo figlio, il sovrano torna nel suo villaggio a restituirli alla madre piangente affinché abbiano una degna sepoltura. Intanto, lontana dalla sua terra e dalle sue tradizioni, Medea ha una crisi spirituale in cui le sensazioni di tormento si acuiscono quando capisce che Giasone e i suoi compagni hanno usanze totalmente opposte alle sue.
Consegnato il Vello a Pelia, quest’ultimo vien meno alla parola data negando il trono al nipote, il quale accetta sprezzante la decisione e rifiuta con sdegno di battersi oltre per il regno di suo padre. Prima di lasciare il palazzo, le ancelle preparano Medea per le nozze spogliandola dei suoi abiti barbari per vestirla come donna greca. Giasone congeda i suoi compagni di avventura e, consumata la prima notte d’amore con la sua amata, si avvia verso Corinto. Qui ritrova Chirone, il centauro che lo ha allevato da piccolo. I due hanno un dialogo filosofico nel quale il centauro fa presente a Giasone la situazione di Medea, che continua a vivere un conflitto interiore tra l’attuale realtà e la vita spirituale scandita dai rituali del suo passato nella Colchide. Giasone diviene sempre più distante dalla sua amata, nonostante i figli che questa gli dà, finché non decide di abbandonarla per sposare Glauce, figlia del re Creonte. Costui vorrebbe esiliare Medea, perché costituisce un monito e un fardello troppo grande da sopportare per sua figlia, che non ha colpe del comportamento di Giasone.
Sospinta dalle parole delle sue ancelle, che la vedono come una maga capace di tutto, Medea diventa consapevole della perdita del contatto con gli dei e del suo tragico destino, arrivando a meditare vendetta. Fa chiamare Giasone, con il quale finge perdono ed ha un ultimo slancio d’amore, e chiede ai loro figli di portare il suo dono di nozze a Glauce: gli abiti regali con cui fuggi’ dalla Colchide. Non appena ricevuto il dono la fragile Glauce lo indossa e rivede nello specchio non il suo abito da sposa ma tutto il dolore di Medea. Si uccide buttandosi dalle mura della città, e il padre la segue preso dalla disperazione, ma questo non basta e la furia di Medea è ormai incontrollabile. Dopo aver ucciso i suoi figli, incendia la città e Il film si chiude con l’impossibile tentativo di Giasone di riportarla alla ragione, cui risponde solo una ultima rabbiosa invettiva di Medea ormai perduta tra le fiamme. (Wikipedia - ripresa parziale).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’URLO DI PIER PAOLO PASOLINI (1974). PER L’ITALIA E LA COSTITUZIONE --- "I GIOVANI INFELICI" E IL TEATRO TRAGICO GRECO. UNA PAGINA DALLE "LETTERE LUTERANE" (di Pier Paolo Pasolini).
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Etica e potere.
I Giusti e quel virus di libertà che si radica in noi
Il 6 marzo è la Giornata di tutti coloro che hanno agito per salvare i perseguitati nella storia moderna. Vicende che accadono quando chi è a capo delle comunità si mostra irresponsabile
di Gabriele Nissim (Avvenire, , giovedì 5 marzo 2020)
Stiamo vivendo un momento storico in cui i meccanismi dell’odio alimentano la rassegnazione e la paura. In questi giorni è ancora più evidente. Dobbiamo mettere a tacere chi è tentato, nell’agone politico, di usare questa emergenza per una resa dei conti ai propri fini di parte.
Oggi si tratta prima di tutto di sentirsi tutti responsabili di fronte a delle scelte che si fanno giorno per giorno e il primato della ragione e della competenza dovrebbe guidare l’azione politica.
Ogni cittadino dovrebbe essere chiamato a bloccare chi utilizza il coronavirus per lanciare messaggi di odio e di contrapposizione. Per questo la Giornata dei Giusti, che sarà celebrata domani, è una grande sfida etica per il nostro Paese.
Istituita nel 2012 dal Parlamento europeo su proposta di Gariwo e recepita da quello italiano nel 2017, la ricorrenza ha dato all’Italia l’opportunità di diventare messaggero universale delle storie dei Giusti nel mondo. Più di centotrenta Giardini dei Giusti sono nati in Italia, in Europa e nel Medio Oriente perché si avverte il bisogno di riportare alla luce grandi e piccole vicende che mostrano la possibilità del singolo individuo di incidere con la propria responsabilità in contesti difficili dove sembrerebbe impossibile cambiare il corso degli avvenimenti.
Quest’anno il messaggio della Giornata dei Giusti è quello della responsabilità globale a cui sono chiamati tutti gli abitanti del nostro pianeta: la realtà di questi giorni sta smentendo l’illusione che ognuno possa salvarsi da solo. La vicenda del coranavirus ne è un esempio clamoroso.
Ha fallito il presidente cinese quando nei primi giorni dell’epidemia ha cercato di nascondere al mondo la gravità della situazione; ma hanno fallito anche tutti coloro che pensavano che il problema riguardasse solo i cinesi, lasciando crescere forme di intolleranza fortunatamente per ora sotto controllo.
Oggi è chiaro a tutti che la malattia può essere affrontata solo con una concertazione internazionale sul piano scientifico e che ogni inditi viduo è chiamato ad evitare che la paura generata da questa epidemia si riversi nelle relazioni quotidiane. È un virus che può colpire non solo la fragilità dei nostri corpi, ma anche incrinare le nostre relazioni, se viene a mancare un principio di solidarietà.
La stessa problematica si presenta di fronte ai cambiamenti climatici che se non adeguatamente affrontati a livello internazionale attraverso la conoscenza - e non con una colpevole rimozione - rischiano di portare molto prima di quanto si pensi un clima che ricorda l’affondamento del Titanic, quando per salvarsi i passeggeri rifiutarono di cooperare e diedero l’assalto alle scialuppe, cercando la propria salvezza a spese della vita di un altro.
La stessa memoria dei genocidi del passato e di chi ha provato ad arrestarli si presenta nei nostri giorni come una questione globale. In questo contesto globale l’individuo, indipendentemente della posizione che occupa o del Paese in cui vive, è chiamato ad una responsabilità che probabilmente non esisteva in nessuna epoca storica precedente.
È chiamato, come direbbe Shakespeare, a raddrizzare non solo casa sua, ma il tempo globale in cui gli è capitato di nascere, perché ogni aspetto della sua vita è intimamente legato al resto del mondo. Per questo motivo Gariwo ha impostato in modo diverso la Giornata dei Giusti di quest’anno.
Ecco perché ricorderemo lo scienziato Wallace Broecker che è stato il primo negli anni 70 del secolo scorso a studiare i cambiamenti climatici e ad ammonire l’opinione pubblica sugli effetti devastanti dei combustibili fossili per il futuro del pianeta. «Stiamo giocando alla roulette russa con il clima», scrisse in un articolo del 1987.
Ed ecco perché onoreremo un’altra figura di estrema attualità: il chimico Valerij Legasov, che incurante delle radiazioni dopo l’incidente nucleare di Chernobyl si prodigò per salvare il maggior numero di persone andando contro l’ostilità del potere sovietico che cercava di minimizzare i rischi per la popolazione e per resto il mondo.
La sua storia sembra riproporsi nuovamente in quella del medico cinese Li Wenliang che nel mese di dicembre 2019 osservando dei malati gravi di polmonite si accorse che c’era il rischio di una epidemia sconosciuta e lanciò l’allarme sui social. Le autorità, invece di allertarsi per verificare quell’allarme, lo accusarono di diffondere notizie false che turbavano l’ordine pubblico e lo costrinsero al silenzio. Morto il 7 febbraio, le autorità cercarono persino di censurare la sua morte per non ammettere le loro responsabilità.
Sono due esempi di uomini che sfidano la censura di regimi totalitari per assumersi una responsabilità globale.
Con Chernobyl è cominciata la crisi del totalitarismo sovietico per merito di scienziati coraggiosi come Legasov (come ha ammesso recentemente in una intervista lo stesso Gorbaciov), la stessa cosa potrebbe oggi accadere in Cina per merito dei medici coraggiosi che per salvare delle vite hanno lanciato al mondo l’allarme del coronavirus e hanno costretto il regime a dire la verità. È inevitabile che si riapra in Cina, dopo le storiche manifestazioni di Tienanmen, un nuovo movimento nella società per la libertà di stampa e la democrazia.
Coronavirus, il fatto «sociale totale» nel quale specchiarsi
di Filippo Barbera (il manifesto, 04.03.2020)
Un fatto sociale totale - nella definizione del grande antropologo Marcel Mauss - è qualcosa in grado di influenzare e determinare un insieme di fenomeni coinvolgendo la gran parte dei meccanismi di funzionamento della comunità di riferimento. Per Mauss il fatto sociale totale per antonomasia era il dono, in quanto capace di unire le pratiche e le cornici di senso riferibili ad aspetti mitopoietici, economici, politici, espressivi e religiosi. Il fatto sociale totale permetterebbe così di interpretare «pezzi» apparentemente lontani e diversi della stessa società.
Mani pulite, in questo senso, è stato un fatto sociale totale: ha scosso le diverse fondamenta della società italiana e ne ha messo in luce i tratti e le dinamiche politiche, culturali, economiche e simboliche. Oggi, il coronavirus svolge la stessa funzione. Ogni misura sanitaria e di igiene pubblica è intimamente politica, tanto nelle sue cause che nelle sue conseguenze, si intende. Ma le misure decise in occasione della comparsa del coronavirus rivelano - come un reagente chimico - qualcosa di profondo e «totale» sulla società e politica italiane, nonché sulle sue credenze diffuse, modelli culturali e struttura economica. Il coronavirus mostra con ogni possibile forza come la vita politica italiana sia intrappolata - non da oggi - in un’arena hobbesiana, dove la divisione fra amici e nemici si sovrappone ai confini fra gruppi in competizione per il potere e l’influenza. Dove è assente un contesto condiviso (la Costituzione, la Nazione, la Patria, la Repubblica, etc.) che permette a questi gruppi di competere correndo dei rischi politici.
Nelle arene hobbesiane il rischio politico è accuratamente evitato dai gruppi in competizione che utilizzano la logica amico/nemico. La strategia razionale in un contesto come questo è - di fronte a un evento improvviso e in assenza di esperienza pregressa - quella di minimizzare il rischio politico delle decisioni prese. Non poter essere accusati di non «aver fatto tutto il possibile» per le persone contagiate o per bloccare il contagio (a prescindere dalle sue conseguenze), non dover essere obbligati a rifiutare ricoveri in terapia intensiva ad anziani con febbre e polmonite, non diventare oggetto di attacchi e accuse stigmatizzanti.
Consideriamo le misure sanitarie. Quelle previste dal ministero con le tre classi di rischio e misure proporzionate sono intese a contenere i focolai in modo che si esauriscano all’interno e non si allarghino alle aree ancora indenni. Il tutto basato sull’assunzione che il danno di una epidemia diffusa o addirittura di una pandemia sia più alto dei danni sociali ed economici attesi. Questa assunzione sembra eccessiva, dato che per quanto se ne sa finora, la severità delle conseguenze di questa influenza un po’ più grave non sarebbe così alta, soprattutto in una stagione invernale con una influenza vera molto mite.
Ciò che giustifica le assunzioni alla base delle misure prese è la minimizzazione del rischio politico, il non volersi esporre alle accuse che certamente pioverebbero da nemici e falsi ex amici, anche in assenza di una giustificazione basata sul calcolo costi-benefici. La minimizzazione del rischio politico è una metrica ipertrofica che si «mangia» tutte le altre, riducendole a semplici giustificazioni ex post. Dall’assalto ai supermercati, alla speculazione sui prezzi delle mascherine, alle dichiarazioni dei politici, alla crisi dell’export, del polo della logistica e del turismo, il coronavirus è il nostro miglior specchio. Dovremmo avere il coraggio di guardarlo senza abbassare lo sguardo.
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
LA RINASCENZA MEDITERRANEA, L’EUROPA, E IL “MARE NOSTRUM”: IL MEDITERRANEO AL DI LA’ DI OGNI PRETESA “IMPERIALISTICA” DI ORDINE LAICO O RELIGIOSO!!! UN OMAGGIO A PIERO DELFINO PESCE *
RICORDANDO CHE IL FIUME “SELE” è “Un fiume che sfocia in tre mari: nel Tirreno attraverso il suo corso naturale, e nei mari Adriatico e Ionio,attraverso quello artificiale, forzato dall’uomo per mezzo dell’Acquedotto Pugliese che lo ha deviato fino a S. Maria di Leuca e che con il suo tratto terminale diventa fontana monumento (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5205#forum2233028) e, al contempo , RICORDANDO QUANTO IL MEDITERRANEO sia stato (ed è ancora!) un “eterno” campo di battaglie tra “opposti estremismi” ateo-devoti, laici e religiosi (cfr. “Due parole. Un segno rivelativo dei tempi. Una ‘memoria’ del 2004”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=899), CONTRO I SOGNI DI OGNI “PRIVATIZZAZIONE” DELL’ACQUA DEI FIUMI come DELL’INTERO MEDITERRANEO, solleciterei (e sollecito!) L’EUROPA a programmare una immediata ricognizione di TUTTI I FIUMI dell’EUROPA, DELL’ASIA E DELL’AFRICA, che sfociano nel MEDITERRANEO.
P. S. In tempi di “coronavirus” e “cavernicole” illusioni politico-religiose, mi sia consentito richiamare alla memoria la figura di Giovanni Boccaccio e, con il suo lavoro, le origini stesse del Rinascimento italiano ed europeo (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5421).
Politica
«Costituente Terra», la scuola che vuole salvare la specie umana
Diritto. Un progetto per immaginare gli strumenti politico-giuridici necessari ad affrontare i problemi del nostro tempo nella giusta scala
di Giansandro Merli *
«Per la prima volta nella storia esiste un interesse pubblico e generale assai più ampio e vitale di tutti i diversi interessi pubblici del passato: la sopravvivenza dell’umanità e l’abitabilità del pianeta». Luigi Ferrajoli, giurista e filosofo del diritto, pronuncia queste parole in piedi, circondato dai tomi antichi della splendida Biblioteca Vallicelliana, al centro di Roma.
L’occasione è la presentazione della scuola «Costituente Terra», che si è tenuta ieri. Poco prima avevano parlato Paola Paesano, direttrice dell’istituzione ospitante che in un raffinato intervento ha sottolineato le tensioni universalistiche che nel corso della storia hanno attraversato le biblioteche pubbliche, e un altro importante promotore del progetto, Raniero La Valle, giornalista, intellettuale ed ex senatore.
Sostenere l’esigenza di un costituzionalismo globale ai tempi dei rigurgiti sovranisti potrebbe sembrare un’azione fuori fuoco. E invece, sostengono i promotori, sono proprio quelle dinamiche a validare un simile sforzo. Le parole che La Valle e Ferrajoli mettono in fila sono come uno spillo che infrange la bolla di conoscenze acquisite e strumenti interpretativi che trasformano alcune contingenze nella forma del realismo. Lo sguardo è oltre la cronaca, così l’unico realismo diventa la consapevolezza che la politica ancorata agli Stati nazionali è impotente e inadeguata ad affrontare le sfide del nostro tempo.
L’alternativa possibile alle catastrofi cui essa va incontro e anzi produce, però, esiste. Sarà forse politicamente improbabile, almeno per ora, ma si può pensare. A ciò ambisce «Costituente Terra», al fine di revisionare il pensiero che ha portato l’umanità sull’orlo del baratro. Per farlo vuole espandere il costituzionalismo lungo tre direttrici: sovrastatualità; diritto privato; beni fondamentali. A esse corrispondono tre questioni cui occorre trovare risposte su scala planetaria: catastrofe ecologica; guerre; povertà e disuguaglianze. La loro soluzione passa per l’immaginazione politico-giuridica di istituti di garanzia dei diritti fondamentali a livello globale. È questo uno degli obiettivi della scuola, che però sarà anche anti-scuola. «Una scuola trasmette i saperi da una generazione all’altra per riprodurre la società come l’abbiamo ricevuta - dice La Valle - Invece noi dovremmo trasmettere un sapere che ancora non c’è, perché col sapere che c’è la società ricevuta non solo non va bene, ma nemmeno può continuare».
* Fonte: il manifesto, 22.02.2020 (ripresa parziale).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Mediterranea-mente ... *
Anticipazione
«Mediterraneo messaggero di pace per il mondo».
Il sogno di La Pira
Culla della famiglia di Abramo deve essere esempio di riconciliazione fra i popoli. Partendo dal "sindaco santo" l’introduzione del presidente Cei al libro suile idee che ispirano l’incontro pugliese
Gualtiero Bassetti (Avvenire, martedì 18 febbraio 2020)
Sono vissuto in un paese di orfani e di poveri. Tra i banchi della scuola elementare di Fantino, una minuscola frazione del Comune di Marradi sull’Appennino tosco-romagnolo, molti alunni erano orfani. I padri di quei bambini, infatti, erano stati uccisi il 17 luglio 1944 da una crudele rappresaglia tedesca nella vicina località di Crespino sul Lamone: ben 45 persone erano state fucilate senza alcuna pietà. Tra di loro anche il parroco, don Fortunato Trioschi, che era stato preso dai soldati mentre stava recitando il vespro in chiesa con le donne. «Strappato a viva forza dal suo pietoso ufficio - si legge nel Bollettino mensile di Crespino del marzo 1946 - egli recitava per i moribondi la preghiera della speranza cristiana». «Un colpo di mitra gli mozzò le parole sul labbro» e cadde riverso sulla fossa che aveva precedentemente scavato insieme ai suoi parrocchiani. All’indomani della fine del conflitto eravamo tutti poveri, ma di una povertà dignitosa. Siamo sopravvissuti alla miseria tipica degli anni del dopoguerra perché avevamo capito che il condividere è moltiplicare. Se mia madre faceva il pane, quel pane era anche per i vicini. Se un contadino aveva munto una mucca, quel latte era anche per i bambini. Se qualcuno comprava il sale, che era un alimento preziosissimo, ne dava un po’ anche agli altri. Si condivideva tutto. E condividendo tutto siamo cresciuti insieme, uomini, donne e bambini, in una comunità coesa in cui la Chiesa svolgeva una funzione importantissima. L’anticlericalismo era ben presente anche nell’Italia degli anni Cinquanta ma, nella vita quotidiana, non metteva in discussione la figura del sacerdote. Il prete, soprattutto nelle campagne, era il segno di una presenza religiosa, culturale e sociale. Le persone andavano dal sacerdote per consigli di tutti i tipi, perché era l’unica persona che aveva una cultura e che, al tempo stesso, si prendeva cura concretamente della «povera gente». Quella «povera gente» a cui anche Giorgio La Pira (terziario domenicano e francescano, professore universitario di diritto romano, membro dell’Assemblea costituente, deputato alla Camera per tre legislature e, soprattutto, sindaco di Firenze per molti anni) dedicò gran parte della sua esistenza.
Nell’aprile del 1950, su "Cronache Sociali", La Pira pubblicò un saggio molto importante dal titolo L’attesa della povera gente. Sebbene svolgesse un’analisi che partiva dall’esame del reddito pro capite mondiale, quello scritto non era solo un testo che si inseriva nel dibattito economico, ma era soprattutto la traduzione concreta del messaggio evangelico di giustizia sociale e amore verso gli ultimi.
Quando entrai in seminario nel 1956 a Firenze, La Pira era un personaggio straordinariamente amato dalla popolazione. Non era solo il sindaco, era molto di più. Era una testimonianza di fede autentica riconosciuta da tutti. Il nostro rettore, uomo di grande cultura biblica, lo invitava spesso in semi- nario. Lui ci incantava ad ascoltarlo, si fidava di noi piccoli e ci parlava dei suoi grandi progetti. I fiorentini, sin da vivo, lo consideravano un santo.
Ogni incontro con La Pira, anche fugace, lungo la strada, rappresentava per i cittadini un momento di arricchimento personale. Egli annunciava con gioia il Vangelo in ogni momento e tutto, per lui, era motivo di contemplazione: dal campanile di Giotto ai pescatori sotto il ponte Vespucci. È stato, senza dubbio, un mistico prestato alla politica. Nella sua visione del mondo, carità e politica si fondevano in un legame indivisibile. E al centro della sua azione si collocava il cosiddetto «pilotaggio della speranza».
La sua missione terrena, collocata in un’epoca storica dominata dalle ideologie, non si esauriva nella gestione della cosa pubblica ma era una «missione essenzialmente religiosa» che rispondeva a una «specifica chiamata» divina. Egli è stato un «ambasciatore di Cristo», cioè un uomo di Dio o, meglio, un « nabì (bocca di Dio)», un profeta dei tempi odierni. Il profeta è un chiamato dal Signore e colui che parla per conto del Creatore. È colui che sa mettersi in ascolto della parola di Dio e perciò riesce a leggere in profondità il mondo che gli sta attorno. Il profeta è una «sentinella per la casa d’Israele» ed esprime con passione e generosità, fino a sembrare stolto e ingenuo, questa sua missione divina.
Giorgio La Pira è stato un profeta del dialogo, della speranza e della pace. La fede era il motore della sua azione, che si innestava in un contesto internazionale caratterizzato da un «crinale apocalittico» dominato dallo scontro tra le due superpotenze e dall’incubo nucleare. Alla logica del conflitto, La Pira opponeva la supremazia del dialogo. Un dialogo cercato con tutte le forze nei Paesi dell’Europa dell’Est, in Asia, in America Latina e in Africa.
In questo sforzo incessante il sindaco di Firenze traccia una strada; è il «sentiero di Isaia» che si basava sull’antica profezia messianica: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci». Il sentiero di Isaia tracciato da La Pira si proponeva di arrivare al disarmo generale trasformando le «armi distruttive in strumenti edificatori della pace e della civiltà». Secondo la sua visione escatologica, tutta la storia convergeva verso «il porto finale» della pace.
Per raggiungere la pace, La Pira incontra molti capi di Stato. In uno di questi incontri, conia una delle sue espressioni più note: «Abbattere i muri e costruire i ponti». Un’immagine che mutuò da quello che vide al Cairo nel 1967 dopo aver incontrato il presidente egiziano Nasser. In quell’occasione notò «una squadra di operai abbattere i muri che erano stati costruiti davanti alle porte dell’albergo, come strumenti di difesa antiaerea». In quel gesto vide il simbolo di una grande azione politica e culturale. Bisognava abbattere «il muro della diffidenza» tra i popoli e costruire ponti di dialogo tra le genti. Occorreva unire e non dividere.
Dopo la crisi di Suez del 1956, matura il progetto di convocare a Firenze un grande incontro internazionale dedicato al Mediterraneo. Nel maggio del 1958, all’interno di una corrispondenza fittissima col pontefice, invia una lettera a Pio XII in cui presenta il suo progetto di Colloqui mediterranei.
«Vi dico subito, Beatissimo Padre, quale è la ’intuizione’ che da qualche tempo fiorisce sempre più chiaramente nella mia anima. Questa: il Mediterraneo è il lago di Tiberiade del nuovo universo delle nazioni: le nazioni che sono nelle rive di questo lago sono nazioni adoratrici del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; del Dio vero e vivo. Queste nazioni, col lago che esse circondano, costituiscono l’asse religioso e civile attorno a cui deve gravitare questo nuovo Cosmo delle nazioni: da Oriente e da Occidente si viene qui: questo è il Giordano misterioso nel quale il re siro (e tutti i ’re’ della terra) devono lavarsi per mondarsi della loro lebbra (4 Re V, 10)».
Secondo La Pira, dunque, il Mediterraneo, culla delle civiltà monoteiste che egli chiamava «la triplice famiglia di Abramo», è chiamato a riprendere il suo posto nella storia in un mondo sempre più minacciato da guerre e distruzione. Una costruzione della pace che passava anche dalla preghiera e dalla contemplazione. Dal 1951 al 1974, divenuto presidente delle Conferenze di San Vincenzo della Toscana, La Pira aveva introdotto nel programma dell’associazione una novità: l’assistenza economica da offrire ai monasteri di clausura in difficoltà, in cambio di preghiere. In questo modo, veniva inviato alle claustrali un foglietto stampato come «lettera circolare» in cui riportava le motivazioni e le iniziative «politiche» per cui chiedeva di pregare. Centinaia di monache risposero a questi appelli. In una di queste lettere alle claustrali, La Pira allega anche un lungo telegramma che, il 26 ottobre 1961, aveva scritto all’ambasciatore sovietico a Roma, Semen Kozirev, pregandolo di trasmettere il suo messaggio a Nikita Krusciov. In quel telegramma, La Pira prega il leader dell’Urss di impegnarsi concretamente verso il disarmo nucleare. Se questo avverrà, scrive, «ve ne sarà grato il Padre celeste che saprà considerare con cuore di padre il vostro atto di buona volontà».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO". NATHAN IL SAGGIO: CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA ’CATTOLICA’!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA TERRA, IL "PADRE NOSTRO", E IL SINODO DEI VESCOVI SUL MEDITERRANEO ...*
Mediterraneo, frontiera di pace. Le cose da sapere sull’incontro di Bari
Dal 19 al 23 febbraio l’evento per la pace. Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati
di Giacomo Gambassi, inviato a Bari (Avvenire, mercoledì 12 febbraio 2020)
Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati. Tre i continenti che idealmente si abbracceranno: Europa, Asia e Africa. Ecco in numeri l’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace”, il grande forum ecclesiale voluto dalla Cei che per la prima volta riunisce i vescovi degli Stati affacciati sul grande mare e che sarà concluso da papa Francesco. -Le cifre non dicono tutto, ma raccontano la scommessa di un’iniziativa che si terrà dal 19 al 23 febbraio e che avrà come cornice Bari, la città “ponte” fra Oriente e Occidente come testimonia «la venerazione senza confini del suo patrono san Nicola» o la scelta del Pontefice di tenere nel luglio 2018 all’ombra del Castello svevo l’incontro per la pace in Medio Oriente con i capi delle comunità cristiane della regione, spiega l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Carucci.
Adesso lo sguardo si allarga all’intero Mediterraneo chiamando a un supplemento d’anima le Chiese. È l’urgenza della pace l’orizzonte di un evento che invita a una nuova responsabilità il mondo cattolico. Non un convegno o un seminario accademico ma un «incontro di fraternità dallo stile sinodale che vuole aiutare le comunità ecclesiali a camminare sempre più insieme», spiega il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, durante la conferenza stampa di presentazione a Roma moderata dal direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, Vincenzo Corrado.
Nel 2018 era stato proprio Bassetti a lanciare l’idea dell’evento «rileggendo i Colloqui mediterranei promossi da Giorgio La Pira circa sessant’anni fa», racconta il cardinale le cui radici affondano nella Firenze del sindaco “santo”.
«Se La Pira aveva coinvolto l’ambito politico - dice Bassetti - io mi sono chiesto: perché anche i vescovi non possono mobilitarsi di fronte ai drammi delle proprie genti? Del resto la Chiesa non ha altro scopo che servire l’uomo. E ciò implica anche affrontare i problemi che le nostre comunità vivono». Tutto l’episcopato italiano ha sposato il percorso: ecco perché i pastori della Penisola saranno a Bari nelle ultime due giornate.
Due i temi di cui discuteranno i vescovi del bacino: l’annuncio del Vangelo, a cominciare dai giovani; e il dialogo fra Chiese e società. «Di fatto come pastori ci siamo posti una domanda: che cosa Dio vuole oggi dal Mediterraneo? E l’incontro sarà un’occasione di discernimento», chiarisce il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, vice-presidente della Cei e coordinatore del comitato organizzatore.
A fare da sfondo al confronto le guerre che ancora insanguinano l’area (dal conflitto israelo-palestinese a quelli in Siria, Iraq o Libia); le nuove tensioni che scuotono la regione; le ferite ancora aperte delle guerre che dai Balcani al Libano hanno segnato gli ultimi decenni; la povertà; le disuguaglianze fra la sponda nord e quella sud; le politiche di sfruttamento da parte dei grandi del pianeta; la complessa convivenza fra le fedi; le persecuzioni delle minoranze religiose, soprattutto cristiane; il dramma delle migrazioni.
«La questione della pace - dice Raspanti - non è disgiunta dagli squilibri sociali che qui si registrano. E anche lo stesso tema delle migrazioni sarà visto secondo prospettive diverse. Penso al grido che alcuni vescovi delegati hanno già lanciato chiedendo di aiutare i loro Paesi a non lasciare fuggire i cristiani».
Lo stile dell’incontro è mutuato dal Sinodo dei vescovi. Non solo nei due anni di preparazione sono stati coinvolti gli episcopati del Mediterraneo che hanno contribuito a elaborare una bozza di lavoro, ma soprattutto le giornate di Bari saranno nel segno dell’ascolto e del dialogo fra i vescovi.
«Ore e ore di discussione», annuncia Raspanti. Dal confronto scaturirà il documento che sarà approvato dai presuli e che domenica mattina verrà consegnato al Pontefice durante il suo incontro con i vescovi nella Basilica di San Nicola.
«Il Papa che condivide a pieno il nostro incontro - dice Bassetti - ci ha chiesto proposte concrete che vadano oltre le lamentele».
Il dialogo fra il Pontefice e i pastori della regione rappresenterà l’appuntamento centrale di Bari, che verrà aperto dal saluto di Bassetti e dalle testimonianze del cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo e presidente della Conferenza episcopale di Bosnia ed Erzegovina, e dell’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme, e che si chiuderà con l’intervento dell’arcivescovo di Algeri, il gesuita Paul Desfarges, presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa. Momento concluso dell’evento sarà la Messa presieduta da Francesco alle 10.45 nel cuore di Bari.
L’incontro dei vescovi si porterà dietro anche un segno concreto di attenzione a tutto il Mediterraneo.
«Si tratterà di borse di studio per giovani delle diverse sponde con lo scopo di formare una nuova classe dirigente», annuncia Bassetti. Il progetto avrà come guida la Caritas italiana e vedrà il coinvolgimento di Rondine-Cittadella della pace, il laboratorio della riconciliazione alle porte di Arezzo che fa studiare i giovani provenienti dai Paesi in guerra fianco a fianco con il loro "nemico".
I lavori “sinodali” dei vescovi saranno a porte chiuse ma ogni giorno è previsto un briefing con la stampa. Guai comunque a pensare che le giornate siano blindate.
Sono previste infatti Messe e momenti di preghiera aperti a tutti; venerdì sera ogni pastore delegato sarà ospite di una parrocchia; poi sabato pomeriggio, a partire dalle 15.30, al teatro Petruzzelli si terrà l’incontro di testimonianze con voci e volti da tutto il Mediterraneo e gli interventi dei vescovi e di esperti di geopolitica.
Intanto si immagina già il “dopo Bari”. «Non ritengo che tutto si possa concludere in Puglia - avverte il presidente della
Cei -. È possibile che si creino tavoli di lavoro tematici che permetteranno ai vescovi di incontrarsi di nuovo. Del resto la sfida è far riscoprire la vocazione propria del nostro grande mare: una vocazione alla pace e all’incontro».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! ... *
Cantico dei Cantici.
Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)
di Luigino Bruni (Avvenire, martedì 11 febbraio 2020)
Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.
Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi.
Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.
Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio.
Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).
Una ragazza ’bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.
Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni.
Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova:
«Lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: ’Avete visto l’amore dell’anima mia?’» (Cantico 3,1-3).
Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).
Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.
L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica:
«Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!» (2,10-13).
La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ’nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare e a Giovanni Garbini.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: RIPENSARE L’EUROPA. FILOLOGIA E ’DENDROLOGIA’ ... *
Australia, una cultura che brucia
di Giulia Tabacco (Il Mulino, 05 febbraio 2020])
Ben di mestiere appicca incendi. È nato nel bush, quella boscaglia talvolta fitta di alberi talaltra composta da arbusti gialli, bassi e puntuti che contorna l’Australia; è cresciuto in una giungla in cui i pitoni fanno compagnia agli ananas e ai bufali e ha una solida consapevolezza del territorio. Conosce le piante, le impronte e i versi degli animali, parla la lingua degli aborigeni, sa regolarsi con l’alternarsi delle stagioni e con un clima che pare funzionare per estremi: estremamente umido o estremamente caldo, a tratti secco come terracotta altre volte travolto dalle spirali violette dei cicloni.
Ben lavora per un’agenzia governativa nel Northern Territory, lo Stato con la minore densità abitativa d’Australia, un rettangolone che va dal Mare di Timor, tropicale e verdissimo, fino ai deserti centrali ventosi, pietrosi e sciapi. Lo Stato che custodisce il cuore dell’isola, che batte rosso nella mitica Uluru, la grande roccia, il luogo dove per millenni le famiglie aborigene trovarono riparo e acqua, dove storie e tradizioni venivano narrate e condivise, dove ai ragazzini si insegnavano le regole della vita.
Gli incendi in Australia ci sono sempre stati. La natura del suolo e della vegetazione, il clima nella parte centrale da milioni di anni in prevalenza arido, sono tra le cause principali. Da quarantamila anni gli incendi fanno parte dell’ambiente, come sanno e dicono coloro che vi abitano da sempre e per i quali il fuoco ha un valore concreto e, contemporaneamente, simbolico e spirituale. Non un nemico di cui avere paura ma, al contrario, uno strumento.
Il fuoco è parte della vita, è un elemento da osservare, da capire e con il quale confrontarsi. Intorno a esso gli aborigeni costruirono e trasmisero conoscenze che avevano una doppia finalità: la prima, più evidente, era evitare che fiamme incontrollate e incontrollabili mangiassero ettari ed ettari di terreno e che mettessero a repentaglio la vita di esseri umani, fauna e piante; la seconda era contribuire al mantenimento del suolo e al suo stato di salute.
Per fare questo, praticavano una tecnica di incendi di natura preventiva: incendi bassi, delimitati e controllati che permettevano la sopravvivenza e il rinnovamento del terreno. Affinché fossero sicuri ed efficaci era necessario saper leggere in profondità l’ambiente, avere una grande dimestichezza con le condizioni climatiche e naturali: aspetti, questi, che erano parte fondante della loro quotidianità. Perché queste genti per millenni abitarono spazi enormi e spesso difficili, per millenni tramandarono cantandole le storie e le caratteristiche della terra, degli animali e degli esseri mitologici: questo ne fa dei poeti e dei saggi conoscitori.
I fuochi volontari dovevano essere appiccati al momento giusto e servivano a delimitare il propagarsi, nei mesi più caldi e asciutti, di quelli provocati dai fulmini o dal vento. Allo stesso tempo, contribuivano a rigenerare l’ecosistema, alla sua biodiversità. Agivano cioè in sintonia con i ritmi della terra: attiravano animali che venivano cacciati, arricchivano il suolo di cenere, che agiva come fertilizzante, rendevano il terreno più ricco di minerali e di fonti di sostentamento e “pulivano” il suolo, bruciando foglie secche e cortecce, entrambe altamente infiammabili.
Gli aborigeni hanno una bella definizione per queste tecniche: le chiamano “fuoco culturale” (cultural burning). “Culturale”, sì, perché basato su una somma di saperi preziosa, fatta di consapevolezza, rispetto e volontà di preservare l’ambiente. Ben di lavoro fa quello che le genti originarie hanno sempre fatto. Studia tempi e spazi, analizza il terreno, percorre chilometri e chilometri, interpella e avvisa le persone, controlla i venti, delimita e monitora le aree di intervento.
Lo fa nello Stato con la più alta percentuale di popolazione aborigena, che sfiora il 30% (negli altri Stati la media supera di poco il 3%). Nel Northern Territory il governo opera congiuntamente con le popolazioni indigene e integra le tecniche degli “incendi tradizionali” con altre strategie, assolutamente necessarie in un Paese che ha vissuto rilevanti cambiamenti antropici e di sfruttamento del suolo negli ultimi 230 anni, cioè con l’arrivo e la colonizzazione britannica.
Va specificato che questi metodi sono utilizzati anche in altri Stati australiani: sinora, però, in maniera circoscritta e locale. La tecnica del fuoco prescritto, d’altra parte, è stata usata a partire dalla prima metà del Novecento anche in diversi ambienti forestali, arbustivi, di savana e prateria del Nord America, dell’Asia e dell’Africa nonché, dagli anni Ottanta, in alcune regioni italiane.
Ben mi racconta che per dare fuoco al bush bisogna avere una profonda esperienza del quando e del come. È fondamentale appiccare il fuoco al momento opportuno, in modo che non arrechi danni. Il periodo in cui si concentra questo lavoro è l’inizio della stagione secca, a partire dal mese di aprile. Allora abitualmente le piogge dei mesi precedenti lasciano il posto a giornate umide, ma con cieli perlopiù limpidi. Il bush è verde ma non ancora arso. Se l’incendio volontario viene appiccato troppo presto, c’è il rischio che gli arbusti abbiano tempo a sufficienza per crescere e svilupparsi nuovamente, diventando un potenziale combustibile. Se, al contrario, si arriva tardi, la vegetazione sarà assai più secca e, quindi, più incline a bruciare.
In questo periodo capita, percorrendo le lunghissime strade del Paese, di filare di fianco a terra nera che alita calore, sotto un cielo spesso e acre di fumo. Capita anche di vedere un camioncino bianco con il simbolo del Northern Territory fermo in prossimità di un cartellone a forma di mezza luna: un uomo con pantaloni cachi e scarponi sta regolando una lancetta gialla. La mezza luna ha spicchi di colori differenti che aggiornano sul livello di pericolo incendi: verde vuol dire moderato, azzurro sta per alto, giallo molto alto, rosso è estremo. L’ultimo spicchio, rosso acceso, indica uno stato catastrofico.
Ben dà fuoco alla boscaglia utilizzando una fiamma bassa per far sì che non brucino gli alberi, prezioso elemento ambientale oltre che dimora di uccelli, marsupiali e altri animali. La terra bruciata crea una barriera che impedirà agli incendi che dovessero sorgere spontanei di diramarsi. Il “fuoco freddo” va appiccato di notte o di mattina presto, quando di norma il vento è più lieve e non è ancora sorto il sole, che incoraggia le fiamme. L’incendio si propaga con lentezza, non bruciano i semi delle piante e non si distruggono né le radici né le chiome degli alberi.
Nell’isola abbondano gli alberi resinosi: i più diffusi sono gli eucalipti, dalle foglie molto oleose. Quando prendono fuoco, queste foglie crepitano e scoppiettano come fuochi d’artificio in miniatura, le fiamme salgono rapide e le chiome diventano palle di fuoco: se c’è vento, queste palle si diramano di cresta in cresta a grande velocità (anche dieci chilometri orari), espandendosi e allargandosi per giorni. Li chiamano cacatua fire perché in qualche modo fanno venire in mente i cacatua, grossi pappagalli bianchi con una folta cresta gialla.
“I cambiamenti climatici e la siccità degli ultimi anni hanno un peso rilevante nel fenomeno degli incendi”, dice Ben, l’uomo del fuoco. Sono le cinque di pomeriggio a Katherine e la sua giornata è terminata: ci troviamo a fare il bagno nelle pozze termali appena fuori dalla cittadina. “Di fronte a quello che sta accadendo le tecniche tradizionali, anche se fossero applicate in maniera diffusa, non sarebbero sufficienti né risolutive. Per questo attuiamo i cultural burning in concomitanza con altre politiche di riduzione del pericolo di incendi e con interventi adattati alla vita contemporanea. Tuttavia, sono convinto che diffondere queste conoscenze e metterle in pratica in maniera ampia ci aiuterebbe a preservare e conservare l’ambiente”.
Un ambiente, quello australiano, di una ricchezza grande come i suoi cieli che pare non finiscano mai. Affascinante, potente e unico.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
TERRA!!! TERRA!!! PIANETA TERRA: FILOLOGIA E ’DENDROLOGIA’ (gr.: "déndron" - albero e "lògos" - studio/scienza). L’ALBERO DELLA VITA ...
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
NASCERE. Costruire una cultura adatta alla nostra incarnazione...
Non vi è alcun dubbio che una certa epoca della nostra cultura sia al termine: quella della metafisica, che alla fine si è incarnata in un’era tecnica e scientifica che da allora in poi è la nostra. In effetti, o l’umanità e il mondo in cui dimora sono destinati a scomparire, o noi troviamo il modo di tornare o ritornare a ciò che significa essere umano per riflettere a fondo su di esso, in quanto primo agente del nostro destino, e sulla possibilità di giungere a una parola di cui la tecnica e le tecnologie non possono privarci, riducendoci a una sorta di meccanismo meno performante di quelli che siamo in grado di fabbricare.
È in noi stessi, in quanto esseri umani incarnati, che possiamo trovare un modo di pensare come sfuggire al dominio della tecnica e delle tecnologie senza sottovalutarne i vantaggi. Invitandoci a liberarci dalla soggezione a ideali sovrasensibili, Nietzsche ci indica, almeno in parte, verso quale direzione volgerci. Ma il suo insegnamento è innanzitutto critico, ed è quello che ha ispirato la decostruzione della metafisica occidentale portata avanti, dopo di lui, da Heidegger e dai suoi seguaci. Se Nietzsche ha intuito giustamente che dobbiamo ricominciare da zero, iniziando in particolare dalla nostra appartenenza fisica per passare dal vecchio uomo occidentale a una nuova umanità, egli non ha avuto il tempo di aprire il cammino o di costruire il ponte per raggiungere questo obiettivo. Temo che anche la «volontà di potenza» e l’«eterno ritorno», in un modo o nell’altro, rimangano nell’orizzonte della nostra logica passata. Agiscono come strumenti della sua interpretazione, ma forniscono una prospettiva che ci consente di liberarci da essa. Tuttavia, le «intuizioni ispirate» di Nietzsche, come le chiama Heidegger, non ci forniscono la struttura di cui abbiamo bisogno per costruire una cultura adatta alla nostra incarnazione.
Questa struttura - Heidegger talvolta la chiama «ispezione» -, che rende possibile l’avvento di una nuova epoca della verità e della cultura, d’ora in poi deve risiedere nel nostro corpo, dal momento che è una struttura adatta a esso, tramite la quale può dirsi di nuovo fin quando il mondo e tutti gli elementi che vi prendono parte sono coinvolti. Questo tipo di struttura esiste e si esprime già, anche in modo inconscio, nella nostra concezione passata del reale e del linguaggio che ne parla - corrisponde alla sessuazione della nostra identità. In quello che è stato chiamato «essere umano» è rimasto ignorato un aspetto che ne determina la natura e che contribuisce a sottrarlo a una neutralità disincarnata che non gli permette di manifestarsi così com’è, e che riemerge, sebbene la presunta verità del mondo e delle cose non gli corrisponda.
Il rischio rappresentato dalla neutralizzazione degli umani in quanto esseri viventi adesso sta diventando evidente a causa della trasformazione in robot di diversi elementi del mondo, tramite l’organizzazione prodotta dalla mente umana a partire dal potenziale di meccanismi, di cui, però, è diventata schiava, esiliata dalla sua appartenenza vivente. Qualunque sia il loro potenziale performativo, gli esseri umani eccedono già quello della macchina a diversi livelli. La loro salvezza può venire soltanto dalla percezione del rischio e dalla maniera di superarlo, attribuendogli significato, e tramite un ritorno al proprio essere come specifici esseri viventi. Per superare una concezione del mondo dominata da un modo di pensare e di agire tecnico, dobbiamo trovare un’altra configurazione o struttura grazie alla quale gli esseri umani possano sfuggire a tale dominio riconoscendo e interpretando la natura del suo potere. Dobbiamo liberarci dal predominio tecnico e scientifico sulla nostra epoca e garantire la salvaguardia del significato tramite una nuova incarnazione dell’essere.
*Luce Irigaray, "Nascere. Genesi di un nuovo essere umano", TecaLibri.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA E FILOLOGIA. IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS: CHARITAS....
Tesi di Laurea
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
SOMMARIO Introduzione .................................................................................................................
1 Sezione 1: il versante ermeneutico ....................................................................... 5
1.1 La genesi agostiniana del principio .................................................................... 7
1.2 L’illuminismo tedesco e il nesso linguaggio-mondo ................................. 23
1.2.1 Wilhelm von Humboldt: “Sprachansicht als Weltansicht” ................................................................... 27 -APPENDICE Georg Friedrich Meier e il “Versuch einer allgemeinen Auslegungkunst” .................................. 43
1.3 La linea ontologica dell’ermeneutica contemporanea .............................. 53
1.3.1 Martin Heidegger e l’analitica esistenziale di “Sein und Zeit” ................................................ 55
1.3.2 Hans-Georg Gadamer e l’ermeneutica ontologica di “Warheit und Methode“ ........................ 69
Sezione 2: la riflessione logica .............................................................................. 85
2.1 Fondamenti teorici della carità in logica ....................................................... 87
α ) La riflessione filosofica di Ludwig Wittgenstein ......................................... 89
β) L’ipotesi della relatività linguistica............................................................ 100
2.2 Willard van Orman Quine e l’argomento di “traduzione radicale” ............................................................... 113
2.3 Donald Davidson e l’interpretazione radicale ..................................................................................... 137
Conclusione .............................................................................................................. 157
Bibliografia ............................................................................................................... 161 -Sitografia................................................................................................................... 163
***
INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da
carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione.
Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus
dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovverocareo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello»,kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino”1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
** UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA.
Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo, Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco,
Laureando: GANDELLINI Francesco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
NOTA:
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "La natura della razionalità", 1995). Una storia di lunga durata...:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
EMPATIA. Cosa significa adottare il punto di vista altrui? Due approcci complementari ce lo spiegano
METTETEVI UN PO’ NEI MIEI PANNI
di Alessandro Pagnini *
Due libri sull’empatia usciti quasi contemporaneamente, di Laura Boella e Antonio Rainone, testimoniano quella che i due autori considerano una vera e propria attuale rinascita di interesse per il tema. L’empatia è una forma di comprensione, come indicava Dilthey, fondata sull’affinità ontologica e psicologica di soggetto e oggetto, che avviene in una sorta di immedesimazione, di proiezione immaginativa, in cui «io» e «tu» entrano in un sottile gioco di condivisione, anche emotiva, di esperienze e di idee.
Il significato del termine non è mai stato univoco, per cui ha ragione Boella ad avvertirci di non confondere l’empatia con l’amore, con la compassione, con la simpatia, mentre sembra più proficuo riportarla nell’alveo naturale del suo battesimo «tecnico»: da una parte, quello del «dibattito sul metodo» in psicologia e in ambito storicistico (su cui insiste di più Rainone), dall’altra, quello del «sentire l’altro» in un’etica che sia sensibile alla lezione della fenomenologia di Heidegger e di Levinas (Boella).
Rainone, da parte sua, dà maggior risalto al modo del tutto peculiare in cui il dibattito sul verstehen è penetrato nel neopositivismo e nella filosofia analitica, fino a leggere originalmente la «riscoperta» dell’empatia dove meno è trasparente: nella tesi del «comportamentista» Quine su come concepire le attribuzioni intenzionali (le attribuzioni ad altri di credenze e desideri) e su come risolvere il problema della «traduzione radicale» di un linguaggio alieno; e quindi nelle tesi, particolarmente rilevanti, di Putnam e Nozick, tra chiarimenti intorno al cosiddetto «principio di carità» e teorie del contenuto concettuale e della razionalità nell’azione.
Alla fine, Rainone condivide l’interesse di molti filosofi anche per alcune teorie sperimentali sullo sviluppo ontogenetico della psicologia ingenua dette del mindreading ; dove alla «teoria della teoria», che postula il possesso da parte degli esseri umani di una "teoria" implicita (su basi innatistiche) che ci consente di interpretare il comportamento e il linguaggio altrui (noi congetturiamo su quello che vuol dire e fare l’altro esattamente come lo scienziato predice l’occorrenza di un evento), si contrappone la «teoria della simulazione», che postula la simulazione, talora letta in chiave di inferenza analogica, come procedimento di base che soddisfa quella funzione.
La storia che ci racconta Rainone parte da Dilthey e Collingwood per arrivare a Davidson, ai neowittgensteiniani e ai dibattiti più recenti in filosofia della mente e in epistemologia (soprattutto quella «affidabilista» e quella ingaggiata nei problemi controversi di una sua «naturalizzazione»). La storia che richiama Boella, per approdare a considerazioni soprattutto etiche, parte invece da quell’empatia che Husserl definiva un «enigma... oscuro e... tormentoso», e passa poi per Scheler e soprattutto per la Edith Stein (filosofi cari all’autrice), con la quale è condiviso il senso della necessaria attenzione per l’empatia: «Osservare e descrivere il fondamento originario del nostro esistere insieme agli altri».
Le due trattazioni sono palesemente molto diverse, al punto di non avere, assai sorprendentemente, neppure un minimo di riferimenti bibliografici in comune. La trattazione di Rainone informa in dettaglio, con una opportuna attenzione alla sequenza storica delle posizioni, sui contenuti di un dibattito che si è andato trasformando nel tempo soprattutto per la sua spesso essenziale contiguità con gli esiti delle scienze (da quelle psicologiche cognitive a quelle biologico-evoluzionistiche e neurofisiologiche), fino a cogliere la rilevanza della recente scoperta dei «neuroni specchio» per la teoria della simulazione (i «processi simulativi sarebbero una sorta di software attivato a livello cerebrale»). La trattazione della Boella è invece più improntata a descrizione fenomenologica a partire dalla nostra esperienza quotidiana, più attenta alle modulazioni dei rapporti vissuti tra corpo, emozioni e mente, ed è più concentrata sul significato morale del "praticare" l’empatia. Boella, con una scrittura adatta a cogliere la grana fine dell’esperienza concreta, creativa nelle metafore e nelle suggestioni, mutua più dalla letteratura (preziosa alleata sin dalle epigrafi) che non dalla scienza. Era stato Milan Kundera, del resto, a cogliere opportunamente come la letteratura (il romanzo) avesse nella modernità ereditato quella «passione del conoscere» di cui parlava Husserl, scrutando la vita concreta dell’uomo, tenendo il «mondo della vita» sotto una luce perpetua, senza incorrere nell’«oblio dell’essere».
Sono anch’io convinto, senza condividere quelle premesse filosofiche, che la letteratura ci insegni molto, soprattutto sull’empatia. Sicuramente più di quanto la più fantasiosa delle filosofie contempli (basterebbero le pagine strordinarie, recentemente rilette da Sebald nel suo Passeggiatore solitario, in cui Robert Walser "empatizza" con un lapis, o con la cenere, per lo sconcerto di qualsiasi teoria, sia essa epistemologica o relativa alla scoperta dei valori etici). Ma personalmente non inclino alle filosofie che rivaleggiano con la letteratura (preferisco la letteratura), prediligo (pace Heidegger) le filosofie "rigorose" a quelle "serie", non amo quelle che indulgono agli enigmi o alle magiche congiunzioni di anime.
E così, in tutto il materiale che questi due bei libri ci mettono a disposizione, trovo più congeniali Nozick e quei tentativi «bayesiani» di ricondurre il fenomeno dell’empatia in un ambito empirico e razionale (tentativo altrove riuscito anche per quella particolare forma di empatia che è, per certi versi, l’abduzione, o l’«occhio clinico», o la metis rivista in chiave di abilità «indiziaria»). Raccomandando però, con sincero spirito bipartisan, la lettura di tutt’e due.
*Il Sole-24 Ore, 09.07.2006 (ripresa parziale - senza foto).
Una metafisica per individui
di Roberto Casati (Il Sole-24 Ore, 19.02.2006)
Nella comunità intellettuale (considerata in senso ampio a includere chi si dedichi a una riflessione esplicita sui fondamenti concettuali e metodologici del proprio lavoro) non c’è un accordo sull’esistenza di fatti oggettivi. Il problema non riguarda soltanto una questione di conoscenza, ovvero del modo in cui potremmo accertarci di un fatto, e neppure riguarda soltanto discipline in cui sembra difficile convergere su ciò che conta come un fatto - come la teoria della letteratura (Manzoni voleva veramente esprimere una concezione del mondo giansenista?), della storia (che cosa ha determinato l’assassinio di Kennedy) o della giurisprudenza (Oswald ha agito davvero senza complici?)
È la nozione stessa di fatto oggettivo, di oggettività, a essere considerata discutibile (e a venire discussa). Le intenzioni degli autori o le cause degli omicidi sono davvero entità oggettive? Certo la discussione soffre di una certa vaghezza dei termini utilizzati. Il termine di contrasto principale è naturalmente con «soggettivo»; ma anche precisando il contrasto oggettivo/soggettivo, sostenere che non esistono fatti oggettivi può significare diverse cose. Per esempio, può significare che tutto è soggettivo nel senso che non ci sarebbero fatti se non ci fossero soggetti in grado di percepire o di pensare a tali fatti, o che c’è una componente soggettiva in ogni asserzione che facciamo sul mondo, o che la rappresentazione della realtà viene filtrata e distorta dai nostri sistemi cognitivi, o che ogni conoscenza inevitabilmente è un’azione, un intervento che modifica la cosa conosciuta, e via dicendo. La nozione di oggettività in gioco in questi diversi casi sarà di volta in volta differente.
Il filosofo Robert Nozick è noto al pubblico italiano per un grande libro di filosofia della politica, Anarchia, Stato e Utopia; e per un testo di filosofia più generale, Spiegazioni Filosofiche. L’ultimo lavoro pubblicato da Nozick prima della morte (avvenuta il 23 gennaio del 2002) è Invariances: The Structure of the Objective World (Harvard University Press, 2001, pp. 416, $ 24.50). Si tratta di un libro molto ambizioso, una summa metafisica che studia filosoficamente la nozione di oggettività alla luce delle trasformazioni della scienza. (Il capitolo introduttivo sul metodo filosofico è online sul sito di Harvard University Press)
Nozick distingue tre possibili ingredienti del modo di considerare l’oggettività. In primo luogo, quello appena menzionato dell’indipendenza dalla soggettività, da opinioni, speranze, misure soggettive. In secondo luogo, l’accesso multiplo: un fatto è oggettivo se vi si può accedere da prospettive differenti - attraverso sensi differenti, da punti di vista differenti, in momenti diversi (per esempio, vedo e sento la conversazione di Marco e Maria, o la vedo oggi e la rivedo in un film girato da un amico domani; o ancora, posso replicare un esperimento in momenti diversi). Infine, l’intersoggettività: un fatto è oggettivo se è possibile che soggetti diversi abbiano un accordo su di esso. Se sia io che voi contiamo i sassi in un mucchio e giungiamo al numero cinque, avremo ragione di pensare che è un fatto oggettivo che ci siano cinque sassi nel mucchio.
Accesso multiplo, intersoggettività e indipendenza sono elementi necessari, presi singolarmente, e sufficienti solo se presi nel loro complesso. Ma Nozick suggerisce che al di sotto di essi un quarto elemento, più profondo, permette di spiegare perché la nozione di oggettività includa proprio gli altri tre. L’elemento più profondo è l’idea di invarianza attraverso trasformazioni.
Nozick riconosce un debito non solo linguistico ma anche concettuale nei confronti della matematica, della fisica e di altre discipline scientifiche. Il Programma di Erlangen (1872) di Felix Klein (1849-1925) era volto a unificare i diversi tipi di geometria con lo studio dell’invarianza all’interno dei gruppi di trasformazioni ammissibili per le entità geometriche. Per esempio, le rotazioni e le traslazioni nello spazio lasciano invarianti le proprietà metriche delle figure; la proiezione di una figura su un piano che è ad essa parallelo non lascia invarianti le proprietà metriche ma preserva gli angoli. In psicologia la nozione di invarianza viene associata al lavoro di J.J. Gibson (1904-1979), che riteneva che i sistemi percettivi abbiano come funzione l’“estrazione” di elementi invarianti nell’ambiente (un approccio per questa ragione detto “ecologico”). Non ci sembra che una sedia cambi di forma mentre le giriamo intorno: siamo per così dire “sintonizzati” sulla forma invariante della sedia, anche se l’immagine che ne abbiamo a ogni istante muta continuamente. La psicologia della percezione generalizza la nozione, a volte chiamata “costanza”; quello che vale per la forma della sedia vale anche per il suo colore: non ci sembra che la sedia cambi colore in diversi momenti del giorno.
Alcune proprietà vengono conservate attraverso tutte le trasformazioni, altre resistono solo ad alcune trasformazioni. Questo inserisce un ordine di profondità tra le proprietà: le invarianze sono graduate. In geometria le proprietà topologiche sono più profonde di quelle metriche: bisogna alterare in profondità una figura per farle perdere la struttura topologica.
Nozick suggerisce per analogia che una differenza di profondità possa applicarsi alla nozione di oggettività. Ci sono proprietà che resistono a più trasformazioni di altre, e le prime saranno più oggettive delle seconde. La conoscenza di un oggetto si fonda sulla comprensione dell’interazione tra invarianza e la variazione: «Per comprendere qualcosa, non vogliamo soltanto conoscere le trasformazioni sotto le quali è invariante, ma anche quelle sotto le quali varia» (p. 78).
Il lavoro di Nozick tende a mostrare che i problemi metafisici non sono indipendenti dal contesto scientifico che li suscita. La nozione metafisica di oggettività che Nozick suggerisce di adottare non deriva da un’analisi filosofica apriori, ed è tributaria di nozioni che derivano dalle scienze. La metafisica progredisce, e può farlo anche perché la scienza pone problemi inediti ai filosofi e offre a volte strumenti per metterli a fuoco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E SAN PAOLO. -- CARITÀ O EMPATIA?!: LA LEZIONE DI QUINE E DI NOZICK: "CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO" (di Antonio Rainone).
Federico La Sala
L’IMITAZIONE, L’EMULAZIONE, E IL PARADOSSO DELLA RIPETIZIONE “ORIGINALE” ... *
“La mimesi è l’atto di riprodurre il modello secondo le regole. L’emulazione è la spinta dell’anima mossa all’ammirazione” (Dionigi di Alicarnasso, “Sull’imitazione”).
IMITAZIONE E INDIVIDUAZIONE. “Se in campo filosofico il peccato originale dell’imitazione è consistito nella minaccia portata all’idolo del libero arbitrio ovvero all’ego del cogito cartesiano, altrettanto sacrilego risultò in ambito psicoanalitico l’attentato ai fondamenti pulsionali della psiche. Nel pensiero freudiano l’imitazione era confinata alla fase infantile o altrimenti alla psicologia delle masse, mentre nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung tale facoltà si trovava a contrastare il fine ultimo di ogni esistenza umana, ovvero l’individuazione: “L’uomo ha una facoltà che per gli intenti collettivi è utilissima, e dannosissima per l’individuazione, quella di imitare”. Nella dichiarazione di Jung risulta comunque superata una concezione volta a relegare l’imitazione ai primi stadi dello sviluppo psichico e, ad onore del vero, lo stesso Freud aveva intuito già nel 1895, in Progetto di una psicologia, il valore imitativo delle percezioni sensoriali sussistere ben oltre l’infanzia. A questa intuizione ancorava le proprie ricerche, a metà degli anni Sessanta, il già citato Eugenio Gaddini grazie al quale è stato infine possibile riconoscere nell’imitazione una struttura permanente, una forma relazionale stabile [..]”. BIOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Le radici stanno nel fatto - come scrive Aristotele nella “Poetica”, capitolo secondo - che “coloro che imitano imitano persone che agiscono” e - come “Vittorio Gallese, membro del team parmense cui si deve la scoperta dei neuroni specchio, ha avuto modo di ribadire” - che “il meccanismo funzionale alla base di un modello dell’intersoggettività neuroscientificamente fondato consiste nella “simulazione incarnata” (embodied simulation): “Prima e al di sotto della lettura metarappresentazionale della mente si trova l’intercorporeità - la mutua risonanza di comportamenti sensoriali e motori significativi dal punto di vista intenzionale”.
“COME NASCONO I BAMBINI”. SE è VERO, COME è VERO CHE “Al di là delle formidabili oscillazioni del concetto di imitazione e delle sue varianti terminologiche nel corso di secoli di elaborazione dapprima filosofica, poi specificamente estetica e infine teorico letteraria, le teorie della mimesi paiono dispiegare, oltre ad una coerenza non sempre evidente ma di lungo periodo, una spiccata propensione ad oltrepassare i confini disciplinari”, PER NON PERDERSI NEL LABIRINTO delle infinite ramificazioni è bene riprendere il filo delle varie teorie dalla stessa dimensione biologica e antropologica della vita umano-sociale: la NASCITA!
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. E’ lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? “J’accuse” di René Girard. L’incomprensione della lezione di Freud (Marx e Nietzsche) lo spinge ad un’apologia del cattolicesimo costantiniano
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
“CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE. CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O "MAMMONA"? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE..... *
Femminismo
Cartoline da un decennio
di Ida Dominijanni, giornalista (Internazionale, 31 dicembre 2019)
All’ingresso negli anni venti del secolo scorso furono le flapper, donne giovani, indipendenti e anticonformiste, a imprimere il segno della gioia di vivere su un decennio che si sarebbe poi colorato di tinte funeree. Finita la grande guerra che le aveva emancipate forzosamente mettendole al lavoro al posto degli uomini spediti al fronte, scorciarono le gonne, si tagliarono i capelli e decisero che era venuto il momento di invadere la città e di godersi la vita, a costo di scandalizzare tutti i benpensanti dell’occidente che con quel termine, flapper, le stigmatizzavano come ragazzine di troppo facili costumi. Cominciava così, fra il gioco e la necessità, quella mutazione della specie che avrebbe smantellato il monopolio maschile della felicità pubblica e che da allora in poi non si è mai arrestata, dilagando dall’occidente a tutte le latitudini del pianeta.
Un secolo dopo delle flapper non c’è più bisogno: le cattive ragazze sono dappertutto, con gli orli e i capelli corti o lunghi, con desideri espliciti e ambizioni autorizzate, anche se la specie non ha ancora fatto i conti con questa mutazione e non manca di resisterle. Eppure sono di nuovo le donne a dare il segno del mutamento e della felicità pubblica a un passaggio di decennio per lo più marcato dall’incertezza e da passioni tristi.
I decenni, si sa, sono come il bicchiere del proverbio: li si può vedere mezzi vuoti o mezzi pieni. Di quello che sta per chiudersi è più facile enumerare i vuoti che i pieni, i moti retrogradi che gli sprazzi di futuro, i capovolgimenti inattesi che le promesse mantenute. Anche stavolta, intanto, c’è stata una grande guerra, non militare ma economica, con il suo corredo di morti, feriti, azzoppati, declassati, impoveriti, illividiti; qui in Europa non ne siamo ancora fuori, tanto meno in Italia, ed è pressoché certo che qui le cose non torneranno mai più com’erano prima e altrove chissà, se alla crisi economica aggiungiamo quella ambientale che toglie il respiro anche a quelle parti della terra dove il motore della crescita gira vorticosamente.
C’è una crisi demografica, che precipita l’Europa in una vecchiaia senza ritorno a meno che non apra ai popoli che vengono dal sud quelle porte che oggi si ostina a tenere chiuse.
C’è una crisi democratica, che capovolge in rancore l’illusione che la democrazia avrebbe messo tutto il mondo a regime e ne scombina tutti i piani, con capi impresentabili che spuntano ovunque e popoli gregari che ne inseguono false promesse e velleità di potenza. C’è una crisi tecnologica, anche qui con un rovesciamento del miraggio egualitario della rete nella presa d’atto dei suoi dispositivi gerarchici di sorveglianza, controllo, estrazione di lavoro e di valore.
C’è una crisi, perfino, epistemologica, con l’appannarsi del confine fra vero e falso, informazione e fake news, lumi della ragione e buio delle credenze, che erode il nocciolo stesso dell’autodeterminazione e ci mette tutti nella condizione dell’angelo di Benjamin, con il futuro alle spalle e il progresso ridotto a una montagna di macerie. E potremmo chiuderla qui, con l’immagine di un decennio avvolto nella parola “crisi” variamente declinata ma riassumibile sotto il nome di crisi del neoliberalismo, e senza che se ne vedano le soluzioni o l’uscita.
Eppure, il bicchiere si può rovesciare, come fa Rebecca Solnit sul Guardian, invitandoci a guardare le cose da un’altra prospettiva. Perché proprio questa infilata di crisi ci ha aperto gli occhi, trasformando la disillusione non sempre in rancore, paura e nostalgia ma anche in rivolta, resistenza, immaginazione del futuro. Guardato da questa prospettiva, il decennio è attraversato da un filo rosso di movimenti che non smettono di ripresentarsi da ogni parte del mondo: Occupy Wall street, le primavere arabe, Black lives matter, il movimento sul cambiamento climatico dall’Artico all’Equatore, le piazze gremite degli ultimi mesi in America Latina, i gilet gialli in Francia. E il femminismo di ultima generazione dappertutto, dal Cile al Messico, dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Europa all’India, dal Pakistan al Kenia, e da Hollywood alle periferie più sofferenti: una rivolta dentro la rivolta, come da sempre il femminismo si presenta, ad ammonire che non c’è ribellione contro la finanza, contro il capitalismo delle piattaforme, contro i dittatori, contro le polizie, contro i fondamentalismi, contro il razzismo, contro lo sfruttamento mortifero della natura, che non passi per lo smantellamento delle strutture profonde del dominio sessuale e per la tessitura di una diversa trama dell’io, del noi, delle relazioni umane.
Non c’è uscita dalla razionalità neoliberale, che ha ridisegnato l’antropologia politica del mondo mettendo sul trono un individuo tanto proprietario, narcisista e competitivo quanto deprivato, isolato e infelice, senza ritessere la trama delle alleanze intersezionali fra quante e quanti in quell’individuo non si riconoscono.
Conosciamo le obiezioni: questi movimenti spuntano e passano, non vincono, sono poca cosa rispetto alle torsioni verso destra dei popoli e degli elettorati. Ma i movimenti non vincono le elezioni, cambiano la testa e il cuore di chi li fa e di chi ne è contagiato; scavano in profondità, aprono l’immaginazione del presente e del futuro, rimettono al mondo la felicità pubblica dove imperano le passioni tristi; rilanciano il desiderio di politica dove la politica costituita agonizza; modificano, appunto, la prospettiva. Sotto questa prospettiva, la visione del decennio cambia: l’infilata delle crisi diventa un generatore imprevedibile di soggettività, e l’icona che meglio la condensa è quella di un maschio bianco impaurito che pretende di tornare sovrano erigendo barriere e confini circondato da una moltitudine di donne che glielo impediscono. Trump e il Metoo, Salvini e Carola Rackete, Putin e Olga Misik, i potenti della terra e Greta: cartoline da un decennio niente male.
Oggetto privilegiato di addomesticamento del neoliberalismo, le donne ne sono diventate la principale spina nel fianco, le frontwomen di una rivolta che i media mainstream riducono alla conta delle presidenze e delle onorificenze femminili ma che ha per posta in gioco un cambio di civiltà. Non ci sono tetti di cristallo da rompere ma basi sociali da ricostruire. Il gioco, nel decennio che verrà, si farà certamente più duro se non tragico come un secolo fa, ma giocato dalla parte giusta si annuncia anche gravido di buone promesse.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
SE LA "CARISSIMA" EU-CARESTIA è figlia DELLA CARITA’ ("CARITAS") è e resta SEMPRE una ELEMOSINA, E L’EU-CHARIS-TIA è e resta sempre una CARITA’ ("Caritas") senza GRAZIA ("CHARItaS"):
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
«Perché la storia continui». Appello per una Costituzione della Terra
Proposte. Appello per un nuovo costituzionalismo globale, una bussola etica e politica per salvare il mondo e i suoi abitanti dalla distruzione.
di Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, Raffaele Nogaro, Paolo Maddalena, Mariarosaria Guglielmi, Riccardo Petrella (il manifesto, 26.12.2019)
Nel pieno della crisi globale, nel 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana, Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, il vescovo Nogaro, Riccardo Petrella e molti altri lanciano il progetto politico di una Costituzione per la Terra e promuovono una Scuola, «Costituente Terra», che ne elabori il pensiero e prefiguri una nuova soggettività politica del popolo della Terra, «perché la storia continui». Pubblichiamo le parti essenziali del documento che esce domani, in data 27 dicembre 2019.
L’Amazzonia brucia e anche l’Africa, e non solo di fuoco, la democrazia è a pezzi, le armi crescono, il diritto è rotto in tutto il mondo. «Terra! Terra!» è il grido dei naufraghi all’avvistare la sponda, ma spesso la terra li respinge, dice loro: «i porti sono chiusi, avete voluto prendere il mare, fatene la vostra tomba, oppure tornate ai vostri inferni». Ma «Terra» è anche la parola oggi più amata e perduta dai popoli che ne sono scacciati in forza di un possesso non condiviso; dai profughi in fuga per la temperatura che aumenta e il deserto che avanza; dalle città e dalle isole destinate ad essere sommerse al rompersi del chiavistello delle acque, quando la Groenlandia si scioglie, i mari son previsti salire di sette metri sull’asciutto, e a Venezia già lo fanno di un metro e ottantasette. «Che si salvi la Terra» dicono le donne e gli uomini tutti che assistono spaventati e impotenti alla morte annunciata dell’ambiente che da millenni ne ospita la vita.
Ci sono per fortuna pensieri e azioni alternative, si diffonde una coscienza ambientale, il venerdì si manifesta per il futuro, donne coraggiose da Greta Thunberg a Carola Rackete fanno risuonare milioni di voci, anche le sardine prendono la parola, ma questo non basta. Se nei prossimi anni non ci sarà un’iniziativa politica di massa per cambiare il corso delle cose, se le si lascerà in balia del mercato della tecnologia o del destino, se in Italia, in Europa e nelle Case Bianche di tutti i continenti il fascismo occulto che vi serpeggia verrà alla luce e al potere, perderemo il controllo del clima e della società e si affacceranno scenari da fine del mondo, non quella raccontata nelle Apocalissi, ma quella prevista e monitorata dagli scienziati.
Il cambiamento è possibile
L’inversione del corso delle cose è possibile. Essa ha un nome: Costituzione della terra. Il costituzionalismo statuale che ha dato una regola al potere, ha garantito i diritti, affermato l’eguaglianza e assicurato la vita degli Stati non basta più, occorre passare a un costituzionalismo mondiale della stessa autorità ed estensione dei poteri e del denaro che dominano la Terra.
La Costituzione del mondo non è il governo del mondo, ma la regola d’ingaggio e la bussola di ogni governo per il buongoverno del mondo. Nasce dalla storia, ma deve essere prodotta dalla politica, ad opera di un soggetto politico che si faccia potere costituente. Il soggetto costituente di una Costituzione della Terra è il popolo della Terra, non un nuovo Leviatano, ma l’unità umana che giunga ad esistenza politica, stabilisca le forme e i limiti della sua sovranità e la eserciti ai fini di far continuare la storia e salvare la Terra.
Salvare la Terra non vuol dire solo mantenere in vita «questa bella d’erbe famiglia e d’animali», cantata dai nostri poeti, ma anche rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno sviluppo di tutte le persone umane.
Il diritto internazionale è già dotato di una Costituzione embrionale del mondo, prodotta in quella straordinaria stagione costituente che fece seguito alla notte della seconda guerra mondiale e alla liberazione dal fascismo e dal nazismo: la Carta dell’Onu del 1945, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, i due Patti internazionali del 1966 e le tante Carte regionali dei diritti, che promettono pace, sicurezza, garanzia delle libertà fondamentali e dei diritti sociali per tutti gli esseri umani. Ma non sono mai state introdotte le norme di attuazione di queste Carte, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati. Non è stato affatto costituito il nuovo ordine mondiale da esse disegnato. È come se un ordinamento statale fosse dotato della sola Costituzione e non anche di leggi attuative, cioè di codici penali, di tribunali, di scuole e di ospedali che «di fatto la realizzino».
È chiaro che in queste condizioni i diritti proclamati sono rimasti sulla carta, come promesse non mantenute. Riprendere oggi il processo politico per una Costituzione della Terra vuol dire tornare a prendere sul serio il progetto costituzionale formulato settant’anni fa e i diritti in esso stabiliti. E poiché quei diritti appartengono al diritto internazionale vigente, la loro tutela e attuazione non è soltanto un’urgente opzione politica, ma anche un obbligo giuridico in capo alla comunità internazionale e a tutti noi che ne facciamo parte.
Qui c’è un’obiezione formulata a partire dalla tesi di vecchi giuristi secondo la quale una Costituzione è l’espressione dell’«unità politica di un popolo»; niente popolo, niente Costituzione. E giustamente si dice che un popolo della Terra non c’è; infatti non c’era ieri e fino ad ora non c’è.
La novità è che adesso può esserci, può essere istituito; lo reclama la scena del mondo, dove lo stato di natura delle sovranità in lotta tra loro non solo toglie la «buona vita», ma non permette più neanche la nuda vita; lo reclama l’oceano di sofferenza in cui tutti siamo immersi; lo rende possibile oggi la vetta ermeneutica raggiunta da papa Francesco e da altre religioni con lui, grazie alla quale non può esserci più un dio a pretesto della divisione tra i popoli: «Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno» - hanno detto ad Abu Dhabi - non vuole essere causa di terrore per nessuno, mentre lo stesso «pluralismo e le diversità di religione sono una sapiente volontà divina con cui Dio ha creato gli esseri umani»; non c’è più un Dio geloso e la Terra stessa non è una sfera, ma un poliedro di differenze armoniose.
Per molti motivi perciò è realistico oggi porsi l’obiettivo di mettere in campo una Costituente della Terra, prima ideale e poi anche reale, di cui tutte le persone del pianeta siano i Padri e le Madri costituenti.
Una politica dalla parte della Terra
Di per sé l’istanza di una Costituzione della Terra dovrebbe essere perseguita da quello strumento privilegiato dell’azione politica che, almeno nelle democrazie, è il partito - nazionale o transnazionale che sia - ossia un artefice collettivo che, pur sotto nomi diversi, agisca nella forma partito. Oggi questo nome è in agonia perché evoca non sempre felici ricordi, ma soprattutto perché i grandi poteri che si arrogano il dominio del mondo non vogliono essere intralciati dal controllo e dalla critica dei popoli, e quindi cercano di disarmarli spingendoli a estirpare le radici della politica e dei partiti fin nel loro cuore. È infatti per la disaffezione nei confronti della politica a cui l’intera società è stata persuasa che si scende in piazza senza colori; ma la politica non si sospende, e ciò a cui comunque oggi siamo chiamati è a prendere partito, a prendere partito non per una Nazione, non per una classe, non “prima per noi”, ma a prendere partito per la Terra, dalla parte della Terra.
Ma ancor più che la riluttanza all’uso di strumenti già noti, ciò che impedisce l’avvio di questo processo costituente, è la mancanza di un pensiero politico comune che ne faccia emergere l’esigenza e ne ispiri modalità e contenuti.
Non manca certamente l’elaborazione teorica di un costituzionalismo globale che vada oltre il modello dello Stato nazionale, il solo nel quale finora è stata concepita e attuata la democrazia, né mancano grandi maestri che lo propugnino; ma non è diventato patrimonio comune, non è entrato nelle vene del popolo un pensiero che pensi e promuova una Costituzione della Terra, una unità politica dell’intera comunità umana, il passaggio a una nuova e rassicurante fase della storia degli esseri umani sulla Terra.
Eppure le cose vanno così: il pensiero dà forma alla realtà, ma è la sfida della realtà che causa il pensiero. Una “politica interna del mondo” non può nascere senza una scuola di pensiero che la elabori, e un pensiero non può attivare una politica per il mondo senza che dei soggetti politici ne facciano oggetto della loro lotta. Però la cosa è tale che non può darsi prima la politica e poi la scuola, né prima la scuola e poi la politica. Devono nascere insieme, perciò quello che proponiamo è di dar vita a una Scuola che produca un nuovo pensiero della Terra e fermenti causando nuove soggettività politiche per un costituzionalismo della Terra. Perciò questa Scuola si chiamerà «Costituente Terra».
«Costituente Terra»: una Scuola per un nuovo pensiero
Certamente questa Scuola non può essere pensata al modo delle Accademie o dei consueti Istituti scolastici, ma come una Scuola disseminata e diffusa, telematica e stanziale, una rete di scuole con aule reali e virtuali. Se il suo scopo è di indurre a una mentalità nuova e a un nuovo senso comune, ogni casa dovrebbe diventare una scuola e ognuno in essa sarebbe docente e discente. Il suo fine potrebbe perfino spingersi oltre il traguardo indicato dai profeti che volevano cambiare le lance in falci e le spade in aratri e si aspettavano che i popoli non avrebbero più imparato l’arte della guerra. Ciò voleva dire che la guerra non era in natura: per farla, bisognava prima impararla. Senonché noi l’abbiamo imparata così bene che per prima cosa dovremmo disimpararla, e a questo la scuola dovrebbe addestrarci, a disimparare l’arte della guerra, per imparare invece l’arte di custodire il mondo e fare la pace.
Molte sarebbero in tale scuola le aree tematiche da perlustrare:
1) le nuove frontiere del diritto, il nuovo costituzionalismo e la rifondazione del potere;
2) il neo-liberismo e la crescente minaccia dell’anomia;
3) la critica delle culture ricevute e i nuovi nomi da dare a eventi e fasi della storia passata;
4) il lavoro e il Sabato, un lavoro non ridotto a merce, non oggetto di dominio e alienato dal tempo della vita;
5) la «Laudato sì» e l’ecologia integrale;
6) il principio femminile, come categoria rigeneratrice del diritto, dal mito di Antigone alla coesistenza dei volti di Levinas, al legame tra donna e natura fino alla metafora della madre-terra;
7) l’Intelligenza artificiale (il Führer artificiale?) e l’ultimo uomo;
8) come passare dalle culture di dominio e di guerra alle culture della liberazione e della pace;
9) come uscire dalla dialettica degli opposti, dalla contraddizione servo-signore e amico-nemico per assumere invece la logica dell’ et-et, della condivisione, dell’armonia delle differenze, dell’ «essere per l’altro», dell’ «essere l’altro»;
10) il congedo del cristianesimo dal regime costantiniano, nel suo arco «da Costantino ad Hitler», e la riapertura nella modernità della questione di Dio;
11) il «caso Bergoglio», preannuncio di una nuova fase della storia religiosa e secolare del mondo.
Naturalmente molti altri temi potranno essere affrontati, nell’ottica di una cultura per la Terra alla quale nulla è estraneo d’umano. Tutto ciò però come ricerca non impassibile e fuori del tempo, ma situata tra due kairòs, tra New Delhi ed Abu Dhabi, due opportunità, una non trattenuta e non colta, la proposta di Gorbaciov e Rajiv Gandhi del novembre 1986 per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, e l’altra che ora si presenta di una nuova fraternità umana per la convivenza comune e la salvezza della Terra, preconizzata nel documento islamo-cristiano del 4 febbraio 2019 e nel successivo Comitato di attuazione integrato anche dagli Ebrei, entrato ora in rapporto con l’ONU per organizzare un Summit mondiale della Fratellanza umana e fare del 4 febbraio la Giornata mondiale che la celebri.
Partecipare al processo costituente iscriversi al Comitato promotore
Pertanto i firmatari di questo appello propongono di istituire una Scuola denominata «Costituente Terra» che prenda partito per la Terra, e a questo scopo hanno costituito un’associazione denominata «Comitato promotore partito della Terra». Si chiama così perché in via di principio non era stata esclusa all’inizio l’idea di un partito, e in futuro chissà. Il compito è oggi di dare inizio a una Scuola, «dalla parte della Terra», alle sue attività e ai suoi siti web, e insieme con la Scuola ad ogni azione utile al fine «che la storia continui»; e ciò senza dimenticare gli obiettivi più urgenti, il risanamento del territorio, la rifondazione del lavoro, l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, la firma anche da parte dell’Italia del Trattato dell’ONU per l’interdizione delle armi nucleari e così via.
I firmatari propongono che persone di buona volontà e di non perdute speranze, che esponenti di associazioni, aggregazioni o istituzioni già impegnate per l’ecologia e i diritti, si uniscano a questa impresa e, se ne condividono in linea generale l’ispirazione, si iscrivano al Comitato promotore di tale iniziativa all’indirizzo progettopartitodellaterra@gmail.com versando la relativa quota sul conto BNL intestato a “Comitato promotore del partito della Terra”, IBAN IT94X0100503206000000002788 (dall’estero BIC BNLIITRR).
La quota annua di iscrizione, al Comitato e alla Scuola stessa, è libera, e sarà comunque gradita. Per i meno poveri, per quanti convengano di essere tra i promotori che contribuiscono a finanziare la Scuola, eventuali borse di studio e il processo costituente, la quota è stata fissata dal Comitato stesso nella misura significativa di 100 euro, con l’intenzione di sottolineare che la politica, sia a pensarla che a farla, è cosa tanto degna da meritare da chi vi si impegna che ne sostenga i costi, contro ogni tornaconto e corruzione, ciò che per molti del resto è giunto fino all’offerta della vita. Naturalmente però si è inteso che ognuno, a cominciare dai giovani, sia libero di pagare la quota che crede, minore o maggiore che sia, con modalità diverse, secondo le possibilità e le decisioni di ciascuno.
Nel caso che l’iniziativa non riuscisse, le risorse finanziarie mancassero e il processo avviato non andasse a buon fine, l’associazione sarà sciolta e i fondi eventualmente residui saranno devoluti alle ONG che si occupano dei salvataggi dei fuggiaschi e dei naufraghi nel Mediterraneo.
Un’assemblea degli iscritti al Comitato sarà convocata non appena sarà raggiunto un congruo numero di soci, per l’approvazione dello Statuto dell’associazione, la formazione ed elezione degli organi statutari e l’impostazione dei programmi e dell’attività della Scuola.
Roma, 27 dicembre 2019, 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana.
PROPONENTI E PRIMI ISCRITTI. Raniero La Valle, giornalista (Roma), Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto (Roma), Valerio Onida, già presidente della Corte Costituzionale, Raffaele Nogaro, ex vescovo di Caserta, Paolo Maddalena, già vicepresidente della Corte Costituzionale, Mariarosaria Guglielmi, Segretaria generale di Magistratura Democratica, Riccardo Petrella, ecologo, promotore del Manifesto dell’acqua e dell’identità di “Abitante della Terra”, Domenico Gallo, magistrato, Francesco Carchedi, sociologo (Roma), Francesco Di Matteo, Comitati Dossetti per la Costituzione, Anna Falcone. avvocata, Roma, Pippo Civati, Politico, Piero Basso (Milano), Gianpietro Losapio, cooperatore sociale, direttore del Consorzio NOVA, Giacomo Pollastri, studente in Legge (Roma), Francesco Comina, giornalista (Bolzano), Roberto Mancini, filosofo (Macerata), Francesca Landini, informatica (Roma), Giancarlo Piccinni e la Fondazione don Tonino Bello (Alessano), Grazia Tuzi, antropologa, autrice di “Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della comunità del porcellino” (Roma), Guido Innocenzo Gargano osb cam., monaco (Roma), Felice Scalia, s. J, (Messina), Marina Graziosi, docente (Roma), Agata Cancelliere, insegnante, (Roma), Raul Mordenti, storico della critica letteraria, Politico (Roma), Salvatore Maira, scrittore (Roma), Marco Malagola, francescano, missionario, (Torino), Norma Lupi (Roma), Andrea Cantaluppi, sindacalista (Roma), Enrico Peyretti (Torino), Nino Mantineo, università di Catanzaro, Giacoma Cannizzo, già sindaca di Partinico, Filippo Grillo, artista (Palermo), Nicola Colaianni, già magistrato e docente all’Università di Bari, Stefania Limiti, giornalista (Roma), Domenico Basile (Merate, Lecco), Maria Chiara Zoffoli (Merate), Luigi Gallo (Bolzano), Antonio Vermigli, giornalista (Quarrata, Pistoia), Renata Finocchiaro, ingegnere (Catania), Liana D’Alessio (Roma), Lia Fava, ordinaria di letteratura (Roma), Paolo Pollastri, musicista (Roma), Fiorella Coppola, sociologa (Napoli), Dario Cimaglia, editore, (Roma), Luigi Spina, insegnante, ricercatore (Biella), Marco Campedelli, Boris Ulianich, storico, Università Federico II, Napoli, Gustavo Gagliardi, Roma, Paolo Scandaletti, scrittore di storia, Roma, Pierluigi Sorti, economista, Roma, Vittorio Bellavite, coordinatore di “Noi siamo Chiesa”, Agnés Deshormes, cooperatrice internazionale, Parigi, Anna Sabatini Scalmati, psicoterapeuta, Roma, Francesco Piva, Roma, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo, Tina Palmisano, Il Giardino Terapeutico sullo Stretto, Messina, Luisa Marchini, segretaria di “Salviamo la Costituzione”, Bologna, Maurizio Chierici, giornalista. Angelo Cifatte, formatore, Genova, Marco Tiberi, sceneggiatore, Roma, Achille Rossi e l’altrapagina, Città di Castello, Antonio Pileggi, ex Provveditore agli studi e dir. gen. INVALSI, Giovanni Palombarini, magistrato, Vezio Ruggieri, psicofisiologo (Roma) Bernardetta Forcella (insegnante (Roma), Luigi Narducci (Roma), Laura Nanni (Albano), Giuseppe Salmè, magistrato, Giovanni Bianco, giurista, Roma.
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16. Il Natale secondo Fëdor
di Alessandro D’Avenia (Corriere della sera, 23 dicembre 2019)
San Pietroburgo, Natale 1875. Al club degli artisti è in corso una scintillante festa di Natale, durante la quale molti dei presenti cercano di mettersi in mostra e di sembrare più belli e intelligenti. Un uomo in disparte, guardando con attenzione la scena e i volti degli invitati, nota che tutti si divertono ma che in realtà nessuno è veramente contento, allora decide di smascherare il gioco: «La disgrazia è che voi ignorate quanto siete belli. Ognuno di voi potrebbe subito rendere felici tutti gli altri in questa sala e trascinare tutti con sé. E questo potere esiste in ognuno, ma così profondamente nascosto, che è diventato inverosimile. La vostra disgrazia è nel fatto che vi sembra inverosimile».
Chi ha parlato in modo così bruciante è Fëdor Dostoevskij che racconta l’episodio nel suo Diario di uno scrittore, che raccoglie gli scritti dell’omonima rubrica tenuta sul settimanale “Il cittadino”. Per Dostoevskij, osservatore acutissimo, l’episodio mostra che se l’uomo smette di credere nella presenza di qualcosa di trascendente dentro e fuori di sé, diventa insicuro e comincia a disprezzare sé e/o gli altri.
Al fatto di cronaca lo scrittore fa poi seguire un racconto. Alla vigilia di Natale, in un gelido scantinato, un bambino di sei anni, infreddolito e affamato, cerca di svegliare invano la madre. Allora esce per le strade innevate di Pietroburgo con indosso pochi stracci: chi lo incontra finge di non vederlo per non doversene occupare. Egli si rifugia in una casa piena di persone che festeggiano, ma viene cacciato con la magra elemosina di una moneta che gli cade di mano perché ha le dita congelate. Si rincuora osservando una vetrina piena di giocattoli ma viene colpito e inseguito da un ragazzaccio. Scappa e si nasconde dietro una catasta di legna. Dopo un po’ di tempo finalmente non ha più freddo e sente una voce misteriosa che gli dice: «Vieni alla mia festa di Natale, bambino». Così si ritrova in un luogo caldo, luminoso e pieno di bambini: ad accoglierlo c’è la madre sorridente. L’indomani, dietro la legna, i proprietari trovano il cadavere del bambino.
Finisce così il racconto Il bambino alla festa di Natale da Gesù, e la festa in cui il piccolo si ritrova è l’eternità. Dostoevskij dice di essersi ispirato a un fatto vero ma riguardo al finale aggiunge: «Quanto alla festa di Gesù poteva questo avvenire o no? Proprio per questo sono un romanziere, per inventare». Il racconto del bambino è la chiave per comprendere a cosa non credono più gli artisti della festa: in Dio e nel suo manifestarsi.
Lo scrittore era convinto che quella di Cristo fosse una storia che si ripete in tutte le vite umane, infatti in ogni suo capolavoro mette in scena un passo evangelico che ne è la chiave di lettura: senza Lazzaro non si comprende Delitto e Castigo, senza le nozze di Cana I Karamazov, senza l’indemoniato liberato I demoni... Ne era convinto perché aveva sperimentato più volte l’intervento di Dio nella concretezza della sua vita: la condanna a morte e la grazia all’ultimo istante; i lavori forzati in Siberia e la lettura a memoria dell’unico libro a disposizione, il Vangelo; la malattia, la crisi economica e creativa, e l’incontro salvifico con la futura moglie Anna. Per lui la presenza di Dio nella vita di ogni uomo, per quanto nascosta o rifiutata, è continua e inesauribile.
Il bambino dello scantinato, uno dei tanti che morivano di fame e freddo nella sua città, è infatti il Bambino di Betlemme: egli vaga con pochi stracci (le fasce) per le strade della città-mondo in cerca di uomini che vogliano accoglierlo, per loro muore (la catasta di legna) in croce, ma risorge nella festa eterna. Per Dostoevskij, Dio passa accanto a noi in infiniti modi ma soprattutto nelle creature fragili, come i bambini, dalla sofferenza dei quali era tormentato come mostrano pagine abissali dei suoi romanzi. La fragilità è la veste umana con cui Dio si fa vivo dentro e fuori di noi: non è mai un’evidenza schiacciante, ma un sussurro, un invito, un’occasione, una luce silenziosa... Non saremmo liberi se non fosse così, e chi non è libero non può amare.
Gli invitati alla festa «si divertono ma nessuno è contento» perché hanno smesso di credere al Padre che li ama senza riserve: chi non si sente amato, così com’è, fatica ad amare sé e gli altri. Lo vedo tutti i giorni: i ragazzi con genitori che li fanno sentire amati sono più sereni; affrontano la vita come un’avventura faticosa ma promettente; hanno le spalle e il cuore coperti. Dostoevskij crede fermamente che Dio passa vicino a ognuno di noi in vesti non appariscenti, chiedendoci di collaborare con lui. Vi auguro di riconoscerlo, cari lettori, con le parole che Dostoevskij scrisse a un uomo incerto se assistere o meno una donna colpevole di infanticidio: «Non fatevi sfuggire il momento in cui il Signore fa la sua mossa». Così il Natale accadrà in e attraverso di noi. Auguri!
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone". "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994), con approfondimenti.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Natale*
Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Manganelli: basta con il Natale!
di Marco Belpoliti (Doppiozero, 24.12.2015)
Basta con il Natale!, l’esclamazione prorompe dalle pagine de Il presepio (Adelphi 1992) che Giorgio Manganelli sta redigendo alla fine degli anni Settanta nella sua casa romana seduto alla macchina per scrivere. In verità nel dattiloscritto che esce dal rullo della macchina non dice proprio così. Manganelli è più sottile, meno greve, ma non per questo meno diretto o pesante: “La mia memoria dei Natali infantili è estremamente penosa”; e ancora: “I preparativi per il Natale hanno qualcosa di cupo, di tetro, per l’appunto come preparativi per tener testa ad una invasione, o ad una minaccia non precisa che si addensa sulle nostre indifendibili frontiere”. Cosa ha il Natale per sembrargli così pernicioso? Al Natale “non si dà fuga; in nessun modo”. Nessuno può evadere dal Natale.
Per questo Manganelli decide di immergersi nel Natale, lo fa affrontando una delle sue “istituzioni”: il presepe. Il testo che sta scrivendo ha come oggetto proprio questa “scena”, come la chiama Manganelli. Questo è il presepe. Se c’è una felicità natalizia - e chi la nega? - c’è però anche una certa “infelicità natalizia”, scrive chi ha redatto il risvolto di questo libro stampato postumo nel 1992, vent’anni dopo essere uscito dalla macchina del Manga. Come tutti coloro che riescono a vedere l’altra faccia delle cose, il luogo in ombra, oscuro, nascosto, egli coglie l’elemento pericoloso che il Natale reca con sé, quello stesso che lo rende davvero rischioso, difficile, grave.
Il Natale è la festa dei bambini, per i bambini. Anche gli adulti quel giorno diventano bambini. Ma se fa parte della galassia infantile, è anche vero che questo accade perché è uno dei “riti necessari alla produzione dei morituri”. Di più: con il Natale, e non solo con questo, si fa “moneta dell’infanzia per dilazionare il disastro del mondo”. Ritiene che sia un modo per procrastinare il disastro usando l’infanzia. Non c’è rimedio tuttavia a tutto questo, dal momento che se bastasse porre fine al Natale per scongiurare questo stato di cose, staremmo tutti meglio. Ma al Natale non si sfugge, ripete, ragione per cui non lo si può neppure abolire.
Cosa trova di così terribile Manganelli nel Natale? Il fatto che è uno spettacolo: messa in scena di una nascita; chiama tutti ad assistere a questo evento. Ma è proprio un evento? Ne dubita. Il presepe è la negazione della nascita. Nel presepe non nasce nessuno. Le statuine vengono poste lì per rappresentare. Non nasce nessun Bambino. Nel Natale convergono, e in parte si confondono, il Bambino, ovvero Gesù, il-già-nato, e il Vecchio, ovvero Babbo Natale, la vecchiezza come forma del Mondo. Forse si confondono anche le due coppie puer-senex e senex-puer; si tratta in definitiva dell’incontro tra due mitologie e due teologie.
Quello che disturba lo scrittore è che il Natale sia essenzialmente una rappresentazione. Tutto complotta per produrre le innocue lacrime del sentimentalismo che hanno il solo scopo di tenere a bada suicidio e omicidio, tutta la volgarità “contro cui preme la demenza”. Che sono poi i sintomi della condizione umana, profondamente umana. Scrive nelle prime pagine: “Quelle fragili fole natalizie erano terribilmente pertinenti la denuncia della mia, della nostra indecorosità; ero circondato da magie sarcastiche. Investiva le famiglie di una nobiltà sacerdotale che non poteva svelare l’odiosa, repulsiva tristizia dei conflitti coniugali e filiali. Erano, e sono, giorni, notti fitti di fantasie funerarie, anche delittuose; il tutto mescolato a pianti di verace compunzione, a teneri abbandoni, a propositi inani di riscatto, dopo naturalmente, quel delitto che per altro era impossibile”. E ancora: “mai come a Natale la demenza si lascia respirare ai dementi”.
Nel presepe, istituzione natalizia in cui Manganelli stesso si iscrive con un gesto proditorio, e anche felice, nonostante tutto, si manifesta l’infelicità stessa del Natale, “una infelicità esclusiva, viscida, serpentesca, e insieme calamitosa”. Nella sua visione apocalittica che gli fa vedere nel Natale una cigolante macchinazione cosmica, si produce uno spettacolo. Una rappresentazione che occulta ogni altra cosa e ci fa guardare le figurine di cartapesta del presepe. Eccole: la Madre, il Padre, i Pastori, la Vecchietta, il Ruscello, l’Asino e il Bue. E poi: gli Angeli, e persino i pipistrelli. Senza la Madre la rappresentazione stessa non sarebbe neppure pensabile, non prenderebbe avvio la macchina teatrale che include il Bambino. Lui, che ne sembrerebbe il protagonista, non lo è.
Il presepe “non ha fondali; dietro non c’è niente”. Che si tratti di una mangiatoia o di una spelonca, di una grotta o di una caverna, in ogni caso è un luogo di passaggio, un corridoio. Il presepe è collegato con l’Inferno, ne rappresenta, a detta di Manganelli, una delle porte d’ingresso. Da dove viene il presepe, dal Cielo o dal mondo ctonio? Com’è possibile che esca proprio dal basso? Perché è degli inferi la simulazione, si risponde. Dal buio della caverna sono usciti il Padre, la Madre, il Bambino. Altrimenti non si spiegherebbe la sua capacità di essere fonte purissima d’angoscia. Il Natale la suscita, questa angoscia.
Nelle pagine di questo dattiloscritto rinvenuto da Ebe Flamini tra le carte di Manganelli dopo la sua morte, sono due i personaggi che più colpiscono: l’asino e il bue. A sua detta si tratta degli unici esseri viventi dell’intera rappresentazione sacra: non somigliano per nulla alle statue taciturne, ai simulacri senza età. Loro non escono dalla caverna, non appartengono al mondo infero. La loro è una singolare alleanza. “Un errore li ha generati”, scrive. Sono due animali umili, percossi, e uno, il bue, poi, è castrato. Questo è poi un vero enigma. La mitezza del bue ha qualcosa di torvo. La sua natura è di essere appunto un castrato: era un toro poderoso, scrive Manganelli, e generante. La sua mitezza è il rovesciamento della forza. L’asino è la potenza del sesso, la sua forma furente, persino pericolosa. I due animali sono i veri padroni di casa - stalla, mangiatoia, caverna, antro, rifugio -, loro due, il castrato e il priapeo, sono quelli posti più vicini al Bambino. “Sono viventi che amano la noia”, scrive.
Seduto alla sua macchina per scrivere, questo teologo negativo batte furiosamente sui tasti producendo un delirio a-teologico, una sua macchina teologica (sia pure di teologia negativa) da opporre a quella delle figurine di cartapesta che giacciono nel presepe. La sua è una felicità del vanverare, del parlare a vuoto, che tuttavia coglie un elemento fondamentale: la natura infera di questa scena che colleghiamo all’avvento del Regno, alla Nascita del Salvatore, alla venuta di Gesù nel Mondo. Il Bambino c’è già, è lì. Non è nato, c’è.
Il libro si conclude con una scena. E non si sa dove Manganelli l’abbia trovata, in quale presepe l’abbia vista. Forse l’ha sognata? Forse. Eccola. La Vecchia, figura archetipica, cava dalla sua sacca una trottola e la lascia cadere nel buco: nel nulla, nell’antro infernale che si apre dentro il presepe. Dal buco è uscito il Natale stesso con la sua forma infera. “Per quel bel bambino”, dice la Vecchia. Poi getta la trottola policroma, oggetto magico, che “subito discende con un sibilo melodioso, infernale”. È fatta. Nessuno può più fuggire. Il Disastro è accaduto. Si dia inizio alla festa. Il Natale può cominciare. L’angoscia è al culmine, la catastrofe dispiegata. Sediamoci a tavola tranquilli e pranziamo. Viva il Natale!
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA": L’ ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
di Luisa Muraro e Lucetta Scaraffia *
Su Sette Corriere della sera del 22 novembre 2019 è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia, Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi, chiarissimo in quello che dice. Potete leggerlo qui di seguito. È un testo di notevole interesse perché attira l’attenzione e fa luce sulla parte avuta dalla psicoanalisi nella rivoluzione femminista del ventesimo secolo. L’autrice finisce con un punto di domanda, giustamente, e invita così ad approfondire l’argomento.
Per parte mia ci tengo a dire che la “sconfitta” della psicoanalisi avviene su un antico campo di battaglia, quello dell’autorità della parola, autorità negata alle donne dal regime patriarcale, e campo di battaglia dalle donne tenacemente tenuto aperto attraverso i secoli. Parlo dell’isteria. Dedicandosi alla cura dell’isteria, Freud ha avuto il merito innegabile di essere entrato nel campo di battaglia e di sbagliare, sì, ma in un modo significativo: è il suo inconscio che lo fa sbagliare e lui finisce che se ne accorge. Se possiamo fare festa per la fine del discredito patriarcale e l’affermarsi di autorità femminile nella vita pubblica, qualcosa dobbiamo anche a lui. A sua volta, lui deve qualcosa, o molto, all’umanità femminile. (Luisa Muraro)
Corriere della sera - Sette, 22 novembre 2019
Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi
di Lucetta Scaraffia *
Quando Ida ha acconsentito alla richiesta del padre, che voleva far curare da Freud i suoi strani disturbi (afonia, svenimenti, tosse continua), la ragazza sperava che il dottore avrebbe creduto alle sue parole, convincendo così anche suo padre che l’amico di famiglia Hanss Zellenka l’aveva molestata con insistenza e pesantemente, per mesi, suscitandole profondo turbamento e paura. Le molestie erano cominciate quando aveva solo tredici anni, e lei si era trovata invischiata in una situazione angosciosa: le vacanze con la famiglia Zellenka sul lago di Garda - dove la madre Pepina l’aveva accolta con un affetto e una simpatia che le mancavano in casa - nascondevano un segreto imbarazzante.
Pepina era in realtà l’amante del padre di Ida, un ricco industriale, che si era portato in vacanza la figlia per mascherare la relazione. E proprio mentre la ragazza cominciava ad accorgersene, diveniva oggetto di corteggiamenti e molestie da parte di Hanss, il marito di Pepina. È questa situazione difficile all’origine dei suoi disturbi di salute ma, come quasi tutte le giovani donne in casi analoghi, Ida ha paura di parlarne e si sente confusamente colpevole, finché un episodio più grave non la induce a raccontare tutto alla madre. Il padre, prontamente informato, convoca Hanss, il quale non solo nega indignato ma ritorce su Ida le accuse, consigliando di mandarla in cura da Freud.
Ferita dall’incomprensione paterna, Ida lo sarà ancor più dolorosamente da Freud che, dopo averla spinta a parlare, comprensivo - finalmente qualcuno la prendeva sul serio! - le aveva spiegato la sua complicata interpretazione dell’episodio. Secondo Freud le parole della ragazza rivelavano un suo amore edipico verso il padre, spostato poi su Hanss, e di conseguenza «lei non aveva affatto paura del signor Zellenka ma piuttosto di se stessa, e più precisamente della tentazione di cedere al signor Zellenka».
Ida reagisce a questa nuova cocente delusione interrompendo la cura con Freud, e proseguendo, sia pure con fatica, nella sua vita di donna che si sarebbe sposata, avrebbe avuto un figlio, avrebbe lavoratoe sarebbe scampata alla persecuzione nazista fuggendo prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dal figlio. Una vita dura e drammatica, che racconta alla nipote, autrice della bella biografia a lei dedicata. La vita di una donna che dal rifiuto dell’interpretazione di Freud ha tratto forza e coraggio. Una posizione totalmente diversa da quella che lo stesso Freud rivela concludendo la narrazione dell’analisi: «Promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente». E se invece Ida si fosse guarita da sola rifiutando l’interpretazione di chi non considerava vere le sue parole?
Ida è Dora, la protagonista del primo caso clinico di Freud, che su questo ha costruito la sua ipotesi sulle cause dell’isteria, considerando il caso come prova chiara e convincente della sua teoria del complesso di Edipo.
Agli occhi di una donna di oggi, invece, la vicenda di Ida appare solo come la drammatica storia di una ragazza molestata che non viene creduta dagli uomini ai quali si rivolge per avere aiuto. Il padre, probabilmente anche perché segnato da sensi di colpa nei confronti di Hanss, crede a questi piuttosto che alla figlia, mentre Freud dà credito al padre, e si lascia influenzare dal desiderio di trovare nei desideri edipici rimossi la causa dell’isteria. Le malattie di Ida, invece, rivelano piuttosto la sofferenza di una donna le cui parole non vengono ascoltate né rispettate. Una donna che non viene presa sul serio, proprio come tante altre sue contemporanee - ma anche molte più vicine a noi - che non hanno visto riconosciuto il valore delle loro parole.
La biografia di Ida (scritta dalla pronipote Katharina Adler, Ida, Sellerio 2019) rovescia la storia raccontata da Freud: non si tratta della prima paziente alla quale è stata diagnosticata e curata l’isteria, ma una delle tante - troppe - donne che hanno subito due forme di violenza, quella sessuale e quella contro la loro identità perché le loro parole non vengono credute. È la storia narrata dal punto di vista delle donne, che vedono le cose molto diversamente dagli uomini, ma non sono ascoltate.
C’è voluta una lunga battaglia, combattuta dalle donne, perché le parole delle vittime venissero ascoltate e prese seriamente in considerazione, perché le vittime stesse non fossero sempre considerate possibili complici della violenza - Ida aveva forse provocato, magari anche inconsapevolmente, come insinua Freud, il violento? - e venissero invece aiutate a superare il trauma, e risarcite.
Nell’ordinamento giuridico italiano gli articoli del codice Rocco, vigenti fino al 1996, punivano ogni tipo di violenza o molestia sessuale - sia sulle donne che sui minori - come «delitto contro la morale pubblica e il buoncostume». Tutelavano cioè quello che veniva considerato un bene collettivo e non la vittima. È stato solo nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, che viene promulgata la nuova legge per cui lo stupro diventa reato contro la persona, e di conseguenza l’attività sessuale riconosciuta come frutto di una libera scelta perché rientra nel diritto proprio dell’individuo.
Mentre nella fase precedente si collocava al primo posto la condizione di vita della comunità, che per il legislatore costituiva il massimo valore, oggi a essere valorizzata è invece la dimensione individuale di chi subisce il reato, divenuta il bene giuridico protetto dalla legge. Rivendicando la loro posizione di vittime della violenza, le donne capovolgono la situazione di debolezza in cui si trovavano, s’impadroniscono del potere di accusa, le loro parole si caricano di valore, e hanno finalmente diritto di essere ascoltate.
Oggi Ida troverebbe ascolto, Hanss verrebbe punito per molestie su una minore, e Freud non avrebbe più la possibilità di elaborare la sua teoria sull’isteria. Un caso in cui la psicanalisi, elemento fondamentale della nostra modernità, viene forse sconfitta dalla realtà che sta nelle parole delle donne?
(www.libreriadelledonne.it, 29 novembre 2019)
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE *
1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.
2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.
Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. -La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.
Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]
3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.
In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).
4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. -Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. -A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.
6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.
I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. -Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.
Spesso i bambini - ma anche gli adulti! - amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano...: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.
7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).
Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.
8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.
La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.
Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. -Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.
9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.
Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.
I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.
10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Lettera apostolica. Papa Francesco a Greccio: ecco il vero significato del presepe di Mimmo Muolo, Avvenire, 30.11.2019 (ripresa parziale).
RIPARTIRE DA GRECCIO, DAL PRESEPE ... *
Papa. Francesco: «Domenica sarò a Greccio, vi invierò una lettera sul Presepe»
Domenica primo dicembre con l’avvio del tempo dell’Avvento il Papa invierà una lettera per far capire il significato del Presepe, da Greccio dove san Francesco diede vita al primo presepe vivente
di I.Sol. (Avvenire, mercoledì 27 novembre 2019)
"Domenica prossima inizierà il tempo liturgico dell’Avvento. Mi recherò a Greccio, per pregare nel posto" dove San Francesco realizzò il primo presepe "per inviare a tutto il popolo credente una lettera per capire il significato del presepio".
È l’annuncio di Papa Francesco al termine dell’udienza generale.
A GRECCIO IL PRIMO PRESEPE VIVENTE DELLA STORIA
Correva l’anno 1223 quando san Francesco d’Assisi scelse l’umile paese montano del alto Lazio di Greccio, affacciato sulla vasta conca reatina, per rievocare la nascita del Salvatore. La tradizione vuole che a far nascere nel mondo la prima idea di presepe vivente fosse sorta su intuizione del Poverello di Assisi con l’aiuto del nobile signore di Greccio Giovanni Velita. Secondo le agiografie, durante la Messa, sarebbe apparso nella culla un bambino in carne ed ossa, che Francesco prese in braccio. Da questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe.
La testimonianza di tutto questo ci arriva da un antica fonte come la "Legenda di san Francesco": «Come il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l’asino; e predicò sulla natività del Re povero». A simboleggiare ancora oggi questo episodio singolare e della vita del Poverello è il dipinto attribuito a Giotto "Il presepe di Greccio" (realizzato tra il 1295 e il 1299) che è la tredicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle "Storie di san Francesco" presenti nella Basilica superiore di Assisi.
Da allora, la tradizione si diffuse nel resto d’Italia e negli altri Paesi cristiani. Oggi, i presepi viventi sono organizzati pressoché in tutto il mondo occidentale cristiano, non solo cattolico, ma anche da parte di fedeli di altre Chiese.
Nella città laziale di Greccio ando a sorpresa anche papa Francesco nel gennaio 2016 proprio per visitare il luogo dove per la prima volta venne realizzato un presepe e per pregare al Santuario che custodisce la memoria di quel Natale 1223, in cui san Francesco volle «vedere con gli occhi del corpo» la povertà del Bambino di Betlemme.
IL VIDEO DELLA VISITA NEL 2016 DEL PAPA A GRECCIO
Video
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"DUE SOLI": COME MARIA, COSI’ GIUSEPPE!!!
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
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Il libro di tutti i libri di Roberto Calasso
di Emanuele Zoppellari Perale (il Tascabile, 26.11.2019)
Due anni fa Roberto Calasso diagnosticò la condizione che viviamo come “l’innominabile attuale”, predominio del pensiero secolare e dei suoi limiti a scapito del sacro. Il libro di tutti i libri si muove, in direzione contraria, verso le storie che compongono l’Antico Testamento.
Già ne L’innominabile attuale l’autore sembrava voler parlare “a chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione - o, più precisamente, la superstizione - della società”. Ora, in un continente di templi vuoti e storie deboli, Calasso torna a quelle storie forti che per millenni hanno riempito i templi. Muovendosi da questa prospettiva, Il libro di tutti i libri segue con coerenza i fili del discorso che il suo autore è andato intessendo da quasi quarant’anni: il mito ( Le nozze di Cadmo e Armonia ; Ka), il sacrificio (L’ardore), l’elezione (K.), il passaggio dalla dieta frugivora all’imitazione dei carnivori (Il cacciatore celeste).
Ma il suo campo d’indagine, questa volta, è tra i più enigmatici. La Bibbia, ineguagliata per clamorose omissioni e contraddizioni inspiegabili, resta infinita, tuttora ineludibile e sconvolgente. Di fronte alle sue storie, i “secoli contati” che E.M. Cioran attribuiva al cristianesimo e al religioso in generale parrebbero ancora lontani. Non a torto Goethe lo definì, appunto, “il libro di tutti i libri”, da cui qualsiasi altro parte per poi tornarvi, e nella cui lettura, dedalo iniziatico, invitava a perdersi e ritrovarsi di continuo.
Le nozze di Cadmo e Armonia si apre con una frase di Sallustio, “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”, valida anche in questo caso. Lo sguardo di Calasso non è insensibile alla filologia - come altrimenti affrontare un libro composto da una collezione di testi ebraici arrivataci passando tramite il greco dei Settanta al latino della Vulgata fino al volgare in cui la leggiamo? - e ciononostante evita di rimanere invischiato nella pedante miopia di erudizione e accademismo. Tiene conto, altresì, del dato storico: gli Ebrei rientrati a Canaan dall’Egitto non sconfissero davvero Gerico - dicono gli archeologi - ma la trovarono già distrutta, e la vicenda di Mosè non ha riscontro in fonti esterne alla Bibbia, tanto da metterne in dubbio l’esistenza stessa. Importa poco: non si tratta di una ricostruzione storica di fatti accertati. Qui è il racconto a parlare, ed è al sapore massimo di ogni sua parola che si rivolge l’attenzione come metodo critico - persino e soprattutto nei suoi interstizi, nei suoi punti di rottura, nelle pieghe del testo e in ciò che implicano o presuppongono, in ciò che la narrazione omette, o ripete ossessivamente.
La lettura della Bibbia secondo Calasso è a sua volta un invito a rileggere la Bibbia al di là o a prescindere dalle sue innumeri interpretazioni, seguendone il mŷthos e considerandola un intreccio favoloso e unitario (la “fiaba delle fiabe” di Cristina Campo), una biblioteca sterminata ma essenzialmente coesa in cui tutte le storie sono “sinottiche e simultanee” e tutti i versetti collegati a ciascun altro versetto, perché ogni cosa è sullo stesso piano.
Si pensi che di frequente nel testo ebraico i periodi si aprono con la congiunzione vav, spesso tradotta “così”, che meglio corrisponderebbe al nostro “e”. È il potere della paratassi: permette di dire, non di spiegare. E la Bibbia, più che spiegare, capire o consolare, vuole raccontare.
E che cosa racconta questa storia, che secondo una tradizione ebraica il suo autore, il Dio Iahvè, avrebbe avuto come figlia unica e amatissima all’alba di ogni tempo, e che avrebbe dondolato sulle ginocchia, prima di donarla a Mosè e al suo popolo, purché questo non dimenticasse mai di riservargli uno spazio? Ebbene, racconta principalmente di eletti.
L’elezione è un avvenimento innaturale, un sovvertimento dell’ordine delle cose. La storia che Dio vuole scrivere supera, ribalta e nega la legge naturale di necessità con cui si svolgono ordinariamente le cose - legge che, tuttavia, Dio stesso ha creato. È un paradosso che la Bibbia enuncia in più punti, ma a cui saggiamente non intende fornire una spiegazione.
Innanzitutto, coloro che Iahvè sceglie, coloro che riempie di grazia, non sono necessariamente - anzi, non sono pressoché mai - scelti per merito. Il caso del patriarca Abramo è paradigmatico: in 75 anni, scrive Calasso,
non aveva fatto altro che seguire il padre. Nulla lo distingueva, se non aver sposato una donna molto bella, senza averne avuto figli. E ancora viveva al seguito del padre [...] Abramo non era re né sacerdote [né] capofamiglia. E non si faceva notare neppure per devozione. Ma soltanto Abramo fu scelto da Iahvè.
O si prenda suo nipote Giacobbe. Aveva raggirato il fratello Esaù, aveva ingannato il padre Isacco per ottenere la sua benedizione, aveva truffato e mentito per avere ciò che desiderava da chiunque avesse incontrato e se l’era sempre cavata, col sotterfugio o con la fuga. Eppure è l’unico, in tutta la Bibbia, a cui si spalancano le porte dell’invisibile, nella forma di una scala che sale ai cieli.
Né Abele, né Isacco, né Giacobbe, né Giuseppe, né Salomone furono primogeniti, mentre nel loro mondo la primogenitura - fatto naturale e indelebile - garantiva un vantaggio e un onore perpetui. Iahvè stesso volle per Sé i primogeniti, per esempio quando li reclamò con l’ultima piaga d’Egitto, la più letale. E ciononostante, i Suoi protagonisti non sono primogeniti, anzi, scavalcano il diritto naturale stabilito dalla primogenitura. La legge a cui obbediscono, o meglio, la legge che li ha scelti, si beffa della legge di necessità che vincola questo mondo. La loro legge è di quell’altro, ed è la grazia. Gli ultimi saranno i primi, si è detto in seguito.
Non la legge di natura, dunque, ma nemmeno l’ordine stabilito da opere e meriti. Qual è infatti il merito di Abele, che sacrificò gli animali, rispetto al demerito di Caino, che sacrificò i frutti della terra? Quale il merito di Sem, figlio di Noè e progenitore degli Ebrei, rispetto al demerito di suo fratello Iafeth, presumibilmente un giusto, che tuttavia non fu scelto? Regna soltanto il puro arbitrio di Dio, cui Abramo dovette obbedire quando gli venne chiesto di sacrificare il figlio Isacco, benché gli fosse stato promesso che proprio tramite Isacco sarebbe passata la sua infinita stirpe. Qui sta la “differenza irriducibile” della Bibbia: è una storia che, prima di ogni altra cosa, non segue leggi a noi comprensibili.
Per questo essere ‘scelti’ è quanto di più terrificante possa avvenire, poiché l’elezione determina l’esclusione dell’ordine naturale delle cose e l’appartenenza esclusiva all’invisibile. La Bibbia parla di “terrore dell’elezione”. Essere scelti significa che la propria storia non è più soltanto propria: è essenzialmente di Dio, e tramite essa passa una storia più grande, insondabile, i cui limiti si estendono oltre il tempo e lo spazio, oltre qualsiasi nostra capacità di pensare una storia.
“Se la grazia agisse soltanto come favore e non come condanna” - si legge nel libro -, se non persistesse inspiegato “il mistero della fortuna dei malvagi e delle sofferenze dei giusti”, vivremmo un mondo
La Bibbia di Calasso racconta precisamente quest’altra macchina, che ci lascia nello sconcerto come un roveto che arde senza consumarsi, e di fronte alla quale il mondo secolare e scientifico impallidisce.
Saul, per esempio, sapeva bene che essere eletti non significa avere il favore di Iahvè. Un giorno suo padre l’aveva mandato a cercare due asine smarrite. Persosi lungo la strada, aveva incontrato Samuele, un “veggente”. Questi certo poteva mostrargli la via di casa, e invece scelse di rivelargli che era destinato a diventare il primo re d’Israele. “Il caso e il destino stavano per sovrapporsi in lui” commenta Calasso. “Opprimente saldatura. Non avrebbe più respirato senza pensare a niente, come quando camminava per sentieri sconosciuti alla ricerca delle asine del padre, annoiato, distratto. [...] Ormai nulla di simile sarebbe accaduto nella sua vita”. La sua storia non era più la sua. Serviva a una storia più grande, in cui lui doveva addirittura interpretare una parte negativa.
La Bibbia non tace che sia una sensazione tremenda, e afferma inoltre che vivere come eletti sotto lo sguardo perenne di Dio sia la massima oppressione. È la condanna e il privilegio del popolo ebraico, ed è ciò che più di tutto lamenta Giobbe, a cui l’incessante attenzione divina toglie il fiato. Kafka una volta
Anche ciò che è sacro oscilla tra ciò che deve essere preservato e ciò che viene allontanato o, come suggerisce la parola stessa, sacrificato. L’essere sacro è l’essere eletto, auratico e inestimabile (“The temple is holy” dice il Canto XCVII di Ezra Pound “because it is not for sale”). “Comune a tutti i significati della consacrazione è che un essere vivente o un oggetto vengono sottratti all’uso e alla vita comune. L’invisibile li investe [...] non appartengono più a se stessi, perdono ogni pretesa di autosufficienza. È il contrario di ciò che accade nel mondo secolare”. Dopotutto, se non si riconosce l’invisibile, nulla più può essere fatto sacro.
Questa storia di eletti che Iahvè scrive nel mondo si serve di due meccanismi: il divieto e la sua infrazione. E il primo a infrangere i divieti divini è Iahvè stesso. Il più grande nemico di idoli e tentativi di rappresentare il divino creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, come il primo di tutti gli idoli. A Davide non perdonò mai di aver mandato Uria a morire in guerra per prendere sua moglie Betsabea, eppure è da Betsabea che nacque Salomone, ed è da Salomone che passa la genealogia da cui venne, un giorno, Gesù. Dio proibisce e condanna, ma la storia che vuole raccontare necessita del male e della trasgressione, e questo, dalla nostra prospettiva, pare inaccettabile.
Perché Dio dovrebbe operare contro Se stesso e la propria parola? Forse perché, su questa via né regolare né “aequa” (così nella Vulgata), non potevano esserci “una necessità, un calcolo, una misura, che escludessero i suoi interventi fulminei e devastanti - o altrimenti salvifici - sulla terra. Non potevano esserci storie, ma una storia: la storia”, racconto che viola le regole umane e persino le regole divine accessibili all’essere umano.
Sta qui il nesso per comprendere quello che è forse il passaggio più sconvolgente della Bibbia, ossia, tra Antico e Nuovo Testamento, il superamento dell’ordine sacrificale col sacrifico unico di Dio a Dio stesso. In precedenza, nel Tempio di Gerusalemme e prima ancora, il sacrificio riscattava la vita con la vita. “Ciò che faceva [...] di quei quadrupedi l’unico oggetto regolare delle offerte era [il fatto che erano] vivi. Se il debito era la vita, non poteva essere saldato se non con altra vita. Sempre insufficiente, certo. Perciò gli olocausti andavano ripetuti”.
Poi, secondo il racconto, qualcosa avvenne per cui non sarebbe più stato necessario sacrificare, e il sangue di un unico eletto, questa volta un “essere divino”, sarebbe bastato per l’eternità. Ma così facendo la salvezza contraddiceva o quantomeno abrogava le ancestrali leggi della Tōrāh sulla necessità del sacrificio. E ancor più sconvolgente è il fatto, ben compreso da Simone Weil, che l’“Agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?”. Nell’allusione al Nuovo Testamento, che rimane distante, oggetto - forse - di un’opera futura, Il libro di tutti libri si muove all’ombra di questa domanda impervia e scandalosa, la domanda delle domande, incapace di risposta e per questo in grado di far tremare l’innominabile attuale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
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Il viaggio.
Papa in Thailandia: bambine costrette a prostituirsi, sfigurata dignità
Francesco nell’omelia della messa allo Stadio nazionale di Bangkok tocca la piaga della prostituzione, anche minorile, legata al turismo sessuale, piaga particolarmente sentita in Thailandia
di Gianni Cardinale, inviato in Thailandia (Avvenire, giovedì 21 novembre 2019)
Questa mattina primo bagno di folla per Papa Francesco nella sua visita in Thailandia. Siamo al St. Louis Hospital di Bangkok, fiore all’occhiello della diocesi ed eccellenza nel campo sanitario del Paese. E’ stato fondato 120 anni fa e ad accogliere il Papa sono in tantissimi: medici, infermiere, impiegati, operai con i loro familiari, semplici fedeli. Tutti con la bandierina thai e della Santa Sede. Questo è l’ultimo dei tre appuntamenti della mattinata.
L’incontro è nel grande auditorium con da una parte il ritratto del re e della regina, dall’altro una immagine di Gesù con la Vergine Maria.
"Tutti voi, membri di questa comunità sanitaria - dice Papa Bergoglio -, siete discepoli missionari quando, guardando un paziente, imparate a chiamarlo per nome". "I vostri sforzi e il lavoro delle tante istituzioni che rappresentate sono la testimonianza viva della cura e dell’attenzione che siamo chiamati a dimostrare per tutte le persone, in particolare per gli anziani, i giovani e i più vulnerabili", aggiunge. E poi ricorda come in questi 120 anni di vita del St. Louis "quante persone hanno ricevuto sollievo nel loro dolore, sono state consolate nelle loro oppressioni e accompagnate nella loro solitudine!”. Di qui il grazie “per il dono della vostra presenza nel corso di questi anni”, e la richiesta “di far sì che questo apostolato, e altri simili, siano sempre più segno ed emblema di una Chiesa in uscita che, volendo vivere la propria missione, trova il coraggio di portare l’amore risanante di Cristo a coloro che soffrono". La visita del Papa si chiude con un incontro privato con alcuni malati.
In precedenza il Papa ha già incontrato le autorità politiche del Paese e ha visitato la principale autorità buddista della Thailandia. Nel discorso rivolto ai rappresentanti del governo, al corpo diplomatico e ai leader politici al Government House ribadisce che “la crisi migratoria non può essere ignorata". "La stessa Tailandia, - sottolinea - nota per l’accoglienza che ha concesso ai migranti e ai rifugiati, si è trovata di fronte a questa crisi dovuta alla tragica fuga di rifugiati dai Paesi vicini” (QUI IL DISCORSO) . Di qui il rinnovato auspicio “che la comunità internazionale agisca con responsabilità e lungimiranza”, in modo da risolvere “i problemi che portano a questo tragico esodo” e a promuovere “una migrazione sicura, ordinata e regolata”.
Nel suo intervento Francesco rivolge anche un pensiero "quelle donne e a quei bambini del nostro tempo che sono particolarmente feriti, violentati ed esposti ad ogni forma di sfruttamento, schiavitù, violenza e abuso".
Esprime la sua “riconoscenza al governo tailandese per i suoi sforzi volti ad estirpare questo flagello, come pure a tutte le persone e le organizzazioni che lavorano instancabilmente per sradicare questo male e offrire un percorso di dignità”.
Auspica che nascano sempre più “artigiani dell’ospitalità”, uomini e donne che “si prendano cura dello sviluppo integrale di tutti i popoli, in seno a una famiglia umana che si impegni a vivere nella giustizia, nella solidarietà e nell’armonia fraterna". E invita a coniugare libertà Thai (vuol dire proprio questo) e solidarietà, afinché “le persone e le comunità possano avere accesso all’educazione, al lavoro degno, all’assistenza sanitaria, e in tal modo raggiungere i livelli minimi indispensabili di sostenibilità che rendano possibile uno sviluppo umano integrale".
Dopo l’incontro con il mondo diplomatico e della politica Papa visita il Patriarca Supremo dei Buddisti, Somdej Phra Maha Muneewong, nel Tempio Wat Ratchabophit Sathit Maha Simaram. Qui ribadisce che “il cammino interreligioso” può testimoniare "anche nel nostro mondo, tanto sollecitato a propagare e generare divisioni e esclusioni, che la cultura dell’incontro è possibile” (QUI IL DISCORSO COMPLETO). Perché “quando abbiamo l’opportunità di riconoscerci e di apprezzarci, anche nelle nostre differenze, offriamo al mondo una parola di speranza capace di incoraggiare e sostenere quanti si trovano sempre maggiormente danneggiati dalla divisione".
Il Pontefice rimarca "quanto sia importante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di speranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità". E ringrazia la Thailandia perché fin dall’arrivo del cristianesimo, circa quattro secoli e mezzo fa, "i cattolici, pur essendo un gruppo minoritario, hanno goduto della libertà nella pratica religiosa e per molti anni hanno vissuto in armonia con i loro fratelli e sorelle buddisti". Tra i doni offerti da Papa Francesco al patriarca buddista dell, vi è "il Documento sulla Fraternità umana di Abu Dhabi".
La mattinata di Papa Francesco in Thailandia si chiude quando in Italia comincia ad albeggiare. Il fuso orario segna sei ore di differenza. Nel pomeriggio di Bangkok si è svolta la visita di cortesia al re e la messa nello Stadio Nazionale.
Nell’omelia della messa, con 60mila fedeli che riempiono lo stadio, papa Francesco torna ad alludere al problema del turismo sessuale. Nell’omelia il Pontefice rivolge un pensiero particolare a "quei bambini, bambine e donne esposti alla prostituzione e alla tratta, sfigurati nella loro dignità più autentica". (QUI L’OMELIA)
E poi anche "a quei giovani schiavi della droga e del non-senso che finisce per oscurare il loro sguardo e bruciare i loro sogni; penso ai migranti spogliati delle loro case e delle loro famiglie". E poi ai tanti altri che "possono sentirsi dimenticati, orfani, abbandonati". E poi "ai pescatori sfruttati, ai mendicanti ignorati". Tutti questi, sottolinea il Papa, "fanno parte della nostra famiglia, sono nostre madri e nostri fratelli".
Da qui un duplice l’appello. Primo: a non privare "le nostre comunità dei loro volti, delle loro piaghe, dei loro sorrisi, delle loro vite". Secondo: non privare "le loro piaghe e le loro ferite dell’unzione misericordiosa dell’amore di Dio". -Infatti "l’evangelizzazione non è accumulare adesioni né apparire potenti, ma aprire porte per vivere e condividere l’abbraccio misericordioso e risanante di Dio Padre che ci rende famiglia".
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
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Federico La Sala
Il libro.
Fermiamo il culto del capitalismo. Quando il denaro si sostituisce a Dio
L’autore del saggio lancia un grido di allarme: la cultura dominante del profitto e del consumismo è ormai diventata una forma di idolatria
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 20 novembre 2019)
Pochi anni dopo Marx, nel 1905 Max Weber pubblica i suoi lavori sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, dove una idea chiave è la de-sacralizzazione del mondo occidentale. Passano pochi anni e il 1921 diventa un anno decisivo per la cosiddetta “teologia economica”. Il filosofo tedesco Walter Benjamin scrive un breve e densissimo testo, oggi noto come Il Capitalismo come religione, e contemporaneamente il teologo e filosofo russo Pavel Florenskij, in un contesto culturale molto diverso, tiene tra l’agosto e l’ottobre del 1921 un corso di lezioni all’Accademia Teologica di Mosca sulla dimensione sacra del capitalismo.
Weber annunciava un mondo de-sacralizzato, Benjamin e a modo suo anche Florenskij dicono invece qualcosa di opposto: il capitalismo non ha eliminato il sacro dal mondo perché è diventato esso stesso un culto, una religione. Due autori vicini anche nella morte: Benjamin muore suicida nel 1940 mentre tenta di fuggire ai nazisti sui Pirenei, Florenskij viene fucilato nel 1937 in un gulag nei pressi di Stalingrado.
Il saggio di Benjamin è stato a lungo trascurato, sebbene contenga un’analisi ancora insuperata del rapporto tra l’economia capitalistica e la religione. Benjamin, anche per le sua cultura ebraica, aveva posto il tema del messianismo al centro della sua riflessione filosofica. Il capitalismo gli appare come una (falsa) risposta alla domanda di salvezza che nell’umanesimo ebraico-cristiano aveva fondato l’Europa. Per Benjamin, allora, «nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni».
Questo incipit di Benjamin è chiaro e potente: il capitalismo non nasce soltanto, come diceva Weber, da uno spirito religioso; per Benjamin il capitalismo è una religione: «non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso».
E quindi sintetizza: «In Occidente il capitalismo - come deve essere dimostrato non solo nel caso del calvinismo, ma anche degli altri orientamenti cristiani ortodossi - si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, tanto che, alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita, il capitalismo». E poco dopo aggiunge: «Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo».
Molto forte e particolarmente efficace è la metafora biologica del parassita: il capitalismo dal cristianesimo non ha preso solo lo spirito, ha la sostanza ed è cresciuto al punto da assorbirlo interamente. Il capitalismo è un cristianesimo fagocitato e trasformato, una metamorfosi del bruco in farfalla - e le farfalle non ricordano di essere state bruco.
Inoltre, Benjamin rettifica ancora Weber estendendo la metamorfosi dal protestantesimo all’intero cristianesimo, anticipando in questo di qualche anno Amintore Fanfani e le sue analisi sullo spirito “cattolico” e medioevale del capitalismo, un tema sviluppato anche da Giuseppe Toniolo, sebbene avanzando una tesi diversa da quella di Fanfani. È questa la grande e potente tesi di quel piccolo opuscolo del 1921, dove però troviamo molte altre intuizioni di grande valore. Vi è contenuta anche una sorta di profezia: «In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme».
Benjamin conosceva troppo bene Marx per usare la parola “struttura” in senso generico. Per lui la religione, il cristianesimo in particolare, è la struttura del capitalismo, e quindi l’economia capitalistica, che dovrebbe essere la struttura della società capitalistica, è a sua volta una sorta di sovrastruttura di una struttura religiosa più radicale. Noi vediamo economia, ma sotto, nascosta «dall’involucro delle cose », c’è la religione: quale religione? Quali sono i tratti della farfalla-capitalismo nata dal bruco-cristianesimo?
Scriveva Benjamin: «Tre tratti di questa struttura religiosa sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai sia stata data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce così la sua coloritura religiosa ».
Tesi forti e dense, e tutte ancora da esplorare, oggi più di ieri. Innanzitutto il capitalismo è definito dal filosofo tedesco come una «religione puramente cultuale», di puro culto, senza teologia, senza dogmi. Benjamin era ebreo, era filosofo, ed era tedesco - la Germania della sua generazione ( Taubes, Buber, Bonhoeffer, Bloch, e molti altri) fu un luogo straordinario e ineguagliato per le riflessioni sull’anima collettiva dell’Europa, per il destino e “tramonto” dell’Occidente e del capitalismo.
Benjamin sapeva quindi che le religioni di puro culto, senza dogmi né teologia, avevano nella Bibbia un nome preciso: idolatrie. Quei culti contro i quali il popolo ebraico, in Caanan e in Babilonia e ancor prima in Egitto, aveva ingaggiato una lotta campale, la lotta più radicale e estesa di tutta la Bibbia.
E che cosa significa, oggi, una religione/idolatria di puro culto? Pavel Florenskij, il grande filosofo e teologo russo, ha scritto cose importanti sul capitalismo come religione/idolatria di puro culto. Sempre nel 1921, anche Florenskij dedicava una specifica attenzione al rapporto tra il capitalismo, il sacro e il culto. Il suo resta un testo di enorme interesse per le intuizioni che vi sono contenute sulla natura sacrale del capitalismo. Scriveva il teologo ortodosso: «La stessa teoria del sacro dice che all’origine dell’economia, così come dell’ideologia, c’è il culto».
Il culto, per Florenskij, è «una sorta di prius. Viene prima il culto, e in seguito gli strumenti e i concetti». E poi aggiunge: «Il punto di partenza della cultura è il culto», giocando anche sulla comune radice delle parole cultura e culto: «In suo favore si pone anche l’analisi filologica». Per questo aggiunge: «È sbagliato pensare che la teoria del sacro sia perduta per sempre. Essa è legata alla coscienza medioevale. Nella vita storica ci sono periodi di laicizzazione e, al contrario, periodi in cui tutta la vita è introdotta nell’alveo del culto».
Il capitalismo è dunque per Benjamin e Florenskij una religione di solo culto, di sola prassi - in realtà, oggi noi sappiamo che nel secolo che è passato dallo scritto di Benjamin la religione capitalistica si è sofisticata e ha prodotto alcuni dogmi e una sua teologia, offerta in buona parte dalla teoria economica e da quella manageriale. Ed è per la necessità di avere un culto per poter creare una cultura che il capitalismo è diventato la vera cultura (o religione) popolare di questo secolo.
La forza culturale del capitalismo sta proprio nel suo essere diventato una esperienza globale, olistica, onnicomprensiva e onniavvolgente - il primo populismo moderno lo ha inventato il capitalismo. È nella sua dimensione di sola prassi quotidiana che, novello Anteo, il capitalismo trae la sua forza.
Il capitalismo crea e rafforza la sua cultura alimentandosi nel culto feriale di miliardi di persone. Ecco perché è diventato il culto universale e globale, che può solo crescere e rafforzarsi nei prossimi decenni - finché altri culti e altre culture non ne prenderanno il posto: speriamo solo che non siano le antiche arti della guerra! Ma da qui deriva anche un corollario interessante: per superare l’idolatria capitalistica occorrono nuove prassi, nuove esperienze.
Non basta scrivere teorie, perché ogni cultura nasce dal culto e dal pane quotidiano. Siamo immersi in pratiche quotidiane, ripetute, reiterate di culti di acquisto, vendita, investimenti. Anche nelle imprese, che nel Novecento erano in genere pensate e vissute sul modello della comunità, sta crescendo la stessa cultura commerciale.
Dal modello comunitario tipico del XIX e XX secolo siamo passati progressivamente all’impresa-mercato, che oggi domina indisturbata la scena. Fino a pochi decenni fa, soprattutto (ma non solo) in Europa, il registro relazionale che fondava imprese e/o cooperative era quello del patto non quello del contratto; anche il “contratto” di lavoro era soprattutto un patto, dove il do-ut-des era solo una delle componenti di quel rapporto fondamentale che fondava il lavoratore e la sua famiglia (il lavoro non era una merce perché quel contratto era essenzialmente un patto).
E invece oggi la cultura che si respira nelle imprese, nei loro culti e nelle loro liturgie, è la stessa cultura che si respira nei grandi centri commerciali, nelle banche, e sempre più anche nei social media. Ed è in questi culti e in queste pratiche, molto più che nelle business school e nelle università, dove si alimenta la cultura-religione- idolatria del capitalismo.
Perché, sempre secondo Florenskij, «il contenuto mistico-religioso dei concetti non si rivela nel pensiero astratto ma nell’esperienza ». Per il pensatore russo, dunque, all’inizio c’è la prassi del culto e da questa prassi nascono i concetti astratti (la cultura): «Tutte le concezioni scientifiche - economiche e simili - si sviluppano attraverso la secolarizzazione: da una parte si definiscono i concetti utilitaristici, dall’altra quelli scientifici».
Per questa stessa ragione, «il mito nasce dal culto... Il mito è il tentativo teorico di spiegare un determinato culto». Infatti, la «realtà originaria, nella religione, non sono i dogmi e nemmeno i miti, ma il culto, ovvero una realtà concreta. Mito e dogma sono astrazioni, teorie».
L’analogia storica più vicina alla cultura capitalista è per Florenskij la christianitas medievale: «Può essere convincente per noi soltanto l’idea medioevale di unità ecclesiale, di penetrazione di tutta la cultura da parte del principio sacrale... Non c’era fenomeno che non abbia un chiaro aspetto ecclesiale. Tutti i fenomeni, in positivo o in negativo, sono orientati all’ecclesialità».
Prassi era il cristianesimo pre-moderno in Europa, prassi è il nostro capitalismo: qui la loro forza, qui la loro vicinanza. Queste di Florenskij sono parole importanti. Per questa sua natura pratico-cultuale, ad esempio, che i filosofi e i teologi fanno molta fatica a comprendere il capitalismo del nostro tempo. Il secondo tratto del capitalismo, legato al primo (religione di puro culto), è per W. Benjamin «la durata permanente del culto».
Cento anni fa non esistevano ancora i negozi 24h7d, né lo shopping online, ma il filosofo ebreo aveva, profeticamente (la grande filosofia ha una dimensione profetica intrinseca e spesso non intenzionale) intuito una dimensione che nel tempo ha mostrato tutta la sua forza: «Il capitalismo è la celebrazione di un culto “senza tregua e senza pietà”. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante».
Il conflitto tra il capitalismo e la domenica (possibile giorno dei negozi chiusi) non va infatti letto solo sul piano pragmatico del business ma su quello religioso dello scontro tra culti. Anche per questa ragione ha un suo senso, se ben inteso, rivendicare per i cristiani la domenica come giorno del Signore e quindi proteggerlo dal culto capitalistico, anche se la battaglia è troppo impari.
L’ebraismo potrà salvarsi da questo capitalismo (che in parte è suo figlio) se continuerà ad essere fedele allo shabbat. C’è poi quello che per Benjamin è il terzo tratto del capitalismo-culto, quello che ha ottenuto più attenzione dagli studiosi (da Giorgio Agamben in particolare): «Questo culto è colpevolizzante. Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa». Una tesi forte e sempre suggestiva, che apre discorsi appassionanti e rilevanti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
La domenica di Ratzinger e la "domenica della vita" di Hegel. Una nota di Gianni Vattimo
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA COSTITUZIONE (LA LEGGE, IL "NOMOS") E IL PARADOSSO DELLA GIUSTIZIA TRA DIRITTO E PENA .... *
Filosofia.
Da Edipo a Simone Weil: il dilemma della giustizia tra pena e diritto
Dal mondo greco a oggi, passando dalla lettura cristiana della società, lo storico Curi indaga sul dramma filosofico del far coincidere il diritto con la giusta pena
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 15 novembre 2019)
È nota la posizione di Pascal, che possiamo definire pessimista o realista, sulla relazione tra forza e giustizia. In alcuni dei suoi Pensieri, il grande filosofo che volle morire in un ospizio dei poveri sostiene che l’ideale sarebbe che i due poli potessero convivere per il bene dell’uomo. Ma poiché in questo mondo la giustizia non ha possibilità di affermarsi e di utilizzare la forza per questo scopo, è inevitabile che la forza abbia la preponderanza. «La giustizia senza la forza è impotente, la forza senza la giustizia è tirannica», sentenzia il pensatore che inventò la prima macchina calcolatrice, ammettendo alfine con desolazione: «La giustizia è soggetta a discussione, la forza è molto riconosciuta e indiscussa. Così non si è potuto dare la forza alla giustizia perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha affermato che solo lei era giusta. E così, non potendo ottenere che ciò che è giusto sia forte, si è fatto sì che ciò che è forte sia giusto».
Il Seicento era ancora un secolo dell’assolutismo e solo successivamente si è imposta una concezione della giustizia meno disfattista, quella che è arrivata sino a noi con lo Stato di diritto e la moderna democrazia. Eppure anche nel XXI secolo qualcosa non torna quando si parla di colpa, pena, legge, diritto, giustizia. Lo rileva Umberto Curi, professore emerito di Storia della filosofia all’Università di Padova, nel suo ultimo saggio, Il colore dell’inferno, La pena tra vendetta e giustizia (Bollati Borlinghieri) che prende l’avvio da una citazione folgorante di Simone Weil: «A causa dell’assenza di Cristo, la mendicità in senso lato e l’atto penale sono forse le due cose più atroci di questa terra, due cose quasi infernali. Hanno il colore stesso dell’inferno».
Secondo la pensatrice francese che rimase sempre sulla soglia della conversione, nel dare il castigo al colpevole la giustizia si comporta come nel gesto dell’elemosina: presta attenzione allo sventurato «considerandolo un essere umano e non una cosa». Ma non può fare questo se prescinde da un’impostazione religiosa: senza un riferimento a Dio, la prospettiva che si delinea non può che essere infernale.
Si sa che Simone Weil aveva un culto particolare per la civiltà greca, che considerava premessa al cristianesimo, e forse non è un caso che anche Curi nella sua analisi prenda spunto dal mondo della poesia e della tragedia antica, a partire proprio dalla domanda cruciale: che cos’è una pena? Ragionando sull’etimologia, egli chiarisce come il termine poiné (da cui il latino poena, l’italiano e lo spagnolo pena, il francese peine e l’inglese penalty) abbia il significato di "riparare" e "compensare" da una parte, e di "punire" dall’altra. È ciò che viene dato "in compenso" di qualcos’altro e indica la riparazione e il castigo. Non solo, essa riveste un significato sacrale ed è un corrispettivo della colpa commessa solo se provoca sofferenza, in un modo che sia proporzionale fra colpa e pena.
C’è insomma nella logica della pena l’affermarsi di un’espiazione in senso religioso, che sarà via via accentuata dal cristianesimo con il concetto di contrappasso, mirabilmente esemplificato da Dante. Ma cosa succede se una persona viene punita, ma non ha colpa? La vicenda di Edipo in questo senso è paradigmatica: egli paga il fio delle sue azioni senza esserne fino in fondo responsabile. È un eroe tragico che ben raffigura la visione greca dell’uomo e del mondo illustrata da un frammento del giovane Aristotele pervenutoci tramite Giamblico: «Siamo stati costituiti per natura» come se «fossimo tutti destinati a una punizione».
Per i Greci c’è un’infelicità di fondo nella condizione umana che accomuna tutti i mortali e che sarà risolta solo dal cristianesimo che ha reso possibile la redenzione. Come Edipo, anche Oreste si macchia del sangue dei genitori e a differenza del re di Tebe egli è ben consapevole di dare la morte alla madre Clitennestra, ma poiché commette il matricidio per vendicare l’assassinio del padre viene prosciolto al termine del processo che si svolge davanti al tribunale dell’Areopago. In questo senso egli assomiglia più ad Amleto che a Edipo.
Giustamente in un altro passo Curi richiama alla memoria un frammento di Pindaro, considerato il testo fondativo del diritto occidentale: «La legge è re di tutte le cose, mortali e immortali. Essa le guida con la sua mano sovrana e rende giusta la cosa più violenta». Versi che in realtà testimoniano, come avrebbe scritto Pascal, l’irriducibilità totale fra giustizia e diritto. Anzi, l’esistenza stessa del diritto sembra essere prova dell’impossibilità per l’uomo di realizzare la giustizia.
L’incapacità della nostra cultura, giuridica ma non solo, di fare i conti con questi temi fondativi è testimoniata dalla sfasatura evidente fra le risposte insufficienti che vengono date allo statuto della pena e l’attività giurisdizionale, che procede come se tutto fosse già stabilito.
Il modello correzionalista e quello preventivo sono in scacco, in balia di quella che Nietzsche definì l’origine economica e contrattualista della legge e della pena, da ricercarsi nel rapporto fra creditore e debitore e nella promessa della restituzione. Una ricostruzione genealogica che alla fine si basa sul piacere della sofferenza dell’altro, nel momento in cui chi contrae il debito offre come pegno il proprio corpo, la propria donna o la propria libertà e finanche la propria vita.
Un’idea assai materiale e non etica del debito e perciò della colpa e della pena, che certo ha il suo fascino ma che per Curi può essere ribaltata solo da un’altra logica, quella della sovrabbondanza. È la logica del surplus e dell’eccesso contenuta nell’Epistola ai Romani, ove Paolo supera l’economia della corrispondenza proporzionale fra colpa e pena.
Sulla scia di pensatori contemporanei come Jankélévitch, Derrida e Girard, si affaccia la chance del perdono, che talora è stata applicata alla giustizia in anni recenti, come nella Commissione Verità e riconciliazione in Sudafrica o nei processi sul genocidio del Ruanda. In entrambi i casi si è infatti constatato che la sola punizione può alimentare la sete di vendetta. Chance che si ripresenta pure nella formula della cosiddetta "giustizia riparativa", un modello che coinvolge i colpevoli, le vittime e la comunità intera alla ricerca non solo di una riparazione del danno ma di una soluzione ai conflitti e di una riconciliazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA LEZIONE DI NELSON MANDELA: GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
Onda di marea
di Paolo Cacciari (Comune-info, 14 Novembre 2019)
Non prendiamoci in giro. Il riscaldamento climatico globale è un flagello epocale, ma non usiamolo come paravento per coprire una storia che ha ben determinate responsabilità locali. La distruzione della laguna di Venezia - e quindi della città insulare storica che con la laguna vive in simbiosi - viene da lontano e deriva da precise scelte di politiche economiche e di pianificazione territoriale che continuano imperterrite. L’aumento delle numero e della forza delle maree è provocato solo in parte dall’eustatismo (aumento del livello medio del mare). Il resto è tutta opera nostra!
La laguna ha una superficie di 550 chilometri quadrati. È uno straordinario ecosistema formato da bassi fondali (barene, velme, ghebi, valli ecc.) che reggono, avvolgono e proteggono le isole edificate dagli eventi marini esterni. Le colossali opere idrauliche costruite nei secoli dalla Repubblica di Venezia (deviazione dei fiumi a monte e “murazzi” a mare) hanno sempre seguito questo criterio: non esporre Venezia alle mareggiate ed evitare gli interramenti.
Con l’avvento dell’era industriale e il prevalere degli interessi portuali, che dura fino ai nostri giorni con il business della crocieristica, si è fatto esattamente il contrario: si è ristretta la laguna e si sono approfonditi i canali marittimi che regolano i flussi mare/laguna innescando una erosione dei fondali (mezzo milione di metri cubi di sedimenti all’anno) che ha trasformato la laguna in un braccio di mare. Il punto più profondo dell’Alto Adriatico lo si trova in laguna, al Faro Rocchetta: una fossa profonda più di cinquanta metri in cui si pescano ostriche!
Le conseguenze le abbiamo viste anche nella drammatica notte tra martedì 12 e mercoledì 13 novembre. Non siamo più in presenza di “acqua alta” (che cresce lentamente), ma di una violenta onda di marea. L’acqua sospinta dal vento di scirocco non trova più ostacoli lungo il suo percorso (bassi fondali e terre emerse) in entrata in laguna attraverso le tre bocche di porto (Lido, Malamocco e Chioggia) e diventa un fiume in piena che si infrange sulle fragili rive, sulle fondamenta e delle fondazioni della città.
Il Mose era sbagliato anche prima di diventare un’opera corruttiva (e proprio per questo motivo aveva bisogno di corrompere gli organi tecnici e politici dello stato). La scelta progettuale derivava dal fatto di non disturbare gli interessi dei traffici marittimi e di consentire a navi sempre di grandi di entrare in laguna.
Gli ambientalisti lo dicono da sempre: la prima opera di “adattamento” volta ad aumentare la “resilienza” dell’ecosistema veneziano dovrebbe essere il piano morfologico di rinaturalizzazione della Laguna di Venezia, la creazione di un parco nazionale naturale (che il sindaco Luigi Brugnaro ha abrogato), la immediata fuoriuscita delle navi dalla laguna, la bonifica di Porto Marghera.
Ciò che sta accadendo a Venezia
Tutto questo era evitabile,Fridays for future Venezia
Sul Mose torna una marea di bugie, Armando Danella
LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
PER IL CAMBIAMENTO DELLA DENOMINAZIONE
DA
AD
L’esperienza storica insegna che ogni istituzione umana, sorta pure con le migliori tutele e con vigorose e fondate speranze di progresso, toccata fatalmente dal tempo, proprio per rimanere fedele a se stessa e agli scopi ideali della sua natura, avverte il bisogno, non già di mutare la propria fisionomia, ma di trasporre nelle diverse epoche e culture i propri valori ispiratori e operare quegli aggiornamenti che si rendono convenienti e a volte necessari.
Anche l’Archivio Segreto Vaticano, al quale i Romani Pontefici hanno sempre riservato sollecitudine e cura in ragione dell’ingente e rilevante patrimonio documentario che conserva, tanto prezioso per la Chiesa Cattolica quanto per la cultura universale, non sfugge, nella sua storia ormai più che quattro volte centenaria, a tali inevitabili condizionamenti.
Sorto dal nucleo documentario della Camera Apostolica e della stessa Biblioteca Apostolica (la cosiddetta Bibliotheca secreta) fra il primo e secondo decennio del XVII secolo, l’Archivio Pontificio, che cominciò a chiamarsi Segreto (Archivum Secretum Vaticanum) solo intorno alla metà di tale secolo, accolto in confacenti locali del Palazzo Apostolico, crebbe nel tempo in consistenza notevolissima e fin da subito si aprì alle richieste di documenti che pervenivano al Pontefice Romano, al cardinale Camerlengo e poi al cardinale Archivista e Bibliotecario da ogni parte dell’Europa e del mondo. Se è vero che l’apertura ufficiale dell’Archivio ai ricercatori di ogni Paese si avrà soltanto nel 1881, è vero anche che fra il XVII e il XIX secolo molte opere erudite si poterono pubblicare con l’ausilio di copie documentarie fedeli o autentiche che gli storici ottenevano dai custodi e dai prefetti dell’Archivio Segreto Vaticano. Tanto che il celebre filosofo e matematico tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, il quale pure vi attinse, scrisse nel 1702 che esso poteva considerarsi in certo modo l’Archivio centrale dell’Europa (quod quodam modo totius Europae commune Archivum censeri debet).
Questo lungo servizio reso alla Chiesa, alla cultura e agli studiosi di tutto il mondo ha sempre guadagnato all’Archivio Segreto Vaticano stima e riconoscenza, tanto più crescenti da Leone XIII ai nostri giorni, sia in ragione delle progressive «aperture» della documentazione resa disponibile alla consultazione (che dal prossimo 2 marzo 2020, per mia disposizione, si estenderà fino al termine del pontificato di Pio XII), sia in ragione dell’aumento di ricercatori che sono quotidianamente ammessi all’Archivio medesimo e aiutati in ogni modo nelle loro ricerche.
Tale meritorio servizio ecclesiale e culturale, così apprezzato, bene risponde agli intenti di tutti i miei predecessori, che secondo i tempi e le possibilità hanno favorito le ricerche storiche in così vasto Archivio, dotandolo, secondo i suggerimenti dei cardinali Archivisti o dei prefetti pro tempore, di persone, di mezzi e anche di nuove tecnologie. In tal modo si è provveduto alla graduale crescita della struttura dell’Archivio stesso per il suo sempre più impegnativo servizio alla Chiesa e al mondo della cultura, mantenendo sempre fede agli insegnamenti e alle direttive dei Pontefici.
Vi è tuttavia un aspetto che penso possa essere ancora utile aggiornare, ribadendo le finalità ecclesiali e culturali della missione dell’Archivio. Tale aspetto riguarda la stessa denominazione dell’istituto: Archivio Segreto Vaticano.
Nato, come accennato, dalla Bibliotheca secreta del Romano Pontefice, ovvero dalla parte di codici e scritture più particolarmente di proprietà e sotto la giurisdizione diretta del Papa, l’Archivio si intitolò dapprima semplicemente Archivum novum, poi Archivum Apostolicum, quindi Archivum Secretum (le prime attestazioni del termine risalgono al 1646 circa).
Il termine Secretum, entrato a formare la denominazione propria dell’istituzione, prevalsa negli ultimi secoli, era giustificato, perché indicava che il nuovo Archivio, voluto dal mio predecessore Paolo V verso il 1610-1612, altro non era che l’archivio privato, separato, riservato del Papa. Così intesero sempre definirlo tutti i Pontefici e così lo definiscono ancora oggi gli studiosi, senza alcuna difficoltà. Questa definizione, del resto, era diffusa, con analogo significato, presso le corti dei sovrani e dei principi, i cui archivi si definirono propriamente secreti.
Finché perdurò la coscienza dello stretto legame fra la lingua latina e le lingue che da essa discendono, non vi era bisogno di spiegare o addirittura di giustificare tale titolo di Archivum Secretum. Con i progressivi mutamenti semantici che si sono però verificati nelle lingue moderne e nelle culture e sensibilità sociali di diverse nazioni, in misura più o meno marcata, il termine Secretum accostato all’Archivio Vaticano cominciò a essere frainteso, a essere colorato di sfumature ambigue, persino negative. Avendo smarrito il vero significato del termine secretum e associandone istintivamente la valenza al concetto espresso dalla moderna parola «segreto», in alcuni ambiti e ambienti, anche di un certo rilievo culturale, tale locuzione ha assunto l’accezione pregiudizievole di nascosto, da non rivelare e da riservare per pochi. Tutto il contrario di quanto è sempre stato e intende essere l’Archivio Segreto Vaticano, che - come disse il mio santo predecessore Paolo VI - conserva «echi e vestigia» del passaggio del Signore nella storia (Insegnamenti di Paolo VI, I, 1963, p. 614). E la Chiesa «non ha paura della storia, anzi la ama, e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio!» (Discorso agli Officiali dell’Archivio Segreto Vaticano, 4 marzo 2019: L’Osservatore Romano, 4-5 marzo 2019, p. 6).
Sollecitato in questi ultimi anni da alcuni stimati Presuli, nonché dai miei più stretti collaboratori, ascoltato anche il parere dei Superiori del medesimo Archivio Segreto Vaticano, con questo mio Motu Proprio decido che:
da ora in poi l’attuale Archivio Segreto Vaticano, nulla mutando della sua identità, del suo assetto e della sua missione, sia denominato Archivio Apostolico Vaticano.
Riaffermando la fattiva volontà di servizio alla Chiesa e alla cultura, la nuova denominazione mette in evidenza lo stretto legame della Sede romana con l’Archivio, strumento indispensabile del ministero petrino, e al tempo stesso ne sottolinea l’immediata dipendenza dal Romano Pontefice, così come già avviene in parallelo per la denominazione della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Dispongo che la presente Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio venga promulgata mediante pubblicazione sul quotidiano L’Osservatore Romano, entrando in immediato vigore a partire da detta pubblicazione, così da essere subito recepita nei documenti ufficiali della Santa Sede, e che, successivamente, sia inserita negli Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 ottobre 2019, settimo del nostro Pontificato.
Francesco
* Fonte: http://w2.vatican.va/
Napoli, la lotta dei giovani: "Clima, il mondo può cambiare"
Le riflessioni del grande filosofo Aldo Masullo: "La reazione dei ragazzi non è puerilmente emotiva, semplice paura, ma razionale, meditata decisione di lotta"
di ALDO MASULLO (La Repubblica/Napoli, 10 novembre 2019)
Hannah Arendt durante la bufera nazista descrisse la vita del profugo senza né lavoro, né casa, né parenti, soprattutto senza diritti. Più tardi rivendicò con forza «il diritto di avere diritti». Nella seconda metà del Novecento il coro internazionale proclamò più volte solennemente i diritti dell’uomo. Il che vuol dire l’universale condanna della loro violazione. Non v’è “ragione di Stato” che tenga, nessuno per nessuna ragione ha diritto di violare i diritti dell’uomo.
Con qual diritto dunque sempre di nuovo si gettano sulle disperate strade della fuga, esposte alla sofferenza e alla morte, tra il grandinare delle bombe e il crepitio delle mitragliatrici, moltitudini di persone magari già duramente provate dalle atrocità di qualche anno prima?
Con quale diritto pacifiche popolazioni vengono strappate alle propria civile sicurezza per un incerto destino di profughi? Con qual diritto soprattutto si strappano il vecchio al suo letto abituale, il ragazzo alla sua scuola, lo studioso alla sua biblioteca, la donna al suo ordine domestico, l’ uomo e la donna al lavoro, gettati tutti nella polvere dell’estrema miseria, ognuno dall’umiliazione strappato a se stesso?
Nella lunga storia umana fatti come questi, e anche peggiori, molte volte sono accaduti. Ma non ancora erano stati solennemente proclamati i diritti e sancito il sacrosanto diritto di avere diritti. Sempre nel mondo è serpeggiata la violenza dell’uomo sull’uomo. Ma nell’età moderna, nell’età dei diritti dell’uomo, la violenza stessa ha assunto il governo del mondo.
Mi spiego. Nel secolo XVII muove i suoi primi passi la “nuova scienza”, che interroga la natura attraverso la verifica sperimentale delle sue risposte. Si tratta di un cammino conoscitivo che da Galilei in poi non si è più fermato. I risultati della scienza sperimentale non sono soltanto pure conoscenze, gratuita ricchezza dell’intelletto, ma anche, anzi soprattutto, applicazioni pratiche sempre più rilevanti per la vita dell’uomo. Così all’antica tecnica, che consentì agli Egizi di costruire le Piramidi e ai Romani di mettere in opera gl’imponenti acquedotti, ne succede una nuova, sempre più complessa e raffinata. Con essa s’instaura un crescente potere dell’uomo sulla natura, in genere al servizio dell’uomo, ma spesso anche un diseguale potere di alcuni uomini su molti altri. Cresce smisuratamente la competitività tra gl’individui e tra gli Stati e si sviluppano formidabili mezzi di distruzione di massa.
Innegabilmente la tecnica ha consentito la nascita di un modo nuovo di produzione, grazie alle macchine mosse non più dalla limitata forza muscolare ma dall’illimitata potenza di motori alimentati da energie fisiche. All’inizio tali macchine sono manovrate da masse di lavoratori poco istruiti e malpagati, di cui via via, sempre grazie agli avanzamenti tecnici, si riduce il bisogno. La nuova forma di produzione arricchisce i produttori, che però hanno ogni volta bisogno di denaro fresco per rilanciare il ciclo e ricorrono perciò al credito.
Ogni anello della spirale ascensionale della modernità gioca dunque su due inseparabili poli: l’estensione tecnica della scienza e l’investimento finanziario, insomma la coppia tecnica-capitale. Il mondo moderno è essenzialmente il mondo del capitale, non importa se in mani private o pubbliche.
Tecnica e capitale sono stretti nel dinamismo di un circolo, in cui ognuno dei due fattori impone incessantemente all’altro di crescere. Intanto, senza più vincoli interiori di alcun genere, aumenta smisuratamente quell’ “amor proprio”, quella frenesia competitiva che, nel bel mezzo del secolo XVIII, J.J. Rousseau denunciava come il male devastante della vita sociale.
Ora, se ogni individuo o ogni gruppo vede nell’altro un avversario da battere e magari perfino un nemico da sopprimere, a cosa può tra l’altro spingere il dinamismo del circolo tecnica-capitale, se non alla produzione di armi, sempre più sofisticate e potenti, per primeggiare a tutti i costi nella guerra continua, guerreggiata e non, che accompagna inesorabilmente la modernità?
Così la tecnica nella inarrestabilità del suo sviluppo chiede al capitale sempre maggiori investimenti, e il capitale nel suo insopprimibile impulso alla crescita pretende dalla tecnica sempre nuovi strumenti di produzione e di offesa. Il mondo moderno così è sempre più stretto in una inesorabile tenaglia. Mentre nell’antico un re non sempre era costretto dalle circostanze a prendere certe decisioni, nella modernità invece non v’è alcuna scelta politica che non sia condizionata direttamente o indirettamente dall’insieme delle forze coinvolte nella dinamica complessiva del mondo, cioè del duopolio tecnica-capitale.
Se il capitalismo apprezza la tecnica solo come potenziamento della produzione e del profitto, inevitabilmente tutti i soggetti, individui e gruppi, che ne condividono il modo, ognuno inteso perciò al potenziamento della sua produzione e all’incremento del suo profitto, sono ciecamente competitivi, fino alla guerra.
Chi scatena la guerra non si cura affatto dei suoi “effetti collaterali”, cioè delle distruzioni delle città e soprattutto degl’innumerevoli innocenti coinvolti. Che importa, se le migrazioni forzate delle popolazioni colpite minacciano di stravolgere la vita d’interi continenti?
Nessun sentimento può fermare la strutturale violenza, che governa oggi il mondo, la diabolica combinazione di sviluppo tecnico e di cupidigia economica e che inesorabilmente la porta verso una finale catastrofe. Certamente non possono fermarla né le condanne morali né l’appello alla comune salvezza.
Negli ultimi tempi però proprio la scienza e le sue tecniche sembrano offrire un’impensata occasione di salvezza. Un drammatico allarme echeggia in ogni angolo. Gli scienziati avvertono che, se l’aumento della temperatura media globale continua con l’attuale ritmo, si scateneranno processi naturali irreversibili, come già mostra lo scioglimento dei ghiacciai. A quel punto nessun intervento umano sarà più possibile. È dunque necessario agire subito. Le emissioni di C02 entro il 2030 vanno dimezzate e nel 2050 dovranno essere azzerate. Gli enormi interessi consolidati tendono a ignorare o svalutare le notizie ostili, tutto dunque finirebbe con qualche comunicato scientifico che nessuno legge. Ma qui entrano in campo i giovanissimi, coloro che più, anzi quasi tutto, hanno da perdere dal disastro climatico globale.
A Napoli come in altre città italiane ci sono già stati cortei e manifestazioni. La reazione dei ragazzi non è puerilmente emotiva, semplice paura, ma razionale, meditata decisione di lotta. Se essi vincono, il mondo si salva ma non sarà più lo stesso. Innanzitutto sarà spezzato il vecchio legame di capitale e tecnica. Saremo usciti dalla modernità. Allora forse i diritti dell’uomo saranno rispettati.
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE.
Un commento a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PROVANDO E RIPROVANDO. LA STELLA E IL NARDO... Ricordando quanto sia determinante e fondamentale, oggi, ripensare sul piano antropologico (andrologico e ginecologico) e teologico la figura della “sacra famiglia” e di san Giuseppe (si cfr. i commenti a "Ggimentu, gimmientu e ggimintare" di A. Polito, Fondazione Terra d’Otranto, 06.07.2018), e “come nascono i bambini”, non posso non PLAUDIRE alla realizzazione del “convegno e del libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”, con tutti i suoi molteplici contributi!!!
SUL TEMA DELLA «GIUSEPPOLOGIA», MI SIA LECITO, si cfr.: GESU’ “CRISTO”, GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE (“CHARITAS”) DI GIUSEPPE E DI MARIA!!!
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’oCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE .... *
Occidente in ritiro, compito della Chiesa.
Per dare più voce al futuro
di Agostino Giovagnoli (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Mentre i turchi cacciano i curdi dal Nord della Siria, la Gran Bretagna è agitata dalle convulsioni della Brexit e Hong Kong è attraversata da una protesta sempre più radicale. Tre vicende molto diverse tra loro. Ma tutt’e tre rimandano a una progressiva smobilitazione dell’Occidente.
Con la decisione di far cessare una presenza militare americana in Siria settentrionale - strategica anzitutto sotto il profilo simbolico - Trump ha abbandonato alleati verso cui gli occidentali hanno molti debiti: l’impegno dei curdi contro il Daesh è stato infatti decisivo. Le sorti di questi dipendono oggi interamente da altri attori: oltre alla Turchia, la Russia di Putin e il governo di Assad. Per la prima volta, intanto, la Camera dei Comuni ha approvato una mozione a favore della Brexit, pur imponendone un ulteriore rinvio: un altro passo verso l’uscita di Londra dall’Unione Europea. L’anima anglosassone-marittima dell’Europa e quella continentale-terrestre sembrano destinate a separarsi radicalmente: è una frattura grave all’interno del grande edificio che chiamiamo Occidente. Infine a Hong Kong è sempre più in difficoltà il modello "un Paese, due Sistemi" che aveva l’ambizione di conciliare cultura cinese e metodi occidentali. Anche qui l’influenza dell’Occidente si sta riducendo.
L’ex colonia britannica, collocata in una posizione strategica rispetto a tutta l’Asia, è stata per molto tempo uno dei primi porti del mondo e un mercato finanziario di importanza globale. Al momento del passaggio sotto la sovranità cinese nel 1997, era la seconda area del mondo per reddito pro capite, settima per quantità di riserve valutarie straniere e terza per esportazione di indumenti. La formula "un Paese due Sistemi", creata da Deng Xiaoping, sembrava fotografare una situazione destinata a permanere a lungo: se Hong Kong fosse rimasta uno spazio di incontro tra crescita cinese e sistemi occidentali, non sarebbe convenuto a nessuno mettere in crisi questa simbiosi così originale. Ma con lo sviluppo di aree economiche speciali nella regione limitrofa e il declino degli interessi occidentali per il "Porto dei profumi" questa funzione si è gradualmente ridotta.
Intanto, i sistemi politici occidentali - in discussione anche in tradizionali patrie della democrazia come Stati Uniti e Gran Bretagna - hanno perso progressivamente appeal in tutto il mondo, man mano che altri sistemi politici - in primo luogo quello cinese - si rivelavano compatibili con ritmi di sviluppo economico-sociale molto intensi. Infine, il crescente protezionismo occidentale - di cui la guerra dei dazi dichiarata da Trump è l’espressione più emblematica - ha rovesciato le posizioni: ora è la Cina il principale sostenitore della globalizzazione.
Nell’immaginario collettivo, l’iniziativa cinese della One Belt One Road (o Nuova Via della Seta) dall’Asia centrale all’Europa orientale passando per l’Africa, ha preso il posto di quell’iniziativa occidentale in Asia che per quasi due secoli ha avuto in Hong Kong il suo luogo più emblematico.
Nella storia tutto è opera dell’uomo, anche le nazioni e gli Stati non sono nati per caso ma sono stati immaginati, voluti, costruiti. Vale anche per l’Occidente, uno straordinario progetto storico immaginato, voluto, costruito per secoli dagli europei, cui si sono poi aggiunti i nordamericani. Oggi però gli uni e gli altri non sembrano più credere a tale progetto come in passato. Lo mostrano le lacerazioni tra le varie aree dell’Occidente e l’assenza degli occidentali da tanti scenari importanti del mondo contemporaneo. Quando qualcosa tramonta ne vediamo meglio meriti e grandezza e oggi siamo in grado di capire che quello occidentale è stato uno dei più grandi progetti della storia capace di unire ispirazione religiosa, valori morali, sistemi economici, modelli politici ecc.
Ma che fare se oggi gli occidentali sembrano credere sempre di meno al progetto Occidente? Tutto questo lascia la Chiesa più sola e accresce la sua responsabilità di portatrice di un messaggio universale e di annunciatrice di salvezza ai popoli.
A Hong Kong, come la maggioranza dei suoi abitanti, anche molti cattolici hanno partecipato a manifestazioni che esprimono nostalgia del passato e paura del futuro. Ma le proteste non possono rimuovere le cause profonde per cui è in crisi la formula ’un Paese, due Sistemi’. Il loro sbocco appare oggi molto incerto. È probabile che nelle prossime settimane aumentino da un lato l’estremismo e dall’altro la repressione, contrapposti in una spirale che alimenta entrambe. C’è chi vorrebbe che la Santa Sede prendesse posizione su quanto sta avvenendo nell’ex colonia britannica, ma non è nelle sue possibilità fermare un ritiro dell’Occidente, da questa come da altre aree del mondo, che rende poco sincere tante dichiarazioni di principio su libertà e diritti.
È proprio questo ritiro che ha spinto negli ultimi anni la Santa Sede a cercare un dialogo diretto e senza protezioni con il governo di Pechino. Molte voci critiche si sono levate, non a caso, da Hong Kong per criticare tale tentativo, ma quanto sta avvenendo ora nella ex colonia britannica ne conferma la necessità.
A Roma, c’è comunque viva partecipazione alle sofferenze del popolo hongkonghese e nella grande città asiatica la saggia voce del cardinal John Tong si è espressa fin dall’inizio in modo pacato e fermo chiedendo giustizia, ma condannando la violenza. Un legame profondo, infatti, lega spesso violenza e disperazione ed entrambe finiscono sempre per alimentare la rassegnazione. L’anziano amministratore apostolico ha ricordato che la violenza «provoca solo ferite sempre più profonde» e ha richiamato la lezione pacifica di Gandhi e di Mandela. Ha espresso inoltre «profondo dolore nel vedere i giovani ansiosi e preoccupati a causa dell’attuale situazione sociale» ed esortato a una speranza che non è facile avere oggi ad Hong Kong, ma di cui c’è molto bisogno. È inutile continuare a credersi parte di un mondo che non c’è più, decisiva appare invece la capacità di guardare al futuro: solo la speranza, infatti, è in grado di sostenere gli animi quando la realtà delle cose mostra un volto sgradito e il cammino si prospetta lungo. Se all’inizio la voce di Tong è apparsa isolata, man mano si sono uniti alla sua altre voci, tra gli stessi cattolici, nel mondo protestante, in quello musulmano e in tutta la città.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. FILANTROPIA... E AMORE di "DIO" ("AGAPE", "CHARITAS") *
La teologia corrente del Mediterraneo
Dall’esperienza di san Paolo alle riflessioni in musica di Cohen e Dalla: un viaggio per riscoprire l’essenza di un luogo di incontro e di mediazione
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, martedì 22 ottobre 2019)
Perseguo qui il tentativo di mostrare come il Mediterraneo, questo (non nuovo, ma antico e per questo sempre attuale) “luogo teologico”, possa e debba innestarsi nel nostro teologare. Muovo dal Nuovo Testamento e in particolare dall’esperienza di Paolo e dei suoi compagni nell’approdo a Malta. Essi qui sperimentano innanzitutto una «rara umanità». «Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo» (At 28,1-2).
Il testo greco la dice lunga e parla di «filantropia», rara e quindi eccezionale, senza la quale forse Paolo non avrebbe potuto raggiungere Roma. Sappiamo bene quanto sia “merce rara” l’umanità, che, in quanto filantropia apparterrebbe ai barbari, ma al tempo stesso dovrebbe essere inclusa nella forma agapica propria del cristianesimo, che deve esprimersi come «amore sconfinato » (R. Penna) e incondizionato, ossia senza e oltre le frontiere, o che comunque pensa la frontiera come luogo di incontro e non di scontro.
A proposito dell’agàpe, un’annotazione esegetica interessante riguarda la novità semantica che registriamo nei testi neotestamentari, dove il sostantivo ricorre solo diciassette volte (diciannove nella Settanta), mentre per ben centoquarantaquattro (centosessantatré nella Settanta) volte rinveniamo il verbo agapào. E se il verbo esprime - come afferma san Tommaso - una determinazione temporale, allora abbiamo a che fare non con qualcosa di atemporale (ad esempio la mediterraneità), ma con un sostantivo che (attraverso il verbo) deve penetrare nel tempo, nel nostro tempo, e sollecitare non solo la nostra mente, ma anche le nostre passioni. E a tal proposito possiamo leggere metaforicamente l’esperienza maltese/mediterranea di Paolo e dei suoi compagni, davvero carica di “umanità”.
Se trasferiamo quest’esperienza umana all’esperienza religiosa e credente, il calore di questo fuoco nella pietà popolare (ma anche individuale) degli uomini e delle donne mediterranee si esprime nella forma della “devozione” (il nocciolo duro che ha consentito al “ritorno del sacro” di archiviare la secolarizzazione). In questa prospettiva, mi piace leggere un’indicazione, suscitatami dalla lettura del bellissimo, prezioso e piccolo libro di Fabio Fiori, L’odore del mare. Piccole camminate lungo le rive mediterranee, (Ediciclo editore).
Karl Barth invitava infatti a leggere la letteratura profana e i giornali per comprendere la Scrittura del Nuovo Testamento: «Nel Mediterraneo - scrive Fiori - non c’è spiaggia che non sia stata teatro di approdi o naufragi, non c’è cala dove non sia stata calata ancora di pietra o di ferro. Lungo la riva il viandante ad ogni passo può incontrare il mito». La religiosità mediterranea assume in primo luogo una forma mitologica, piuttosto che logica.
Del resto, come più volte affermato da papa Francesco, quella del “popolo” è una «categoria mitica»: «La parola popolo non è una categoria logica, è una categoria mitica», ha detto di ritorno dal Messico. In seguito, intervistato dal suo confratello gesuita Antonio Spadaro, ha voluto precisare: più che “mistica”, ha detto, «nel senso che tutto ciò che fa il popolo sia buono», è meglio dire «mitica»: «Ci vuole un mito per capire il popolo». Attingendo dal già citato Fabio Fiori, un primo spunto riguarda l’ibridazione, non semplicemente declinata secondo la categoria del meticciato: «La sponda mediterranea è il risultato di ibridazioni tra natura e cultura, più di qualsiasi altro luogo ».
A livello teologico, più che di ibridazione, possiamo considerare il Mediterraneo come luogo di “mediazione”. Del resto la nostra identità cristiana risiede nella mediazione di Cristo mediatore e si riferisce alle mediazioni partecipate come quella di Maria (mediatrice). In secondo luogo, la necessità di costruire una koinè, ovviamente non solo linguistica, onde non cedere alla tentazione dell’anglismo: «Una koinè da costruirsi ogni giorno, innanzitutto con l’esperienza, camminando e navigando, leggendo e ascoltando, annusando e assaggiando, osservando e chiacchierando», come dovevano certamente chiacchierare, magari esprimendosi con i gesti piuttosto che col greco che i barbari non comprendevano o con l’assistenza di qualche mediatore, intorno al fuoco, i personaggi del testo lucano sopra evocato. In terzo luogo l’identità o appartenenza, tenendo anche conto delle lucide osservazioni di O. Roy, che ci mette in guardia dall’identificare le ricorrenti esibizioni di “identità cristiana” con la fede.
Tornando a Fiori: «L’appartenenza mediterranea non ha niente a che fare con il passaporto, il luogo di nascita, la nazione. L’appartenenza mediterranea si realizza con la pratica, sporcando il corpo di sale e riempendo i polmoni di salmastro». Con l’appello a realizzare la mediterraneità nel quotidiano, per non cadere nel rischio della retorica. «Noi con Albert Camus “vogliamo ricongiungere la cultura alla vita. Il Mediterraneo, che ci circonda di sorrisi, di sole e di mare, ce lo insegna” ». -Richiamerei, infine, l’invito di Edgar Morin a maternizzare e sacralizzare quella che definisce «l’essenza profana del Mediterraneo».
Una teologia mediterranea esprimerà innanzitutto la dimensione storico-escatologica della Rivelazione cristologica. Essa si può rinvenire, con una sorta di pop-theology, nella strofa di una canzone tradotta e interpretata da Fabrizio De André, di Leonard Cohen, intitolata Suzanne, che recita: «E Gesù fu marinaio / finché camminò sull’acqua / e restò per molto tempo / a guardare solitario / dalla sua torre di legno / e poi quando fu sicuro / che soltanto agli annegati / fosse dato di vederlo / disse: Siate marinai finché il mare vi libererà. / E lui stesso fu spezzato / ma più umano abbandonato / nella nostra mente lui non naufragò». Raggiungiamo la dimensione cosmica della Rivelazione evocando il grido etico circa la custodia del creato che dal Mediterraneo (o se si vuole dal mare) ci viene rivolto. Quando non lo impediscano interpretazioni negazioniste e del tutto fuorvianti, il grido ci raggiunge e provoca, insieme alla nostra indignazione, la domanda in noi dei contadini di Fontamara: «che fare?», purché essa non venga metabolizzata e trasformata in triste rassegnazione.
A tal proposito concludo evocando i versi di Lucio Dalla, nel famoso brano Come è profondo il mare, che non posso non pensare ispirato dai suoi soggiorni nelle isole Tremiti: «È chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, anzi è un pesce e come pesce è difficile da bloccare perché lo protegge il mare, come è profondo il mare. Certo chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche, il pensiero è come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare. Così stanno bruciando il mare, così stanno uccidendo il mare, così stanno umiliando il mare, così stanno piegando il mare».
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE.
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Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE. Tracce per una svolta antropologica ... *
NELLA DIMENSIONE CHE ESIGE ERACLITO
di Federica Montevecchi (su: Alias, 17/07/2010)
Martin Heidegger volle che la sentenza di Eraclito, «il fulmine governa ogni cosa», fosse incisa sull’architrave della porta della sua baita a Todnauberg nella Selva Nera. Le stesse parole, che costituiscono il frammento 64 dell’edizione Diels-Kranz, aprono il celebre colloquio seminariale, su Eraclito appunto, che si svolse nel semestre invernale 1966/67 all’Università di Friburgo fra Martin Heidegger e Eugen Fink. Il testo del seminario fu pubblicato in italiano nel 1992 da Coliseum, nella versione di Mauro Nobile introdotta da Mario Ruggenini, con il titolo Dialogo intorno a Eraclito. A circa venti anni di distanza da questa prima edizione, esaurita da qualche tempo, il colloquio fra Heidegger e Fink è ripresentato - corredato dalle annotazioni di Heidegger - dall’editore Laterza, nella collana «I Libri dell’Ascolto» diretta da Vittorio Tamaro, con il titolo Eraclito (a cura di Adriano Ardovino, pp. 234, € 20,00).
Il seminario, suggerito da Fink, che voleva mettere alla prova la propria interpretazione di Eraclito, fu l’ultima attività didattica di Heidegger e avrebbe dovuto includere, stando al progetto iniziale, anche una lettura dei frammenti di Parmenide. Nei fatti, invece, non fu completata neppure la lettura dei frammenti di Eraclito, tanto che Fink, nel 1970, presentando l’edizione del seminario, affermerà che il testo dato alle stampe è «un torso, un frammento su frammenti».
Le tredici sessioni in cui si articolò la discussione, alla quale parteciparono tredici persone fra studenti e invitati, vennero trascritte volta per volta, senza l’ausilio di alcun registratore, letteralmente e integralmente.
Il risultato non è tanto un confronto fra due diversi interpreti, ma, dice Heidegger, un ‘parlare con Eraclito’ e, attraverso di lui, con un’intera tradizione che, già dall’antichità, non si è sottratta alla provocazione rappresentata dai Greci. Esempi degli interrogativi di fondo dell’esistenza e dell’enigma riguardante la nascita della ragione, i pensatori greci più antichi - Presocratici o sapienti, a seconda che si voglia adottare le espressioni rispettivamente di Hermann Diels o di Giorgio Colli - sono specchi: quanto più ci avviciniamo a loro tanto più vediamo il nostro riflesso. A seconda della ‘storia razionale’ nella quale li integriamo - e questo accade già a partire da Aristotele - essi assumeranno significati molteplici, restando comunque sempre altro da ciò che di loro possiamo dire: essi costituiscono il momento inaugurale del pensiero della civiltà occidentale, nel quale la ‘verità’ della nostra origine diventa inscindibile dall’origine della nostra ‘verità’, l’ambito del conoscere non facilmente distinguibile dalla sfera del riconoscere, cioè della proiezione retrospettiva.
Tutto ciò vale particolarmente per Eraclito le cui parole, stando a Diogene Laerzio, avrebbero fatto dire a Socrate che ci sarebbe voluto un tuffatore delio per poterle riportare alla luce dalle oscure profondità. E su queste parole si sono cimentati, nei secoli, in molti: basti pensare, fra gli altri, a Platone - che nel Sofista annovera Eraclito fra quelle Muse ioniche capaci di mostrare la connessione fra l’uno e i molti -, a Hegel - che nelle Lezioni sulla storia della filosofia afferma: «non c’è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica» -, a Hölderlin - che, attraverso Eraclito, legge l’inscindibilità di unione e separazione -, e ancora, a Nietzsche - che nei frammenti eraclitei vede l’espressione della visione tragica del mondo, del conflitto sotteso a ogni creazione e allo stesso logos.
Va da sé che pure Heidegger e Fink, in sintonia con la tradizione filosofica tedesca, che affronta il pensiero più antico proiettando nella Grecia anzitutto se stessa, la propria specificità filosofica, accolgono la sfida di Eraclito ben prima di questo seminario. L’eco eraclitea, infatti, è costante nell’opera di entrambi e si mostra, ad esempio, nell’idea heideggeriana dell’intermittenza di qualcosa che apparendo come mondo al tempo stesso si nasconde come senso. Se in questa idea è implicita la nota sentenza eraclitea «la natura ama nascondersi», nella metafora di Fink del gioco che gioca con l’uomo e il mondo, ossia con coloro che lo stanno giocando, sono evidentemente sottintese le parole di Eraclito «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo».
Queste rispettive posizioni filosofiche si riflettono naturalmente nel seminario, dove Heidegger e Fink, tuttavia, cercano di assumere ruoli ben definiti. È lo stesso Fink a caratterizzare il ruolo di Heidegger nei termini di una ‘direzione spirituale’, che si declina in interventi brevi, chiarificatori, interrogativi, ma anche ammonitori rispetto a tutto ciò che potrebbe limitare la possibilità di giungere «nella dimensione che esige Eraclito», come ad esempio approcci di tipo esclusivamente filologico e storiografico, oppure l’uso di termini ritenuti troppo risonanti, quali diradamento e tempo, se non ormai inadeguati, come il temine essere. Fink, invece, assume il compito di presentare una provvisoria interpretazione dei frammenti eraclitei che garantisca una base di discussione e possa essere idonea a collocare i partecipanti al seminario «entro una certa comunione nel linguaggio interrogante». E tuttavia il tentativo di recuperare Eraclito è destinato a fare i conti con una distanza storica e ontologica abissale, come mostrano le frequenti domande di Heidegger - destinate a contenere, nei partecipanti, le cristallizzazioni concettuali, che sono da ricondursi, come viene ricordato, alla filosofia successiva di Aristotele -, oppure l’affermazione che nel seminario si sta presentando un’interpretazione non più metafisica di testi non ancora metafisici: fra il ‘non più’ e il ‘non ancora’ è tuttavia possibile sentire l’eco dell’esperienza di pensiero di Eraclito, che obbliga continuamente a riflettere sui criteri attraverso i quali si è articolato il pensiero occidentale, quindi a considerare la possibilità di pensare in altro modo.
L’andamento del seminario è scandito soprattutto dal tema dell’unità fra opposti, che ricorre in tutti i frammenti eraclitei e rimanda al problema fondamentale dell’appartenenza (Verhältnis) di uno e molti-tutto, en e panta. I numerosi esempi di fenomeni descritti da Eraclito - come pace e guerra, fame e sazietà, giovani e vecchi, mortali e immortali - mostrano a un tempo l’opposizione fra diversi e la loro unità, e cioè il fatto che lo stesso sia anche altro, i molti-tutto siano anche uno: «la difficoltà - dice Heidegger - consiste nello scorgere in che modo lo en mostri all’improvviso un altro carattere», nel capire come Eraclito possa vedere, nell’esperienza comune a tutti basata sull’opposizione e sulla distinzione, sempre l’uno e un unico logos.
Detto altrimenti, la convivenza degli opposti, che caratterizza l’universo greco più antico già a partire dalle prime cosmologie fino ad arrivare all’opposizione delle proposizioni nell’argomentazione dialettica, rilancia costantemente l’enigma della polarità o, stando al seminario, l’enigma di come il determinato sia ad un tempo «l’unità che riunisce».
La risposta di Heidegger e Fink si concentra sul legame fra l’uno e i molti-tutto, legame che viene inteso appunto come Verhältnis, giustamente tradotto con appartenenza, intendendo con tale termine non una relazione di possesso fra due oggetti né un rapporto di reciprocità, ma il trattenersi dell’uno e dei molti-tutto nella «stabilità dell’apertura», la «tenuta (Verhalt) dell’essere e del mondo». È la stessa cosa infatti che, nella separazione da se stessa, si tiene unita e si custodisce perché - viene precisato nella sessione undicesima - appartenere e tenere «significano in primo luogo il custodire, tenere in serbo e accordare nel senso più ampio»: questo è del resto il logos nel suo significato proprio di raccolta e di presenza di ciò che è stato raccolto. E evidente che tutto ciò permette di aprire lo spazio a un pensare che contrasti la concezione ingenua secondo la quale l’uno viene pensato come un contenitore in cui sono racchiusi i molti-tutto e soprattutto l’idea, che diventerà una delle matrici del pensiero occidentale, secondo la quale il molteplice è un dispiegarsi e un decadere del semplice.
Nell’ultima sessione del seminario Heidegger chiede a Fink qual era il senso dell’affermazione con cui aveva aperto il loro colloquio comune con Eraclito, e cioè che i Greci «significano per noi un’immane provocazione». Fink risponde che si tratta della provocazione «a capovolgere, una buona volta, l’orientamento del nostro pensiero», a disfarsi di tutto l’apparato concettuale costruito sul bisogno, che Hegel ha incarnato in maniera paradigmatica, del pacificante appagamento di ciò che è pensato e conciliato per tornare a pensare, vale a dire a sentire, secondo Heidegger, «l’assillo dell’impensato nel pensato» e, come esorta Periandro di Corinto, ad avere cura del tutto in quanto tutto.
* SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE?!: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL "POLEMOS" DI ERACLITO, "LA SANTA VIOLENZA" DEL CARDINALE RAVASI, E IL "PADRE NOSTRO" ("CHARITAS") DEL MESSAGGIO EVANGELICO....*
Il nuovo libro di Ravasi.
Quando il sacro fa i conti con la violenza
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, sembra essere il basso continuo della storia umana: la Bibbia non ignora questa realtà, fino al radicale rovesciamento operato da Cristo
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, giovedì 17 ottobre 2019)
Sembra una ripresa cinematografica; è, invece, la descrizione di un poeta ebreo, il profeta Nahum, che nel 612 a.C. sta “sceneggiando” quasi in presa diretta la caduta di Ninive, la detestata capitale della superpotenza orientale, l’Assiria, sotto l’irruzione congiunta di Ciassare, re dei Medi, e di Nabopolassar, re della dinastia neobabilonese. Ecco la scena affidata a una sequenza impressionistica di azioni militari, costruita sulla secchezza di un elenco: «Sibilo di frusta, fracasso di ruote, scalpitìo di cavalli, cigolìo di carri, cavalieri incalzanti, lampeggiare di spade, scintillare di lance, feriti in quantità, cumuli di morti, cadaveri senza fine, s’inciampa nei cadaveri». Le pagine dell’Antico Testamento sono spesso striate dal sangue delle battaglie e si affacciano su rovine e devastazioni causate da eventi bellici. Una lingua lessicalmente povera come l’ebraico classico (5.750 vocaboli in tutto) si mostra sorprendentemente ricca quando deve designare la violenza
Tanto per esemplificare, ecco la radice hms «fare violenza» (donde hamas «violenza»), o šddhrm «sterminare » (donde herem, la strage sacra), hrg «uccidere», rsh «assassinare», ‘nh «violentare, opprimere», hrs «distruggere », lhm «combattere » (donde milhamah «guerra»), nqm «vendicare», mhs «abbattere, fracassare», šht «mandare in rovina» e altri ancora.
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, che per altro sembrano essere il basso continuo della storia umana, come pessimisticamente dichiarava Eraclito nel suo frammento 53: «La guerra (pólemos) è madre di tutte le cose e di tutte la regina (basiléus). Gli uni rende dèi, gli altri uomini; gli uni fa schiavi, gli altri liberi».
Anche il Nuovo Testamento, che pure inalbera il vessillo dell’amore ed eredita l’aspirazione messianica biblica allo shalôm «pace», non ignora questa realtà aspra che costella le strade della vita dei popoli.
Lo stesso Gesù, ad esempio, ricorrerà a un modello di strategia militare applicandolo all’esistenza cristiana da vivere con intelligenza e sapienza: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per chiedere pace».
La scelta radicale per il Regno di Dio, vero Leitmotiv della predicazione di Cristo, sarà da lui espressa con una dichiarazione paradossale, anche se evidentemente metaforica per indicare la natura “esplosiva” del suo messaggio: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» [...].
È indubbio che, sia a livello biblico sia nella storia della cristianità, questo intreccio tra guerra e religione è paradossalmente forte. Per stare alla Bibbia, basti solo pensare alle stragi sante - il cosiddetto herem o «sterminio sacro» - che accompagnano la conquista della Terra pro- messa da parte del popolo ebraico, oppure alle centinaia di testi violenti presenti nelle Scritture e alla stessa simbologia bellica usata per rappresentare il «Dio degli eserciti» (che, però, era originariamente un rimando all’armata astrale del Creatore, anche se poi applicata alle battaglie di Israele col palladio dell’Arca santa) [...]. Ci sono alcuni elementi di natura ermeneutica che dovremo costantemente ribadire [...]. Innanzitutto è da sottolineare la qualità storica della Rivelazione ebraico-cristiana, che nella Bibbia si presenta non come un’astratta serie di tesi teologiche speculative ma appunto come una concreta «storia di salvezza». All’interno degli eventi umani, spesso segnati dal peccato, dall’ingiustizia, dalla violenza, dal male, passa la presenza e l’opera di Dio che progressivamente e pazientemente cerca di condurre l’umanità verso un livello più puro, giusto e pacifico di vita. Il vertice è proprio - tenendo conto dell’unità «canonica » (cioè nell’unico Canone cristiano) dei due Testamenti - nella proclamazione: «Beati gli operatori di pace», formulata secondo lo spirito della citata «pace» messianica anticotestamentaria. La stessa tradizione giudaica successiva con rabbì Meir di Gher dichiarerà che «Dio non ha creato nulla di più bello della pace» [...].
Gesù, poi, nella sua proposta procederà fino alla scelta radicale dell’amore per il nemico così da trasformare quasi l’hostis in hospes e da introdurre il principio della non-violenza: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano».
L’apostolo Paolo, in un passo della Lettera agli Efesini, ove elenca una completa attrezzatura militare (cinturone, corazza, calzature, scudo, frecce, elmo, spada), la trasfigura in una simbologia spirituale: «Attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace; afferrando lo scudo della fede col quale si possono spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno, prendendo l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio». Introduce, dunque, nel cuore dell’apparato militare, evocato già in chiave metaforica, il «vangelo della pace» come meta da raggiungere. Egli parla per due volte della panoplía, cioè dell’«armatura » di Dio che non è aggressiva contro gli altri ma solo contro il male diabolico: «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo [...]. Prendete l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Storia e attualità.
Il ritorno a casa dei Sefarditi, cinque secoli dopo
Si è chiuso il procedimento avviato da una legge del 2014 che ha consentito ai discendenti degli ebrei cacciati dalla Spagna alla fine del XV secolo di “riacquisire” la "perduta" cittadinanza iberica
di Paola Del Vecchio (Avvenire, sabato 12 ottobre 2019)
Il colombiano Andrés Villegas spera di trascorrere «una gradevole vecchiaia » in Spagna. E per questo non gli è costato spulciare nei registri ecclesiastici e perfino negli archivi dell’Inquisizione di Cartagena, che condannava chi praticava riti ebraici, per risalire ai suoi avi. In particolare al capitano Cristobál Gómez de Castro, che nacque nel 1595 e fu perseguitato per diffondere l’ebraismo.
Andrés Villegas è uno delle decine di migliaia di ebrei sefarditi che recupereranno la nazionalità spagnola persa oltre cinque secoli fa dai propri ascendenti, cacciati in massa per effetto dell’editto di conversione al cattolicesimo o di espulsione degli ebrei (Decreto di Alhambra), firmato il 31 marzo del 1492 dai Re Cattolici. È all’origine della diaspora che pose fine a 1.500 anni di presenza degli ebrei a Sefarad, il toponimo col quale la tradizione ebraica identificava la penisola iberica, per cui i discendenti sono identificati come ebrei sefarditi.
Molti si rifugiarono nell’adiacente Portogallo, in nord Africa, nei Balcani, in Turchia, ma anche in Sardegna e Sicilia, sotto il dominio spagnolo, e poi nelle Americhe. «Alcuni di loro, come avviene nei bazar di Istanbul, ancora conservano le chiavi delle case dalle quali furono cacciati», ricorda Ibrahim Lorenz, sefardita marocchino naturalizzato spagnolo.
Per riparare quella «ingiustizia storica», il governo di Madrid varò nel 2014 un disegno di legge per riconoscere la nazionalità - senza perdere quella d’origine - a tutti coloro in grado di dimostrare, con un certificato della Federazione delle comunità ebraiche in Spagna o dell’autorità rabbinica riconosciuta nel proprio Paese, la propria condizione di sefarditi per cognome, lingua, parentela e vincoli speciali con la cultura sefardita. La normativa, approvata all’unanimità dal Parlamento, puntava a «riparare un aggravio storico».
Il primo ottobre scorso, alla scadenza del termine previsto dalla normativa, sono state 149.822 le richieste pervenute al Ministero di giustizia e al Consiglio generale del notariato, delle quali oltre 72 mila nel solo ultimo mese, in gran parte provenienti dall’America Latina: circa 20 mila dal Messico, 15 mila dal Venezuela e 10 mila dalla Colombia. «I sefarditi non sono più ’spagnoli senza patria’», ha celebrato Isaac Querub, presidente della Federazione di comunità ebraiche, promotrice dell’iniziativa con l’allora ministro di Giustizia, Alberto Ruiz-Gallardon. «La Spagna ha chiuso una ferita storica con un atto di giustizia perdurante nella memoria», ha rilevato.
Un rush finale per quello che è stato un percorso ad ostacoli, «relativamente difficile », secondo il quotidiano israeliano "Haaretz". Con la proroga di un anno della dead line, sono stati infatti semplificati alcuni dei requisiti richiesti. Non solo per la difficoltà delle comunità ebraiche di evadere le numerosissime petizioni, ma anche per la necessità di sostenere esami all’Istituto Cervantes, per accreditare la conoscenza di lingua e cultura spagnola. Più di tutto, l’esigenza di doversi recare in Spagna per registrare in atto notarile l’origine sefardita ha rappresentato un ostacolo per i circa 2 milioni di sefarditi stimati inizialmente da Madrid come eredi degli almeno 200 mila deportati e dispersi nel XV secolo.
«Nello spirito della legge c’è una sorta di risarcimento storico, per compensare la sofferenza che i sefarditi hanno manifestato nei secoli nella propria letteratura, poesia e canzoni», spiega Santiago Palacios, dottore di Storia Medievale all’Università Autonoma di Madrid. «Ma - afferma - è puramente simbolico. Colpisce che non sia stato avviato lo stesso processo con i moreschi, che soffrirono le stesse persecuzioni, per la comunità musulmana oggi radicata in prevalenza nel Magreb».
Per alcuni, come Doreen Alhadeff, statunitense di 69 anni di Seattle, che ha ottenuto la nazionalità per sé e le due nipoti, è stato più facile. In casa ascoltava parlare ladino, lo spagnolo che dal Medioevo le comunità sefardite ancora conservano. «Sentivo che era stato tolto qualcosa di importante alla mia famiglia e volevo recuperarlo», ha scritto nelle sue motivazioni.
Per altri, come lo scrittore francese Pierre Assouline, è stato più difficile. «Ho amici francesi che hanno ottenuto il passaporto spagnolo in maniera più rapida, è deludente», spiega l’autore, che nel suo dossier ha incluso una lettera al re Felipe VI.
La misura di «riconciliazione» consente di avere un passaporto europeo che, per molti latinoamericani, è il principale obiettivo. Da qui la corsa finale.
Già nel 2007 il governo socialista di Zapatero lanciò un’iniziativa di ’riparazione’ nei confronti dei discendenti di spagnoli emigrati durante la Guerra civile (1936-39) e il franchismo, naturalizzando mezzo milione di latinoamericani che riuscirono a provare la loro discendenza dagli esiliati.
Polonia. Beati i genitori di Wojtyla? I vescovi chiedono di aprire la causa
Emilia Kaczorowska morì quando il futuro pontefice aveva solo 9 anni. Il padre di Wojtyla, anch’egli di nome Karol, morì invece nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale
di Redazione Catholica (Avvenire, venerdì 11 ottobre 2019)
Nel corso della 384ª plenaria dell’episcopato polacco (8-9 ottobre) i vescovi hanno discusso diversi aspetti delle celebrazioni del 100° anniversario della nascita di Karol Wojtyla che cadrà il 18 maggio 2020. L’arcidiocesi di Cracovia ha ottenuto così da parte della Conferenza episcopale, come riporta l’agenzia Sir, l’assenso a rivolgersi alla Santa Sede per il nulla osta all’istruzione a livello diocesano del processo di beatificazione dei genitori di Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla e Emilia Kaczorowska.
«Non c’è il minimo dubbio che la spiritualità del futuro santo pontefice si sia formata in famiglia e grazie alla fede dei suoi genitori», ha osservato il cardinale Stanislaw Dziwisz, già segretario particolare di Giovanni Paolo II. Il porporato si è detto convinto che «i genitori del Papa polacco possano diventare un valido esempio per le famiglie moderne» e ha ricordato che papa Francesco, durante la cerimonia di canonizzazione ha conferito a Wojtyla proprio il titolo di «Papa delle famiglie».
Emilia Kaczorowska morì quando il futuro pontefice aveva solo 9 anni. Il padre di Wojtyla, anch’egli di nome Karol, morì invece nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale.
L’episcopato polacco, nel corso della plenaria ha inoltre appoggiato l’idea che Giovanni Paolo II diventi patrono della riconciliazione tra polacchi e ucraini, necessaria in seguito ai terribili crimini commessi durante l’ultimo conflitto mondiale. La «teologia del dialogo, della riconciliazione e del perdono» promossa dal Papa polacco «in base ai valori del Vangelo» ha permesso ad entrambi i popoli “di compiere dei passi importanti sulla strada della reciproca comprensione”, concordano i vescovi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Chiesa ed Eucharistia. Il comandamento dell’amore e la norma personalistica ....
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger)!!!
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Sulla divinità di Gesù. il Vaticano corregge Scalfari
Nota della Sala Stampa vaticana: dal fondatore di Repubblica libera e personale interpretazione. La precisazione dopo le sconcertanti e irreali frasi attribuite al Papa sulla divinità di Gesù Cristo
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 9 ottobre 2019)
Qualcuno stamattina leggendo “La Repubblica” avrà fatto un balzo sulla sedia. Nel suo commento al Sinodo intitolato “Francesco e lo spirito dell’Amazzonia” il fondatore del quotidiano Eugenio Scalfari attribuisce infatti al Papa riflessioni e opinioni quanto meno sconcertanti.
In particolare Scalfari scrive: «Chi ha avuto, come a me è capitato più volte, la fortuna d’incontrarlo e di parlargli con la massima confidenza culturale, sa che papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato. Una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo».
E a conferma di quanto appena detto, il giornalista e filosofo, passa in rassegna, modificandola anche un po’, la Passione di Gesù, soffermandosi in particolare sul grido di Cristo in croce, tratto dal Vangelo di Marco che riprende il Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Un’invocazione che Scalfari riassume in “Signore mi hai abbandonato”. «Quando mi è capitato di discutere queste frasi - aggiunge Scalfari - papa Francesco mi disse: “Sono la prova provata che Gesù di Nazareth una volta diventato uomo, sia pure un uomo di eccezionali virtù, non era affatto un Dio”». Davvero, quella di Scalfari, un’interpretazione troppo libera e palesemente irreale, al punto da meritarsi una “correzione”.
Arrivata con una nota del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni: «Come già affermato in altre occasioni, le parole che il dottor Eugenio Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato, come appare del tutto evidente da quanto scritto oggi in merito alla divinità di Gesù Cristo».
Del resto per capire che le espressioni attribuite al Pontefice non potevano essere reali sarebbe bastato recuperare le parole del Papa, ripetute in più occasioni. Poteva essere sufficiente anche solo riprendere pochi passaggi dell’udienza generale del 18 dicembre 2013: «Dio ha voluto condividere la nostra condizione umana al punto da farsi una cosa sola con noi nella persona di Gesù, che è vero uomo e vero Dio. Ma c’è qualcosa di ancora più sorprendente. La presenza di Dio in mezzo all’umanità non si è attuata in un mondo ideale, idilliaco, ma in questo mondo reale, segnato da tante cose buone e cattive, segnato da divisioni, malvagità, povertà, prepotenze e guerre. Egli ha scelto di abitare la nostra storia così com’è, con tutto il peso dei suoi limiti e dei suoi drammi. Così facendo ha dimostrato in modo insuperabile la sua inclinazione misericordiosa e ricolma di amore verso le creature umane».
Concetti ribaditi a Caserta il 28 luglio 2014: «L’Apostolo Giovanni è chiaro: “Colui che dice che il Verbo non è venuto nella carne, non è da Dio! È dal diavolo”. Non è nostro, è nemico! Perché c’era la prima eresia - diciamo la parola fra di noi - ed è stata questa, che l’Apostolo condanna: che il Verbo non sia venuto nella carne. No! L’incarnazione del Verbo è alla base: è Gesù Cristo! Dio e uomo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, vero Dio e vero uomo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Cosa significa Gesù per me
di Mohandas Karamchand Gandhi *
Benché io abbia dedicato gran parte della mia vita allo studio della religione e alla discussione con i capi religiosi di tutte le fedi, riconosco molto bene di non poter non sembrare presuntuoso nel momento in cui mi accingo a scrivere di Gesù Cristo e a cercare di spiegare ciò che Lui significa per me. (...)
... Egli è stato sicuramente il più alto esempio di chi ha desiderato di dare tutto senza chiedere in cambio niente e senza interessarsi a quale sarebbe stato il credo che avrebbe professato il ricevente. Sono sicuro che se Lui in questo momento vivesse tra gli uomini, Egli benedirebbe le vite di molti di coloro che forse non hanno mai sentito il Suo nome, se soltanto le loro vite incarnassero le virtù delle quali Lui è stato l’esempio vivente sulla terra, la virtù di amare il prossimo come se stessi e del fare del bene e della carità tra i propri simili.
Allora, cosa può significare per me Gesù? Per me Egli è stato uno dei più grandi maestri che l’umanità abbia mai conosciuto.
Secondo i Suoi credenti Egli è stato l’Unigenito Figlio di Dio. Ma il fatto che io accetti o meno questa convinzione può far sì che Gesù abbia maggiore o minore influenza nella mia vita? È forse che tutta la grandezza dei Suoi insegnamenti e della Sua dottrina devono essermi vietati? Non posso crederci.
Per me ciò implica una nascita spirituale. In altre parole, la mia interpretazione è che nella vita di Gesù vi è la chiave della Sua vicinanza a Dio e che Egli espresse, come nessun altro ha saputo fare, lo spirito e la volontà di Dio. È in questo senso che io Lo vedo e Lo riconosco come Figlio di Dio.
(...)
E poiché la vita di Gesù ha quel senso e quella trascendenza ai quali io ho alluso, credo che Egli appartenga non soltanto al cristianesimo ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli, poco importa sotto quale bandiera, nome o dottrina essi possano lavorare o professare una fede o adorare un dio ereditato dai propri avi.[1]
*
[1] Mohandas Karamchand Gandhi, Cosa significa Gesù per me, «Modern Review», ottobre 1941. Pubblicato in Mohandas Karamchand Gandhi, La forza della verità. Scritti etici e politici, Edizioni Sonda, Torino 1991, vol. I, pp. 458-460 .
La terra brucia - intervista con Naomi Klein
di Alessia Rastelli (Corriere della Sera, "La Lettura" 15.09.2019)
Perché i prossimi undici anni saranno già determinanti?
«Non lo dico io ma un rapporto del 2018 del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu, l’Ipcc. Il 2030 è l’anno limite per tagliare la metà delle emissioni mondiali, poi si dovrà eliminarle del tutto entro il 2050. Solo così possiamo sperare di mantenere l’aumento del riscaldamento globale rispetto all’era pre-industriale sotto gli 1,5 °C. Abbiamo già riscaldato la Terra di un grado e questo ha portato l’Amazzonia al punto di non ritorno, ha provocato lo scioglimento dei ghiacci dell’Artico e la morte della Grande barriera corallina, un cimitero subacqueo. Il pianeta è al collasso. Non possiamo andare oltre».
Come spiega allora l’atteggiamento negazionista di alcuni leader come Donald Trump e Jair Bolsonaro?
«Penso che in realtà credano nella scienza. Ma che si sentano al sicuro: confidano che il denaro li tutelerà dal cambiamento climatico. Inoltre sono imbevuti di una visione del mondo nella quale potere e ricchezza, soprattutto maschili, controllano il pianeta e la maggior parte dei suoi abitanti. La battaglia per il pianeta richiede un enorme investimento nella sfera pubblica e il divieto per le aziende di fare ciò che vogliono, che si tratti delle società di combustibili fossili a Houston, in Texas, o degli allevatori di bestiame in Brasile. Gruppi ai quali, invece, i due presidenti hanno fatto promesse. Ecco perché licenziano gli studiosi e chiudono i dipartimenti dedicati alla crisi ambientale: la lotta per la Terra non può coesistere con la loro visione del mondo. Ancora più inquietante è vedere leader progressisti che predicano l’ambientalismo e agiscono al contrario».
A chi si riferisce?
«Emmanuel Macron in Francia e il premier canadese Justin Trudeau, ad esempio, hanno criticato Bolsonaro sull’Amazzonia ma ricoprono di sovvenzioni i giganti degli idrocarburi. Il problema è che la crisi climatica pone una profonda sfida al progetto economico neoliberista. Così come al culto del “centrismo”, incarnato da Trudeau e da molti leader europei ed esponenti democratici americani. “Siamo la via di mezzo tra gli estremismi, non facciamo nulla di troppo veloce e radicale”, rassicurano. Ma di fronte all’emergenza la risposta deve essere radicale. In linea, piuttosto, con il Green New Deal proposto negli Stati Uniti da Bernie Sanders, tra i candidati democratici alle primarie: investimenti per oltre 16 mila miliardi di dollari che servirebbero tra l’altro per le energie rinnovabili e per trasformare l’agricoltura, creando anche nuovi posti di lavoro».
In che cosa consiste esattamente il Green New Deal che lei stessa sostiene?
«La definizione s’ispira al New Deal di Franklin Delano Roosevelt, al suo imponente pacchetto di misure per uscire dalla crisi del 1929. Del Green New Deal esistono però diverse versioni, sia in Europa sia negli Stati Uniti, dove appunto i vari candidati democratici stanno elaborando le proprie. E già nel 2009 all’Onu la negoziatrice boliviana Angélica Navarro Llanos usò un altro paragone storico quando chiese “un Piano Marshall per la Terra”. L’idea sottesa a tutte queste iniziative è un programma mondiale che affronti l’emergenza climatica e la povertà allo stesso tempo, che cambi il sistema economico per combattere tutte le diseguaglianze, incluse quelle razziali e di genere. Le crisi planetarie, di tipo finanziario, umanitario, sociale, ecologico, sono interrelate e vanno affrontate in modo olistico. Il capitalismo moderno, fondato sul consumo illimitato, nacque d’altra parte già con gli africani strappati alla loro terra e con gli espropri alle popolazioni indigene: gli stessi individui divennero materia prima da sfruttare, così come le foreste, i fiumi, gli animali. Le fiamme dell’Amazzonia ci mostrano tuttavia che siamo interconnessi e vulnerabili. Un punto che uomini-bambini come Trump e Bolsonaro faticano forse ad accettare».
Quali provvedimenti andrebbero presi nel nuovo corso verde?
«Negli ultimi tre decenni, cioè da quando hanno iniziato a incontrarsi con gli scienziati per discutere la riduzione delle emissioni, i governi sono stati condizionati dal neoliberismo. Le rinnovabili sono finite nelle mani di società private, con l’effetto di aumentare i costi dell’energia per la classe operaia mentre scendevano le tasse per i milionari. Rispetto al passato, il Green New Deal dice chiaramente che la nostra economia non aiuta la maggioranza dei cittadini, che dobbiamo creare occupazione e migliorare i servizi e che dobbiamo farlo riducendo drasticamente le emissioni e creando milioni di posti di lavoro “verdi”. Potremmo ad esempio finanziare del tutto l’assistenza sanitaria e fare in modo che si realizzi con basse emissioni».
Per i critici è una linea utopistica, che comporterebbe una spesa pubblica insostenibile.
«Va ridefinito il concetto stesso di ciò che è possibile. Certo si tratta di una trasformazione difficile, ma è l’unica opportunità di abitare il futuro. E definirà anche il modo in cui lo abiteremo. Il clima, ad esempio, è - e diventerà sempre più - una delle cause della migrazione di massa, che a sua volta viene usata dalla destra xenofoba per aumentare i consensi. Dunque sì, siamo di fronte a una sfida difficile, ma l’alternativa è terrificante. Il neoliberismo ci ha abituato all’idea che il cambiamento collettivo non sia possibile, ci ha imprigionato nell’eredità di Margaret Thatcher. Ma la storia ci viene appunto in soccorso: la mobilitazione durante e dopo la Seconda guerra mondiale, quando cambiarono la produzione nelle fabbriche, la coltivazione del cibo, le politiche degli aiuti, così come l’esperienza del New Deal, testimoniano che si può cambiare, e in fretta».
Naomi Klein nel 2000 interpretò le aspirazioni del movimento no global. Ora condivide con «la Lettura» i temi del suo impegno, affidati al nuovo libro: una rivoluzione verde, un «Green New Deal» tanto ambizioso quanto ineludibile.
«Abbiamo bisogno di leader e l’Europa non ha saputo darceli. Trump e Bolsonaro sono come dei bambini, Macron e Trudeau si dicono ambientalisti ma fanno il contrario. Non bisogna lasciare soli i ragazzi, si deve scioperare ovunque. Utopia? No, va ridefinito quel che è possibile»
Se abbiamo undici anni per dimezzare le emissioni, quanto le presidenziali americane del 2020 saranno cruciali anche per il futuro del pianeta?
«Saranno decisive. Ecco perché mi sono trasferita per tre anni negli Stati Uniti. Resterò fino al 2020 perché voglio fare il possibile per non far vincere Trump. Sono figlia di americani, potrò votare».
Chi è il suo candidato?
«La prima scelta è Bernie Sanders perché il suo Green New Deal è appunto il più ambizioso. Prevede anche di aiutare i Paesi in via di sviluppo a convertirsi all’energia verde e a combattere il cambiamento climatico, il che è pure un modo per non costringere a migrare chi non lo vorrebbe. Il contrario di Trump, che ha tagliato milioni di dollari in fondi all’America Centrale, inclusi quelli ai contadini colpiti dalla siccità. Anche Elizabeth Warren ha un piano verde, in ogni caso chiunque vinca le primarie democratiche va sostenuto. Incluso Joe Biden, pure lui un neoliberista del quale non sono una fan, ma che aiuterei comunque, sperando che poi un forte movimento dal basso lo spinga al Green New Deal».
Lei ha fiducia nei movimenti dal basso. Possono davvero cambiare le cose?
«Devono trovare un’espressione politica. Negli Stati Uniti c’è una donna, la più giovane mai eletta al Congresso, Alexandria Ocasio-Cortez: nata nel 1989, l’anno scorso ha preso le idee dei giovani nelle strade e le ha trasformate in una proposta di legge per un Green New Deal. Oggi quelle idee sono entrate nella maggioranza dei programmi dei candidati alle primarie democratiche. Il cambiamento può avvenire in fretta se c’è una vera leadership. Ocasio-Cortez non può partecipare alle presidenziali, servono 35 anni, ma ha rifiutato di seguire la linea del partito e ha ridisegnato la mappa politica a una velocità incredibile. Il cambiamento, inoltre, avviene pure a livello locale: le città possano fare da modello».
Oggi l’emergenza ambientale riempie le piazze. Effetto Greta Thunberg?
«Il principale motivo è che il mondo è in fiamme. L’Italia ha ospitato alcune tra le proteste più partecipate. Il prossimo passo è non lasciare soli i ragazzi, scioperare in fabbrica, nei porti, nei municipi».
L’Europa può giocare un ruolo nella lotta per il pianeta?
«Abbiamo bisogno della leadership dell’Europa, deve fare da modello, ma finora non è accaduto. Il vostro ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, incarnava piuttosto quella che io chiamo “barbarie climatica”: le ideologie tossiche che si scatenano a seguito dei flussi migratori, dovuti come abbiamo detto anche al clima. Di fronte a questo, Salvini e altre forze di destra pensano solo al proprio Paese e lasciano morire i più deboli. È ciò che accade nel Mediterraneo e lo stesso Trump si è ispirato a Salvini. Non credo che questa politica rispecchi il sentire della maggioranza degli italiani. Il vostro Paese ha bisogno della sua rivoluzione politica, del suo Bernie Sanders».
Nel libro lei riconosce il coraggio di Papa Francesco nel «rinfacciare ai governi l’indifferenza ecologica» ma non nasconde una certa delusione.
«Ho grande rispetto per il Pontefice, in ambiti come clima e migranti è l’unico leader globale. Ma il Vaticano non ha dato finora una risposta forte sugli abusi sessuali. La profonda crisi del nostro tempo va affrontata su tutti fronti».
A quasi vent’anni da «No Logo» la destra si è appropriata della critica alla globalizzazione. Che cosa è successo?
«In Europa e Nord America quel movimento ha iniziato a crollare dopo l’11 settembre, mentre l’agenda contro cui protestavamo è andata avanti. Anzi, la crisi finanziaria ha compromesso ancora di più la sicurezza economica. Il punto non è che le nostre idee vengano usate dalla destra, ma che il centrosinistra non abbia saputo dare risposte. Si è creato un vuoto e lì si è inserita la destra».
La Rete è utile nella battaglia per la Terra?
«Perdiamo tempo prezioso a guardare i social, eccellenti per trovarsi rapidamente ma pessimi per capire che cosa fare dopo. I giovani che scioperano li usano ma poi fanno bene a vedersi faccia a faccia, a radunare i loro corpi. Meglio cercare un meccanismo democratico per prendere decisioni insieme che usare algoritmi programmati per scatenare invidia e rabbia. La crisi climatica smaschera ancora di più la crisi tecnologica».
Se tutto è in crisi, c’è speranza?
«Si conquista con il lavoro. Bisogna meritarsela. E tutti dobbiamo impegnarci, perché la posta in gioco è altissima».
Profezia è storia / 15.
L’infinito valore del «no»
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 settembre 2019)
Nella Bibbia, e nella grande letteratura, ogni tanto si incontrano pagine che hanno la stessa forza morale di una lapide. Le storie di Uria l’Ittita, della figlia di Iefte, di Agar, Dina, Rispa, Tamar, Giobbe, Abele, il servo di YHWH, il crocifisso. Spesso passiamo oltre in cerca di pagine più edificanti. Qualcuno invece prova misericordia. Si ferma, si raccoglie, ricorda, prega, piange, se ne prende cura. La storia di Nabot e della sua vigna è una di queste pagine-lapide, un monumento eretto a una vittima innocente. La vigna di Nabot è un esercizio etico, sociale, economico, spirituale che nei secoli ha generato sentimenti morali, leggi, costituzioni. Ci ha insegnato lo sdegno, ci ha fatto gridare "non è giusto!", "ah, scellerato, scellerata", "ci deve essere giustizia in questo mondo", "perché, Dio? dove sei?", "mai più". Ha migliorato l’uomo, ha migliorato Dio.
«Nabot di Izreèl possedeva una vigna vicino al palazzo di Acab. Acab disse a Nabot: "Cedimi la tua vigna; ne farò un orto, perché è confinante con la mia casa. Al suo posto ti darò una vigna migliore di quella, oppure, se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale". Nabot rispose ad Acab: "Mi guardi YHWH dal cederti l’eredità dei miei padri"» (1 Re 21,1-3). Acab vede la terra di Nabot, la desidera, vuole averla per farne un orto. Parla con Nabot e gli propone un contratto. Un contratto apparentemente equo e vantaggioso, al prezzo di mercato. Ma Nabot rifiuta, in nome di un valore diverso da quello economico: quella vigna è eredità dei padri.
La Legge di Mosè aveva una legislazione speciale per la terra: «Le terre non si potranno vendere per sempre perché la terra è mia» (Lv 25,23). La terra non era una merce come le altre. Se alienata per bisogni economici, poteva essere riscattata da un parente (goel), e nell’anno giubilare tornava al vecchio proprietario. La terra ereditata dalla famiglia, poi, era sottoposta a vincoli ancora maggiori. Nabot rispetta YHWH e la sua Legge e non accetta l’offerta. Inoltre, il re gli annuncia la volontà di cambiare la destinazione d’uso di quel terreno - vuole smantellare la vigna per piantare un orto.
Nella Bibbia la vigna non è un terreno qualsiasi. È simbolo profetico dell’alleanza (Isaia), è immagine del popolo di Israele. Per queste ragioni, e magari per altre, Nabot non accetta il denaro del re. Non vende, non cede, decide che quella terra non è sul mercato. Quel bene per lui è inalienabile, è un valore non negoziabile. Non vendendo dice che la sua dignità non è in vendita.
«Acab se ne andò a casa amareggiato e sdegnato per le parole dettegli da Nabot di Izreèl, che aveva affermato: "Non ti cederò l’eredità dei miei padri!". Si coricò sul letto, voltò la faccia da un lato e non mangiò niente» (21,4). Il re Acab di fronte a quel rifiuto ha una reazione a dir poco esagerata. Entra in uno stato depressivo che ricorda quello di Elia sotto la ginestra (cap.19).
La Bibbia conosce anche le depressioni sbagliate. La crisi di Elia, generata dalla persecuzione di Gezabele, fu causa di due incontri con l’angelo e poi del sussurro dell’Oreb. Questa depressione di Acab, originata da un rifiuto legittimo, produrrà solo menzogna e morte. Chi, per compito o per vocazione, si trova ad aiutare persone in crisi deve assolutamente distinguere la depressione di Elia da quella di Acab. Hanno una fenomenologia simile, ma la natura, le ragioni e le conseguenze sono completamente diverse.
Se al posto di sua moglie Acab avesse avuto un consigliere onesto, questo gli avrebbe dovuto suggerire di accettare la realtà del rifiuto, elaborare il suo (piccolo) lutto e trovare un altro luogo per il suo orto. Ma, purtroppo per lui (e per Nabot), accanto ad Acab abbiamo sua moglie Gezabele, la figura più torbida di questa storia: «Entrò da lui la moglie Gezabele e gli domandò: "Perché mai il tuo animo è tanto amareggiato e perché non vuoi mangiare?"». Acab le racconta del rifiuto di Nabot. Allora Gezabele gli disse: «Tu governi così su Israele? Àlzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Te la farò avere io la vigna di Nabot» (21,5-7).
In queste parole della regina rivediamo Erodiade, Lady Macbeth, e altre donne di potenti che, in quelle frequenti inversioni di ruoli,
prendono saldamente in mano la situazione e cercano rapidamente una soluzione per i mariti deboli. Una Abigail all’incontrario, un comandante Ioab al femminile.
Gezabele, forse per salvare l’onore del marito ("Tu governi così su Israele?"), in nome di una concezione di potere molto diverso da quello voluto da YHWH per i suoi re, trova la peggiore via d’uscita: «Ella scrisse lettere con il nome di Acab, le sigillò con il suo sigillo, quindi le spedì agli anziani e ai notabili della città. Nelle lettere scrisse: "Bandite un digiuno e fate sedere Nabot alla testa del popolo. Di fronte a lui fate sedere due uomini perversi, i quali l’accusino: ’Hai maledetto Dio e il re!’. Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia"» (21,8-10).
Con un solo atto vìola tre comandamenti della Legge - non uccidere, non desiderare la roba d’altri, non dare falsa testimonianza. Una immagine nitida della peggiore faccia del potere, mai scomparsa dalla terra.
In queste pagine rivive il peccato di Davide con Betsabea, quello dei due anziani che cercarono di violentare Susanna, e tutti i peccati e i delitti dei potenti che interpretano il loro potere come eliminazione della barriera che separa la loro parte dal tutto. Il vizio più profondo e tremendo del potere è pensare che non esista nessun limite invalicabile, che tutto diventi possibile.
La Bibbia ha combattuto questa idea di potere. La sua polemica verso la monarchia è una critica sistematica verso questa idea di potere come onnipotenza, che diventa immediatamente critica all’idolatria; perché ogni volta che un potente si comporta da onnipotente si auto-proclama dio. Ecco perché Gezabele è idolatra, uccide i profeti di YHWH, e uccide Nabot che aveva osato porre un limite al potere suo e del marito.
Nabot dicendo il suo no, aveva detto ad Acab: tu non sei Dio. È questa la lotta più vera tra ogni potere assoluto e Dio. I poteri assoluti combattono le religioni perché vogliono essere loro dio. E uccidono profeti e uomini giusti perché essi negano la loro divinità - Nabot nel NuovoTestamento rivive anche in Giovanni Battista, e l’uno e l’altro ci dicono che la vera ragione della loro morte non è di tipo etico né economico ma teologico, perché si oppongono all’onnipotenza dei potenti che quindi li uccidono.
In questo racconto colpisce, poi, la complicità degli "anziani e notabili" della città, silenti di fronte alla lettera della regina che esplicitamente contiene peccati e delitti - «Gli anziani e i notabili che abitavano nella sua città, fecero come aveva ordinato loro Gezabele» (21, 11). Quei notabili e quegli anziani, che fino all’attimo prima di ricevere la lettera e poi di mettere in pratica le sue raccomandazioni potevano essere persone per bene (e forse lo erano), nel momento in cui eseguono quell’ordine diventano immediatamente complici e colpevoli, al pari di Gezabele. Quante volte lo abbiamo visto e lo vediamo. La Bibbia, sottolineando questa complicità, ci dice che chi obbedisce agli ordini sbagliati dei potenti condivide la loro stessa colpa. Se è vero che chi aiuta i profeti ha la stessa ricompensa del profeta (come la vedova con Elia), è altrettanto vero che chi aiuta un potente assassino condivide la sua stessa colpa.
La Bibbia è coronata da molti, splendidi sì: quelli dei profeti, quello di Maria. Senza questi sì non avremmo avuto la storia della salvezza, non avremmo vocazioni, non avremmo alcune delle cose più sublimi sotto il sole. Nabot però ci ricorda il grande valore del no, e il disvalore dei sì sbagliati. Questo racconto è abbuiato da molti sì perversi, e illuminato da un solo no giusto. Quante persone salvano e salvano sé stesse perché hanno la forza di pronunciare un no. Potrebbero dire sì, la virtù della prudenza e il calcolo costi-benefici spingerebbero a vendere quel campo. Vedono chiaramente novantanove ragioni per vendere, e trovano quella sola ragione imprudente per dire no. Perché quella sola ragione è di un’altra qualità, vola in un’altra traiettoria, ha un altro timbro di voce nell’anima. Se fossero mancati i no dei molti Nabot della storia, se mancassero i no dei Nabot presenti ancora oggi in mezzo a noi, la terra sarebbe un luogo indegno dove vivere. I no dei Nabot sono il lievito e il sale della terra, senza di essi avremmo solo pane azzimo e sciapo.
Nabot fu ucciso: «Giunsero i due uomini perversi... Costoro accusarono Nabot davanti al popolo affermando: "Nabot ha maledetto Dio e il re". Lo condussero fuori della città e lo lapidarono ed egli morì» (21,12-13). Ecco la lapide.
Mentre Acab scende nella vigna per prenderne possesso, il profeta Elia riceve questa parola di Dio: «Su, scendi incontro ad Acab..., è nella vigna di Nabot. Poi parlerai a lui dicendo: "Così dice YHWH: Hai assassinato e ora usurpi!". Gli dirai anche: "Nel luogo ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue"» (21,18-19).
I profeti sono anche questo: in un mondo dove Nabot continua a essere ucciso, dove nessuno denuncia i delitti perché tutti complici e correi, loro - Elia o Natan - per vocazione gridano: "Hai assassinato". Compito meraviglioso. Ma Nabot è morto. La parola di Elia e la punizione che YHWH promette per Acab, sua moglie e la sua stirpe non riescono a far risorgere Nabot. Resta solo la sua lapide, che è lì per noi, e continua a chiamarci.
Geremia, in una delle sue pagine più belle, dà un grande messaggio profetico comprando un campo; qui Nabot ci dà un altro grande messaggio rifiutandosi di vendere un campo. Anche oggi ci sono contratti che salvano e ci sono non-contratti che salvano ancora di più.
il Il nostro capitalismo per troppo tempo è riuscito a comprare ogni vigna desiderata in cambio di denaro. Non ha trovato Nabot a dirgli di no. E il nostro pianeta sta cambiando destinazione. Ci salveremo se saremo capaci di fare del nostro tempo il tempo di Nabot. Se impareremo presto a dire di no ai nuovi potenti che oggi più che mai col loro denaro infinito si sentono onnipotenti. Perché tutta la terra è eredità: «Nabot rispose ad Acab: "Mi guardi YHWH dal cederti l’eredità dei miei padri"».
Perché il pianeta non vuole essere salvato
di Maurizio Corrado (Doppiozero, 11 settembre 2019)
Uno dei mantra consolatori più ricorrenti di questi anni è: Salviamo il pianeta. Tutto viene fatto per salvare il pianeta, dalla scelta del balsamo per capelli a non stirare i vestiti per non contribuire al riscaldamento globale, un’idea degna del miglior Woody Allen prima maniera. C’è un effetto gratificante notevole nell’idea di salvare un pianeta. Nell’immaginario comune, fino a pochi anni fa, solo i supereroi potevano riuscirci. Ora è in atto una massificazione del supereroe, chiunque, con piccoli gesti quotidiani, può salvare il pianeta e quindi essere supereroe. Basta chiedere un cappuccino alla soia e il gioco è fatto.
Chiunque voglia salvare il pianeta non ha che da andare in rete e avrà in una manciata di secondi intere serie di missioni alla portata di tutti: volare di meno, mangiare meno carne rossa, fare la raccolta differenziata, riciclare, andare in bicicletta, smettere di stirare i vestiti, chiudere il rubinetto mentre ti lavi i denti o ti insaponi sotto la doccia, fare meno la doccia e mai il bagno, bere l’acqua di rubinetto anziché quella in bottiglia, lasciare l’auto a casa due giorni a settimana, al supermercato scegliere il prodotto con il packaging più sostenibile, fare il compost in casa, cambiare le vecchie lampadine, acquistare elettrodomestici a risparmio energetico, fare una spesa intelligente, ridurre i rifiuti, ridurre la plastica, usare borse di tela, usare detersivi alla spina e prodotti sfusi, usare la carta riciclata, non stampare mail o altri documenti, tirare lo sciacquone il meno possibile, acquistare mobili di legno certificato, scegliere cosmetici e detersivi ecologici, stendere il bucato, usare pannolini riciclabili, mangiare frutta e verdura, prediligere gli spazzolini in legno riciclabile, non usare la Vespa.
C’è un problema, però. In questa ansia di salvataggio, che nasconde la vera ansia, il terrore dell’estinzione di massa che si profila in un orizzonte sempre più vicino, a nessuno è venuto in mente di chiedersi se al pianeta importi di essere salvato o se ne ha realmente bisogno, perché anche facendo un paio di banalissime considerazioni, sembrerebbe proprio che lui, che noi ormai consideriamo alla stregua di un moribondo, non sia minimamente interessato ai nostri sforzi e non abbia neanche lontanamente l’idea di essere in pericolo, nonostante fra i potenti della terra ultimamente vada molto la fiaba del piccolo fiammiferaio e si scatenino in Sudamerica, Africa e dalle parti del Polo, dove ormai il gas imprigionato nel permafrost non aspetta altro che liberarsi nell’atmosfera.
Quante volte durante la sua vita, oltre quattro miliardi di anni, il pianeta ha avuto temperature estreme, sconvolgimenti, condizioni proibitive per qualsiasi forma di vita o almeno vita concepibile da noi umani? Quante volte una forma di vita è arrivata, si è sviluppata e quindi estinta? I dinosauri sono stati specie dominante per 160 milioni di anni, in questa scala temporale i trecentomila anni di Homo Sapiens sono un tempo risibile ma sufficiente a gonfiarci d’orgoglio e continuare a considerarci in cima a una scala evolutiva che abbiamo ideato noi stessi. Neanche oggi, a un passo dalla fine, abbiamo perso la vecchia abitudine di vederci al centro dell’universo e ci divertiamo a dare alle ere geologiche il nostro nome, orgogliosi, anche se in negativo, di aver cambiato l’aspetto del luogo in cui siamo comparsi.
Hildegard von Bingen, mistica tedesca del XII secolo, nella sua opera Ordo Virtutum fa dire ad uno dei personaggi: “Dio ha creato il mondo e io voglio goderne, senza recargli offesa.” Qui sta un pensiero che oltrepassa in altezza e profondità ogni ecopalliativo consolatorio e coincide con la posizione di Ivan Illich che, in un libro-intervista del 1992 a cura di David Cayley, ci invita a “essere in grado di celebrare il presente e di celebrarlo usandone il meno possibile, perché è bello e non perché è utile a salvare il mondo.” In entrambi è totalmente assente l’idea di sacrificio e punizione che fa da substrato a tutte le azioni che vengono sistematicamente proposte per il presunto salvataggio del pianeta, anzi, vive l’idea opposta, Hildegard parla chiaramente della volontà di godere del mondo, Illich parla di celebrare, che è un’azione che ha a che fare con la meraviglia e la bellezza. Di bellezza parla anche James Hillman in contrapposizione al sacrificio.
Ovviamente tutti sanno che quello che stiamo distruggendo non è il pianeta, che continuerà serenamente la propria esistenza con o senza di noi, ma solo le condizioni che ci permettono di viverci sopra, ma è molto più soddisfacente pensarci come supereroi impegnati a salvare non noi, ma qualcun altro, ancor meglio se l’intero pianeta. Meglio dimenticare che siamo noi a non poter sopravvivere se la temperatura generale si alza di anche solo di tre gradi. Quello che per noi può rappresentare la fine, per altre forme di vita può essere l’inizio di una nuova fase di prosperità. In altre parole, al pianeta non importa nulla di trasformarsi ulteriormente, siamo solo noi a rischiare grosso.
Questa insistenza su Salviamo il pianeta è una forma di esorcismo, una maschera dell’oblio, una rimozione della paura, il rifiuto della consapevolezza di essere arrivati alla fine della prateria, oltre, ci aspetta la scogliera. Abbiamo un solo modo per proseguire: imparare a volare.
Messaggio.
Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo *
L’appuntamento il 20 maggio nell’Aula Paolo VI per una "società più accogliente". L’annuncio della Congregazione per l’educazione cattolica. Francesco: dialoghiamo su come costruire il futuro
Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio 2020 personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una "società più accogliente". La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: "Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà".
"L’iniziativa - spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota - è la risposta ad una richiesta. In occasione di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti, è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento".
In un messaggio il Pontefice rinnova "l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente". Ricorda ancora Bergoglio che "in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità".
Sul tema, bel sito, si cfr.:
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Festivaletteratura.
Maalouf: «Generosità è la parola del futuro»
Lo scrittore libanese: «I problemi del presente nascono da rivoluzioni fatte da conservatori, dal mondo arabo a Occidente, imponendo individualismo e legge del profitto»
di Alessandro Zaccuri - Inviato a Mantova (Avvenire, venerdì 6 settembre 2019)
Il video si trova in rete abbastanza facilmente, con tanto di sottotitoli in inglese e francese. Siamo verso la fine degli anni Cinquanta e il presidente egiziano Nasser sta riferendo di un incontro con il leader dei Fratelli Musulmani: «Sapete cosa mi ha chiesto? Che imponessi il velo in Egitto, e che ogni donna che usciva per strada si coprisse il capo!». Le risate del pubblico lasciano intendere quanto una pretesa del genere risulta inconcepibile al Cairo. «Ma era così anche a Baghdad e, in generale, in tutto il mondo arabo», spiega l’accademico di Francia Amin Maalouf, che ieri a Mantova ha dialogato con lo storico Donald Sassoon sulle origini della crisi europea. Sullo sfondo - oltre a Sintomi morbosi, il saggio che lo stesso Sassoon ha pubblicato di recente da Garzanti - c’è il nuovo libro di Maaoluf, che ancora una volta intreccia la propria vicenda personale con lo scenario politico dell’ultimo mezzo secolo.
Il naufragio delle civiltà (traduzione di Maria Lorusso, La nave di Teseo, pagine 346, euro 29,00) è il racconto di un intellettuale nato a Beirut nel 1949 in una famiglia di cristiani mediorientali e affermatosi come scrittore in lingua francese. Nel frattempo, anche grazie al suo lavoro di giornalista, si è trovato a essere testimone di molti eventi cruciali degli ultimi decenni. Una data, su tutte, ricorre con insistenza nel libro. «Il 1979 - ribadisce Maalouf - è stato l’anno del grande capovolgimento».
Come mai?
Basta ripercorrere la cronologia. In febbraio l’ayatollah Khomeini torna a Teheran, in maggio Margaret Thatcher diventa primo ministro del Regno Unito. Sono i due volti di uno stesso fenomeno, che si verifica simultaneamente in Oriente e in Occidente. All’improvviso non sono più i progressisti a fare la rivoluzione, ma i conservatori. Il trionfo dell’islamismo politico coincide con il predominio del libero mercato. E il sistema di potere sovietico inizia a dissolversi, anche se ancora non vuole prenderne atto. Pochi anni prima la sconfitta degli Usa in Vietnam aveva alimentato l’illusione di un’espansione del comunismo in tutti i continenti, dall’Africa all’Asia. Da questo eccesso di sicurezza l’errore, fatale, dell’impegno militare in Afghanistan.
Dove l’Urss trova il suo Vietnam.
Dove si trova faccia a faccia con i mujahidin, espressioni militari di quell’islamismo politico che è l’altra novità decisiva del periodo. In questo caso, però, il punto di svolta va situato ancora prima, per l’esattezza nel 1967. Dalla guerra con Israele, infatti, non esce sconfitto soltanto l’Egitto, ma l’intero disegno del nazionalismo arabo di cui Nasser si era fatto portatore. Con molte ambiguità, questo è indubbio. Ma è altrettanto fuori discussione che nel suo progetto non trovava posto alcuna forma di fondamentalismo. Lo ripeto: per tutti gli anni Sessanta e per buona parte dei Settanta l’islamismo come lo intendiamo oggi è praticato da gruppuscoli pressoché irri- levanti, dei quali l’opinione pubblica araba diffida perché li considera agenti provocatori delle potenze occidentali. Lo scenario cambia drasticamente in seguito ai fattori che già abbiamo elencato, ai quali andrà aggiunta la straordinaria disponibilità economica (i cosiddetti petrodollari) da parte di quei Paesi che, come l’Arabia Saudita, patrocinano un’interpretazione rigorista dell’islam.
Un’altra rivoluzione conservatrice, dunque?
Sì, un altro elemento che contribuisce a ridefinire in maniera impressionante gli scenari geopolitici. Non vanno trascurate, inoltre, l’elezione di Giovanni Paolo II nell’ottobre del 1978 né l’ascesa di Deng Xiaoping in Cina nel marzo dello stesso anno. In un periodo brevissimo si assiste a un continuo ridefinirsi di realtà che apparivano consolidate e immutabili. È l’avvio di un processo che porterà, tra l’altro, alla fine dei regimi comunisti in Europa orientale, con conseguenze anche in molte altre nazioni, Italia compresa.
Lei conosce bene la nostra politica interna.
La conoscevo una volta, quando nel vostro Paese c’era il più importante Partito comunista occidentale e uno scarto di pochi punti elettorali rispetto alla Democrazia Cristiana assumeva un significato di portata molto ampia. A un certo punto, però, non sono più riuscito a orientarmi nelle vicende italiane. Se devo essere sincero, faccio fatica anche a capire il Libano, ormai.
Posso chiederle il motivo?
Credo che sia a causa del rovesciamento di cui parlavamo prima. I cambiamenti non sono avvenuti solo al vertice, ma si sono riverberati nella mentalità delle persone comuni, che hanno perso interesse alla politica. La convinzione comune, oggi come oggi, è che per governare un Paese sia sufficiente mettere in atto una serie di soluzioni tecniche, improntate al più sfrenato pragmatismo. Basta con il welfare, basta con gli investimenti in ambito culturale. Quel che conta è il mercato e il mercato soltanto...
Non è una prospettiva incoraggiante.
Sono d’accordo, ma non è neppure una strada obbligata. Ogni volta che sono tentato dal pessimismo, cerco di ricordare a me stesso che viviamo in un’epoca straordinaria. Per la prima volta disponiamo di strumenti formidabili, che ci potrebbero permettere di risolvere tutti i nostri problemi. Manca soltanto un tassello.
Quale?
La consapevolezza che questi stessi problemi, per essere superati, vanno prima individuati con chiarezza. Avremmo bisogno di un guizzo di creatività, magari nella sua forma più semplice: la convocazione di gruppi di lavoro ristretti, incaricati di affrontare volta per volta una questione specifica. Non sto parlando di convegni imponenti, né di assise globali, ma di piccoli gruppi di persone autorevoli, determinate e, più che altro, generose.
Le sembra possibile, in quest’era dominata dall’individualismo?
Senz’altro è necessario ed è sicuramente possibile. La magnanimità non è affatto un valore del passato, come si continua ad affermare con leggerezza. I giovani, in particolare, sono capaci di una dedizione e di una gratuità addirittura commoventi. Tendiamo a dimenticare, per esempio, che l’avvento del digitale è avvenuto grazie al lavoro appassionato di molti che, almeno in una fase iniziale, si sono spesi senza attendersi alcuna retribuzione. Poi, come al solito, è prevalsa la logica limitata del profitto.
Limitata in che senso?
Nel senso che non riesce a comprendere che la generosità non è soltanto apprezzabile in sede morale, ma anche conveniente sul piano economico e sociale. Lo dimostra, tra l’altro, la politica di riconciliazione attuata da Nelson Mandela nel Sudafrica del dopo-apartheid: un gesto nobile, non si discute, ma anche un modo lungimirante, e vantaggioso per tutti, di governare la complessità.
Il libro.
Senza l’Amazzonia per il mondo c’è poca speranza di vita
Esce alla vigilia del Sinodo il ricco reportage di Capuzzi e Falasca lungo la “frontiera” del polmone del pianeta dalla cui cura dipende il futuro dell’umanità
di Claudio Hummes (Avvenire, giovedì 5 settembre 2019)
Oggi è evidente che la crisi socio-ambientale dell’Amazzonia riveste un’importanza planetaria. Qui è in gioco il futuro del pianeta e dell’umanità. Senza l’Amazzonia resterà poca o nessuna speranza di vita al mondo. In questi ultimi decenni il pianeta è entrato in una grave situazione di crisi climatica ed ecologica. È necessario pertanto un grande impegno per superare la crisi: agire è urgente.
Due importanti eventi hanno risvegliato la coscienza mondiale su questo grave problema: la pubblicazione dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco nel maggio 2015 e, pochi mesi più tardi, la realizzazione della Cop21 a Parigi, che si è conclusa con la pubblicazione di un articolato Accordo sul clima firmato da oltre 190 paesi e che ha indicato le azioni da intraprendere per superare gradualmente la crisi, entro questo ventunesimo secolo.
I due documenti, di portata storica e scientificamente irrefutabili, rendono evidente quanto la nostra madre Terra non sia più in grado di sopportare simili distruzioni e l’intervento predatorio da parte di un’attività umana irresponsabile. La causa profonda della crisi è strettamente collegata con il modello dominante di sviluppo adottato che la Laudato si’ indica con l’espressione di «globalizzazione del paradigma tecnocratico». Un modello che induce a considerare il pianeta alla stregua di una merce. E come tale esso può essere sfruttato, degradato e depredato senza scrupoli per accumulare denaro (...).
Questo spirito predatorio insaziabile e prepotente ha ormai già annientato una parte importante dell’enorme ricchezza amazzonica e minaccia ciò che ancora è riuscito a sopravvivere. Non soltanto l’ambiente: tra i sopravvissuti minacciati di estinzione ci sono gli stessi popoli originari che ancora vivono in essa. Si tratta dunque ancora di un neocolonialismo feroce che invade e distrugge questo particolare patrimonio di biodiversità espellendo e massacrando interi popoli.
Nella Laudato si’ papa Francesco chiama la Terra «la nostra casa comune», della quale dobbiamo avere molta cura. L’ecologia integrale è una realtà meravigliosamente nuova che il Papa ci ha messo davanti e che ci interpella. Si tratta di un modo innovativo di intendere la relazione profonda che esiste tra tutte le creature del pianeta. C’è una canzone brasiliana che dice: Tudo está interligado, como se fóssemos um, tudo está interligado nesta casa comum («Tutto è interconnesso, come fossimo una cosa sola, tutto è interconnesso in questa casa comune»).
Perché tra noi e la natura non esiste separazione. Tutto è interconnesso. Dio stesso, per l’incarnazione del suo Figlio, è in relazione, definitivamente, con la nostra casa comune. Il grido della natura e il grido degli ultimi sono perciò il medesimo unico grido. Non esistono due crisi separate: una sociale e una ambientale, c’è una sola, unica e complessa crisi socio-ambientale. Di conseguenza non si può separare la cura dei poveri dalla cura della casa comune. Le soluzioni richiedono un approccio integrale per contrastare la povertà, per restituire dignità agli esclusi e, simultaneamente, prendersi cura della natura (...).
Il tipping point dell’Amazzonia, il punto di non ritorno fissato dagli scienziati superato il quale la sua distruzione sarà irreversibile, è il 40 per cento della deforestazione. Siamo già quasi al 20 per cento. Nel contesto della crisi socio-ambientale mondiale, il Papa ha citato più volte, in modo esplicito, l’Amazzonia come regione cruciale, perché è determinante per il processo complessivo. Ha ricordato che l’Amazzonia è polmone del mondo e dunque chiesto la massima attenzione alla sua biodiversità per la vita. La vita della foresta, delle acque, dei suoi abitanti e la missione della chiesa in questa immensa regione: ecco da dove è nata la convocazione del sinodo per l’Amazzonia.
La Laudato si’ mi ha cambiato molto l’orizzonte delle cose. Mi aperto gli occhi a una visione nuova. Anche sulle responsabilità della Chiesa per la cura della casa comune, per la salvaguardia di tutta la creazione a partire dalla fede. La chiesa ha il dovere di occuparsi dell’ambiente, come una madre il suo bambino (...).
Papa Francesco ha denunciato ogni forma di neocolonialismo e ha esortato la Chiesa a non viverne lo spirito e la pratica nella sua missione evangelizzatrice. Quello del Papa è un richiamo a non fare della Chiesa in Amazzonia una colonizzatrice, a non proporsi di colonizzare i popoli indigeni riguardo alla loro fede, alla loro spiritualità e alla loro esperienza di Dio. La Chiesa in ogni regione della terra deve inculturarsi nelle culture locali. Come ha detto il Papa: «Anche Cristo si è incarnato in una cultura, l’ebraismo, e, a partire da esso, Egli offrì sé stesso come novità a tutti i popoli». Nella storia della Chiesa, il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale. I valori e le forme positivi che ogni cultura propone arricchiscono la maniera in cui il Vangelo è annunciato, compreso e vissuto. Una cultura sola non è capace di mostrarci tutta la ricchezza di Cristo e del suo messaggio.
Dopo 400 anni di evangelizzazione, non siamo riusciti a far nascere qui una Chiesa inculturata. Finora la Chiesa ha difeso i diritti umani degli indigeni, ma noi dobbiamo fare un passo avanti, dobbiamo andare verso una chiesa indigena: aiutare cioè la nascita di una Chiesa che esprima pienamente la fede nella sua cultura, nella sua propria identità (...) .
I popoli indigeni sono e devono essere interlocutori indispensabili. Essi conoscono l’Amazzonia meglio di chiunque altro. Hanno vissuto nella regione per millenni. La loro visione del mondo e la loro concezione religiosa si sono formate a partire dalla propria esistenza nella foresta amazzonica, caratterizzata dall’immensità di acque, dai fiumi incredibilmente grandi, dai mille laghi, ruscelli e igarapé, piccoli corsi d’acqua. Da sempre vivono immersi in una biodiversità incalcolabile e affascinante. Sono i sapienti guardiani e custodi di questo immenso ecosistema privilegiato. La loro saggezza non può andare perduta, né la loro cultura, né le loro molte lingue, la loro spiritualità, la loro storia, la loro identità.
Questi popoli sono stati perseguitati, cacciati (sia nel senso di essere allontanati, sia nell’atroce senso di essere considerati alla stregua di selvaggina da braccare e cacciare), ridotti in schiavitù o decimati fin dai primi anni dall’arrivo dei coloni europei in queste terre di Dio. Numerose etnie sono state totalmente sterminate. Una piccolissima percentuale è sopravvissuta e continua a lottare per riuscire a esistere. Essi sono ancora aggrediti, maltrattati, espulsi dalle loro terre, disprezzati, umiliati, sfruttati e molti uccisi. A causa della persecuzione subita e che subiscono già da cinque secoli, alcuni gruppi di indigeni si sono volontariamente isolati, nascondendosi nelle foreste (...).
La storia della colonizzazione mostra con chiarezza quante violenze inaudite sono state commesse contro i popoli indigeni, quante ingiustizie, quanti stermini. Tutte queste tragiche realtà rappresentano un immenso debito contratto dalla società moderna nei confronti dei popoli originari, sottomessi e colonizzati. E fino a quando non saranno loro restituite le condizioni reali di essere soggetti della propria storia, questo debito non sarà estinto (...).
Oggi l’industria, l’agricoltura e molte altre forme di produzione dicono sempre più spesso che la loro attività è «sostenibile». Ma che cosa significa davvero «essere sostenibile»? Significa che tutto quanto estraiamo dal suolo o restituiamo al suolo come residuo non deve impedire alla terra di rigenerarsi e di restare fertile. Se gli interessi economici e il paradigma tecnocratico avversano qualsiasi tentativo di cambiamento e sono pronti a imporsi con la forza, violando i diritti fondamentali delle popolazioni nel territorio e le norme per la sostenibilità e la tutela dell’Amazzonia, dobbiamo sapere da che parte stare.
Il Sinodo per l’Amazzonia vuole diventare un faro e vuole aprire nuovi cammini per tutta la Chiesa della regione, sia nelle città, sia nella foresta, sia per la popolazione urbana, per i popoli indigeni, i ribeirinhos, i contadini, i seringueiros e altri che vivono nell’interno della regione, dispersi e fuori da agglomerati urbani, con un obiettivo principale, definito: la difesa e l’evangelizzazione incarnata nella cultura dei popoli indigeni in una prospettiva di ecologia integrale. Perché noi non dobbiamo e non possiamo arrenderci.
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI... *
Dopo il discorso di Conte.
«Nuovo umanesimo» in politica: è tempo di dirlo e di farlo
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un nuovo umanesimo. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». Questa frase, pronunziata giovedì al Quirinale da Giuseppe Conte nel discorso con cui ha accettato di verificare la possibilità di formare un nuovo esecutivo, è stata ripresa dai media in modo spesso superficiale e talvolta in maniera irridente, in alcuni casi come esclusivo supporto alla cultura dell’accoglienza, soprattutto verso i migranti, e tuttavia, ha bisogno di essere ulteriormente pensata e approfondita.
Non bisogna dimenticare che la Chiesa italiana, nel suo V convegno nazionale, celebrato a Firenze nel 2015, è stata chiamata a riflettere sul tema del ’nuovo umanesimo’ nel suo radicamento cristologico. Il titolo di quell’evento recitava ’In Cristo il nuovo umanesimo’. E papa Francesco nella riflessione che ha proposto ai vescovi italiani nell’Assemblea generale del maggio scorso ha richiamato, in particolare con riferimento alla sinodalità, il discorso che aveva pronunziato in quell’occasione.
Nell’arduo tentativo di declinare teologicamente il sintagma ’nuovo umanesimo’, nella mia relazione a Firenze, io stesso avevo richiamato la categoria fondamentale, decisamente biblica, dell’alleanza come cifra di un autentico umanesimo radicato nella fede.
Oggi mi sembra proprio questo il contributo decisivo che i cattolici italiani possono offrire al Paese in questo frangente, ma non solo. E si tratta di un orizzonte culturale, piuttosto che di un’indicazione programmatica per l’azione di un Governo (come giustamente ha rilevato Conte).
Richiamando la Costituzione, si è fatto riferimento al ’primato della persona’, come radice antropologica di ogni azione sociale, politica, culturale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere - e qui il rammarico per averlo troppo spesso tralasciato e dimenticato -, la nozione di ’persona’, nella sua pregnanza ontologica, è stata consegnata (o, meglio, donata) all’Occidente dalle vicende delle dispute cristologiche e trinitarie dei primi secoli, messe in atto in ambito cristiano. Si è pensato l’umano a partire dall’identità di Cristo e dal mistero di Dio.
Per la cultura pagana la persona era semplicemente la ’maschera’ (prosopon), ovvero rappresentava il ruolo, che in ambito teatrale veniva assunto e interpretato dall’attore. Oltre la funzione pubblica, il cristianesimo, invita a considerare l’uomo nel suo rapporto con l’essere, piuttosto che col fare o col rappresentarsi. La trasposizione in ambito politico del concetto di persona passa attraverso la sua valenza giuridica.
Come Antonio Rosmini aveva efficacemente dichiarato della sua ’Filosofia del diritto’, «la persona ha nella sua stessa natura tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto». Questa preziosa indicazione consente il superamento sia di un crudo giusnaturalismo, sia del contrattualismo, imperante soprattutto nella concezione hobbesiana e rousseauniana dello Stato.
Ed è su tale base ’antropologica’ che si innesta la categoria dell’alleanza come modalità propria del rapporto fra persone e fra gruppi di persone.
In questa prospettiva vanno letti gli autorevoli inviti - in particolare quello del presidente della Cei Gualtiero Bassetti - a fondare un’autentica prospettiva politica non su dei semplici contratti, spesso frutto di miopi compromessi, che prima o poi esplodono, determinando la catastrofe del rapporto, ma su una visione programmatica, basata appunto su vere e proprie alleanze.
Non possiamo non ricordare che la prospettiva rosminana si rifà alla definizione di Giovanni Duns Scoto, che a sua volta radicalizza la visione di Riccardo di San Vittore (per il quale la persona è intellectualis naturae incommunicabilis existentia) fino a definirla ultima solitudo. Il Roveretano infatti afferma che la persona è una sostanza spirituale dotata di un principio incomunicabile. Così possiamo cogliere la caratteristica fondamentale della persona, ossia la sua unicità.
Sonny, il protagonista artificiale del famoso film Io robot, allorché si scopre ’quasi umano’ e ne prende coscienza, afferma con stupore: «Io sono unico». La macchina si produce, la persona si genera. Questa unicità rende preziosa ogni persona e determina un’etica della sua salvaguardia a qualsiasi classe, cultura, religione, regione, cultura appartenga.
Ma, oltre che unicità, la persona dice anche ulteriorità. Un aforisma che ci giunge dall’antica sapienza (Seneca, Naturales quaestiones) recita: «Oh quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit», che cosa misera è l’umanità se non si sa elevare oltre l’umano... In questa breve espressione si sintetizza in maniera mirabile l’ulteriorità della condizione umana, espressa peraltro col verbo (surrexerit) che fa riferimento alla risurrezione. Quell’«essere della lontananza » che è l’uomo, infatti, proprio a partire dalla sua distanza originaria e dal suo oltrepassamento realizza la più piena prossimità alle cose (Martin Heidegger). E da questo senso della ’trascendenza’ dell’umano il pensiero credente non è certo assente, anzi lo afferma, per esempio in un famoso frammento di Blaise Pascal, che viene a stemperare il facile ottimismo di un progresso ideologicamente mitizzato - allorché afferma che