Con Freud, probabilmente, nessuno (né del ‘mondo’ psicoanalitico, né tantomeno del ‘mondo’ filosofico) ha ‘dialogato’ con più libertà di giudizio e onestà intellettuale di Elvio Fachinelli (1928-1989). E, come si sa, “essere giusti con Freud” non è affatto facile!
Fin dall’inizio, egli ha colto con lucidità e precisione il cuore pulsante della “rivoluzione psicoanalitica” e, consapevole di tutta la sua portata epocale, fino alla fine ha fatto di tutto (pur tra totali incomprensioni) per assicurarne la vita.
Grandezza e limiti di Freud: “Su Freud” (a c. di Lamberto Boni, Adelphi, Milano 2012, e. 12, pp. 115) è un’ottima occasione per riconsiderare il percorso di Elvio Fachinelli e rendersi conto del suo lavoro (dal 1966 al 1989) per portare la psicoanalisi fuori dalla claudicanza e dalla cecità dell’orizzonte edipico.
Nel 1966, semplicemente, Fachinelli è già Fachinelli! Per dirla in breve, nella sua lettura di Freud (questo è il titolo del primo saggio, così articolato: Un Conquistador; L’archeologia del banale; Un modello vittoriano; Dickens, l’infanzia; Il frammento goethiano; Un giuramento materialista; Come lo spirito curerà se stesso; Resistenza, inconscio, sesso; L’autoanalisi; Edipo e suo padre; Mosè è un Egizio; Il mito e la civiltà), egli non solo si rende del fatto che “il conflitto di ambivalenza sull’esser ebreo [e povero, fls] che esisteva nel figlio di Jakob” (p. 16), ma anche di come e quanto il nodo edipico non risolto pesi su “i significati nuovi che emergono dal suo lavoro e ai quali non sa dare una definizione precisa” e come tutto, alla fine, possa finire nel vicolo cieco della tendenza alla distruzione, al “ritorno all’inorganico”, tra le braccia del cosiddetto istinto di morte: “La rivelazione di questa tendenza (...) avviene, in Al di là del principio di piacere, del 1920, attraverso il ritrovamento del mito di Eros e di Thanatos in lotta continua e incerta tra loro” (p. 60).
Fachinelli è ben consapevole che “l’ambiguità del mito” non risolve affatto il problema, ma come e con Freud non dispera, e con un colpo d’ala così ‘chiude’ il discorso su “Freud” e così comincia il suo cammino: “Un’indicazione ben tenue e fragile, disarmata; come se fra tante corazze e armature di ferro, egli ci desse un semplice filo da seguire; ma un filo ricorda Platone, che è duttile quanto il ferro è rigido, perché è un filo d’oro” (pp. 60-61).
Il cammino sarà lungo, ma il linguaggio già annuncia la consapevolezza di “Sulla Spiaggia” (cfr. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 13-25). Dal labirinto si può uscire!
Chi pensa (e sono in molti) che il “volo a grande altezza” di Freud, che fece dire a Breuer di guardare “a lui come la gallina il falco” (p. 41), sia in rapporto di opposizione con l’atterraggio di Fachinelli “sulla spiaggia”, credo che sia come uno scienziato aristotelico-tolemaico che viva dopo Copernico e dopo Galilei come dopo Newton, Kant e Einstein, e continui a misurare sul suo “letto di Procuste” le acquisizioni del lavoro di ricerca sia di Freud sia di Fachinelli! Non ha ancora e alcuna consapevolezza, per dirlo con le stesse parole di Fachinelli (1986), del fatto che “ciò che è radicalmente nuovo e diverso nell’esperienza analitica - e che per certi versi è anche arcaico -” è “un modo di conversazione conoscitiva che è probabilmente la più significativa innovazione introdotta nel discorso occidentale dopo la ‘nobile sofistica’ di Protagora e Socrate”(E. Fachinelli, Su Freud, cit., pp. 80-81).
FREUD E “LA MENTE ESTATICA”.
Nel testo del 1966, semplicemente, Fachinelli ha già conquistato ed evidenzia decisiva consapevolezza e chiarezza critica sull’epocale novità e inaudita portata della “situazione sperimentale escogitata da Freud per la cura dei nevrotici” (p. 43). Quella di Freud non è (come potrebbe apparire a uno sguardo superficiale) solo una geniale “innovazione tecnica” dell’intelligenza astuta della ragione tradizionale.
C’è anche questo, “ma più profondamente” - a ben guardare - c’è ben altro: “se ripercorriamo - scrive Fachinelli - il lento cammino che va dalla suggestione ipnotica alla soggezione vigile, alla concentrazione attiva, vediamo emergere l’oggetto della cura, la nevrosi del catalogo naturalistico, come soggetto uomo, che ha in sé il suo significato e parallelamente, Freud rinuncia a ogni strumento di intervento diretto, apparentemente risolutore, si fa quasi passivo e distante, ascoltatore paziente” (pp. 41-42).
E, ancor di più e meglio precisando, nota e commenta Fachinelli: “La ricerca freudiana è immediatamente antiaristocratica, spoglia di ogni privilegio o superiorità d’orgoglio. Egli tenta di farsi semplice ascoltatore di se stesso, lasciando riaffiorare, come nei suoi nevrotici, la parte calpestata, rifiutata”.
E’ la svolta decisiva: “Letteralmente, Freud - scrive Fachinelli - diventa il paziente di se stesso, con una lucidità che apparirà più tardi, e non senza ragione, persino disumana (“ Il malato che oggi più mi preoccupa sono io stesso”). In questo modo si stabilisce uno scambio continuo tra ciò che impara dai suoi malati e ciò che ricava da se stesso”(p.46). L’Interpretazione dei sogni, che esce alla fine del ’99, è il testo fondamentale - prosegue Fachinelli, poco oltre (e si tenga presente che si è nel 1966) - della nuova scienza psicologica e, osiamo dire, della nuova ragione“.
Per Freud, "è finita una sorta di prolungata infanzia, l’indugio di fronte a se stesso” (p.54). Egli ha trovato la sua strada: messosi in gioco, coraggiosamente, e dato il via alla difficile e interminabile trasformazione di sé, si incammina fuori dell’orizzonte teorico del suo tempo: egli non tornerà mai più indietro. Troverà infiniti ostacoli esterni e interni, ma porterà avanti il suo lavoro fino alla fine.
Il viaggio appare interminabile, ma anch’egli - se pure tra e con grandi difficoltà - atterrerà “sulla spiaggia”, a Londra, a Maresfield Gardens. Non proprio come sogna sbarcando, come “un conquistador”, ma sicuramente come un uomo coraggioso, come un ebreo salvato dalle armate del Faraone del XX da quel Mosè che lo ha accompagnato per tutta la vita e che ora egli ha portato con sè anche in Inghilterra, non solo come materia per un libro (da finire - L’uomo Mosè e la religione monoteistica, 1934-1938) nelle casse dei suoi bagagli.
IL VOLO "A GRANDE ALTEZZA" DI FACHINELLI (1984-1988)
In “Psicoanalisi”, testo inedito del 1984 (cfr.: Su Freud, cit.), forte anche delle esperienze fatte all’interno della pratica terapeutica, Fachinelli riprende con chiarezza e determinazione il discorso già fatto nel 1966, e riafferma tutto il valore del metodo di lavoro e di ricerca di Freud: “Promozione piena degli Enfalle, ovvero “metodo delle libere associazioni”; rivelazione attraverso di esso dell’inconscio e dell’infantile; elaborazione della relazione analista-analizzato come rapporto che oltrepassa decisamente quello classico di osservatore-osservato: sono questi alcuni elementi fondamentali di un’esperienza ben distinta, nella quale compaiano e si sviluppano, tra il passato spesso dimenticato o distorto e il presente, concordanze, repliche, riprese".
E’ ciò che potremmo chiamare - precisa Fachinelli - "il nucleo solido o pesante della psicoanalisi, ciò che ha consentito all’esperienza freudiana di essere ripetuta, confermata e contraddetta alÌ’interno di uno specifico dispositivo o setting analitico che, pur nelle variazioni intervenute successivamente, manifesta la costanza e l’uniformità di uno specifico laboratorio scientifico”.
E, chiarito questo punto incontrovertibile, sollecita a prendere atto che “è dentro questo laboratorio che sono intervenuti i progressi più significativi della psicoanalisi”, a uscire dal dogmatismo e dalla minorità, a prendere le distanze da quel “luogo comune piuttosto diffuso, secondo il quale la psicoanalisi comincerebbe e finirebbe con Freud”(p.66). e a fare uso della propria intelligenza e della propria facoltà di giudizio. E invita anche a ben comprendere la natura della diffusione della psicoanalisi nel mondo: quanto è avvenuto dopo Freud “è un tipo di diffusione che ricorda l’espansione di un movimento ideologico, o anche di una religione in senso tradizionale”, non “la diffusione - eventualmente ritardata, ma poi rapida e universale - di una scoperta scientifica in senso stretto” (p. 64).
Per Fachinelli, questa è solo una premessa , ma è la premessa fondamentale: “Vi è dunque uno specifico psicoanalitico strettamente collegato all’instaurarsi di un quadro “sperimentale” determinato. Su questo non sembra esservi disaccordo”. La questione decisiva, a cui sollecita a pensare e che pone all’ordine del giorno, è quella di affrontare “il disaccordo” che esiste e sorge “non appena da questo piano di esperienza ripetibile, individuale-tipica, si passa a un tentativo di comprensione o spiegazione generale dell’esperienza stessa, dei suoi presupposti e delle sue implicazioni. Quando cioè ci si pone il problema del modello o dei modelli che organizzano l’esperienza stessa”(pp.67-68).
Detto diversamente e velocemente: per non diventare del tutto ciechi e zoppi all’interno del laboratorio psicoanalitico, è più che urgente andare avanti, oltre Freud, oltre l’orizzonte scientifico del suo tempo e anche della sua grande capacità di far leva su” modelli diversi (energetico, dinamico-conflittuale, topico), alquanto eterogenei tra loro”, per dare conto “dell’insieme complesso dell’esperienza analitica, evitando di scartarne sezioni importanti e irriducibili all’uno o all’altro di essi” (p.68).
In questa direzione e con questa consapevolezza Fachinelli muove e sollecita a muoversi, non altra: il suo desiderio non viene dalle stelle, ma nasce ed è nato all’interno stesso del laboratorio e, per certi aspetti, è la ripresa della stessa lotta di Freud con se stesso, per salvare la sua “creatura”, la stessa psicoanalisi, (dal quadro teorico e) dall’inesorabile avanzata della pulsione di morte.
Di fronte a “casi clinici” come quello dell’“uomo col magnetofono, dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista” (J.J. Abrahams, edizioni L’erba voglio, 1977), o quello presentato in “La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo” (E. Fachinelli, edizioni L’erba voglio, 1979), o quello presentato in “Claustrofilia. Saggio sull’orologia telepatico in psicoanalisi” (E. Fachinelli, Adelphi , Milano 1983), non si può né chiudere un occhio né chiudere gli occhi; Fachinelli rompe gli indugi e decide di muoversi. Egli sa già dove andare, e già anticipa il suo tema.
Sempre nello stesso testo, “Psicoanalisi” del 1984, così scrive: “Dopo Freud, nell’esito trionfale della psicoanalisi, si è andato via via perdendo il senso di situazioni bloccate, impoverite, su cui Freud e gli psicoanalisti intervengono” e di pari passo è si andato riaffermando - egli ipotizza - il potere di quella cultura in cui “funga o fungesse ciò che è caratteristico di Freud, vale a dire la concezione di una continuità di fondo dello psichico, che ignora il discontinuo e il radicalmente diverso, ignora differenze di livello e il salto o la rottura che esse implicano come è evidente “nell’approccio difficoltoso e appunto nostalgico alle figure piene, mitizzate, del Rinascimento” da parte dello stesso Freud (pp.72-73).
In questo senso, nelle sue esitazioni, “Freud precorre un’epoca in cui l’esperienza estetica svanisce come esperienza distinta, compatta, e soltanto affiora o balena qua e là, in contesti diversi. E ciò che vale per l’esperienza estetica si potrebbe ripetere per altri livelli dell’umano, in primo luogo per un livello immediatamente contiguo a quello estetico, quello che potremmo chiamare livello estatico. Il quale è certamente, nella nostra cultura, ai limiti del tabù e dell’impronunciabile”.
E proseguendo, ben consapevole del suo programma di ricerca, così conclude: “Proprio in queste direzioni si avvertono forse oggi segni di mutamento: ciò che non si poteva toccare o dire comincia forse a farsi via praticata o praticabile. Ed è a questo punto, crediamo, che si fa sempre più chiaro il limite antropologico e storico della psicoanalisi freudiana”(pp.73-74).
“Sulla spiaggia” è il testo del 1985 (“Lettera Internazionale”, n. 6, autunno 1985) con cui Fachinelli ‘ricorda’ a Freud (e a se stesso) i temi della lunga “conversazione conoscitiva” e spicca il suo “volo a grande altezza”. Negli anni successivi continua a lavorare sul tema: nel febbraio del 1989 è stampata e resa pubblica “La mente estatica” (Adelphi, Milano 1989). Un nuovo orizzonte si spalanca, ma le reazioni di psicoanalisti e filosofi sono timidissime e fredde.
Come sapeva e aveva già scritto nel 1984, l’estatico è, nella nostra cultura, ai limiti del tabù e dell’impronunciabile. Gli intellettuali istituzionalizzati (freudiani e non), alla fine prendono le distanze e tacciono. A vent’anni e più dalla sua morte stentano ancora a capire il senso del suo lavoro. Ma il fatto è un fatto e resta (ancora da pensare): il coraggio di servirsi della sua propria intelligenza e il frutto del lavoro di tutta la sua vita è di grande rilevanza teorica e culturale, in generale.
Contrariamente a quanto sì è ritenuto e detto, Fachinelli non ha mai abbandonato il programma di Freud: pensare non solo se stesso (il medico) come paziente, ma anche l’altro ( il paziente) come medico. Più di tutti, egli ha ben capito la portata radicale del pensare l’altro (anche se stesso!) come soggetto e l’ha fatto proprio da uomo, da psicoanalista, e da pensatore, fin dall’inizio.
Egli non si è mai sganciato dalla pratica clinica e dalla referenza teorica freudiana: anzi, più di tutti, ha difeso e lavorato a illuminare criticamente il “concreto della situazione a due”, per liberarla dalle esitazioni e cecità ereditate dallo stesso Freud, sia dal lato del soggetto-analista sia dal lato soggetto-paziente, non per mandarla in soffitta e andarsene a esplorare i territori dell’immaginario e le potenzialità della suggestione! Nell’aut-aut “Freud o Iung”, egli non ha mai creduto (o ceduto): già nel 1967, nella prefazione al lavoro di E. Glover con l’omonimo titolo, aveva chiarito la sua posizione e non ha mai sognato di proporsi (alla Jung) come “pastore di anime”!
Provare per credere! In “Su Freud”, sono ripresi due testi importanti e fondamentali, scritti dopo la pubblicazione di “La mente estatica”. Un consiglio: per non equivocare (o parlare a ruota libera) sul suo lavoro e sul suo orizzonte teorico ( il primo è del gennaio 1989 ed è intitolato “Freud, Rilke e la caducità”, il secondo è dell’inizio di aprile 1989 ed è intitolato “Il dono dell’imperatore”), vale la pena leggerli e rileggerli con attenzione. Sono stati scritti con i suoi “consiglieri segreti” di sempre: Walter Benjamin (“Angelus Novus”: “Tesi di filosofia della storia”) e Theodor W. Adorno (“Minima moralia”).
Nell’uno la riflessione è ancora e di nuovo sulla pulsione di morte e nell’altro si affronta il tema del potere sulla vita e sulla morte ("questa inquietante istanza centrale di autorità") e dell’analisi dei poveri, in connessione col tema del dono e della gratitudine in Freud, con tutte le sue implicazioni (rispetto al passato e rispetto al futuro non solo della psicoanalisi)!
“Imprevisto e sorpresa in analisi”: alla fine del loro percorso, al di là della morte (l’uno sfuggito alla polizia del “Faraone”, l’altro vittorioso su Oloferne), Fachinelli ritrova Freud e Freud ritrova Fachinelli e, insieme, riprendono la “conversazione conoscitiva” nel loro laboratorio, e la navigazione nel "gran navilio” di Galilei. (Federico La Sala, 01/04.10.2012)
PERVERSIONI di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
Federico La Sala
"AL DI LA’ DELLA #PSICOLOGIA" (O. #RANK, "Beyond #Psychology", 1941). CON FREUD E FACHINELLI, SUPERARE IL "#TRAUMA DELLA #NASCITA" E, RIPRENDENDO LA LEZIONE "ARTEMIDEA" DI #ERACLITO DI #EFESO ("HO INDAGATO ME STESSO"), PORTARSI FUORI DAL #LABIRINTO ...
PSICOANALISI E STORIOGRAFIA. Con #Freud, probabilmente, nessuno (né del ‘mondo’ psicoanalitico, né tantomeno del ‘mondo’ filosofico) ha ‘dialogato’ con più libertà di giudizio e onestà intellettuale di ElvioFachinelli (1928-1989). E, come si sa, “essere giusti con Freud” non è affatto facile!
Fin dall’inizio, egli ha colto con lucidità e precisione il cuore pulsante della “rivoluzione psicoanalitica” e, consapevole di tutta la sua portata epocale, fino alla fine ha fatto di tutto (pur tra totali incomprensioni) per assicurarne la vita.
GRANDEZZA E LIMITI DI FREUD. Il volumetto “Su Freud” (a c. di Lamberto Boni, Adelphi, Milano 2012, e. 12, pp. 115) è un’ottima "antologia" per riconsiderare il percorso di Elvio #Fachinelli e rendersi conto del suo lavoro (dal 1966 al 1989), per pensare la psicoanalisi fuori dalla claudicanza e dalla cecità dell’orizzonte edipico.
LA VITA CONTRO LA MORTE.Nel 1966, semplicemente, Fachinelli è già Fachinelli! Per dirla in breve, nella sua lettura di Freud (questo è il titolo del primo saggio, così articolato: Un Conquistador; L’archeologia del banale; Un modello vittoriano; Dickens, l’infanzia; Il frammento goethiano; Un giuramento materialista; Come lo spirito curerà se stesso; Resistenza, inconscio, sesso; L’autoanalisi; Edipo e suo padre; Mosè è un Egizio; Il mito e la civiltà), egli non solo si rende del fatto che “il conflitto di ambivalenza sull’esser ebreo [e povero, fls] che esisteva nel figlio di Jakob” (p. 16), ma anche di come e quanto il nodo edipico non risolto pesi su “i significati nuovi che emergono dal suo lavoro e ai quali non sa dare una definizione precisa” e come tutto, alla fine, possa finire nel vicolo cieco della tendenza alla distruzione, al “ritorno all’inorganico”, tra le braccia del cosiddetto istinto di morte: “La rivelazione di questa tendenza (...) avviene, in Al di là del principio di piacere, del 1920, attraverso il ritrovamento del mito di #Eros e di #Thanatos in lotta continua e incerta tra loro” (cit., p. 60).
"LA FRECCIA FERMA" (1979) RICOMPRENDE IL #GIOCO DEL #BAMBINO (ERACLITEO) E SI PORTA OLTRE. Fachinelli è ben consapevole che “l’ambiguità del #mito” non risolve affatto il problema, ma come e con Freud non dispera, e con un colpo d’ala così ‘chiude’ il discorso su “Freud” e così comincia il suo cammino: “Un’indicazione ben tenue e fragile, disarmata; come se fra tante corazze e armature di ferro, egli ci desse un semplice filo da seguire; ma un filo ricorda Platone, che è duttile quanto il ferro è rigido, perché è un filo d’oro” (cit., pp. 60-61).
"CLAUSTROFILIA" (1983). Il cammino sarà lungo, ma il linguaggio già annuncia la consapevolezza di “Sulla Spiaggia” ( 1985): un nuovo #paradigma psicoanalitico e antropologico, quello della "mente #estatica" (1989 ), ancora tutto da esplorare->https://www.adelphi.it/libro/9788845924071], quello della #menteaccogliente, che rende pensabile e praticabile l’uscita dal dall’orizzonte della "storia notturna", dei #sogni dei visionari e della metafisica della #cosmoteandria "mammonica".
SHAKESPEARE, FREUD, E L’ANTROPOLOGIA DEI "DUE SOLI": LA FILOSOFIA DELLA "MENTE ACCOGLIENTE".
ALLA RICERCA DEL "TEMPO PERDUTO": IMPARARE A INDOVINARE ("ERRATEN") E AVER IL #CORAGGIO DI ACCOGLIERE ("SÀPERE AUDE!") E "#SPOSARE" ("HEIRATEN") LA IPOTESI "COSTRUITA".
***
#PSICOANALISI #ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA #HAMLETICA: "CHI SONO IO?". Contrariamente a quanto si pensa, la lunga ricerca di Freud, se può apparire (come è apparso per lo più fino ad ora) segnata dalla figura di #Edipo e #Giocasta, dall’altra è molto prossima a quella di #Amleto (#Hamlet), dalla volontà e dal progetto di chiarirsi le idee su di sé, e di suo #Padre - di chi è veramente #Figlio: la sua opera, una vera e propria "trappola per topi" ("The #Mousetrap") e di portarsi oltre il #giogo del "matriarcato" e del "patriarcato".!
"COME NASCONO I BAMBINI" (S. Freud, "Analisi terminabile e interminabile", 4). Egli, in verità, è andato (come si sa) a "scuola" da Shakespeare, e il problema della sua vita è come quello di Shakespeare, contribuire a sciogliere il nodo di #Ercole, il nodo del nascere, del #comenasconoibambini, alla base della "nevrosi ossessiva", non solo del "caso" dell’uomo dei topi" (1909), ma "della civiltà" e "nella civiltà", e contrastare il dilagare alluvionale del "marcio nello stato di Danimarca".
CULTURA E SOCIETA’.
UNA NOTA A MARGINE DI UNA DISCUSSIONE E DI UNA RILESSIONE IN CORSO SUL TEMA: "LA PSICOANALISI HA UN FUTURO?" *
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "CONOSCI TE STESSO" E DEL "CONOSCI TE STESSA", E LA "#CRITICA DELLA #FACOLTÀ DI #GIUDIZIO: IL CORAGGIO DEL "#SÀPERE AUDE" (#ORAZIO).
#A GLORIA DI #FREUD E A OMAGGIO DI #KANT2024. Ricordando l’eccezionale #coraggio degli #inizi della #psicoanalisi ("L’#interpretazione dei #sogni", 1899) e il coraggio di servirsi della propria intelligenza dell’#illuminismo kantiano ("Risposta alla domanda: che cosa è l’Illuminismo",1784), e, al contempo, il #grido di allarme di #SigmundFreud, lanciato da #Vienna nel 1929, sul "#Disagiodellaciviltà" (e nella #civiltà), a riguardo, può essere interessante e utile un ulteriore approfondimento e una riflessione supplementare, alla luce di una personale #ricerca (del 2010), proprio sul tema storico-filosofico relativo alle ragioni stesse della #domanda sul futuro della tradizione filosofica, picoanalitica, e della stessa civiltà (cfr. "KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE" ).
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LETTERATURA E PSICOANALISI: "IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI" (ITALO CALVINO).
L’INCONTRO CON "SIGISMONDO DI VINDOBONA" [DI VIENNA] NELLA "TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI".
Una "presentazione" del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi... *
"ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un #sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il #represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie.
(Si prenda un giovane, Fante di Denari, che vuole allontanare da sé una nera #profezia: #parricidio e #nozze con la propria #madre. Lo si faccia partire alla ventura su un Carro riccamente addobbato. Il Due di Bastoni segnala un crocicchio sulla polverosa strada maestra, anzi: è il crocicchio, e chi c’è stato può riconoscere il posto in cui la strada che viene da Corinto incrocia quella che va a #Tebe. L’Asso di Bastoni testimonia una rissa da strada, anzi da trivio, quando due carri non vogliono darsi il passo e restano coi mozzi delle ruote incastrati e i conducenti saltano a terra imbestialiti e polverosi, sbraitando appunto come carrettieri,insultandosi, dando del maiale e della vacca al padre e alla madre dell’altro, e se uno tira fuori dalla tasca un’arma da taglio è facile che ci scappi il morto.
Difatti qui c’è l’Asso di Spade, c’è Il Matto, c’è La Morte: è lo sconosciuto, quello proveniente da Tebe, che è rimasto in terra, così impara a controllare i suoi nervi, tu Edipo non l’hai fatto apposta, lo sappiamo, è stato un raptus, ma intanto ti ci eri buttato addosso a mano armata come se non avessi aspettato altro per tutta la tua vita. Tra le carte che vengono dopo c’è la Ruota della Fortuna o #Sfinge, c’è l’ingresso in Tebe come un Imperatore trionfante, c’è le Coppe del #banchetto di nozze con la regina #Giocasta che vediamo qui ritratta come Regina di Denari, in panni vedovili, donna desiderabile benché matura.
Ma la profezia si compie: la peste infesta Tebe, una nuvola di bacilli cala sulla città, inonda di miasmi le vie e le case, i corpi dànno fuori bubboni rossi e blu e cascano stecchiti per le strade, lambendo l’acqua delle pozzanghere fangose con le labbra secche. In questi casi non c’è che ricorrere alla #Sibilla Delfica, che spieghi quali leggi o tabù sono stati violati: la vecchia con la tiara e il libro aperto, etichettata con lo strano epiteto di #Papessa, è lei.
Se si vuole, nell’arcano detto del Giudizio o dell’Angelo si può riconoscere la scena primaria a cui rimanda la dottrina sigismondiana dei sogni: il tenero angioletto che si sveglia nottetempo e tra le nuvole del sonno vede i grandi che non si sa cosa stanno facendo, tutti nudi e in posizioni incomprensibili, mamma e papà e altri invitati. Nel sogno parla il fato.
Non ci resta che prenderne atto. Edipo, che non ne sapeva niente, si strappa il lume degli occhi: letteralmente il tarocco dell’Eremita lo presenta mentre si toglie dagli occhi un lume, e prende la via di Colono col mantello e il bastone del pellegrino).
Di tutto questo la scrittura avverte come l’oracolo e purifica come la tragedia. Insomma, non c’è da farsene un problema [...]"
*
#PSICOANALISI E #RINASCITA:
IL PROGRAMMA DI #FREUD DI RIPENSARE L’#EDIPO #COMPLETO (E CAPIRE "COME SI DIVENTA CIO’ CHE SI È") E LA DIFFICOLTÀ PRINCIPALE AFFRONTATA NEL SUO "#MOSAICO" PERCORSO.
Una ipotesi di ricerca...
#BIOGRAFIA E #STORIOGRAFIA: "SAPERE AUDE!" (KANT, 1784). RICORDANDO CHE FREUD ha iniziato la sua discesa nel regno di #Ade, agli #inferi (nel mondo dei "sogni"), con #Virgilio (e con la guida dell’#Eneide) e, in particolare, in sintonia (non con lo spirito di #Afrodite / #Venere ed #Eros / #Cupìdo ma) con lo spirito di #Era / #Giunone - con l’aiuto della "Madre", di cui richiama le parole, polemiche contro lo stesso #Zeus / #Giove - contro lo spirito del "Padre": "Flectere si nequeo Superos", #Acherontamovebo"), forse, è bene richiamare l’attenzione su uno dei primi fondamentali passi "edipici" del giovane "Freud-#Mosè" sulla strada della conoscenza e dell’uscita dallo "#stato di #minorità" (Kant, 1784):
"La notte prima del funerale di mio padre sognai una tabella a stampa, un manifesto o un affisso - pressappoco come i cartelli:
"Vietato fumare" nelle sale d’aspetto delle ferrovie - su cui si leggeva:
Si prega di chiudere gli occhi
oppure
Si prega di chiudere un occhio,
alternativa che sono abituato a raffigurare nella forma seguente:
gli
Si prega di chiudere occhi(o).
un
Ciascuna delle due versioni ha un suo significato particolare e nell’interpretazione del sogno conduce a vie particolari. Avevo scelto il cerimoniale più semplice, perché sapevo che cosa pensasse il morto di tali manifestazioni; ma altri membri della famiglia non erano d’accordo; ritenevano che saremmo stati costretti a vergognarci di fronte agli intervenuti alla cerimonia. Perciò una versione del sogno chiede di "chiudere un occhio" vale a dire di usare indulgenza. " (S. Freud, "L’Interpretazione dei sogni", cap. 6, pf. C).
ONORARE IL PADRE E LA MADRE. Sul "Si prega di chiudere gli occhi", nella lettera a Fliess del 2 novembre 1896, Freud scrive che la formulazione della frase è "a doppio senso e significa in ambedue i casi: bisogna adempiere al proprio dovere verso i morti", in particolare, il dovere filiale di chiudere gli occhi al defunto. Nella "Interpretazione dei sogni", Freud "tace": guardare negli occhi il proprio padre #Jacob (morto) e, addirittura, chiuderglieli, per l’ "Edipo re", evidentemente, è una missione "impossibile".
USCIRE DALL’#INFERNO E #APRIREGLIOCCHI. L’ anno «prima di morire, il 12 maggio 1938, mentre fuggiva da Vienna a Londra per evitare i nazisti, scrisse al figlio Ernst: "Talvolta mi paragono a Giacobbe [così si chiamava il padre] che i suoi figli, quando era già vecchio, portarono in Egitto» (J. J. Spector, "L’estetica di Freud", Mursia, Milano 1972).
A #LONDRA, #SigmundFreud muore il 23 settembre 1939: "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" era stato pubblicato ad #Amsterdam l’anno prima, nell’autunno del 1938 (con la data: 1939).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (KANT, 1800), "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888), E INFERNO EPISTEMOLOGICO.
IMMAGINARE, STORIOGRAFICAMENTE (E FILOSOFICAMENTE) CHE "la galileiana matematizzazione della natura" sia innanzitutto un’operazione contro Galileo, così come lo strutturalismo linguistico alla Lacan sia soprattutto una saussuriana matematizzazione del linguaggio" contro Saussure, è un bell’esempio di permanenza nel letargo (Par. XXXIII, 94) dell’inferno epistemologico della tragedia - contro la commedia e contro Dante.
Enrico Redaelli, nel suo libro "Judith Butler. Il sesso e la legge", "un attraversamento delle opere e del pensiero della femminista, attivista Lgbtq+, intellettuale militante e filosofa statunitense", nello sforzo di offrire un contributo critico alla discussione, scrive:
SE è VERO, come è vero CHE "La questione è più complessa e non priva di paradossi", non per questo è necessario costringere nelle vecchie botti della cosmoteandria platonico-heideggeriana l’acquisizione della relatività galileiana-einsteiniana, della consapevolezza antropologica dell’io che "non è padrone nemmeno in casa sua" e che le sue spiegazioni non sono interpretazioni di sogni, ma, a tutti i livelli, "costruzioni nell’analisi", sia in fisica sia in metafisica - criticamente, con Kant, Freud, e Franca Ongaro Basaglia.
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu
"SAPERE AUDE!"(#KANT): TRACCE PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA...
FISICA METAFISICA INFERNO EPISTEMOLOGICO E DIVINA COMMEDIA.
#TEMPO, #SPAZIO, E #RELATIVITÀ: "COSTRUZIONI NELL’#ANALISI". #Einstein, i #BuchiNeri, e i #BuchiBianchi: "un affascinante paragone tra la discesa di #Dante e #Viriglio all’#Inferno e il #viaggio di chi avesse l’opportunità di attraversare l’#orizzonte degli eventi", ma anche un sorprendente punto di contatto con la discesa "archeologico-storica" della #psicoanalisi e la "metafisica" della #relativitàgalileiana di #Freud e di #Fachinelli.
#ANTROPOLOGIA E #STORIOGRAFIA: DAL #LABIRINTO SI PUÒ USCIRE. Considerati i temi e le ipotesi del libro di #CarloRovelli, che "aprono domande profonde sul senso e la natura del tempo, non solo per la fisica in sé e per sé, ma anche e soprattutto per gli esseri umani", forse, è da riaprire anche la riflessione su alcune fasi della #ricerca psicoanalitica e antropologica di #ElvioFachinelli, in particolare, su "La Freccia Ferma. Tre tentativi di annullare il tempo" (1979), su "Claustrofilia. Saggio sull’orologio telepatico in psicanalisi" (1983), e, infine, su "La mente estatica" (1989).
Carlo Rovelli, Buchi Bianchi. Dentro l’Orizzonte
di Emilia Margoni (Doppiozero, 6 Marzo 2023
Nessun oggetto ci appare tanto affascinante quanto quello di cui non si può predicare con certezza l’esistenza. Oggetti puramente ipotetici, la cui presenza al mondo è il presupposto di un quadro che, altrimenti, non tornerebbe. Come fosse una fucina inesauribile di oggetti di tale natura, la fisica non ne lamenta mai la carestia; e chi la pratica, specie in quella zona di confine che è la fisica teorica, partecipa a una sorta di gara senza sosta per rinvenire l’oggetto al contempo più inconcepibile e meno dispensabile. La storia della disciplina è costellata di agnizioni tarde: entità che erano poco più che corollari di grandi teorie, o che persino venivano ipotizzate dai detrattori di queste al solo fine di produrne una smentita, hanno trovato il supporto di una comprova sperimentale solo a decenni di distanza dalla loro genesi speculativa. Il repertorio è ricchissimo, e basterà menzionare fenomeni fisici probabilmente ben noti a chi legge, come l’entanglement quantistico, il bosone di Higgs o le onde gravitazionali. Una di queste entità, che vanta ad oggi un carattere puramente congetturale, eppure si cinge della robusta corazza di esito rigoroso della teoria della relatività generale, è il buco bianco. Nel suo recentissimo libro, Buchi Bianchi. Dentro l’Orizzonte (Adelphi 2023), Carlo Rovelli ne propone un’intrigante apologia.
Come per altre sue opere, Buchi bianchi gode di una struttura tripartita. La sezione iniziale fissa, con un rapido excursus storico, i preamboli della trattazione successiva, ovvero si concentra su quella serie di sviluppi della relatività generale che hanno condotto all’avventizia ipotesi, prima, e all’insperata e infine acclamata osservazione sperimentale, poi, dei cosiddetti buchi neri. In effetti, come ricorda l’autore, l’esistenza di questi oggetti, che pure erano previsti dalla teoria, non era affatto scontata, se è vero che, ancora nel 2000 - allorché egli si trasferì in Francia a seguito delle sue molteplici peregrinazioni d’oltreoceano - il Direttore di Dipartimento dell’Università di Marsiglia ironizzava con un certo grado di scetticismo su una loro possibile rivelazione (p. 27).
Nella seconda sezione si ripercorre l’insieme di considerazioni, tentativi e speculazioni che, dalla collaborazione di Rovelli con il fisico statunitense Hal Haggard, li condusse a tentare di estendere il campo dei possibili, ipotizzando cioè l’esistenza di oggetti fisici con proprietà speculari rispetto ai buchi neri, appunto i buchi bianchi. Ad oggi si tratta di un’affascinante ma pur sempre congetturale proposta, dai tratti fortemente immaginifici, anche perché sotto il profilo osservativo, come vedremo, buchi neri e buchi bianchi sono tra loro indistinguibili.
La terza sezione - tra tutte la più originale, quale marchio di fabbrica rovelliano - affronta alcuni dei temi che hanno reso noto il fisico veronese al grande pubblico (il tempo, l’entropia, il rapporto tra queste nozioni e il concetto di irreversibilità, l’informazione), secondo la declinazione identificata come “relazionale”. Quest’ultima frazione del testo articola il tentativo di avallare, quantomeno sotto il profilo concettuale, la plausibilità di un’ipotesi tanto ardita qual è quella di avanzare l’esistenza di oggetti analoghi ai buchi neri, ma, in sintesi, caratterizzati da un’inversione della variabile temporale. Ed è qui che la prospettiva relazionale si fa dirimente: relativizzare in senso prospettico il tempo, e in particolare la distinzione che nell’accezione comune esso implica tra un passato definito e inoperabile e un futuro aperto e disponibile, è secondo Rovelli la lezione più propria della relatività generale. In tale declinazione, “la differenza tra passato e futuro [...] è un po’ come la differenza fra due direzioni geografiche” (p. 107): non si declina in forma assoluta, ma appunto locativa. Se le equazioni della relatività generale sono simmetriche rispetto alla variabile temporale, e se i buchi neri sono una delle possibili soluzioni di queste equazioni, esse devono contemplare l’esistenza di soluzioni con variabile temporale invertita, che corrispondono appunto ai buchi bianchi. Il punto controverso diventa così la spiegazione del rapporto tra questi due sistemi gemelli, evidentemente connessi, e in particolare il tipo di transizione necessaria per garantire un passaggio dall’uno all’altro - transizione che, aggiunge Rovelli, non sarebbe possibile se non si tenesse conto della teoria che ad oggi meglio sintetizza le interazioni su scala microscopica, la meccanica quantistica.
Prima di provare ad abbozzare una seppur intuitiva descrizione di oggetti tanto esotici quali i buchi bianchi, sarà bene richiamare le proprietà dei loro corrispettivi più prossimi, certo non meno eccentrici eppure più familiari, non foss’altro perché empiricamente osservati e somministrati, a più riprese e su varie piattaforme, al grande pubblico. Appena pochi mesi dopo la pubblicazione, nel 1915, delle equazioni della relatività generale ad opera di Albert Einstein, il matematico e fisico tedesco Karl Schwarzschild avanzò una soluzione volta a descrivere quello che accade allo spazio e al tempo in prossimità di una massa.
Tale soluzione prevedeva che spazio e tempo tendono a incurvarsi in maniera tanto più significativa quanto più essa è rilevante: un sistema flette lo spaziotempo limitrofo in senso proporzionale alla propria massa, e questo fenomeno è responsabile, tra le altre cose, dell’attrazione gravitazionale che tale sistema esercita su altri sistemi a esso adiacenti. Lo spaziotempo di Schwarzschild prevedeva altresì uno scenario molto singolare: se il rapporto tra la massa di un sistema e il volume da esso occupato supera una soglia critica, ovvero se l’oggetto massivo viene particolarmente compresso, la soluzione delle equazioni di Einstein prevede che attorno a esso si formi una sorta di guscio, detto orizzonte degli eventi, che seziona lo spaziotempo in due regioni, tra di loro non connesse in senso causale.
Sotto queste condizioni, la deformazione del tempo è tale da far sì che un orologio posto nelle vicinanze dell’orizzonte degli eventi rallenti sino a fermarsi, là dove lo spazio si incurva a formare una struttura a imbuto estremamente ripida. Tale risultato era a tal punto eccentrico da non incontrare il favore neppure dello stesso Einstein, cui da ultimo si doveva la loro, seppur embrionale, gestazione. Oggi si ha più di qualche motivo per credere che tali oggetti esistano, ed è ciò che identifichiamo come buchi neri, termine coniato dal fisico statunitense John Wheeler nel 1967.
Sebbene la formazione di un buco nero sia resa possibile dal superamento della soglia critica definita da Schwarzschild - quindi, in linea di principio, anche nel caso di un oggetto non particolarmente massivo, purché estremamente compresso - la più parte dei buchi neri sinora rintracciati segue le fasi terminali di stelle “esauste”, stelle che hanno cioè smesso di bruciare. Normalmente, l’enorme peso della stella, che la porterebbe a collassare su sé stessa, viene controbilanciato dal calore prodotto per convertire l’idrogeno, di cui la stella è composta, in elio. Quando l’idrogeno a disposizione si esaurisce, la temperatura inizia progressivamente a diminuire e così il peso a gravare sull’economia della stella. Sotto particolari condizioni, l’evoluzione della stella suddetta segue un collasso, così portando alla formazione di un buco nero.
Per intendere l’ipotetico passaggio da buco nero a buco bianco, è importante precisare la geometria spaziale del primo. Come si diceva, un buco nero può essere inteso come una struttura a imbuto, che via via si allunga, divenendo più stretta e ripida, al cui termine si trova la stella che collassando vi ha dato origine. Nei punti più estremi di tale struttura, là dove la deformazione spaziotemporale risulta particolarmente imponente, ci aspettiamo che le equazioni di Einstein non siano più sufficienti a rendere conto del fenomeno fisico in corso, e devono evidentemente intervenire effetti quantistici. Senza poter qui entrare nei dettagli di un resoconto intricato ma reso sempre accessibile dalla scrittura di Rovelli, regolare e quasi spontanea, è in prossimità di tali condizioni estreme - allorché la teoria della relatività generale perde di pregnanza - che si dà la possibilità di una transizione da buco nero a buco bianco; come se, raggiunta la soglia del regime quantistico, la struttura smettesse di allungarsi e restringersi, e viceversa invertisse, in un ipotetico rimbalzo, la propria evoluzione, così prendendo ad accorciarsi e allargarsi, ripercorrendo tutte le tappe al contrario: questa, in una sintesi che certo non rende giustizia al fenomeno, la genesi e l’evoluzione di un buco bianco.
Ora, pur non volendo considerare il notevole grado di speculazione di una simile congettura, la questione ha da porsi in termini più prosaici. Se è vero che un buco bianco è perfettamente descritto dalle equazioni di Einstein, poiché corrisponde alla stessa soluzione di un buco nero a patto di ribaltare la variabile temporale (“un buco bianco è il modo in cui apparirebbe un buco nero se potessimo filmarlo e proiettare il film al contrario”, p. 65), il problema, invalidante sotto il profilo di una sua eventuale osservazione sperimentale, è che l’esterno di un buco bianco non differisce in alcun modo dall’esterno di un buco nero. Detto altrimenti, osservati da fuori, un buco nero e un buco bianco “si comportano esattamente nello stesso modo: sono entrambi masse che attirano con la forza di gravità” (p. 80). Una delle questioni che andranno chiarite negli sviluppi futuri di tale proposta riguarderà proprio la definizione di una qualche strategia per superare una simile impasse.
Ma si sa, la fisica teorica non intrattiene con la sperimentazione un rapporto subalterno di ipotesi vs. verificazione. Si tratta innanzitutto di uno spazio immaginativo, in cui il linguaggio della disciplina estende le proprie frontiere al di là di ciò che al momento le sue inevitabili sclerosi non rendono dicibile. In questo mestiere, che nell’arte della retorica si direbbe in primo luogo di inventio, ovvero l’imbastitura degli argomenti e la loro organizzazione per l’esposizione di un pensiero formando, Carlo Rovelli è senza dubbio tra i fuoriclasse - tra coloro cioè che non si accontentano di esercitare la propria effervescenza in un solo campo, e il cui esercizio di pensiero è una corrente carsica capace di infiltrarsi, diffondersi ed espandersi senza strepito né clamore. Come nel caso della sua creazione più nota, la gravità quantistica a loop, poco importa che al momento non siano a disposizione strumenti di validazione empirica. Tutto quel che rileva è lo spazio creativo che ha aperto per tratteggiare linee di fuga verso un punto che al momento non è dato a vedersi eppure senza il quale la fisica sarebbe presto da archiviarsi nel faldone della storia della cultura.
NOTA.
ANTROPOLOGIA DELLA CONOSCENZA E CRITICA DELLA "RAGION PURA":
ORIENTARSI NEL PENSIERO E NON BUTTARE IL BAMBINO CON L’ACQUA SPORCA.
PER NAVIGARE e "naufragare" bene dell’oceano "metafisico" (l’Infinito come quello di Giacomo Leopardi, e non in un "mare nostrum" di qualche Onnipotente di turno) , forse, è opportuno rileggersi " i sogni dei visionari spiegati con i sogni della metafisica", non fare di tutte le erbe un fascio, e non confondere lo spirito del profeta della "terza età", l’età della "charitas" (gr. Xapitas), con lo spirito dell’andrologico "uomo supremo" del visionario Swedenborg, come il "Marco Antonio", sognato da Cleopatra, nell’opera di Shakespeare.
STORIOGRAFIA E FILOSOFIA. Ad accogliere con Dante, le idee del "calavrese abate Giovacchino, di spirito profetico dotato" (Paradiso XII, 139-141), si comprende la "Concordia Novi ac Veteris Testamenti", si esce dall’orizzonte della tragedia e dall’inferno e si cominciano a rivedere le stelle: cominciano i primi passi di una rivoluzione antropologica e cosmologica, scientifica e copernicana. Nella scia di Giordano Bruno, di Galileo Galilei, di Keplero, di Newton, e di Kant, la cultura europea fa passi da giganti, ma sulle loro spalle salgono i nani e il cielo della scienza si riempie di "Nuvole" e le "orbite dei pianeti" di Hegel riprendono a cantare la musica delle sfere della tradizione cosmoteandrica sofistico-platonica.
IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO, TOLEMAICO E COPERNICANO" (1632) E I PRIMI PASSI DELLA RELATIVITA’. Quando Einstein, con Leopold Infeld, comincia a ricostruire il filo della "evoluzione della fisica" (1938), così scrive: "I tentativi intesi a decifrare il grande romanzo giallo della natura sono altrettanto antichi quanto il pensiero umano. Tuttavia sono trascorsi appena più di trecento anni dacché gli scienziati cominciarono a comprendere il linguaggio in cui quel romanzo è scritto. Da allora in poi, dall’epoca cioè di Galileo e di Newton, la sua lettura ha proceduto speditamente".... e continua ad essere portata avanti.
Federico La Sala
PSICOANALISI STORIA E FILOLOGIA. PER CERCARE DI CAPIRE QUANTO DI VIVO CI SIA ANCORA NEL PERCORSO DI FREUD, FORSE, è OPPORTUNO PRIMA DI TUTTO NON CONFONDERLO CON UN "FREUDOLENTO" MARPIONE CHE VA IN GIRO A VENDERE "UN CARPIONE DI VERITà" PRESO CON "ESCA DI FALSITà" (PER DIRLA COME POLONIO).
L’ENIGMA DELLA SFINGE E IL SEGRETO DELLA PIRAMIDE: L’ "ETICA DELLA PSICOANALISI" (J. LACAN) O LE "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD)?!
La questione è epocale, edipica, ma non nel senso banalizzato e dominante. Freud ha capito il suo errore, recupera tutto il suo coraggio iniziale, e precisa con determinazione il senso del suo progetto nel solare testo sulle "Costruzioni nell’analisi"! Se Howard Carter ha scoperto la tomba di Tutankhamon (1922), Freud ha compreso che il "segreto" della sua psicoanalisi non è solo una questione di tecnica (1937)! Per costruire le Piramidi (anche la sua Istituzione Psicoanalitica) non serve più consultare Platone: la "freudolenza" del marpione, con la sua "esca di falsità" (per dirla, ancora, con Polonio) puà essere utile per prendere qualche "carpione di verità", ma serve solo per portarla a Plutone.
ARCHEOLOGIA, PSICOANALISI, E SPIRITO CRITICO. A gloria di Freud, è da dire che la domanda su Edipo è da mettere accanto alla famosa "That is the question" di Amleto (Shakespeare) e alla sollecitazione ultima di Kant di reinterrogare tutta la tradizione culturale dell’Europa a partire dalla antropologia, dalla questione antropologica ("Logica", 1800). Con le considerazioni fatte sulle "Costruzioni in analisi", Freud, con le sue anguille (non con qualche "#carpa di verità"), non solo è riuscito a raggiungere gli Stati Uniti d’America, ma è stato capace di attraversare la Manica e di portare "in salvo", nel Paese di Howard Carter, a Londra, anche "L’uomo Mosè e la religione monoteistica", l’opera su cui ha dedicato tutta la sua vita.
COSTRUZIONI (NON INTERPRETAZIONI) NELLA PSICOANALISI FREUDIANA: IL SOGGETTO NON E’ UNO (NEMMENO DA SOLO), I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE. Le riflessioni di Freud sulle "Costruzioni nell’ analisi", a mio parere, possono essere preziose proprio per imparare a "dialogare" (Niccolò Machiavelli insegna) meglio anche con l’opera d’arte, e, in questo caso, con l’ "Amleto" di Shakespeare. Per una comprensione quanto più rispettosa del’opera, è necessario prima un grande lavoro "archeologico" e poi, a partire dai "dati acquisiti", proporre una sintesi (ri-costruzione) da verificare - per non prendere un granchio, o, peggio, prendere un carpione di verità con un’esca di falsità (alla #Polonio, con fraudolenta mente)!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (KANT, "Logica", 1800). Se si vuole continua a vivere, a lavorare e a pensare ancora nell’orizzonte platonico della "Scuola di Atene", nel "mondo come volontà e rappresentazione" dell’ "uomo supremo" non c’è che da ammetterlo e rendersene conto: le "costruzioni" nella psicoanalisi di Freud, però, non sono per nulla paragonabili alle #costruzioni degli onnipotenti sofisti (signori e signore) delle scuole t(al)ebane psicanalitiche contemporanee (laiche e religiose). Non è il caso di riflettere di più sulla pratica clinica della psicoanalisi tradizionale e accogliere la "vecchia" sollecitazione di Elvio Fachinelli di aprire alla analisi come "nexologia" e, infine, a una rinnovata e altra "fenomenologia dello spirito"!?
L’ESCA DI "POLONIO" E LA "CARPA DELLA VERITÀ": IL PUNTO DEL CAPITONE (LACAN) E LE ANGUILLE DI "AMLETO" (FREUD).
UN PUNTO DA APPROFONDIRE.Una citazione da le "Costruzioni in analisi" (S. #Freud, 1937):
JACQUES LACAN E IL GIOCO DEL DEMIURGO PLATONICO. "IL PUNTO DI CAPITONE": "Al tempo di Lacan, i materassi erano fatti di lana e i materassai li facevano cucendo la fodera con dei punti tramite un ago ritorto. I punti che tengono insieme le due fodere e la lana si chiamano “punti di capitone”.
Il punto di capitone è il nodo dell’imbottitura e Lacan ne fa la metafora del nodo che lega il piano dei significanti con il piano dei significati, altrimenti separati, come accade nella psicosi. [...] Lacan dice che il rapporto del significante e il significato è mobile, tende a disfarsi, invece nei punti in cui il significante si incrocia con il significato si producono effetti di senso. Il punto di capitone è la nozione necessaria per situare l’intenzione di significazione, cioè l’intenzione che mobiliterebbe il significante. Per colui che ascolta, ma anche per chi parla, quando si ascolta qualcosa che è stato detto è sempre nel momento successivo, in après coup, che si può accedere a quest’intenzione di capire qualcosa." (Cinzia Crosali, 2014).
FREUD E LE ANGUILLE (BURATELLI maschi E CAPITONI femmine), E L’ANATOMIA DEGLI ORGANI RIPRODUTTIVI. TRIESTE 1876: "il giovane Sigmund Freud, grazie ad una borsa di studio ministeriale, svolge presso la Stazione Zoologica di S.Andrea una ricerca sul sistema riproduttivo dell’anguilla. Freud esamina circa 400 anguille e scrive la sua prima pubblicazione: Beobachtungen über Gestaltung und feineren Bau der als Hoden beschriebenen Lappenorgane des Aals (osservazioni sulla conformazione e intima costituzione dell’organo globoso dell’anguilla, descritto come testicolo)." (OGS-ISTITUTO DI OCEANOGRAFIA).
PSICOANALISI, "NEXOLOGIA", E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: "[...] Il paradosso di Freud è stato quello di tentare una scienza dell’individuo [...]. E se il suo tentativo può dirsi, in parte, riuscito, ciò si deve al fatto che la sua non è stata una ricerca individualizzante; non è stata una ricerca di psicologia, nel senso stretto, nel senso classico della psicologia individuale. E’ stata sin dal principio una rilevazione dei nessi, dei rapporti peculiari attraverso i quali passa l’individuo singolo dalla sua nascita, e attraverso i quali egli si forma come individuo. In questo senso il termine psicoanalisi, da lui dato al campo di ricerca da lui dato al campo di ricerca messo in luce, è fuorviante, significa un aggancio e un compromesso con la disciplina accademica chiamata psicologia [...] Con Freud, invece si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali; comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore. Di essa, la psicoanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare" (cfr. E. Fachinelli, "Il paradosso della ripetizione","L’erba voglio" - Rivista, n. 5, 1972; poi, in E. F., "Il bambino dalle uova d’oro", Feltrinelli, Milano, 1974).
Federico La Sala
Psicoanalisi, pediatria, filosofia e pedagogia.
Un problema di libero arbitrio, di ricerca, di eresia, e di fanatismo...
SAPERE AUDE! (KANT, 1784). In omaggio a Sigmund Freud ("sono io stesso un eretico"), forse, è non male ricordare oggi (e ancora) che nel greco classico, il termine eresia, come "il latino haeresis da cui direttamente proviene, riproduce il greco αἴρεσις (...) ha le varie accezioni di "presa, scelta, elezione, inclinazione verso qualcuno o qualcosa, proposta" ; e che questa parola è un segnavia decisivo del suo stesso percorso - dall’inizio fino alla fine. "Acheronta movebo": almeno dalla "Interpretazione dei sogni" fino a "L’uomo Mosè e la religione monoteistica".
IL "PADRE" DELLA PSICOANALISI. L’atteggiamento autoritario di Freud (che ovviamente è anche teorico, addirittura ’autorizzato’ da #Platone) è leggibilissimo (anche) nel testo della stessa lettera (28 nov. 1920): poco gradendo le critiche di #Groddeck, la risposta che egli dà è carica di risentimento: sentendosi provocato, ha il tono di chi si chiude in difesa (anche con le sue ragioni) e risponde a tono (con un"Lei non sa chi sono io!"). Per far meglio capire il suo "carattere", Freud invita Groddeck a leggersi la sua ultima opera "Al di là del principio del piacere"!
"LA FRECCIA FERMA" (Elvio Fachinelli, 1979). Al di là di Freud, il problema, come ben si sa, è proprio il "sonno dogmatico" (Kant) della stessa psicoanalisi (e non solo) che ancora non è riuscita a ben pensare il nodo che lega il rapporto eresia, ortodossia, e fanatismo.
"DAL LUOGO DELLE ORIGINI". Dopo Freud, Winnicott fa un passo da gigante oltre lo "Scilla e Cariddi" edipico: con il coraggio degli inizi dello stesso Sigmund Freud, egli si è portato più vicino appunto al "luogo delle orgini" (1968) - oltre l’ideologico cielo di ogni atavico perbenismo e di ogni cieco narcisismo:
"Il punto centrale sull’adolescente è la sua immaturità e il fatto che non è responsabile [...] l’adolescente è immaturo, gli adulti maturi devono saperlo e devono credere nella propria maturità più che mai [...] se gli adulti cedono le proprie responsabilità ciò significa abbandonare i figli in un momento critico.
L’adolescente non ne è contento, la ribellione non ha più senso, e L’ADOLESCENTE CHE VINCE TROPPO PRESTO RIMANE IMPIGLIATO NELLA SUA STESSA TRAPPOLA, deve diventare dittatore e deve restare lì ad aspettare di essere ucciso.
[...] ciò che conta è che la sfida adolescenziale sia affrontata. Qui la comprensione è sostituita dal confronto [...] la parola confronto è usata per significare che un adulto (il ragazzo) rivendica ad alta voce il diritto di avere il proprio punto di vista [...] il confronto riguarda il contenimento senza rappresaglie, senza vendette, ma che tuttavia conserva la sua propria forza.
[...]
L’adolescenza è qualcosa di più della pubertà fisica, l’adolescenza implica crescita, e questa crescita è lenta. E mentre la crescita prosegue, la responsabilità deve essere presa dalle figure genitoriali. Se queste abdicano allora l’adolescente è costretto a fare un salto verso una falsa maturità e a perdere la sua maggiore risorsa: la libertà di avere delle idee e di agire sulla spinta dell’impulso."
(Donald Winnicott, “Dal luogo delle origini”, 1968, pp. 242-243).
P. S. - Sul tema, mi sia contentito, si cfr. Federico La Sala, Kant, Freud, e la banalità del male.
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E RELIGIONE. Appunti intorno a "L’uomo Mosè" (Freud) e "l’etica della psicoanalisi" (J. Lacan):
"A PROPOSITO DI JUNG" (Elvio Fachinelli, 1967) E A PROPOSITO DI LACAN (E. Fachinelli, 1989). *
COSMOLOGIA E COSMOTEANDRIA. Forse è giunto, finalmente, il tempo della svolta antropologica e del sorgere della Terra: deporre l’elmo di Costantino e parlare nella luce del logos (eu-angelo) e non nel buio del logo (van-gelo)!
FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA MITOLOGIA. Oggi, forse, è tempo di riprendere il cammino e, come indicato da Michael Maier, portarsi oltre Tebe d’Egitto e di Grecia, oltre l’orizzonte tragico di Edipo, l’eroe dai piedi gonfi , oltre la stazione dell’ Emblema XXXIX ("Atalanta Fugiens", 1618), nella direzione di Nietzsche: "Ecce Homo. Come si diviene ciò che si è" (1888) e, finalmente, rileggere le note del 1982 su "Così parlò Edipo a Cuernevaca" e riflettere su quanto proviene dalla "voce" (1982) di Franca Ongaro Basaglia: "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (1978). **
"FREUD O JUNG?" (E. GLOVER, 1950). La lingua batte dove il dente duole: è "un’impostazione vicina a quella esigenza antropologica dell’estatico" su cui Elvio Fachinelli richiamava l’attenzione (già dal 1975, con le note critiche sul "quinto privilegio dell’inconscio" e nel 1989, con il suo ultimo lavoro, dedicato a "La mente estatica" - alla mente accogliente).
* Per Jung, si cfr. E. Fachinelli, "Il bambino dalle uova d’oro. Brevi scritti con testi di Freud, Reich, Benjamin e Rose Thè", Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 71-75; per Lacan, si cfr. E. Fachinelli, "Lacan e la Cosa", in "La mente estatica", Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195.
** Franca Ongaro Basaglia, "Una voce Riflessioni sulla donna", Il Saggiatore, Milano 1982.
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
PSICOANALISI COSMOLOGIA E CIVILTA’: IL SOGNO, IL DESIDERIO, E LA NASCITA. Tracce per una svolta_antropologica...
Qui Bollas, mi sembra che semplifichi troppo e non tenga affatto conto dell’ombelico del sogno: ma tutto il programma di Freud non è proprio quello di dare "la dovuta attenzione alla pulsione profonda che muove l’Io [:] la pulsione a rappresentare il Sé" (C. Bollas), uscire dal gorgo claustrofilico e ad aprire glio cchi?
A mio parere, a questo punto del cammino della ricerca aperta da Freud, forse, è il caso di tornare indietro con lo stesso Bollas e rianalizzare il famoso gioco del bambino con il rocchetto (Freud, "Al di là del principio di piacere", 1920), che tocca questo problema nel profondo e rende possibile capire dove porta il "desiderio umano di rappresentare", dove nasce e dove porta "la pulsione profonda che muove l’Io [...] il principio di piacere della rappresentazione spinge il Sé a comunicare con l’altro, e parte di tale azione complessa è l’investimento inconscio del Sé nella ricerca della propria verità"(Christopher Bollas).
"IL BAMBINO DALLE UOVA D’ORO" (Elvio Fachinelli, 1974). Su questa strada è possibile dare a Freud ciò che è di Freud, a Bollas ciò che è di Bollas, e a Fachinelli ciò che è di Fachinelli.
"Essere giusti con Freud". come ha scritto Jacques Derrida, non è cosi semplice...
A mio parere, ripeto, Christofer Bollas non ha ancora ben pensato e pesato dal punto di vista teorico dell’antropologia e della storia (non solo della geografia) la presenza dello stesso Sigmund Freud a Londra (1938): la questione tocca il problema della nascita, di Mosè, e del Sè!
Detto in altro modo, e per via telegrafica e bibliografica, solo così si riesce a comprendere cosa dice "La frecciaferma", con i suoi "tre tentativi di annullare il tempo" (Elvio Fachinelli, 1979), la "claustrofilia", il "saggio sull’orologio telepatico in psicoanalisi" (Elvio Fachinelli, 1983) e, infine, "La mente estatica" (Elvio Fachinelli, 1989).
UN’ALBA STUPENDA. PARTENDO "DAL LUOGO DELLE ORIGINI" (Donald W. Winnicott, 1986) DEL GENERE UMANO... FINALMENTE LA TERRA E’ DAVANTI A OGNI ESSERE UMANO E IL SORGERE DELLA TERRA MANIFESTA TUTTO IL SUO BRILLANTE SPLENDORE.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
L’AMORE UNIVERSALE E UN’APPROPRIAZIONE INDEBITA: LA MEMORIA DI MOSÈ E IL CAMMINO DI SIGMUND FREUD
PSICOANALISI CATTOLICESIMO E "DISAGIO NELLA CIVILTÀ" ("Das Unbehagen in der Kultur"). Un’appropriazione indebita dell’amore universale e "L’infelicità nella civiltà" ("Das Ungluck in der Kultur"):
"[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]".
“[...] mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti. Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e auto distruttrice degli uomini. In questo aspetto proprio il tempo presentemerita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta contro il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?”(#SigmundFreud, "Il disagio della civiltà", 1929).
Per "orientarsi nel pensiero" (Kant), rileggere le note di Franca Ongaro Basaglia su "Così parlò Edipo a Cuernavaca" ("PM-Panorama Mese", novembre 1982) e ricordare il legame della "Interpretazione dei Sogni" (1900) con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante Alighieri.
Federico La Sala
POESIA E ANTROPOLOGIA. CAMBIAMENTO "CLIMATICO": IL PUNTO DI SVOLTA...
Note a margine del poema ("quattro") di Italo Testa:
CI SONO TUTTI GLI ELEMENTI. Riaffioramenti di antiche vie di ricerca antropologica e psicoanalitica. Nel lontano gennaio del 1898, il giorno QUATTRO, Sigmund Freud così scriveva al suo amico, il dr. Wilhelm Fliess: «Ho cominciato a considerare con attenzione il concetto di bisessualità e considero la tua idea in proposito come la più significativa per il mio lavoro, dopo quella di "difesa"». Il programma di Kant è messo all’ordine del giorno? O no?! Boh..... Federico La Sala
Riprendere il filo dal "quattro" di Italo Testa, ripartendo dalla lettera di Freud a Fliess del "quattro" gennaio del 1898, con il richiamo al programma di Kant, vuol essere un’indicazione di lavoro di "filosofia a venire" (J.-L. Nancy), al di là dei "Quattro" di Heidegger (cfr. "In cammino verso il Linguaggio": il commento a "Una sera d’inverno" di Georg Trakl), accogliendo il contributo di Elvio Fachinelli, una sollecitazione a ri-pensare il "nexologico" rapporto tra soggetto-oggetto, tra realtà-realtà (esterna) e realtà psichica, e venir fuori con Freud dall’orizzonte dialettico hegeliano e lacaniano!
Qualche giorno fa, sul filo di una ri-segnalazione di un libro dello psicoanalista Christopher Bollas, ("Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia", 2016), non a caso, parlavo di una OTTIMA SEGNALAZIONE che sollecita non solo a leggere e rileggere le opere del brillantissimo Christofer Bollas, ma anche a ricordare uno dei primi psicoanalisti, appunto Fachinelli, che ha messo a fuoco il nodo della "coppia freudiana" (cf. Pietro Barbetta, "Prenderli al volo prima che precipitino, 22 Ottobre 2016") e su cui (a mio parere) ancora c’è da riflettere (FACHINELLI E FREUD NELLA NAVE DI GALILEI : LA CONVERSAZIONE CONOSCITIVA...). O no?! Federico La Sala
PSICHIATRIA, ARCHEOLOGIA DELLE SCIENZEUMANE, E CREATIVITÀ! Prima di scrivere RELATIVITÀ, nella nota precedente, avevo scritto ARCHEOLOGIA ma, volendo e dovendo dare giusto rilievo alla portata rivoluzionaria del "primo principio della dinamica" e ricordare la relatività di Galilei, ho sostituito l’uno con l’altro. Ora, un ricordo-commento ’veloce’ di un’amica ha favorito la sovrapposizione del titolo dell’opera di Michel Foucault ("Le parole e le cose. Archeologia delle scienze umane") per dire del titolo dell’opera di John L. Austin ("Come fare cose con le parole") e ha "riportato" il "racconto" al punto da dove il filo è partito: il legame tra il "quattro", il progetto di Italo Testa, la rivista elettronica "Le parole e le cose", ove il testo è apparso, e il quattro gennaio 1898, il giorno dell’invio della lettera di Sigmund Freud a Wilhelm Fliess: all’origine stessa della psicoanalisi. Che dire? Due passi avanti e uno indietro, per saltare meglio... “quattro”! Federico La Sala
ARCHEOLOGIA DELLE SCIENZE UMANE. SICCOME ITALO TESTA ha "rotto le acque" e, finalmente, in "quattro" e "quattro" (otto, la "gravidanza" è partita intorno al 2013), ha portato alla luce il suo poema (Oèdipus, 2021) e ha osato mettere il dito nella piaga, che non è solo una piaga, ma anche una "finestra" su un altro mondo ( per chi è incredulo, Caravaggio "in-segna"),
PER FESTEGGIARE al meglio l’evento (che coincide anche con i DIECI ANNI di "Le Parole e Le Cose"!) e sottolineare il "sorprendente" valore della sua ricerca poetica e antropologica, mi sia lecito,
CONSIGLIO di riconsiderare, alla luce del tempo pandemico presente che ha indotto e prodotto un gigantesco ed epocale lockdown (un confinamento esteso e prolungato, come di una "analisi interminabile"), i «rituali» nella «Wunderkammer» psicoanalitica (cfr. l’ intervista: "Sanguineti incontra Sigmund Freud" del 1974, in "Le interviste impossibili. Ottantadue incontri d’autore messi in onda da radio Rai", Donzelli 2006), e
INVITO a riandare (ancora e di nuovo) non solo "alle origini della psicoanalisi" (e alle discussioni tra Freud e Fliess: in particolare, al "quattro" gennaio 1898), ma anche a riprendere le indicazioni di sul tema ("La Freccia Ferma", 1979; "Claustrofilia", 1983) e cercare di venir fuori dall’orizzonte della città di Edipo.
Dalla città di Dite?! Sì!
In “quattro”, dal labirinto claustrofilico uscire si può.
DANTE 2021! Dante e Virgilio ce l’hanno fatta (Inf. XXXIV, 90) e hanno visto Lucifero a gambe all’aria! Federico La Sala
Riprendere il filo: «#Psicologia delle masse e #analisi dell’Io» (#Freud 1921), «#Capo» (#Gramsci 1924), «La #psichiatria inglese e la #guerra» (J. #Lacan 1947). Dal #labirinto si può uscire...
APPUNTI SUL "CARTELLO". Una struttura quadripartita per il lavoro nella Scuola di Lacan. (Appunti):
LA SCUOLA DI LACAN. Per lo svolgimento del lavoro, adotteremo il principio di una elaborazione sostenuta in un piccolo gruppo": un lavoro che "nel campo aperto da Freud restauri il vomere affilato della verità - che riconduca la prassi originale da lui istituita (...) a quel che al mondo le spetta - che con una critica assidua vi denunci le deviazioni e i compromessi..."(J. Lacan, "Atto di fondazione", 21 giugno 1964).
Jacques Lacan, «Atto di Fondazione»: «[...] Quanti verranno in questa Scuola si impegneranno a svolgere un lavoro sottoposto a un controllo interno ed esterno. È loro garantito in cambio che niente sarà risparmiato affinché tutto quel che faranno di valido abbia la risonanza che merita, e il posto che converrà. Per lo svolgimento del lavoro, adotteremo il principio di una elaborazione sostenuta in un piccolo gruppo. Ciascun gruppo (abbiamo deciso un nome per designare questi gruppi) sarà composto da un minimo di tre persone, da un massimo di cinque, quattro è la misura giusta. Più una incaricata della selezione, della discussione e dell’esito da riservare al lavoro di ciascuno. [...]» in La Psicoanalisi n° 30/31, Astrolabio, Roma, p. 9-16
"[...] il cartello, di cui, fatta l’esperienza, affino la formalizzazione. Primo - Quattro si scelgono per perseguire un lavoro che deve avere il suo prodotto. Preciso: prodotto proprio di ciascuno e non collettivo. Secondo - La congiunzione dei quattro si fa intorno a un Più-uno, che, se è qualunque, deve comunque essere qualcuno. È a suo carico vegliare sugli effetti interni all’impresa e provocarne l’elaborazione. Terzo - Per prevenire l’effetto-colla, al termine fissato di un anno, due al massimo, si deve fare la permutazione. Quarto - Nessun progresso si deve attendere, tranne la periodica messa a cielo aperto dei risultati come delle crisi di lavoro. Quinto - Il sorteggio assicurerà il rinnovo regolare dei punti di riferimento creati al fine di vettorializzare l’insieme.”; "un’organizzazione circolare": " «Ciò non implica affatto un’organizzazione a testa in giù, ma un’organizzazione circolare il cui funzionamento, facile da programmare, si consoliderà con l’esperienza.» (J. Lacan, "D’écolage", Seminario dell’11 marzo 1980)
KANT CON SADE: «Dall’inconscio in poi, una struttura quadripartita è sempre esigibile nella costruzione di un ordinamento soggettivo.» (Jacques Lacan, «Kant con Sade», in Scritti, volume II, Edizioni Einaudi, Torino 2002, pag. 774->https://www.champlacanien.net/public/docu/5/epCartelAparicio.pdf].
"Leggendo Lacan, avrete probabilmente notato che egli sottolinea sovente il fatto che Freud abbia scritto
il suo testo sulla psicologia delle masse nell’epoca in cui si preoccupava
dell’istituzione analitica; ed è, sicuramente, una questione presente per
Lacan, nel momento in cui decide di fondare la sua Scuola, così come
è anche presente nel momento in cui decide di scioglierla. Quindi, una
volta stabilito l’obiettivo del lavoro, la questione, formulata in maniera
molto semplice, è: come organizzare il lavoro nell’ambito del gruppo?
Come riuscire a far lavorare insieme i membri del gruppo? Vi riformulo la
stessa domanda, ma in termini diversi: come stabilire un modo di legame
propizio alla realizzazione del compito che ci si è assegnati?
Ritengo che il Cartello risponda a questa domanda - ecco, quindi, il perché del Cartello. L’idea del Cartello trae origine dal viaggio di Lacan in Inghilterra, alla fine della guerra; egli era rimasto stupefatto quando Bion e Rickman, due psichiatri-psicoanalisti, gli raccontarono l’esperienza che avevano fatto durante la guerra. Allora lavoravano in un ospedale militare e venne loro assegnato il compito di occuparsi di ben 400 soldati, che erano degli irriducibili (formavano quella che in Francia si chiama «compagnia di disciplina»). Dunque, il compito di Bion e Rickman consisteva nel rieducare questi soldati, era un vero e proprio servizio di rieducazione. E questi psichiatri-psicoanalisti, negli anni ’40, ispirati dalla loro conoscenza della psicoanalisi e dal lavoro di Freud sulla psicologia delle masse, inventano - perché, in effetti, hanno inventato qualcosa - la creazione di piccoli gruppi su iniziativa dei soldati stessi. A quanto pare fu un grande successo! Bisognerebbe leggere il testo scritto da Lacan su questo tema, che si intitola «La psichiatria inglese e la guerra», perché è una meraviglia! Questo è ciò che volevo dire del Cartello." (Sol Aparicio - Rivista Intersezioni del Campo lacaniano n° 6 - FCL in Italia. Roma, 05/2012).
"Se si coglie che, nell’intento di Lacan, il lavoro della Scuola passava attraverso il cartello - e non il seminario, la conferenza, ecc..-, si comprende, allora, la funzione delle Sezioni della Scuola. Lacan aveva previsto tre Sezioni che corrispondevano a dei raggruppamenti di cartelli. Questo piano di Scuola, il Piano Lacan, non è mai stato realizzato. Secondo tale piano, il lavoro della Scuola si svolge in cartelli. Se ci sono dei corsi, dei seminari, delle conferenze, questo si fa al di fuori della Scuola. D’altronde, il Seminario di Lacan era al di fuori della Scuola. L’Atto di fondazione dice che lo specifico della Scuola, nel suo rapporto con la verità, è il lavoro per cartelli. La questione potrebbe essere d’attualità. Basterebbe deciderlo. Questo presupporrebbe d’interrogarsi sul perché il Piano Lacan non sia mai stato realizzato". (Il cartello nel mondo da JACQUES-ALAIN MILLER).
Federico La Sala
LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
Le parole sbagliate di Saviano.
Non si sconfigge la mafia calunniando la famiglia
di Maurizio Patriciello (Avvenire, mercoledì 11 agosto 2021)
Maria Licciardi, chi è costei? Roberto Saviano, in un articolo apparso sul ’Corriere della Sera’, la fa conoscere anche a chi di malavita organizzata non s’interessa troppo. Licciardi, infatti, è una boss della camorra napoletana. Una criminale «più pericolosa di Matteo Messina Denaro», la descrive Giuseppe Misso, collaboratore di giustizia.
Una donna intelligente, scaltra, sanguinaria, che insieme ai fratelli ha sparso terrore e sangue. Arrestata, scarcerata, latitante, riacciuffata pochi giorni fa. Una storia squallida la sua, come quella di tutti gli affiliati. Una vita passata ad arraffare e accumulare illecitamente tanto denaro di cui mai potrà goderne. Giornate vissute tra rabbia, odi, ipocrisie, menzogne, incubi di finire al 41bis o di essere ammazzata. Una vita sprecata, quella di Maria. Saviano scende nei dettagli e di lei ci fa conoscere parentele, amicizie, inimicizie, alleanze e tante altre noiosissime cose. Dico noiosissime perché, in fondo, le dinamiche della camorra sono sempre le stesse. Si fanno accordi, si litiga, si tradisce, ci si ’scinde’, si uccide, si viene uccisi.
Le alleanze si disfano, gli amici diventano nemici, i capi invecchiano, i giovani come puledri scalciano. E iniziano le guerre. Guerre intestine che sovente sono note solo agli adepti e agli inquirenti; altre volte, invece, esplodono all’esterno e coinvolgono tutto e tutti. Un uragano. Sono quelli i momenti in cui la camorra si fa più violenta ma anche più stupida e fragile. Alla base di tutto ci sono la bramosia per il denaro e per il potere. I camorristi ne vanno pazzi. Li cercano, li vogliono, li bramano. E quando li hanno ottenuti precipitano in quel delirio di onnipotenza che si rivelerà il loro tallone di Achille. Denaro e potere, come due vecchi compari ubriachi, si tengono per mano, barcollano, si abbracciano, si sorreggono. Stanno o cadono insieme. L’uno è causa ed effetto dell’altro. Le mafie sono uno dei cancri - non il solo - della nostra società.
A Saviano va la nostra riconoscenza per il lavoro svolto in questo campo. Un articolo, dunque, su Maria Licciardi e la sua famiglia di sangue e di violenza. Ma, ecco che, con un inaspettato colpo di coda, lo scrittore smette i panni del giornalista e indossa quelli dell’ideologo:
Si rimane basiti. È partito dall’arresto di una nota criminale per sferrare un attacco alla famiglia? È proprio vero, la lingua batte dove il dente duole. Converrebbe ricordare, tra l’altro, che se le mafie si sono arricchite a dismisura con il traffico di droghe e di donne destinate al mercato della prostituzione è perché milioni di persone ’perbene’ fanno uso delle une e delle altre. Se non si riesce a estirpare il cancro maledetto delle mafie è perché l’asfissiante abbraccio mortale con i colletti bianchi e i danarosi moralmente miseri non è mai venuto meno. Certo, tutto si può regolamentare. Potremmo esporre in vetrine le prostitute come in Paesi definiti ’più avanzati’ e rendere legali le droghe, ma non avremmo risolto il problema.
Ben altra chiusura meritava quell’articolo. Meglio, a riguardo, rifarsi ai libri di Isaia Sales e di tanti altri scrittori che hanno affrontato la questione. Conoscendo, purtroppo, la simpatia di Saviano per l’utero in affitto - obbrobrio tra i più odiosi che si consuma, ancora una volta, soprattutto sulla pelle delle donne povere e dei bambini venduti e comprati come merce - mi domando se alludesse a questo lo scrittore quando parla di «nuove dinamiche in cui crescere vite».
Ci vuole davvero una grande dose d’ingenuità - ingenuità che chi ha imparato a conoscere il cuore dell’uomo non possiede - per credere che con il lucroso commercio delle industrie dei bambini ’fabbricati’, e offerti a facoltosi acquirenti, le mafie sarebbero sconfitte. Per illudersi che la bramosia per il denaro e per il potere sarebbero spente. Per pensare che i cuori degli uomini sarebbero purificati come per incanto.
A supporto della sua tesi, Saviano, chiama Andrè Gide: «Famiglie! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità, vi detesto». Che dire? Gide e Saviano detestano la famiglia. Lo abbiamo capito e ce ne dispiace. Fatti loro, verrebbe da dire. A ognuno le sue esperienze, i suoi affetti, le sue idee. A nessuno però è concesso di calunniare la famiglia - le nostre famiglie! - che nonostante i limiti di ogni realtà umana, resta la prima fonte di vita, di relazioni, di crescita umana e spirituale per ogni essere umano.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
DIO: GESU’ E MARIA. E GIUSEPPE, DOV’E’?!! L’inutile strage (Benedetto XV, 1917) ... e il ’vicolo cieco’ del cattolicesimo-romano del 2006 d. C !!! Caro Benedetto XVI ... Pirandello (1918) aspetta ancora una risposta!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Humberto Maturana e la vita che scorre
di Pietro Barbetta (Doppiozero, 15.05.2021)
Chi era Humberto Maturana? Uno studioso particolare. Uno scienziato vero, lontano dalle pratiche “evidence based”, coltivate dagli odierni carrieristi. Un biologo, uno psicologo e un epistemologo; creatore di nuove lenti per osservare la natura e non solo, anche la mente e la società.
Uno di quegli epistemologi che traggono le proprie riflessioni dalle pratiche scientifiche che elaborano e dalle esperienze che creano, in laboratorio e attraverso l’osservazione della vita e dei suoi percorsi, negli organismi viventi, nei soggetti e nelle comunità.
Assieme a una vasta schiera di longevi - Gadamer, Ricoeur, Dorfles, Morin, che ancora vive a cent’anni, von Foerster e molti altri - Maturana è uno dei saggi della cultura occidentale. Ma è anche, insieme a Francisco Varela - suo allievo, morto prematuramente - un autore che ha pensato al legame profondo tra il corpo, la mente e le loro affezioni, uno Spinoza contemporaneo.
Autopoiesi
Autopoiesi e cognizione, l’opera chiave della sua vita, scritta con Francisco Varela, fu per noi, negli anni Ottanta, una lettura difficile: eravamo immersi nella cultura umanistica - letteratura, filosofia, psicologia e antropologia - e, allora, c’era una scissione radicale tra umanisti e scienziati naturali. Era una grande fatica comprendere il linguaggio di biologi che erano, al contempo, epistemologi.
Vado a memoria, senza citare con precisione, ma ricordo bene alcune frasi di difficile comprensione per noi: l’orientante orienta l’orientato nel dominio cognitivo dell’orientato; i sistemi sono strutturalmente aperti, ma organizzativamente chiusi. Lo stesso per alcuni concetti: deriva strutturale, autopoiesi, accoppiamento strutturale, cibernetica, cibernetica del second’ordine, ecc. Alcune parole sembravano ingegneristiche, altre legate agli studi sulla comunicazione, poi c’era questa “cibernetica”, la scienza dei nocchieri, infine il passaggio alla cibernetica del second’ordine.
Di che si trattava?
Cibernetica
La cibernetica nasce da Norbert Wiener e riguarda la creazione di dispositivi meccanici con retroazione. Significa che questi maccanismi ricevono informazioni dall’ambiente che li regola. Il classico esempio è il termostato, il feed-back è quello strumento che permette ai termostati di autoregolarsi verso una temperatura definita. All’inizio, per noi intellettuali umanisti, era quasi un’offesa: come si permettono costoro di parlare, a noi filosofi, di termostati? In realtà già Gregory Bateson, antropologo e cibernetico, su richiesta di Wiener, era riuscito a pensare, attraverso la cibernetica, una “macchina schizofrenica”. La macchina schizofrenica è una macchina che non rispetta i livelli logici. Usando quella macchina io posso collegarmi con un ipotetico fornitore designato come numero 135, per esempio, e chiedere numero 425 “maiali porto franco”.
La macchina si disconnette dal fornitore 135 e si connette con il fornitore 425.
In altri termini, la macchina mi confonde, mi impedisce di ottenere la soddisfazione del mio bisogno di “maiali porto franco”. In pratica, una macchina schizofrenica non può soddisfare i miri bisogni, è una macchina desiderante, priva di soluzione.
Anni dopo Gilles Deleuze e Felix Guattari fonderanno la schizo-analisi attraverso il concetto di inconscio come macchina desiderante, ispirandosi esplicitamente proprio alle riflessioni di Gregory Bateson.
Cibernetica del second’ordine
Di qui, per Maturana e altri, una riflessione sulla complessità, che dà vita alla cibernetica del second’ordine.
La cibernetica del second’ordine fornisce due principali considerazioni che cambiano in maniera radicale la scienza: innanzitutto l’osservazione delle relazioni e delle connessioni tra le cose, tra gli organismi, tra i soggetti, piuttosto che l’osservazione delle cose, degli organismi e dei soggetti, come enti isolati; in secondo luogo l’attenzione per le connessioni tra chi osserva le relazioni e le descrizioni che fornisce l’osservatore. Non possiamo non pensare a un altro grande autore francese che, in campo storico, fece la stessa operazione intellettuale chiamandola “metodo genealogico”: Michel Foucault.
Amore
Maturana scrisse con Francisco Varela diversi testi, eppure i due autori, fin dall’inizio, non avevano le stesse posizioni, la diversità fu una risorsa, pensavano la complessità, che è in primo luogo, appunto, differenza. L’amore era uno dei temi che li vedeva divergere.
Varela focalizza i suoi studi sperimentali sul tema dell’embodiment, che in italiano viene tradotto con mente incarnata, anche se sarebbe più preciso tradurre “incorporazione”. In questo senso Varela si avvicina ad autori come Gilbert Simondon, Bruno Latour, Bernard Stiegler: l’amore è, per Varela, una manifestazione corporea del campo affettivo.
Maturana invece sviluppa il tema dell’amore come collante nelle relazioni bio-psico-sociali. La psicopatologia potrebbe essere intesa come “corruzione dell’amore”, avvicinandoci al pensiero di Niklas Luhmann (in particolare al saggio L’amore come passione).
Per questo Maturana e Varela furono tra i grandi esponenti della “scienza romantica”, così definita da Alexander Lurjia e ripresa da Oliver Sacks.
Un amico
Ho incontrato varie volte Maturana, negli Stati Uniti, alle conferenze dell’American Society for Cybernetics e in Italia. L’ultima volta fu durante un convegno nell’ambito dell’Esposizione Universale, al padiglione del Cile, nel 2015. Venne a tenere un seminario con Ximena Davila.
In quell’occasione, Maturana invitò il Centro Milanese di Terapia della Famiglia a un confronto, come era accaduto altre volte. Fu una mattina molto particolare, il suo rapporto con i colleghi italiani era disponibile e dolce, mentre negli Stati Uniti, davanti al pubblico, era decisamente più freddo. Forse non aveva chiuso i conti con quel paese che lo aveva ospitato, ma che aveva, attraverso il suo governo, portato al potere la dittatura di Pinochet.
Si racconta di lui che, durante il regime di Pinochet, prima di salvarsi riuscendo ad andare all’estero, fosse stato interrogato perché gli trovarono in casa opere di Marx. Lui rispose che si meravigliava di chi lo interrogava: criticavano Marx senza conoscerlo? Pare che, gli aguzzini, ignoranti e confusi, lo avessero rilasciato momentaneamente, ciò gli permise la fuga dalla sua culla, Santiago, dove era nato il 14 settembre del 1928.
Incontrai Maturana altre volte, per esempio, nel 2002, a un convegno a Torino per commemorare la scomparsa di un altro grande ispiratore della cibernetica del second’ordine: Heinz von Foerster.
In quell’occasione, quasi vent’anni fa, durante la parte della discussione con il pubblico, gli chiesi di spigarmi il concetto di “deriva strutturale”, che non avevo compreso. Lui rispose più o meno così: immaginate di essere su una barca in mezzo al mare e di avere perso i remi. Possedete solo una bussola e una ricetrasmittente. Chiamate, con la trasmittente, il faro più vicino per avere soccorso. Il faro chiederà la vostra esatta posizione per inviarvi una nave da salvataggio. La barca giunge sul posto, ma voi sarete da un’altra parte. La deriva strutturale è la vita che scorre.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
FLS
UN SASSO NELLO STOMACO DELLA PSICANALISI: IL “CASO” DELLO “PSICANALISTA «COL MAGNETOFONO»”!
«Disse Freud: “Tre sono i mestieri impossibili: governare, educare, psicoanalizzare”. Tutte e tre sono attività che hanno a che fare con l’inconscio. E proprio per questo non possono essere attività scientifiche. Ciò non toglie che il politico, l’educatore e lo psicoanalista debbano conoscere le scienze che li riguardano, debbano ispirarsi a esse, ma non sono essi stessi scienziati. Queste pratiche di cura sono aperte a tutte le alee della contingenza: ogni società e ogni epoca è diversa dall’altra, ogni educando è diverso dall’altro, ogni analizzante è diverso dall’altro. Guai generalizzare! La scienza generalizza, le pratiche di cura particolarizzano.» (Sergio Benvenuto, “Ti metti alla pari con Lacan! Patafisica psicoanalitica”, Le parole e le cose, 26 aprile 2021).
ACCOLTA QUESTA PREMESSA che ci colloca in un orizzonte-paradigma che presuppone e accetta la distinzione tra “le scienze” e “le pratiche”, per uscire da “un certo dogmatismo in psicoanalisi” (come dal “dogmatismo settario marxista”), forse, è proprio opportuno, per cercare di portarci “sulla spiaggia” e ristabilire il contatto con il mare aperto, ricordare il “caso” dello “psicoanalista «col magnetofono»”, Elvio Fachinelli!
UNA CURIOSA IMMOBILITA’. Nel 1977, Fachinelli pubblica il testo di uno straodinario caso, quello di “J.-J. Abrahams. L’UOMO COL MAGNETOFONO dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista, con note di J.-P. Sartre, J.-B. Pontalis, B. Pingaud e E. Fachinelli” (edizioni L’ERBA VOGLIO). Nel suo intervento, dal titolo “La parola contaminata”, egli scrive: “Leggendo i commenti preposti (nell’edizione originale di «Les Temps Modernes», 1969), al testo di Abrahams, si ha ora il seno di una curiosa immobilità. Sartre pone una domanda, parziale se si vuole, ma pungente: quella della violenza (o del potere) che sta dentro la relazione psicanalitica; Pontalis e Pingaud rispondono in modo generale e come di lato: scacco della reciprocità, testimoniato nell’opera stessa di Sartre (Pontalis); reciprocità come esito finale, come conquista (Pingaud). Le spade si sono incrociate, senza dubbio, ma i duellanti non sono andati oltre la prima mossa. E il testo di Abrahams risulterebbe così un exploit solitario, fermo come un sasso nello stomaco della psicanalisi - che ne ha digeriti ben altri. Senonché alcuni mesi fa è uscita una raccolta di vari scritti di Abrahams (L’homme au magnétophone, Le Sagittaire, Paris, 1976) che a mio parere riapre il problema e permette, forse, di far muovere quel sasso [...]”.
FAR MUOVERE QUEL SASSO! Nel 1979, Fachinelli pubblica “La Freccia Ferma. Tre tentativi di annullare il tempo” (edizioni L’ERBA VOGLIO), nel 1983 “CLAUSTROFILIA. Saggio sull’orologio telepatico in psicanalisi” (Adelphi), e, nel 1985, un breve testo “Sulla spiaggia” ( “Lettera Internazionale”, 2, n. 6, autunno 1985).
Con evidenti “segnali” di grande audacia teorica., Fachinelli si mette in gioco, coraggiosamente, e si porta “al di là del bene e del male” - al di là del femminile e del maschile e al di là della debolezza e della forza: depone le armi dialettiche della “intelligenza astuta” hegelo-lacaniane e osa aprire la porta a un nuovo orizzonte-paradigma, a una nuova antropologia e a una nuova psicoanalisi.
Nel febbraio del 1989, stampa “La mente estatica”: “La metamorfosi dei sensi, non un loro oltrepassamento, è anche - scrive Fachinelli - al centro del trasumanar dantesco”. Che dire? Non è ora di uscire dall’inferno, e dal presente lockdown?!
DOC.: L’ARTISTA «COL VIDEO-REGISTRATORE»(2021)!
Primo Maggio
Fedez e il video della telefonata con la Rai: «Sul palco devo essere libero di dire quello che voglio, non lo stabilite voi»
Fedez dopo il discorso del Primo maggio pubblica il video della telefonata con la Rai: «La vicedirettrice di Rai 3 Ilaria Capitani mi esorta ad “adeguarmi a un sistema”»
di Greta Sclaunich *
Fedez accusa i vertici di Rai3 di avergli chiesto di omettere nomi e partiti dal suo intervento sul palco del Concertone, la Rai controbatte smentendo pressioni e censure preventive. Ma il cantante non ci sta e, subito il suo discorso sul palco del concerto del Primo Maggio, ribatte su Twitter: «La Rai smentisce la censura. Ecco la telefonata intercorsa ieri sera dove la vice direttrice di Rai 3 Ilaria Capitani insieme ai suoi collaboratori mi esortano ad “adeguarmi ad un SISTEMA” dicendo che sul palco non posso fare nomi e cognomi».
Pubblicando il video della telefonata, nel quale si sente la discussione molto accesa con i dirigenti di Rai3 [...] *
*Corriere della Sera (ripresa parziale).
VITA, FILOSOFIA, E PSICOANALISI. ELVIO FACHINELLI (1928-1989):
LA FRECCIA FERMA [1979], CLAUSTROFILIA [1979] ... E LOCKDOWN, OGGI [2021]
PREMESSO E CONSIDERATO CHE "In Italia la vicenda di Abrahams e il suo gesto di rottura arrivano nel 1977 grazie alla casa editrice di Elvio Fachinelli, L’erba voglio. La vicenda riverbera fino ai nostri giorni e il dialogo psicoanalitico viene ripubblicato, a cura di Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina, per Ombre corte. 1967-1977-2017: l’uomo col magnetofono non c’è più, ma la sua registrazione testimonia ancora di qualcosa che, nell’era della tecnica, forse non ha più così risonanza: i rapporti di potere all’interno dei setting di psicoterapia" (Gianluca D’Amico, "Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono", Psicologia Fenomenologica, 21.04.2021), è da DIRE (a mio parere, ovviamente) che la situazione del "lavoro psicoanalitico" OGGI è ancora (purtroppo) come (e peggio di) IERI: "Leggendo i commenti [...]" al testo di Abrhamms, scrive Fachinelli (nel 1977) - "si ha ora il senso di una curiosa immobilità". Niente è cambiato! E tutto è fermo: una questione al di là del bene e del male, al di là della debolezza e della forza e al di là del femminile e del maschile (sul tema, cfr. La lezione di Dante - e Nietzsche, oggi)!
Giusto: "Che la vicenda di Abrahams instilli in noi tecnici della salute mentale il dubbio. Il dubbio sul nostro sapere; il dubbio sull’uso che ne facciamo di questo sapere di fronte alla persona che incontriamo e che ci chiede aiuto. Il delicato e strano equilibrio di cui parlavamo prima è un equilibrio che dovrebbe farci oscillare e renderci consapevoli di questo esercizio di oscillazione: a tratti posso pendere dalla parte della tecnica, del come si fa; a tratti mi sarà necessario pendere dalla parte della soggettività che eccede la tecnica e, quindi, chiedermi non tanto come si fa a guarire questo disturbo ma chi è questo persona che ho di fronte e chi sono io per lei: appunto, l’enigma dell’intersoggettività.
Niente di magico e spirituale, anzi. Si tratta, per l’appunto, di un esercizio: fare pratica di pensiero debole direbbe il filosofo Pier Aldo Rovatti. Prendere distanza dalla tecnica, immergersi nella dimensione profondamente interpersonale dell’esperienza per costruire e ricostruire costantemente questa fragile sensazione di reciprocità con l’Altro" (G. D’Amico, cit.)!
Ma per fare questo passo, al di là della vecchia antropologia, occorre portarsi "Sulla spiaggia" (1985), deporre le armi dialettiche della "intelligenza astuta" hegelo-lacaniana, e "mettersi in gioco, coraggiosamente", come ha sollecitato a fare e ha fatto Fachinelli ("La Mente estatica", 1989).
Federico La Sala
OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE, CON ULISSE-DANTE. Essere giusti con (Kant e) Freud....
PACCOTTIGLIA FREUDIANA
di Sergio Benvenuto *
Molti, e non solo psicoanalisti, votano a Sigmund Freud un vero culto. Per loro Freud non è solo l’inventore di una teoria e di una pratica che hanno marcato la nostra epoca, ma è un genio che raramente si è sbagliato. Il rovescio di questo culto della personalità sono i Freud bashers, quegli autori che non solo attaccano radicalmente Freud e la psicoanalisi, ma dedicano spesso gran parte della loro vita a distruggere il mito di Freud. Ho sempre cercato di sfuggire a questo doppio polo, per confrontarmi con un’immagine del tutto laica - né agiografica né spregiativa - di Freud.
In conclusione. Ho segnalato questi cedimenti intellettuali di Freud per liberarci di una persistente egemonia del pensiero freudiano? Ricordare le concessioni di Freud alla paccottiglia storiografica è parte della campagna per screditare Freud e la psicoanalisi?
No, perché sono convinto che Freud abbia detto alcune cose fondamentali, e che la pratica analitica non è riducibile a una pratica magica o suggestiva. Ma questo a condizione di non prendere Freud alla lettera, di non far parte di una sacrestia psicoanalitica del culto freudiano. Freud era un uomo della propria epoca, con pregiudizi e limiti di certi intellettuali razionalisti della propria epoca, aveva i suoi punti ciechi. Insomma, non si può comprare Freud in toto.
Ma proprio questo dovrebbe permetterci di mettere in luce ciò che in Freud non è effimero, fossero anche solo due o tre cose... Come facciamo del resto con quasi tutti i grandi autori del passato: distinguiamo ciò che resta di un autore, da aspetti transeunti legati alle mode e alle fisime del pubblico dell’epoca, a idiosincrasie personali che oggi non ci dicono più nulla.... Questo è vero per Platone, per Dante, per Molière, per Kant... per tutti. Occorre voltare pagina nella storiografia psicoanalitica: uscire dall’alternativa “ricostruzione pia e pietosa” versus “demistificazione demolitiva”, prendere la giusta distanza da Freud e dalla psicoanalisi. E costruire, anche attraverso Freud, una pratica della soggettività giusta per il XXI° secolo.
* Fonte: Le parole e le cose, 15 febbraio 2021 (ripresa parziale - senza note).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA: FREUD CON KANT.
FLS
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ...
Chi è il mostro oggi? Il coronavirus, la Merkel, l’Europa o forse noi stessi?
di Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà *
In attesa di un picco che non arriva, chiusi nelle nostre case, attraversiamo giorni claustrofobici e interminabili. Perduti in noi stessi, ci aggiriamo nelle nostre abitazioni-prigioni come se queste fossero labirinti. Dalla mitologia greca riusciamo ad attingere, quasi sempre, un appiglio significativo al fine di evitare un panico illimitato, che può condurci ad azioni del tutto irragionevoli, quale quella ad esempio di spendere le giornate inseguendo il roboante susseguirsi di notizie e numeri (per dolo o colpa) poco chiari riguardo lo sviluppo della pandemia di Coronavirus. Cerchiamo perciò di conferire un senso alla claustrofobia, pure oggettiva, ragionando sull’accezione di mostro. Chi è il mostro oggi?
IL MINOTAURO CORONAVIRUS
Recependoci smarriti e intrappolati nel labirinto della nostra psiche, ci sovviene in mente il mito del labirinto di Cnosso, abitato dal Minotauro. Frutto della gelosia e punizione divina, il Minotauro è feroce, impietoso, mostruoso, pure sul piano figurativo: il suo corpo ricalca quello di un maschio/uomo, mentre la sua testa quella di un toro. Teseo si offre di uccidere il Mostro e vi riesce. Rimane il problema di uscire dal labirinto, problema che viene risolto grazie all’ingegnosità e intelligenza di Arianna, con il suo noto e semplice filo rosso. Molti possono ritenere che il Minotauro sia il Coronavirus, mentre le ricerche scientifiche somiglino al il filo d’Arianna: troveranno il vaccino e ci consentiranno di sopravvivere piuttosto bene anche al post-virus? In ogni caso, al cospetto del Coronavirus, il Minotauro pare mostruoso, in una misura decisamente inferiore. Il Minotauro, alla fin fine, esige da Atene solo sette ragazzini e altrettante ragazzine all’anno, mentre sulla strage causata dal Coronavirus, quando e se verrà sconfitto, il numero di persone morte si ipotizza assai alto a livello mondiale. Ed economicamente come ci ritroveremo? Cosa prevarrà nei sopravvissuti? Egoismo? Altruismo? Narcisismo? Individualismo? E che dire della possibile crescita esponenziale di populismi e nazionalismi?
LA MEDUSA GERMANIA-EUROPA
Sempre alla mitologia greca dobbiamo Medusa, mostro che a differenza di altri/e, è mortale e con un tratto specifico, ovvero una testa cinta soprattutto di serpenti. Siamo portati a credere che la “nostra” Medusa sia la Germania, in quanto pietrifica ogni generosità europea e che l’Europa ci salvERà. Invece, da qualche giorno, stiamo osservando il problema in modo diverso, dato che quest’Europa pare non risultare affatto Gli Stati Uniti d’Europa, ovvero una Repubblica Federale, composta da più membri (Stati), tra loro uniti. Occultare l’attuale realtà non serve a nulla, se non a precipitare in un pericoloso auto-inganno: un aspetto innegabile della realtà è il fatto che l’Unione Europea si è trasformata (grazie anche a una certa recente politica del nostro paese) in un coacervo di avidità nazionali, con in testa la Germania e i pochi Paesi “ricchi” e virtuosi Paesi, che mal tollerano gli “scapigliati” e “spreconi” cugini poveri e “meridionali”.
LA CICLOPICA MERKEL
Riflettiamo infine sulla narrazione politica di questi giorni che descrive una fredda nonché calcolatrice Merkel in quarantena dopo l’incontro con un medico, risultato positivo, mentre adotta rigide misure nei confronti dei tedeschi. E che lo stesso stiano facendo i suoi colleghi di mezzo Mondo (Gran Bretagna, USA, Olanda in ordine sparso). Occorre chiedersi perché, fino a poco fa, si siano tutti percepiti immuni dal virus. Siamo alle solite, o no? Merkel: un “mostro” che cavalca i “conformisti cervelli” tedeschi? Anche, ma forse ci dimentichiamo come negli anni la Germania abbia destinato più risorse del proprio PIL alla sanità rispetto ad altri Paesi (che hanno magari preferito “investire” in pensioni insostenibili) e come sia un Paese che non ha bisogno di impiegare esercito o forze dell’ordine per far rispettare regole e leggi anti pandemia.
“Questo Mostro - sempre così latente - dovrebbe renderci più umili. Invece la nostra debolezza ci conduce spesso ad affondare nella palude della paura e della tuttologia, per abbracciare una colpevole strategia comunicativa, di matrice politica, che ammicca tanto a una legittime angosce, tanto nell’antico amor di sé, da cui non ricaviamo alcun aiuto, né sostegno. Avendo perso il nostro filo rosso, aiutiamoci a volare più in alto per vedere insieme non il mostro, ma quale sia la via d’uscita dal labirinto.“. Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà
CHI E’ ALLORA IL MOSTRO?
Sarebbe preferibile ammettere che non riusciamo a conferire un nome al Mostro. Non solo la realtà è così complessa e non c’è un unico mostro/nemico, ma dobbiamo ammettere che il “colossale”, nonché più che ragionevole, consiste nel nostro palese coinvolgimento in una situazione di cui risulta difficile una “veduta a volo d’uccello”, più alta e serena, basilare al fine di discernere tra miti e realtà. Oggi è meglio sospendere giudizi univoci, mantenere la lucidità e nutrire dubbi piuttosto che sentenze.
Possiamo così affermare che il Mostro non è un virus, né un singolo Stato né un evento. Il Mostro risiede in noi e si alimenta dalle e nelle difficoltà e condizioni avverse. Cerchiamo di guardare ai Mostri finora elencati con uno sguardo a volo d’uccello: il coronavirus è probabilmente determinato da uno sviluppo umano non sostenibile e dal conseguente cambiamento climatico. L’egotismo tedesco rintraccia un terreno fertile in quella politica italiana che ha fatto schizzare la spesa pubblica e il debito per fini meramente populistici, non affatto ai fini della crescita sul medio-lungo termine del Paese. Dopo la clamorosa bocciatura della Costituzione, l’Europa ha perduto la propria generosità perché di fatto l’Europa sognata dai Padri fondatori oggi non esiste e non esiste a causa del prevalere di troppi sovranismi (anche nostrani) oggi recriminanti.
COME CURIAMO I NOSTRI MOSTRI?
Come ci insegnano i Miti greci, all’intelligenza, alla razionalità e a una qualche astuzia dobbiamo la salvezza dai nuovi e illimitati Mostri, che accompagnano le nostre esistenze dall’inizio dei tempi.
Nel presente momento di difficoltà ci si appella profusamente all’empatia, anche se sarebbe forse meglio richiamare il bisogno di compassione e sostegno reciproco. La differenza non è poca: si corre infatti il rischio di limitare il nostro potere di reazione a bandierine, canzoncine e disegni, ovvero alla tentazione di crogiolarsi nella sofferenza. Abbiamo invece bisogno di saper condividere tale sofferenza, il che, pur non rinnegando i limiti e le difficoltà dell’oggi, si situa all’opposto di azioni e linguaggi che generano panico nell’altro-da-sé. Il Coronavirus è sì il Mostro (o uno dei mostri) di turno, al pari di altre pandemie che ci hanno afflitto in passato, ma pure al pari dell’atomica, impiegata a fini militari, dell’11 settembre, dell’Isis, e via dicendo, il che dovrebbe farci riflettere con sulla nostra “universale” condizione errante, sulla finitezza umana, sull’impossibilità dell’onniscienza.
Questo Mostro - sempre così latente - dovrebbe renderci più umili. Invece la nostra debolezza ci conduce spesso ad affondare nella palude della paura e della tuttologia, per abbracciare una colpevole strategia comunicativa, di matrice politica, che ammicca tanto a legittime angosce, quanto all’antico amor di sé, da cui non ricaviamo alcun aiuto, né sostegno. Avendo perso il nostro filo rosso, aiutiamoci a volare più in alto per vedere insieme non il mostro, ma quale sia la via d’uscita dal labirinto.
*
Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà, 1° aprile 2020 - dalla Quarantena ("amanutricresci").
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
UN SONNAMBULISMO DI LUNGA DURATA: VIVERE NELLA CAVERNA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS....
Nota a margine di "Il virus e l’inconscio. Diario di una quarantena" (di Sergio Benvenuto) *
FINALMENTE, E PIANO PIANO, EMERGE LA RADICALE CONSAPEVOLEZZA CHE “NOI” VIVAMO all’interno della “caverna”, dopo la “caduta”, e che uscire dal “letargo” (cf. Dante) è sempre più urgente. L’immaginario platonico-hegeliano ha esaurito ogni sua risorsa. L’orizzonte “andrologico” adamitico (e “ginecologico” eva-itico!) si va a chiudere, definitivamente:
«Attualmente politici, filosofi, moralisti, giornalisti, ripetono in Italia la stessa cosa: “Questa sarà un’occasione per renderci migliori!” Ricorrente idea consolatoria: pensare che se si attraversano catastrofi, tragedie, guerre, flagelli, poi si sarà migliori. Le traversie temperano il carattere, si diceva un tempo. [...] Attribuire agli umani tutti i mali è l’altra faccia di quella divinizzazione dell’Uomo (che risale a Pascal) che la filosofia più moderna ha denunciato: se si pensa che l’essere umano sia nel fondo potente come Dio, si penserà anche che possa avere la malvagia onnipotenza di Satana. Ma gli uomini non sono né Dio né Satana. »(SERGIO BENVENUTO - "Il virus e l’inconscio", cit., sopra)
SE CONSIDERIAMO CHE LA “SCIENTIFICA” TEO-LOGIA CATTOLICA COSTANTINIANA condivide ancora la “verità rivelata” dal cardinale Dario Castrillon Hoyos: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” (dichiarazione alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio , “la Repubblica” del 17 novembre 2000, p. 35), -E CHE LEGGIAMO E INTERPRETIAMO l’ antropologico “Ecce Homo” di Ponzio Pilato ancora in temini “andrologici” e” viro-logici” (cf. il saggio “Ecce” di C. Ginzburg, in “Occhiacci di legno”; e il recente lavoro di S. Natoli su “L’uomo dei dolori”), ALLORA è più evidente che viviamo ancora NEL PASSATO, NELLA PREISTORIA, e che LA RISATA DI KANT ha ancora un carico di energia per svegliarci dal letargo, far crollare le pareti della caverna, e portarci fuori da millenni di labirinto (Nietzsche). Ricordiamo, su questo tema, anche la lezione di Elvio Fachinelli. O no?! Boh e bah?!
*
PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA
Confessioni di un claustrofilico...
INFIN CHE ‘L MAR FU SOVRA NOI RINCHIUSO.“Ulisse”, in cura da Dante e Fachinelli ...
Una nota a margine *
PREMESSO, A MIO PARERE, CHE IL PROGRAMMA DI ELVIO FACHINELLI ERA PROPRIO QUELLO PORTAR-SI FUORI DAL “GRUPPO CHIUSO” (A TUTTI I LIVELLI) E DI USCIRE DALLA DIMENSIONE PATOLOGICA (SIA CLAUSTROFOBICA SIA CLAUSTROFILICA) DELLA “CAVERNA” PLATONICA (cfr.DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, “SU FREUD”) E, ACCOLTE le considerazioni relative a “quanto a me, quanto al resto” dell’autore delle “Confessioni”:
E’ POSSIBILE, forse, rileggere serenamente l’ultimo verso del XXVI della prima Cantica della “Divina Commedia”? O no?! Boh e bah?!
*
P. S.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA DECAPITAZIONE DI OLOFERNE E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA. UN OMAGGIO A ELVIO FACHINELLI. Una nota sull’importanza della sua ultima coraggiosa opera
FLS
IL LATO GROTTESCO DELLA PSICOANALISI
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 08/01/2020)
Nei giorni scorsi ricorreva il trentennale della morte di Elvio Fachinelli, psicoanalista e intellettuale tra i più significativi in Italia negli anni Settanta-Ottanta, avvenuta a Milano il 21 dicembre del 1989. A commemorarne la scomparsa è appena stata pubblicata per i tipi di ITALO SVEVO e alla cura dedita e filologicamente attenta di Dario Borso, rigoroso studioso di Hegel e Kierkegaard, parte dei diari che Fachinelli ha tenuto con regolarità dai primi anni Sessanta sino ai suoi ultimi giorni con il titolo: Grottesche. Notizie, racconti, apparizioni. Si tratta di una serie di aforismi di natura psicosociale che scandagliano un tema centrale di tutta la sua ricerca: la difficoltà dell’essere umano di abitare generativamente la contingenza illimitata dell’esistenza, di stare nell’aperto della vita, di affidarsi alla pulsazione estatica dell’inconscio.
Erede della lezione freudiana, per Fachinelli la psicologia individuale è già da sempre psicologia sociale; lo sguardo dell’analista attraversa obliquamente - secondo un movimento più topologico che topico - le vicissitudini della vita individuale e della vita collettiva. Il suo metodo è laico nel senso anch’esso freudiano del termine: ignora le verità assolute, incontrovertibili; sottopone al vaglio ininterrotto del pensiero critico i suoi oggetti.
Ma cosa indica la categoria del grottesco? Grottesca appare innanzitutto la vita che rinuncia alla sua fondamentale apertura, che si separa dalla trascendenza interna dell’inconscio per chiudersi nell’adattamento conformistico al principio di realtà. Questa vita si difende grottescamente dalla vita stessa. Essa preferisce il chiuso all’aperto, l’adattamento alla creazione, l’irrigidimento del confine alla "brezza marina". È la tendenza della psicoanalisi ortodossa che nella sua istituzionalizzazione ha finito per tradire la sua stessa invenzione, quella dell’inconscio come apertura illimitata, luogo "femminile" di una "gioia eccessiva".
La prima faccia del grottesco risulta dal rigetto fobico di questa apertura e dallo schiacciamento - "iperrealistico" lo definisce Borso nella sua introduzione della vita che si riduce a quella di un automa senza desideri preda di una ripetizione sterile. È la vita del paziente nevrotico ossessivo protagonista della parte iniziale de La freccia ferma per il quale «il tempo è segmentato in una serie di tempuscoli, ognuno dei quali è chiuso e delimitato in sé». Ne abbiamo una descrizione efficace: «solo e sicuro nella sua auto come un mollusco nella sua valva. Si mette le dita nel naso, scorreggia, prega, eccetera». È questo il primo volto del grottesco; la vita che smarrisce la sua trascendenza per compattarsi con l’esistente. Declinazione quotidiana della pulsione securitaria: meglio il chiuso, l’ottundimento identitario, dell’estasi che spalanca pericolosamente la vita verso l’infinito come piega interna e ingovernabile del finito.
Esiste però un secondo volto del grottesco; esso si palesa quando l’Ideale vorrebbe esercitare un dominio assoluto sull’esistenza singolare. Grottesca appare allora la rimozione della vita individuale nel nome del carattere universale dell’Idea. È un punto di chiave di tutto il pensiero di Fachinelli. La psicoanalisi ha elevato l’infimo, il dettaglio, il particolare ad una dignità sconfessata dalla ragione filosofica e politica classica. Viceversa il dominio dell’Idea è una malattia endemica del fanatismo rivoluzionario e del tono fondamentalistico e settaristico della sua predicazione. Fachinelli, intellettuale di sinistra, la squaderna con ironia amara davanti ai nostri occhi: «è paradossale - scrive - il destino di molti rivoluzionari. Lavorano sul serio a una cosa che, per essere fatta, per diventare realmente popolare, implica l’entusiasmo, il senso di avventura, la novità - e sono spietati nell’ucciderla».
Si tratta di un fantasma rigoristico, sacrificale ed eroico insieme: «attesa della palingenesi, mito della purezza e della violenza». La distinzione è severa e rigida; da una parte il bene dall’altra il male, da una parte i puri dall’altra gli impuri. È l’”ossatura paranoica" di ogni ideologia che esclude la laicità del pensiero. È la tentazione di tutti coloro che, identificandosi ad una Causa che annichilisce il particolare, vorrebbero farsi maestri e padroni della Causa stessa. Ma questo inno esaltato dell’Ideale non può evitare il continuo inciampo nel particolare che crede di rimuovere. L’oratore di estrema sinistra che arringa il suo popolo ad agire nel nome dell’Ideale di purezza, osserva Fachinelli, «cade in continui lapsus di date e di nomi»; un noto scrittore di estrema sinistra non riesce a dormire perché pensa continuamente ai soldi; «la sinistra ha sostituito il sorriso con il ghigno».
Il grottesco sarebbe suscitato dal ritorno del rimosso del particolare nelle maglie anonime della predicazione purista dell’universale. Ma tutte le critiche che lo spirito laico di Fachinelli muove al settarismo della sinistra sono le stesse che rivolge alla psicoanalisi ortodossa. La malattia è comune; il senso del grottesco anche. Fantasma di purezza, attitudine paranoica a concepire la differenza come deformità minacciosa, sclerotizzazione del linguaggio in codici morti, lontananza siderale dall’esperienza dell’apertura illimitata della vita: «trionfo dell’esegesi psicoanalitica; malore della psicoanalisi».
Solo alla psicoanalisi sta a cuore il senso della sofferenza mentale
CONVEGNI. L’efficacia incompresa dell’orientamento psicodinamico. «L’efficacia della psicoterapia psicoanalitica nei contesti di cura»: il 7 a Roma
di Francesca Borrelli (il manifesto, 06.06.2019)
Da anni, ormai, della sofferenza mentale si è impossessato un ingegnoso mercato, che punta sulla idealizzazione delle neuroscienze e sugli effetti delle terapie cognitiviste, entrambe perfettamente sintonizzate con l’individualismo contemporaneo e il tempo della fretta. La cacciata in esilio del senso ha colonizzato il senso comune: non è un gioco di parole, è precisamente quanto è avvenuto in coincidenza con ciò che Alain Ehrenberg chiama, nel suo ultimo libro - La meccanica delle passioni (Einaudi, 2019) - l’avvento di un uomo nuovo: «l’uomo neurale».
ANCHE A CHI non sia un cultore di Freud è evidente come ciò che ci identifica non è il nostro cervello, bensì ciò che facciamo della nostra esistenza. In questo contesto, notava nel 2015 Miguel Benasayag, quel che spesso si nasconde dietro gli attacchi alla psicoanalisi non è ascrivibile alle sue lacune, ma è piuttosto frutto delle sue virtù: sembra che a venire soprattutto rifiutata sia infatti, la «dimensione tragica» della cura analitica, quel contatto del singolo con il mondo in cui risuona l’eco hegeliana di una teoria della storia secondo la quale gli individui, pur dedicandosi alle loro attività e perseguendo fini egoistici servono, sebbene inconsciamente, un comune disegno di emancipazione. L’universo dell’uomo contemporaneo - scrive ancora lo psichiatra argentino - si ferma invece ai confini del corpo. Eppure, nemmeno quando si limita a un fenomeno fisico, il dolore si esaurisce, in realtà, in un impulso nervoso: la sua percezione dipende, infatti, dalla diversa griglia interpretativa che ha in dotazione ciascun individuo. Detto altrimenti, non esiste dolore che preceda il senso.
A dispetto di questa evidenza, Anna Maria Nicolò, attuale presidente della Spi, introdurrà il convegno L’efficacia della psicoterapia psicoanalitica nei contesti di cura (promosso dalla Società Psicoanalitica Italiana, dalla Associazione Italiana Psicologia Analitica, e da Soci Italiani European Federation for Psychoanalytic Psychotherapy) il 7 giugno all’Università La Sapienza di Roma, sottolineando come «la psicoterapia sta praticamente sparendo dalle istituzioni e l’approccio psicodinamico, che aveva tanto bene orientato la prevenzione, la diagnosi e la cura nei consultori, nelle équipe mediche psicopedagogiche delle scuole, nei centri di salute mentale e negli ospedali, viene relegato a settori o a operatori rari e isolati».
ORMAI ALMENO due generazioni di psichiatri sono stati allenati a ignorare la ricorsività intrinseca a giochi linguistici che, se interpretati, potrebbero aiutare sensibilmente molti dei loro pazienti, trattati invece farmacologicamente sulla base di un investimento di interessi sul cervello piuttosto che sulla psiche.
Nel denunciare la illusoria prassi di sbarazzarsi dei sintomi schizofrenici trasferendoli sui farmaci, il grande psicoanalista inglese Christopher Bollas ha parlato di «incarcerazione psicotropa», identificando nella medicalizzazione vigente una minaccia alla dimensione umana. Per molti aspetti, infatti, sintomo e persona sono tutt’uno. «Di fatto - scrive Bollas - l’idea che i disturbi mentali possano essere risolti tramite un intervento neurologico è un errore categoriale ridicolo quanto lo è confondere un programma radiofonico con la radio stessa».
Da che la ricerca empirica ha ormai dimostrato l’efficacia dei trattamenti analitici, ciò che è in gioco - dirà Antonello Correale al convegno - è «capire come e per chi il trattamento analitico funziona e chiarire quali siano i fattori terapeutici realmente attivi». La psicoterapia a orientamento dinamico ha rivelato la sua particolare efficacia nel trattamento della depressione, «inesorabile contropartita dell’uomo che si pretende sovrano» ha scritto Ehrenberg, in un saggio ormai famoso, La fatica di essere se stessi, che analizza questa «malattia della responsabilità» come tipica di dinamiche sociali dove il conflitto non è più fra ciò che è permesso e ciò che è vietato, bensì tra ciò che è possibile, ovvero alla nostra portata, e ciò che è inaccessibile, sebbene propagandato come dipendente dalle nostre capacità autoimprenditoriali.
AL CONVEGNO che avrà inizio venerdì, Antonello Colli si incaricherà di riassumere le critiche più frequenti alle terapie psicoanalitiche: «non sono validate empiricamente; laddove esistano prove empiriche l’efficacia delle terapie psicoanalitiche è modesta se paragonata ad altre terapie evidence based; sono eccessivamente e inutilmente lunghe e costose». Ma «mettere in atto una valutazione psicodinamica in età evolutiva, significa - farà notare Mirella Galeota - sostare senza fretta a osservare e interrogarsi sulla persona intera del paziente, non solo sul disturbo o sull’organo o la singola funzione... Valutare psicodinamicamente un minore significa utilizzare il metodo psicoanalitico che è il solo che consente di stare con propria mente in relazione con la mente dell’altro».
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana...*
Terrapiattisti in raduno a Palermo: “Sveleremo il grande inganno”
di LAURA ANELLO (La Stampa, 11.05.2019)
PALERMO Dicono che la terra è piatta, un disco che volteggia nello spazio. Sostengono che le immagini della Nasa sono farlocche, che lo sbarco sulla Luna è una bugia, che gli astronauti sono abili attori, che il Gps funziona perché le antenne sono poste in cima a misteriosi grattacieli sparsi per il mondo e persino che a protezione di questo “disco volante” su cui vive l’umanità ci sono montagne di ghiaccio color smeraldo alte quattrocento chilometri sorvegliate da guardiani millenari.
Eppure, domani, il raduno nazionale dei “terrapiattisti” - così si chiamano gli alfieri di questa teoria - convocato all’albergo Garibaldi di Palermo, ha attratto cento persone e pure l’interesse di Beppe Grillo, che aveva annunciato la sua presenza in nome del libero pensiero. “Voglio stare in mezzo a un po’ di cervelli che non scappano davanti a nulla, nessun pregiudizio, nessuna legge della fisica è definitiva”. In realtà non si è ancora iscritto (quota di partecipazione 20 euro, senza sconti per nessuno) e lo staff di Grillo ha fatto sapere che non verrà. Ma gli organizzatori non escludono che possa arrivare a sorpresa: “Se è interessato alle nostre teorie, lo inviterò a confrontarsi mezz’ora con noi”, dice Agostino Favari, uno dei relatori. Inizia la giornata con la Cucina de La Stampa, la newsletter di Maurizio Molinari
Di sicuro, i terrapiattisti sono, per così dire, molto oltre il grillismo inteso come sfiducia nel sistema, nelle “competenze” e nelle verità della scienza ufficiale. Ne ha fatto le spese il povero astronauta Umberto Guidoni che, invitato da Le Iene a un confronto con due esponenti di spicco del terrapiattisti, alla fine si è fatto cadere le braccia di fronte a una contestazione da pochade: “Se il pollo si brucia in forno sotto la carta argentata, perché un astronauta dovrebbe resistere al calore del sole dentro la navicella”? Sì, perché la teoria della terra piatta (e quindi dell’assenza della curvatura terrestre) trascina via pezzo a pezzo secoli di acquisizioni e di dimostrazioni scientifiche, cancellando con una spugna Galileo, Einstein e pure Darwin. Non esisterebbe neanche la forza di gravità e sarebbe una fandonia l’evoluzione umana. I dinosauri? Roba da Disneyland. Le ossa che sono state ritrovate apparterebbero ai giganti che hanno popolato la terra prima di noi, e che hanno realizzato costruzioni a loro misura come - ebbene sì - il porticato di San Pietro e gli archi del duomo di Milano.
Per non dire, come i relatori sosterranno domani a congresso, che in realtà siamo nel 1019, perché il calendario è stato mistificato con l’aggiunta di mille anni di storia e che forse Titania, Lusitania e Queen Elisabeth erano la stessa nave. A parlare dal palco del raduno, oltre a Favari che in tasca ha una laurea in Ingegneria (“Ma non dirò nient’altro di quello che faccio nella vita”), saranno Albino Galuppini (una laurea in Scienze agrarie, di professione agricoltore), Calogero Greco e Morena Morlini.
Domenica 12 maggio illustreranno relazioni e risponderanno alle domande per otto ore (dalle 9 alle 19 con una pausa pranzo dalle 13 alle 14.30) su argomenti come la differenza di pressione tra l’atmosfera e lo spazio siderale, l’astronomia zetetica, il dimenticato impero dei giganti - quelli oscurati da Bernini e Michelangelo, forse figure d’invenzione anche loro - l’orbita del sole sulla terra piatta, l’egocentrismo della stella polare. E naturalmente, sul “rifiuto dell’informazione”. Che, ahinoi, ancora non crede in queste nuove verità. Come non ci crede il Comune di Palermo, che ha negato il patrocinio e diffidato gli organizzatori dall’utilizzare il logo istituzionale nonostante loro abbiamo invitato “tutte le persone rappresentative delle organizzazioni di potere, a partire dal presidente della Regione siciliana, il capo della polizia di Stato della Sicilia, dei carabinieri e delle guardia di finanza, aggiungendo doverosamente il capo del servizio segreto interno e del servizio segreto militare della Sicilia. E pure il cardinale. Oltre che gruppi filosofici buddisti, steineriani, amici di Osho, yoga”. L’obiettivo è svelare il grande abbaglio (“Quanti danni fa la scuola”), l’impostura, l’inganno, il complotto. Squarciare il velo da Truman Show che da millenni oscura il cielo degli umani. Un velo piatto, s’intende.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI: LA CONVERSAZIONE CONOSCITIVA (IL NUOVO "CIRCOLO ERMENEUTICO").
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Meditare la vita
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 Febbraio 2019)
Nonostante sia “mushotoku” ossia, secondo la definizione Zen, senza scopo né spirito di profitto, si parla spesso della meditazione a partire dai (molti) benefici psicofisici che è in grado di produrre in chi vi si dedica con una certa continuità; tuttavia tale approccio rischia di tradire il senso originario e decisamente più profondo di questa pratica che, come spiega con una prosa ispiratissima e a tratti poetica Chandra Livia Candiani, consiste piuttosto nel fare i conti con se stessi per provare, e non necessariamente imparare, a stare con quel che c’è:
Si tratta di un passo molto denso, sul quale vale la pena di meditare, che prende immediatamente le distanze da un uso strumentale della meditazione che è piuttosto presentata come un vero e proprio stile di vita, una postura grazie alla quale, zittendo il brusio del pensiero e delle sue rendicontazioni, ripristinare una certa intimità con il mondo.
Meditare, come scriveva infatti María Zambrano, “è riconquistare il sentire originario delle cose, del paesaggio, della gente, degli uomini e dei popoli, il sentire della realtà immediata che apre la realtà del mondo” (Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 87).
Non si pensi che questo significhi accedere a una dimensione straordinaria: si tratta piuttosto di apprendere a prestare attenzione a quelli che Chandra chiama “i miracoli del noto, del così già tanto visto che lo si dà per scontato.” Riuscendo a fare “spazio intorno a quei gesti tanto ordinari”, la meditazione “li fa brillare e permette che aprano un varco nell’oscurità in cui si solito viviamo, nel nostro quotidiano sonno. Allora pian piano si ricevono le visite di quella consapevolezza” (p. 19) che si rivela una “forma di amore” (p. 40), una premura e un’attenzione realmente maieutiche perché capaci di facilitare la fioritura di ciò di cui si prendono amorevolmente cura, rivelandosi capaci, prosegue idealmente Zambrano, di chiamarle “non solo a rivelarsi, ma a divenire, a divenire presenti» (M. Zambrano, L’uomo e il divino, Ed. Il lavoro, Roma, 2009, p. 246), a farsi vive, direbbe, altrove, Chandra.
Che vuol dire che questa particolare forma di «intimità» con ciò che accade, in noi e fuori di noi, è «impersonale»? Significa che essa non pone più l’io al centro della propria narrazione ma il Sé, ossia, come spiegava Jung, qualcosa che “anche noi siamo”. L’esperienza che ne consegue non è affatto spersonalizzante, essa chiama anzi in causa l’intero psichismo dell’individuo, ma si dà in virtù di quella che la psicoanalista Marion Milner definiva “una resa creativa” dell’ego, (M. Milner, Una vita tutta per sé, Moretti &Vitali, 2013, pp. 207, 12 euro) grazie alla quale il soggetto smette di girare attorno al proprio ombellico, a parlare sempre di sé, per provare piuttosto a essere davvero presente a sé e a osservarsi. Scrive Chandra:
Una forma di meditazione zen invita a prendere coscienza dei propri pensieri e stati d’animo, a riconoscerli con chiarezza, a etichettarli con una definizione chiara (ad esempio “ansia”) e poi a dirsi, mentalmente, “non io”. Non siamo di fronte ad un invito alla negazione, tutt’altro, bisogna avere piena coscienza degli stati d’animo che ci attraversano, ma occorre imparare a non identificarsi con essi, ad esercitare quello che il buddismo chiama, “non attaccamento”. Questa capacità che “consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto”, spiega Simone Weil, si chiama “attenzione” (Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, 2008, pp. 197) che a sua volta - come Chandra la consapevolezza e Zambrano il sapere filosofico - considera una forma d’amore.
Allo stesso modo, il pensiero non è affatto svilito nelle sue funzioni, al contrario; proprio perché non ha coperto le emozioni, sostituendosi ad esse, può rielaborarle e contribuire a chiarirne il senso, il significato, la portata, dando vita a quello che lo psicoanalista Thomas H. Ogden chiama “pensiero trasformativo”. Siamo di fronte ad un pensiero che segna “il passaggio da una mentalità basata sull’evacuazione dell’esperienza emotiva disturbante, non mentalizzata, a una mentalità in cui si prova a sognare/pensare la propria esperienza e, più avanti, il passaggio dalla conoscenza della realtà della propria esperienza, al divenire la verità della propria esperienza” (Thomas H. Ogden, Vite non vissute. Esperienza in psicoanalisi, Raffaello Cortina editore, 2016, p. 27).
Si capisce qui come quella sospensione del pensiero come atteggiamento giudicante o anche solo intellettualizzante che Chandra scorge al centro della meditazione e che, ancora una volta sotto altre forme, sta anche al cuore dell’analisi (“prego astenersi da giudizi” a vantaggio delle “libere associazioni”), non abbia nulla a che vedere con la condanna del pensiero, ma costituisca piuttosto un metodo per valorizzarlo appieno, imparando innanzitutto a prendere posizione sulle sue prese di posizione, permettendoci di comprendere come, spesso, gli schemi abituali attraverso i quali organizza la nostra esperienza non siano gli unici possibili.
Per questa ragione, lo psicoanalista Christopher Bollas si spinge ad affermare che “la psicoanalisi è una forma speciale di pratica meditativa che permette agli assiomi del sé di emergere” (C. Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, 2013, p. 106). Nonostante si tratti di due percorsi di consapevolezza evidentemente differenti, è possibile scorgere tra loro alcune suggestive analogie che vorrei qui indicare: entrambi invitano a liberarsi dalle idealizzazioni per imparare ad essere se stessi e a stare con quel che (si) è, cosicché ciò che Chandra dice dell’esperienza della meditazione, vale senz’altro anche per quella della psicoanalisi: “non mi chiede di essere esemplare, non mi chiede di essere eroica, non mi chiede di tendere a niente di ideale, non cancella, non acuisce, sta. Con me. [mi permette di] Imparare a stare” (p. 4).
Non solo, dunque, non si tratta di percorsi per uscire dalla condizione che ci preoccupa ma, semmai, per imparare, come direbbe Hegel, “a soggiornarci, a guardarla faccia in ogni suo farsi,” (G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Bompiani, Torino, 2000, p. 87.) al tempo stesso non per accettarla e rassegnarsi ad essa ma, come spiega bene Chandra, per accoglierla (p.75) e solo dopo averla accolta, poterla rielaborare, sino a cambiarle di segno e di significato.
Certo è possibile che si abbia l’impressione che simili svolte, le stesse che sottolinea Ogden, avvengano all’improvviso, come a seguito di un insight particolarmente fecondo; tuttavia esse sono piuttosto il frutto di una pratica costante che nel tempo ci ha esercitato a stare, ad ascoltare, a comprendere e poi, grazie a questi passi, a concepire e vivere diversamente, ciò che ci faceva problema; non solo a inquadrarlo da un altro punto di vista, ma anche a porci diversamente rispetto ad esso.
Ma non si tratta di scoprire una verità profonda sull’esistenza, che si svela dietro le apparenze che la nascondevano, quanto, piuttosto, di sviluppare la possibilità di sperimentare, concepire e poi restare fedele, a una diversa maniera di vivere, di sentire, di concepire se stessi, il mondo e l’esistenza tutta. Una fedeltà che sarà stimolata da un senso di consonanza con ciò che nell’esercizio di queste pratiche sarà stato percepito come maggiormente autentico e significativo rispetto ai precedenti e abituali schemi di recettività e di elaborazione dei nostri pensieri e delle nostre emozioni.
L’irriducibilità di questo processo a uno schema impersonale - nel senso, questa volta, di valido per tutti, indipendentemente dalle specificità di ciascuno -, sottolinea come tanto la meditazione, quanto la psicoanalisi nelle sue diverse forme, non siano tecniche ma arti (Chandra, p. 59): le prime indicano procedure valide in se stesse che, se correttamente applicate, conducono necessariamente a risultati prevedibili e già testati, le seconde sono invece attività che coinvolgono l’intero psichismo dell’individuo e non possono verificarsi che secondo i suoi personali talenti, ossia le peculiarità di ciascuno, assumendo una piega e uno sviluppo mai del tutto prevedibili a priori e sempre, in qualche modo, unici. Mentre le tecniche richiedono di compiere atti oggettivi, le arti chiamano in causa comportamenti soggettivi nei quali gli individui non sono semplici esecutori di procedure ma interpreti, proprio come lo si può affermare di un artista del quale si dice che ha dato prova di una straordinaria interpretazione, frutto non solo del suo sapere ma, non di meno, della sua personalità e del suo percorso di vita.
Per questo entrambe, da ultimo, restano depotenziate se confinate in una o due ore a settimana nelle loro reciproche stanze di riferimento e compiono davvero la loro missione solo se il soggetto assume su di sé la responsabilità di estenderne l’esperienza alla vita di tutti i giorni. Scrive Chandra:
Che cosa c’è di male a sviluppare una vita un po’ più quieta e a incentrarla sull’io, vi chiederete? Niente in sé, ma non è per questo che nascono sia la meditazione che la psicoanalisi; entrambe, nel solco della filosofia antica, mirano piuttosto alla piena fioritura delle nostre potenzialità, che non significa diventare straordinari ma divenire, appieno, se stessi, compiendo quello che Jung chiamava il processo di individuazione. E non è forse delle possibilità di quel tanto vituperato io che comunque si parla in questo processo, non è lui che deve diventare se stesso? potreste chiedervi. No, spiega Jung, il soggetto di questo processo deve essere il Sé, centro della personalità non solo conscio e pienamente consapevole di non essere il padrone di casa, per citare Freud.
In gioco, come intende sottolineare il titolo di questo articolo che mi accingo a concludere, non c’è l’io ma la vita. Meditare sulla vita permette di meditare anche sull’io, meditare sull’io rischia di non dischiudere mai le questioni della vita. Ma soprattutto chiunque meditasse a fondo sulla propria condizione esistenziale finirebbe per comprendere, per dirlo con le fulminanti parole del filosofo e psicoanalista Miguel Benasayag, che “la mia vita non sono io” (M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2016, p. 120), che, semmai, ne faccio parte.
Cura di sé e cura del mondo
di Lea Melandri (Comune-info, 24 dicembre 2018)
L’odio e i veleni che l’Occidente ha sparso nel mondo, i suoi stessi “valori” - denaro, competizione -, gli ritornano indietro ingigantiti e lo mostrano per quello che realmente è: già contaminato da quella “barbarie” che ha contribuito a far crescere respingendola fuori di sé, fingendosi un’innocenza mai conosciuta. Per una specie di “contrappasso”, la parte del mondo che si è pensata dispensatrice di “progresso” e di civiltà, si trova oggi costretta a contare sul proprio territorio le piaghe che ha inflitto ad altri, con le sue industrie, le sue bombe, i suoi consumi illimitati.
C’è una parte del mondo dove la morte ha nome, storia, leggenda, e un’altra, la più estesa, dove è solo numero. La malattia mortale della Terra unifica la famiglia umana, costringe popoli di cultura e condizioni diverse a ragionare su una sorte comune, ad affrontare per la prima volta un pericolo di sopravvivenza che alla lunga non risparmierà nessuno. Ma, insieme alla scoperta di parentele, escono vistose dal silenzio e dall’invisibilità anche le disuguaglianze, le responsabilità e, sia pure tra molte opposizioni, alternative di sviluppo e di convivenza. Fornire insistentemente numeri e previsioni può diventare allora un modo inconsapevole per adombrare l’ansia e l’infelicità legate inevitabilmente all’uso distruttivo dei beni che produciamo o che troviamo in natura.
Accanto alle altre “catastrofi” si assiste oggi anche al declino dell’antica dialettica che ha diviso e contrapposto natura e cultura, donna e uomo, individuo e società. Cadono barriere millenarie e consolidate costruzioni di senso: così, paradossalmente, sono le cose, alienate dai nostri “consumi forzati”, è la natura, ferita nel suo equilibrio, sono le donne, i bambini, i poveri, i malati, a dire il dolore e la distruttività nascosti dietro la facciata di un mondo che si è creduto “civile”.
Nell’articolo pubblicato sul Manifesto (22/23 gennaio 1989) l’anno della sua morte - Freud, Rilke e la caducità -, Elvio Fachinelli così concludeva:
“Questo è il rovesciamento radicale dell’antica e ben nota posizione in cui la natura, madre divina, era chiamata a salvarci. Ora siamo noi sollecitati a salvarla. In Rilke questo rovesciamento, ottenuto passando attraverso la più dolorosa identificazione con l’effimero, si fa vivo come compito particolare dell’arte e della poesia (dire la Terra, farla diventare invisibile), che è nello stesso tempo un atteggiamento etico religioso. Ma entrambi presuppongono qualcosa di più ampio e indistinto, l’accettazione piena di una figura che comprende in sé e salva le creature, prima che sia troppo tardi: «un cuore», per usare le parole del poeta, in cui scaturisca un «innumerabile esistere».
Forse sta qui una delle chiavi anche per noi, oggi. Forse non di un lutto abbiamo bisogno, come pensava Freud, né anticipato né post rem. Ma di questo accoglimento, di questa capacità di immedesimazione in cui noi, feriti, diventeremmo madre di creature ferite. È un passo difficile - al limite, impossibile: troppo tardi. Eppure esso ci viene da ogni parte e sempre più spesso «sollecitato». E in questo compito potrebbe trovarsi una gracile felicità: non un’«ascesa», un apice o culmine come si pensa di solito, ma piuttosto, come ci dice la Decima elegia, una «caduta», simile alla «pioggia che cade su terra scura a primavera».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
IL "DESIDERIO" E IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. "Sapere aude!" .... *
Resistere resistere resistere
"Alzati e cammina" una resurrezione laica
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 19.10.2018)
Come si può intendere laicamente il mistero cristiano della resurrezione? Il corpo di Cristo che risorge dopo aver conosciuto l’assoluto nascondimento della morte, della fine della vita, non è solo una immagine consolatrice che dovrebbe liberare l’uomo dal peso insopportabile della sua finitezza, ma può essere assunto come il simbolo di una resistenza altrettanto assoluta della vita contro la tentazione della morte.
Non è, in fondo, questo uno dei significati fondamentali della predicazione di Gesù? Non abbiate paura perché non tutto è morte, perché il cuore della vita è più grande dell’ombra della morte!
Non a caso è nella parola antica Kum che è contenuto il tema della possibilità che la vita rinnovi se stessa proprio laddove pare morta, finita, consegnata ad uno scacco fatale. Kum è la parola-imperativo che, per esempio, nel testo biblico, Dio rivolge a Giona. Essa scuote il profeta dal suo letargo per consegnargli una missione impossibile che lo costringe a mettersi in movimento. Ma è anche la parola-imperativo che Gesù rivolge a Lazzaro: Kum! Alzati!
Cammina! Rimettiti in moto! Kum è la parola che riabilita la vita alla vita, proprio nel punto dove la vita si perde e muore. Ecco la cifra laica della resurrezione. Dobbiamo provare a vedere in Kum la parola che ispira ogni autentica pratica umana di cura.
La posta in gioco è decisiva: è possibile rialzarsi, ricominciare, ritornare a vivere, anche quando l’esperienza della caduta, della malattia, del fallimento, della catastrofe appare senza rimedio alcuno? In gioco non è solo il destino individuale della vita, ma quella di una città, di un popolo, di un ideale, del nostro stesso pianeta.
Il Grande Cretto di Burri che commemora il terremoto di Gibellina o il One World Trade Center di Daniel Libeskid che evoca il trauma dell’abbattimento delle Torri gemelle, non guariscono la ferita (inguaribile) ma la sanno incorporare in una forma nuova che consente alla vita di ricominciare a vivere.
Il mistero della resurrezione, riletto laicamente, indica allora non solo e non tanto la possibilità eventuale che la vita possa esistere dopo la morte, tema caro a tutte le religioni, ma la possibilità di ridare vita ad una vita che sembrava perduta, di ricostruire una città distrutta, di ritrovare un popolo privato di ogni forma di identità, di restituire un volto umano alla vita dopo l’esperienza atroce dell’orrore.
La parola Kum!, Alzati!, è un appello che esige movimento, rilancio, responsabilità di un atto che sappia riaccendere la vita. In gioco è l’evento della sorpresa che sempre accompagna il "miracolo" dell’uscita della vita dalla zona sepolcrale della morte. Non è infatti proprio questa sorpresa al centro di ogni avventura di cura? Possiamo pensare esemplarmente ad alcuni casi clinici ritenuti senza speranza che, nel corso di una cura, risorgono contraddicendo i protocolli e le previsioni prognostiche più nefaste. Può accadere con bambini colpiti da malattie rare, con giovani afflitti da patologie mentali gravi, ma anche, in uno scenario meno drammatico, con studenti ritenuti dall’istituzione scuola senza speranza, cause perse, irrecuperabili. Può accadere con territori e città che hanno fatto esperienza - solo apparentemente irreversibile - della catastrofe. Ma più in generale ogni volta che incontriamo una resistenza insperata alla morte, ogni volta che incrociamo la sorpresa della vita che non cede alla morte e ricomincia a camminare, facciamo esperienza della resurrezione.
Come se la cifra ultima della resurrezione coincidesse con quella della insurrezione: non si tratta di respingere fobicamente la caduta o la malattia, il fallimento o la perdita inconsolabile, illudendosi che possa esistere una medicina capace di dissolverne la presenza scabrosa.
Piuttosto si tratta di non lasciare l’ultima parola alla morte. Per questo sappiamo che i momenti più fecondi per una vita sono quelli che implicano passaggi stretti, crisi, ferite. Tuttavia, affinché il "miracolo" della resurrezione si possa compiere è sempre necessario un atto di fede che non può essere confuso con una semplice credenza. Non si tratta tanto di avere fede in un salvatore, ma di avere fede nella forza stessa della fede.
Quando una volta a Lacan chiesero in che cosa consistesse l’esperienza dell’analisi, egli rispose, molto semplicemente, che essa consisteva nell’offrire ad una vita persa, l’opportunità per "ripartire". Ebbene, la fede nel proprio desiderio è la condizione di base per questa ripartenza.
Alzati! è la parola-imperativo che rimette in piedi e in movimento la potenza affermativa del desiderio contro la tentazione cupa, sempre presente negli umani, della morte. Perché, in fondo, se la resurrezione non può pretendere di curare la vita dal suo destino mortale - non può liberare la vita dalla morte - essa può invece liberare la vita dalla paura paralizzante della morte e dalla sua tentazione. Perché la paura della morte, umanissima quando riguarda la prossimità dell’evento della propria fine che ci priva della gioia infinita della vita, può nascondere talvolta la paura della vita. La tentazione della morte è, infatti, un modo per voler evadere dalla fatica che la vita impone. È questa la tentazione più grande.
Testimoniare che non tutto è morte, non tutto è devastazione, non tutto è destinato a finire, che risorgere è un compito della vita, è il segreto che la parola Kum! porta con sé nei secoli.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESÙ E IL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").
"PERVERSIONI" di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Freud signore degli anelli
Ritrovati gli antichi sigilli che il padre della psicanalisi donava agli allievi più fedeli
di Ada Treves (La Stampa, 18.10.2018)
Tre luoghi fondamentali, tre case trasformate in musei: Příbor, dove Sigmund Freud è nato nel 1856; Vienna, con le stanze dove ha vissuto per 47 anni e in cui ha scritto la maggior parte delle sue opere; Londra, dove il padre della psicanalisi si rifugiò con la famiglia dopo l’Anschluss - l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938 - e fino alla sua morte, nel settembre dell’anno successivo. A Příbor - Freiberg - città della Moravia all’epoca parte dell’Impero austriaco e oggi si trova nella Repubblica Ceca era Sigismund Schlomo, figlio di un commerciante di lane ebreo che poco dopo decise di trasferirsi a Vienna, dove il giovanissimo Freud proseguì gli studi, e decise di abbreviare il proprio nome in Sigmund.
Come in una saga
Inventore della psicanalisi, termine che usò in maniera formalizzata per la prima volta in due articoli del 1896, considerato uno dei personaggi più influenti vissuti tra 800 e 900, Freud è protagonista di due mostre molto diverse. Freud of the Rings - Freud degli anelli - aperta fino a marzo 2019 all’Israel Museum di Gerusalemme è nata dalla curiosità di una giovane curatrice del museo, Morag Wilhelm, dopo il ritrovamento tra gli oggetti della collezione di una scatoletta di cartone su cui compariva la scritta «Freud Nike». Dentro, un anello con incastonata una pietra che raffigurava la dea della vittoria, appartenuto alla paziente di Freud e a sua volta psicanalista Eva Rosenfeld.
Non è l’unico, ed è collegato a una storia che porta a pensare alla Compagnia dell’anello così come la racconta Tolkien nel primo volume della sua saga: Pyllis Grosskurth in The Segret Ring: Freud’s Inner Circle and the Politics os Psychoanalysis spiega come dopo la rottura del 1912 con Carl Gustav Jung, suo discepolo e sino ad allora suo erede, si fosse costituito un Comitato segreto composto dai più prossimi collaboratori di Freud: Karl Abraham, Sándor Ferenczi, Otto Rank, Ernest Jones e Hanns Sachs. Furono loro i destinatari dei primi anelli: discepoli analizzati direttamente dal maestro, rappresentanti della teoria psicoanalitica pura destinati a costituire una roccaforte non ufficiale all’interno della Società di Psicoanalisi. Le pietre, con incisa una divinità, venivano dalla collezione di arte antica di Freud, che a sua volta portava sempre al dito un sigillo risalente ai tempi dell’antica Roma.
Hanns Sachs, nel suo testo del 1944 intitolato Freud, maestro e amico (pubblicato in italiano da Astrolabio nel 1973), scrisse che «Il dono degli anelli aveva un preciso significato simbolico: ci ricordava che ogni nostro reciproco rapporto aveva lo stesso centro di gravità. Ci faceva sentire che appartenevamo a un gruppo nel gruppo, quantunque senza alcun legame formale o il tentativo di diventare un’organizzazione separata». L’Israel Museum espone sei dei circa venti anelli che anche in seguito Freud donò ad alcuni dei discepoli in segno di riconoscenza e di stima, tra di essi oltre a quello di Rosenfeld, gli anelli di Ferenczi, Ernst Simmel e della figlia di Freud, Anna, accanto a una selezione delle sue statuette antiche.
Dallo sguardo all’ascolto
Molto diversa la mostra aperta da pochi giorni al MahJ, il Museo di arte e storia ebraica di Parigi, curata dal critico d’arte Jean Clair - già direttore del Museo Picasso di Parigi e curatore della Biennale di Venezia del centenario - intitolata Du regard à l’écoute, Dallo sguardo all’ascolto: visitabile fino a febbraio del prossimo anno, è la prima organizzata in Francia sul padre della psicanalisi, che pure tra il 1885 e il 1886 visse a Parigi, dove era giunto per studiare con Jean-Martin Charcot. Un percorso intellettuale e scientifico che attraverso alcune grandi opere d’arte - dalla Lezione di Charcot alla Salpetrière di Broullet a Courbet con L’origine del mondo a Klimt, da Magritte, Max Ernst e Mark Rothko a Oskar Kokoschka e Egon Schiele - porta alla scoperta del suo lavoro come neurologo, a Vienna e Parigi, e del suo interesse per la biologia. E racconta come, nonostante la passione di Freud per l’arte, la psicoanalisi sia cresciuta nell’assenza di rappresentazioni visive basandosi esclusivamente sulla parola e sull’ascolto, in continuità con l’eredità di Mosè che aveva proibito al suo popolo di farsi delle immagini.
E se nel Novecento la psicoanalisi si è ulteriormente evoluta confluendo in altre teorie, contribuendo alla nascita di altre scuole, se fra ricerche e studi scientifici che ne esaltato i benefici per i pazienti e altri che ne ridimensionano la portata, il dibattito è ancora così acceso è perché il segno che Freud ha lasciato è indelebile. Quasi un sigillo, come quello che portava sempre al dito.
I dialoghi. Vittorio Lingiardi e Benedetto Farina
Dottor Freud aiutaci a cooperare
La psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma di psicoterapia
di Vittorio Lingiardi (la Repubblica, 12.09.2018)
La psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma di psicoterapia. Sono giunto a questa conclusione dialogando con un collega che ha una formazione diversa dalla mia. Non che parlare di "scuole" abbia sempre senso, ma la mia educazione, psicoanalitica, e quella del mio interlocutore cognitivista Benedetto Farina, docente all’Università Europea di Roma e allievo di Giovanni Liotti, uno dei padri del cognitivismo italiano, sono oggettivamente diverse. Cose importanti però ci uniscono: siamo entrambi clinici e ricercatori. Benedetto fa ricerca soprattutto da una prospettiva neuroscientifica; io parto dai trascritti delle sedute di psicoterapia per valutare la qualità dell’alleanza terapeutica: rotture, riparazioni, negoziazioni...
Entrambi siamo cresciuti studiando la teoria dell’attaccamento di Bowlby, che pone basi etologiche e motivazionali all’origine delle relazioni e dello sviluppo della personalità. Forse l’unica teoria che ha saputo raccogliere attorno a sé, mettendole in dialogo, discipline tra loro diverse e litigiose. «Oggi - dice Farina - potremmo metterla così: la tua psicoanalisi e il mio cognitivismo considerano la relazione con il paziente il principale strumento terapeutico. Ma non è forse questo il fattore comune che secondo la ricerca spiega l’efficacia di tutti i trattamenti?».
Vittorio Lingiardi: Sì, l’esito di una terapia è in gran parte associato alla qualità della relazione che si stabilisce tra paziente e terapeuta. Detto questo, le variabili in gioco sono molte. Anche perché molte sono le psicoanalisi e molti i cognitivismi. Nonostante il marchio di fabbrica, un paziente in cerca di terapia non sa mai esattamente quello che trova. E poi ci sono le diverse tipologie, anche caratteriali, di terapeuta. Un terapeuta riservato e uno espansivo funzionano nello stesso modo? Con tutti i pazienti? Per tornare alla relazione come fattore terapeutico, mi domando se è più in gioco l’accudimento o la cooperazione, pur sapendo che il bravo clinico sa dosare il loro contributo.
Benedetto Farina: È un tema che appassionava Liotti, il quale ha sempre sostenuto che è più efficace impostare la terapia sul piano cooperativo, soprattutto con pazienti gravi che hanno alle spalle un’infanzia traumatica. Stimolare troppo il sistema dell’attaccamento è rischioso, può riattivare memorie traumatiche di accudimenti mancati o distorti. Molte ricerche dimostrano che la promozione di un clima di cooperazione favorisce invece la capacità di provare empatia, di sintonizzarsi con i pensieri degli altri, di comprendere il funzionamento della mente propria e altrui e di lavorare sugli aspetti che portano a soffrire.
VL: È quello che in psicologia viene chiamato mentalizzare, una funzione che inizia a svilupparsi nei primi anni e ci accompagna tutta la vita. Ed è il pane quotidiano di molte terapie. La sua complessità sta nel riuscire a "tenere in mente" i nostri stati mentali e quelli degli altri. Sofisticate tecniche di registrazione simultanea dell’attività cerebrale di due individui che interagiscono mostrano che l’attività elettrica dei loro cervelli, nelle aree evolutivamente più recenti come la corteccia frontale, si sincronizza quando devono compiere azioni coordinate e cooperative.
BF: Molte discipline indicano che l’eccezionale espansione del cervello e lo sviluppo delle funzioni cognitive e culturali di cui l’uomo è capace sono il risultato di una traiettoria evolutiva finalizzata alla relazione e alla cooperazione. La spinta motivazionale alla cooperazione ha richiesto lo sviluppo di capacità cognitive sempre più sofisticate come il linguaggio, l’empatia, la condivisione di scopi e decisioni, l’insegnamento.
VL: E dunque delle strutture cerebrali per sostenerle. Ma se la capacità di instaurare legami cooperativi è così fondata sul piano etologico e biologico, come può essere tanto in disgrazia sul piano sociale? Il discorso va affrontato sul piano dell’evoluzione. Proprio Liotti ci insegnava a non perdere di vista la tripartizione evolutiva e gerarchica del nostro cervello e dei nostri sistemi motivazionali. Il livello più arcaico presiede le condotte non-sociali legate alla regolazione delle funzioni fisiologiche, alla difesa dai pericoli, al controllo del territorio, ecc. Quando è molto attivato può avere la meglio. Il secondo livello corrisponde all’attività delle reti neurali che definiscono le condotte di attaccamento, accudimento, richiesta/offerta di cura, ecc. Il terzo livello, prerogativa della specie umana, è nella neo-corteccia e riguarda le dimensioni cognitive dell’intersoggettività e della costruzione di significati. Regola i livelli più arcaici ed è influenzato dalla cultura di appartenenza.
BF: Ed è proprio qui che poggia il sistema cooperativo paritetico. La spinta a cooperare non solo ha promosso le nostre capacità empatiche e intellettuali, ma ha anche favorito la nascita della cultura. Il vantaggio di condividere ciò che si è appreso dall’esperienza individuale è alla base delle capacità culturali che caratterizzano la nostra specie.
VL: Ha dunque ragione l’antropologo Robert Boyd quando sostiene che il nostro successo nell’adattamento è dovuto alla capacità di imparare dagli altri, una capacità che ci permette di accumulare informazioni tra le generazioni e sviluppare strumenti, credenze e pratiche che sarebbe troppo complesso per il singolo individuo concepire durante l’arco della vita. La cosiddetta social brain hypothesis ci spiega infatti che, nei primati, l’espansione del cervello è avvenuta per gestire rapporti sociali sempre più complessi e cooperare al meglio. Un fatto che ci aiuta a capire lo sviluppo di tutte quelle relazioni non finalizzate alla riproduzione, "cognitivamente" impegnative e specificamente umane, come quella psicoterapeutica. Se la mente umana si è sviluppata per cooperare non sorprende che, quando si ammala o soffre, la sua cura non possa che basarsi su una relazione cooperativa.
L’aspetto più "miracoloso" dell’evoluzione è forse proprio l’abilità di generare cooperazione in un mondo competitivo. Al punto che c’è chi sostiene che, alla mutazione e alla selezione naturale, andrebbe aggiunta la cooperazione come terzo principio fondamentale dell’evoluzione.
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico.... *
M5S, Lega e l’assalto alle istituzioni
I nuovi Proci e l’Italia
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 30.05.2018)
Anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco: figli che hanno avuto il coraggio di farsi avanti, di impugnare le sorti del loro destino, di impegnarsi in prima persona per cambiare l’avvenire del loro Paese. Ma politicamente essi - anche alla luce di questo ultimo tristissimo quanto drammatico episodio della loro lunga marcia verso il potere - sembrano assomigliare di più ai Proci. Sono i cosiddetti “pretendenti”, i giovani principi che nell’Odissea di Omero esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto, disperso in chissà quale mare. Nel poema essi rivendicano il loro pieno diritto di governare Itaca nonostante non abbiano mostrato alcun rispetto per le sue istituzioni democratiche. Qui il lettore può spaziare ampiamente nella sua memoria tra le infinite ingiurie leghiste e grilline alle nostre istituzioni: ma non è forse questo il cemento armato della loro più profonda convergenza?
L’atteggiamento dei Proci non è però solo antiparlamentare - interrompono con le armi lo svolgimento di un’assemblea convocata da Telemaco, saccheggiano e deturpano la reggia che li ospita - ma è offensivo verso la Legge stessa della città. Il vuoto di Legge che si è determinato con l’assenza di Ulisse li rende padroni assoluti. Evocare la morte di Ulisse significa infatti evocare la morte della politica che deve lasciare il posto all’arroganza di chi rivendica il proprio diritto inscalfibile alla successione.
L’anti-parlamentarismo si ribalta così in una spinta furiosa ad occupare le istituzioni parlamentari. Una differenza sostanziale differenzia però i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis. Hanno un mandato, il popolo è con loro, li sostiene. Tuttavia, la Legge della città ha il compito di ricordare loro che il diritto a governare non implica lo sconvolgimento delle regole democratiche della convivenza, non significa introdurre l’anti- parlamentarismo nelle istituzioni nel nome del popolo. Lo squadrismo fascista violava la vita democratica in nome del popolo. Ed è sempre, come è tristemente noto, in nome del popolo che si sono commesse le più grandi atrocità nella storia. I padri costituenti hanno affidato al presidente della Repubblica un ruolo di garanzia. Bisogna che qualcuno ricordi ai nuovi Proci le regole complesse di una democrazia. Il diritto a governare non può mai coincidere con il diritto a fare quello che si vuole, con il puro arbitrio. Leghismo e grillismo empatizzano facilmente tra loro perché sono le espressioni più radicali del populismo: oppongono la volontà del popolo alla vita della politica.
Di fronte al collasso senza precedenti della sinistra e del Pd, di fronte al vuoto della Legge della città che sembra prolungare all’infinito la lunga notte di Itaca, c’è voluto ancora una volta il volto di un padre simbolico a testimoniare che le istituzioni non sono proprietà di nessuno, che il diritto al governare non coincide con il diritto a cancellare i principi elementari di una democrazia rappresentativa. È stato necessario il gesto coraggioso di un padre per salvare le speranze di Telemaco, per ricordare ai nuovi Proci che Ulisse è ancora vivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico....
GLI ESEMPI TAROCCATI DI BARICCO E DI SCALFARI E L’ITALIA STRETTA NELL’ABBRACCIO MORTALE DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
Federico La Sala
Pensare l’ "edipo completo"....
PLAUDENDO al lavoro e alla sollecitazione delle Autrici di "ripensare le figure della maternità", e, al brillante saggio introduttivo di Daniela Brogi, "Nel nome della madre. Per un nuovo romanzo di formazione", mi sia lecito ricordare che il programma di Freud, al di là dei molteplici e "interessati" riduzionismi (in nome del padre o in nome della madre), era quello di = Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!! Per andare oltre la vecchia "cattolica" alleanza Madre-Figlio (e portare avanti il programma illuministico kantiano: diventare maggiorenni), è necessario (sia per l’uomo sia per la donna) non solo il "parricidio" ma anche il "matricidio"; e, possibilmente e ’finalmente’, uscire fuori dalla "caverna", dalla "preistoria", e portarci (tutte e tutti) DAL "CHE COSA" AL "CHI".
Federico La Sala
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E MISTICISMO. Uscire dallo Stato di minorità (superiorità) ...
LA BALLATA DI COLAPESCE ("DER TAUCHER") DI SCHILLER E LA "LEZIONE" DI FREUD A BRUNO GOETZ E A ROMAIN ROLLAND.
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
IL PUNTO DI SVOLTA. Proseguendo nel suo «viaggio attraverso la psicanalisi, e oltre», Fachinelli è giunto finalmente dinanzi al mare. «Sulla spiaggia», questo è il titolo del primo e più originale scritto de "La mente estatica".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..... *
Chi dice che è morta? Prima che terapeutica l’invenzione freudiana è una rivoluzione etica. E la scommessa più ardita si chiama “desiderio”. Da assecondare così
di Massimo Recalcati (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Che cosa resta della grande lezione di Freud? Cosa resiste della esperienza sovversiva dell’inconscio? Cosa della grande rivoluzione culturale rappresentata dalla psicoanalisi è destinato a non essere cancellato? Il progresso delle neuroscienze, l’affermazione delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, la potenza chimica dello psicofarmaco, la promessa di terapie brevi ed efficaci centrate sul cosiddetto “ sintomo bersaglio”, sembra abbiamo messo definitivamente all’angolo la psicoanalisi riducendola a uno spettro condannato a circolare solo nel museo delle cere del Novecento. Lo si grida da più parti e ormai da molto tempo: la psicoanalisi è morta, le sue categorie teoriche irrimediabilmente compromesse da un irrazionalismo di fondo che rifiuta di confrontarsi con la valutazione scientifica, la sua efficacia terapeutica dubbia, la proverbiale lunghezza delle sue cure assolutamente sfasata rispetto al ritmo performativo richiesto dallo spirito del nostro tempo e indice di una fumisteria epistemologica e clinica priva di fondamenti.
Perché allora dovremmo insistere nel difendere tenacemente l’invenzione di Freud? Il nucleo di questa invenzione è etico prima che terapeutico. Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certamente della natura borghese dell’Io o dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità assai più ampia che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità. Certamente questo riguarda la sessualità umana che
Freud rivela essere sempre parzialmente contaminata da quella infantile e pregenitale come se non esistesse una sessualità cosiddetta “matura”, “genitale”, perché essa vive e si nutre di fantasmi che provengono dalle esperienze infantili del corpo pulsionale.
Ma la prima vera e grande sovversione etica imposta da Freud è quella che ci costringe a modificare la nostra ordinaria concezione della malattia e della sofferenza psichica. Questo è un contributo ancora attualissimo e nevralgico della psicoanalisi: l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto - tra coscienza, preconscio e inconscio, tra Es, Io e Super- io - ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro stesso essere, della nostra più propria intimità.
L’inconscio freudiano è infatti “uno stato nello stato” - un “territorio straniero interno” - che obbedisce a una legislazione che eccede radicalmente quella che governa il funzionamento normativo dell’Io. Nei sogni, nelle nostre più quotidiane sbadataggini, nei lapsus, nei sintomi di una singolarità eccedente l’Io parla, manifesta la propria voce dissonante disturbando il funzionamento diurno della coscienza e del pensiero. Ne deriva, appunto, un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto. Se queste procedure egoico-narcisistiche di esclusione si rafforzano, se il soggetto persegue una rappresentazione solo ideale di sé stesso finalizzata a scongiurare l’esistenza di quelle parti di sé giudicate “incompatibili” con questo stesso Ideale, la vita si atrofizza e si ammala. È un principio clinico che riguarda tanto la vita individuale quanto quella collettiva: i confini che disegnano la nostra identità devono essere plastici, capaci più di integrare lo straniero interno che di scindere e segregare. La psicoanalisi incoraggia una politica anti-segregativa.
La prima grande lezione etica della psicoanalisi consiste nel favorire una concezione indebolita della soggettività che consenta il transito e l’apertura in alternativa a ogni sua illusione identitaria di padronanza che finisce per irrigidire i propri confini contribuendo alla loro chiusura.
Quale è il volto dello straniero che si tratta di accogliere? Innanzitutto quello del desiderio che esprime la dimensione radicalmente insacrificabile della singolarità. Si tratta di un’altra grande e ardita scommessa della psicoanalisi: non contrapporre la ragione al desiderio - come la luce all’ombra - ma fare della “ voce del desiderio” la voce stessa della ragione. È questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce la sua attitudine, la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio - assimilato kantianamente da Freud alla “voce della ragione” - non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà. La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni tentativo di assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale.
È il tratto, se si vuole, irriducibilmente “ femminista” della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare, per la sua differenza assoluta, per l’incomparabile, per la vita non nel suo statuto generico e biologico ma nel suo nome proprio, nel suo volto unico e irriproducibile. Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio - la vita della singolarità - è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra, anomala.
La psicoanalisi opta per l’accoglienza di questo “straniero interno” come condizione di possibilità per l’accoglienza della vita in tutte le sue forme più divergenti. Essa contrasta politicamente ogni conformismo del pensiero, ogni attitudine all’adattamento passivo, ogni ideale moralistico di normalità. Non esiste infatti mai un “rapporto giusto col reale”, affermava Lacan. Ciascuno ha il compito di trovare la propria misura della felicità.
La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario. La sua vocazione è antifascista nel senso più radicale e militante del termine: veglia affinché la tentazione autoritaria che spinge l’uomo verso il padrone o verso il suo carnefice che promette la tutela autoritaria da ogni rischio che la libertà della vita fatalmente impone, sia avvistata per tempo.
La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che, in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. È la dimensione “fascista” della psicologia delle masse che costituisce un grande capitolo della ricerca sociale e politica della psicoanalisi oggi più che mai attuale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
UN PASSO AL DI LÀ DEL NARCISISMO E DELL’EDIPO: "SÉ COME UN ALTRO". OSSERVARE SE STESSI, SE STESSE ... CON "SIMPATIA"! *
Il tizio che mi guarda dallo specchio
di Paolo Godani (Alfabeta-2, 11.02.2018)
L’attuale eclissi della psicanalisi, cioè la marginalizzazione della sua posizione epistemologica e della sua funzione sociale in favore delle scienze cognitive, è un’ottima notizia per almeno due ragioni. Innanzitutto perché, come alcuni segni già invitano a immaginare, c’è la possibilità che la psicanalisi stessa, da una posizione di minorità, torni a produrre qualcosa di interessante. Ma anche perché può ora riapparire, in tutto lo splendore che la bolla psicanalitica aveva lungamente offuscato, l’immenso patrimonio della ricerca psichiatrica, soprattutto francese, cresciuta nella seconda metà del XIX secolo.
Jean-Martin Charcot, Théodule Ribot, Alfred Binet, Pierre Janet, solo per nominare gli autori un tempo più celebri di questa età dell’oro della psicologia francese, non sono stati soltanto curiosissimi ricercatori sperimentali, ma anche e soprattutto inventori di ipotesi, spiegazioni, concetti che ancora sfidano l’asfissia della cultura contemporanea.
Lo dimostra brillantemente Barbara Chitussi che in un saggio appena uscito da Meltemi non solo, quasi come in un romanzo, mette in scena i casi clinici, le storie fantastiche di personalità multiple di cui si sono occupati gli psichiatri francesi, ma ne trae il materiale teorico per costruire una vera e propria filosofia della personalità. «Se mi sono occupata dell’analisi di questi casi - spiega l’autrice fin dall’introduzione - è stato per studiare in una prospettiva filosofica le strategie con le quali il soggetto si è pensato e costruito nella forma di un rapporto con sé, accettando di essere un personaggio, assumendo l’inautenticità della propria immagine, aprendosi al dominio della finzione attraverso l’imitazione dell’altro, o meglio osservandosi come uno spettatore osserva uno spettacolo».
Tutto è iniziato, si potrebbe dire, negli anni che seguono il 1875, quando la Francia sembrava attraversata da un’epidemia di personalità multipla. Tra i casi anonimi, raccolti dal dottor Krishaber e analizzati da Émile Littré, c’è chi «voleva parlare, ma fu costretto a interrompersi, tanto il suono della sua voce lo stordiva», chi credeva di «non essere di questo mondo», chi sentiva in sé stesso «un io che pensa e un io che esegue». Ma, come accade spesso, il brusio delle voci senza volto finisce per raccogliersi nel fulgore di un nome che quelle voci, tutte, le fa risuonare assieme. «Racconterò - spiega in un articolo del 1876 il chirurgo-psicologo Eugène Azam - la storia di una giovane donna la cui esistenza è tormentata da un’alterazione della memoria che non ha precedenti nella scienza; l’alterazione è tale che è lecito chiedersi se questa giovane donna non abbia due vite».
La ragazza di cui parla Azam si chiama Félida, è «bruna, di statura media», molto intelligente e piuttosto istruita, seria, taciturna, grande lavoratrice, «di carattere triste e persino cupo». O meglio, triste e cupa Félida appare di solito sino al momento della sua crisi. Le accade infatti, talvolta, di cadere improvvisamente nel sonno e di risvegliarsi in uno stato che non è più quello nel quale si era addormentata: «solleva la testa e aprendo gli occhi saluta sorridendo i nuovi arrivati, la sua fisionomia si illumina emanando allegria». Dopo il sonnellino o la catalessi, insomma, «il suo carattere è completamente cambiato; da triste è diventata allegra e la sua vivacità raggiunge l’impetuosità, la sua immaginazione è più esaltata». Per spiegare che cosa significhi e come possa accadere che la malinconica Félida-1 lasci il posto all’estroversa Félida-2, gli psicologi si lanciano nell’invenzione di nomi e concetti: amnesia periodica, raddoppiamento o sdoppiamento della vita, doppia coscienza o doppia esistenza, per arrivare alla nozione più carica di conseguenze: sdoppiamento della personalità.
Come nota con finezza Barbara Chitussi, gli psicologi che a proposito del caso di Félida iniziano a parlare di doppia personalità, operano a loro volta uno sdoppiamento dello stesso termine di personalità. Non più sinonimo di coscienza o di vita, la personalità torna ora a riavvicinarsi al significato originario del latino persona: avere una personalità significa ormai «indossare una maschera, avere un particolare modo di essere». Passaggio decisivo, con ogni evidenza, che consentirà a Pierre Janet di verificare la distinzione tra un moi interiore e un moi esteriore, tra un sentimento della pura esistenza di sé, cioè di un’esistenza indipendente da qualsivoglia attributo, qualità o maschera, e un sentimento della propria personalità, che come tale è complessa e variabile, nonché esteriore rispetto al mero sentimento dell’esistenza. Ma passaggio decisivo, questo, lo è soprattutto perché stabilisce che la personalità di ognuno non è un che di sostanziale, ma semmai un modo, una maniera di essere, una postura, un’immagine che può essere assunta o rigettata, un abito che si può indossare, ma anche cambiare e sostituire.
Da qui in avanti, il percorso dell’autrice attraversa una molteplicità di campi all’interno dei quali la questione della personalità, confrontata con problematiche diverse come lo sdoppiamento nel sogno, la costruzione immaginaria di un sé ideale in quello che si chiamerà «bovarismo», le questioni della co-coscienza e della doppia moralità, assume nuove connotazioni. Ma questa varietà di campi problematici - ognuno con i suoi casi singolari che rendono Lo spettacolo di sé così avvincente (fra cui non si può passare sotto silenzio l’affascinante e riottosa Sally, una delle personalità della «famiglia Beauchamp», analizzata da Morton Prince) - non toglie nulla alla compiutezza filosofica del testo.
La sua tesi fondamentale è che il soggetto è un rapporto, cioè che la formazione soggettiva di ognuno avviene sempre e soltanto attraverso lo sdoppiamento di sé, prendendo distanza da ciò che si è o si crede di essere, trattando se stessi come altri. In questo senso, il sé figura come una contrattazione continua, come un campo sul quale si alternano una pluralità di caratteri o personaggi, nessuno dei quali può affermare di essere l’autentico rappresentante del soggetto.
«Ripensare il paradigma della personalità-maschera - spiega di conseguenza l’autrice - significa [anche] disancorare nuovamente la vita personale [...] dall’ottusa identità della vita biologica». Infine, è ancora un’etica della non-coincidenza con sé, quella che Barbara Chitussi definisce, quando spiega che «l’identificazione con la maschera [...] non dà mai la felicità, mentre nello spazio che abbiamo imparato a chiamare rapporto conoscere se stessi significherà osservarsi e godere di sé come l’attore che prova per il proprio ruolo un sentimento di “simpatia”».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!. Per ben agire e ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse!), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI (la cosiddetta - impropriamente - teoria dei "due soli")!!!
Federico La Sala
FEMMINISMO
Je ne suis pas Catherine Deneuve
di Ida Dominijanni, giornalista *
La scoperta delle molestie e dei ricatti sessuali in uso a Hollywood e in tutto il mondo del lavoro americano dimostra che questi non sono tempi buoni né per il desiderio né per l’esercizio della sessualità fra donne e uomini. Com’era già accaduto in Italia con gli scandali sessuali d’epoca berlusconiana, quello che viene alla luce non è solo la tentazione maschile perenne all’abuso di potere, che riduce le donne a oggetto da possedere e la libertà femminile a disponibilità di concedersi. È anche, forse soprattutto, una diffusa miseria della sessualità maschile, che scambia potere, favori, assunzioni in cambio di briciole come un massaggio sotto un accappatoio, una masturbazione a cielo aperto, un assoggettamento a una virilità incerta. Una miseria sessuale che è parente stretta di una miseria relazionale, ovvero di una altrettanto diffusa incapacità maschile di relazionarsi all’altra, al suo desiderio e ai suoi dinieghi, alla sua forza e alla sua vulnerabilità, alla sua libertà e alle sue necessità.
Precisamente il cinema hollywoodiano, a ben guardare, ci aveva lentamente abituato, nell’ultimo decennio, a questo progressivo immiserimento, per non dire scomparsa, della sessualità nelle relazioni fra uomini e donne, con un sottile ma percettibile scivolamento dalle scene di sesso passionale degli anni novanta a quelle quasi sempre giocate successivamente su un ambiguo confine fra sesso e violenza, sesso e possesso, sesso e performance. E del resto basterebbe il successo sorprendente, e non a caso contemporaneo al #metoo, di un racconto come Cat person per farsi un’idea dello stato delle cose: in questo caso non c’è ombra di violenza né di molestie, ma la miseria sentimentale è la stessa, l’alfabeto della seduzione è precipitato nel dimenticatoio e ogni passione è spenta.
Quello che sta saltando con il #metoo e il Time’s up è il tappo di silenzio-assenso femminile che copriva questa situazione. A un primo sguardo, certo, si tratta di movimenti contro le molestie e i ricatti sessuali, e contro l’abuso di potere maschile che c’è dietro. Ma com’era già avvenuto in Italia pochi anni fa, la presa di parola femminile ha l’effetto di svelare qualcosa di più profondo, un “dispositivo di sessualità”, per dirlo con l’espressione di Foucault, in cui il desiderio non ha più posto e il sesso è ridotto a contrattazione, ricatto, performance. E da cui è urgente uscire, se i destini della sessualità come espressione libera e creativa della specie umana ci stanno a cuore.
Perciò è del tutto fuori campo e fuori fuoco la reazione, finora prevalentemente maschile nonché prevalentemente italiana, di chi ulula che all’esito del #metoo ci sarebbe l’oscurantismo politically correct di un totalitarismo (sic!) proibizionista e sessuofobico.
È vero l’esatto contrario: il #metoo, e in generale la presa di parola femminile contro l’andazzo corrente della miseria del maschile, nasce in una situazione che ha già mandato a morte la sessualità, e forse più farla risorgere, una volta liberata dal dispositivo di cui sopra.
Non stupisce che a non capirlo sia, in Italia, lo stesso fronte mediatico, il Foglio in testa, che agitò gli stessi fantasmi liberticidi, sessuofobici e proibizionisti a tutela della “libertà” e della “seduzione” che circolava nelle “cene eleganti” di Berlusconi, già allora paventando e minacciando la fine dell’ars amatoria, la censura della passione, l’inibizione del corteggiamento, e impugnando l’inscindibilità del sesso da una certa dose (quale, esattamente?) di prevaricazione, o l’indecidibilità fra molestia e avance.
Stupisce di più - ma in fondo neanche tanto - che a usare gli stessi argomenti sia adesso un gruppo di donne francesi - intellettuali, artiste, attrici, psicoanaliste, giornaliste, fra le altre una campionessa riconosciuta della seduzione doc come Catherine Deneuve - le quali si lanciano nella difesa della “libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale”, come se il #metoo avesse già instaurato un regime del divieto dove nessuno può sporgersi sull’altra e nessuna sull’altro, il nemico delle donne sono gli uomini nella loro totalità, la parola femminile, altro che liberarsi, si autoimprigiona in un codice politically correct autoinibitorio, e le donne, altro che guadagnarci qualcosa, si auto-segregano nel ruolo di “eterne vittime dominate da demoni fallocrati”. Potenza dei fantasmi maschili interiorizzati anche dalla mente femminile, o “differenza culturale” francese vs egemonia “puritana” americana? L’una e l’altra cosa, probabilmente, e la seconda non meno influente della prima.
Non c’è donna al mondo che non sappia distinguere un “corteggiamento insistente e maldestro” da uno stupro, come le firmatarie dell’appello francese temono: esse stesse non possono non saperlo. Non c’è persona sana di mente che non possa aver registrato, seguendo le vicende del #metoo o più semplicemente la recente cerimonia dei Golden Globe sotto il segno del Time’s up, che tutto circola fra le silence breakers americane tranne un’autovittimizzazione inerziale e passiva: tutta la faccenda sembra al contrario parecchio empowering, e parecchio liberatoria anche per quegli uomini che la guardano con curiosità e fiducia invece che attaccarsi come Francesca Bertini alle tende di una virilità decadente. E anche questo le consorelle francesi non possono non averlo notato.
Ma si sa che la Francia è la Francia, e quand’è in gioco la sacra triade della modernità pretende sempre di avere l’ultima parola, a costo di far diventare la libertà “libertà di importunare”, o, come ai tempi di Charlie Hebdo, liberté d’impertinence, sottospecie opinabile della libertà d’espressione.
Ma il politically correct gioca brutti scherzi . Allora fu molto politically correct, e conformista, lo slogan “Je suis Charlie Hebdo”, e molto politically uncorrect, e anticonformista, arrogarsi il diritto di dire “Je ne suis pas Charlie Hebdo”: negli Stati Uniti lo rivendicarono in molti, anche nella stampa mainstream, in nome di una libertà di religione che non poteva essere conculcata dalla libertà di satira. Questione di punti di vista. Del resto, anche i simboli della seduzione non sono eterni e risentono dell’usura del tempo. A dispetto di uno slogan che ha fatto scuola per generazioni di donne, oggi la palma della seduttività passa a chi può permettersi allegramente di dire “Je ne suis pas Catherine Deneuve”.
* Internazionale, 10 gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ragione ("Logos") e Amore ("Charitas"). Per la critica dell’economia politica ..... e della teologia "mammonica" ( "Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
Psicoanalisi contaminata. Il caso di Jean-Jacques Abrahams. Recensione di "Un singolare gatto selvatico"
di Alessandro Siciliano *
Jean-Jacques Abrahams ha 32 anni quando, nel dicembre 1967, si presenta per l’ultima volta nello studio del suo analista. Era in analisi dall’età di 14 anni, per volontà del padre, e dopo diverse interruzioni decide intorno ai 28 anni di interrompere definitivamente la sua terapia, da sempre vissuta come violenta e obbligata. Tre anni dopo accade l’episodio che lo renderà celebre fra le marginalità della storia della psicoanalisi e che sarà discusso da Sartre, Pontalis, Pingaud, Fachinelli, Deleuze e Guattari, Castanet, negli anni fra il ’69 e il ’77.
Tale episodio costituisce un evento, una “irruzione”, dice Fachinelli; un oggetto sconosciuto e irriconoscibile agli occhi dell’analista prima, dei commentatori poi, si presenta sulla scena del setting psicoanalitico. Jean-Jacques Abrahams entra nello studio del suo analista e accende un magnetofono, un vecchio registratore, con l’intenzione di registrare il colloquio. “Credevo di dovergli [all’analista] far parte del risultato delle mie riflessioni, fatte nell’intervallo, sullo scacco di ciò che era stata questa interminabile relazione analitica”. L’atteggiamento è recriminatorio, il paziente chiede all’analista che gli vengano “resi dei conti”, che risponda a una imputazione pronunciata nei confronti dell’analista e della psicoanalisi tutta. Il Dialogo psicoanalitico finisce con l’internamento del protagonista in ospedale psichiatrico. Abrahams fugge dunque dall’ospedale, sbobina il nastro e lo invia alla redazione della rivista Le Temps Modernes, dove viene pubblicato nel 1969, con commenti critici di Jean-Paul Sartre, Jean-Bertrand Pontalis e Bernard Pingaud.
La vicenda sarà discussa da tanti altri, in primis da Deleuze e Guattari ne “L’Anti-Edipo”. Negli anni della contestazione, Jean-Jacques Abrahams, con il suo gesto di denuncia assolutamente sui generis, acquista una certa notorietà, producendo un dibattito sullo statuto della psicoanalisi: pratica di liberazione del soggetto o dispositivo borghese di regolamentazione del desiderio?
Ci viene data occasione, oggi, di ritornare a parlare e discutere di tutto ciò, grazie al lavoro di Pietro Barbetta, Enrico Valtellina, Giacomo Conserva e degli altri autori di Un singolare gatto selvatico, edito da Ombre Corte. “Ulteriore tappa della fortuna di Jean-Jacques Abrahams”, questo piccolo volume ripropone il celebre “dialogo psicoanalitico” tra Abrahams e il suo analista, pubblicato per la prima volta nel ’69 in Francia e nel ’77 in Italia, a opera di Elvio Fachinelli, sulla rivista “L’Erba voglio”; a seguire, i testi di Sartre, Pontalis e Pingaud, il bellissimo commento di Fachinelli, le distopie realizzate del nostro Abrahams, e poi Lea Melandri sull’esperienza di “L’Erba Voglio”, Antonello Sciacchitano su psicoanalisi e psicoterapia, Alfredo Riponi sulle risonanze del testo biblico nella parola di Abrahams.
Cos’è che rende interessante la performance di Abrahams? Di fatto non sappiamo nulla della storia che fa da contesto all’evento in questione. Tuttavia, se leggiamo i suoi scritti, in particolare Fallofonia e Che si fotta il sonoro, il profilo dell’avversario, della cosa contro cui Abrahams si scaglia senza riserve si fa più chiaro. E in fondo, viene da pensare che forse ogni contestazione abbia in sé un richiamo abrahamsiano.
C’è infatti una progressione in Dialogo psicoanalitico, Fallofonia e Che si fotta il sonoro: il primo è una denuncia del dispositivo analitico, la talking cure, il rapporto terapeutico basato sulla parola; il secondo è un testo in cui si critica un altro dispositivo, il dispositivo dei dispositivi, il linguaggio; nel terzo testo, Abrahams inveisce contro l’avvento del sonoro nel cinema, dunque contro la voce.
Psicoanalisi, linguaggio, voce. “Se la specie umana è pressappoco una delle poche in cui ci si uccide l’un l’altro è sicuramente a causa del linguaggio” (p. 116). Questa linea interpretativa ci permette di cogliere meglio le questioni in causa nel Dialogo psicoanalitico.
Leggendo il Dialogo, appare chiaro come l’oggetto della contestazione del protagonista sia la tecnica psicoanalitica. “Non si può guarire là sopra!”, rimprovera Abrahams indicando il divano. La pratica analitica, dice, non aiuta a “guardare in faccia gli altri”, a viverci assieme, non insegna nulla di buono sulla impossibilità in gioco nei rapporti e nei legami sociali. Nel prescrivere l’astensione dall’azione, per favorire e incentivare l’analisi della vita psichica attraverso il medium della parola, la psicoanalisi ostacolerebbe l’elemento propulsivo, trasformativo dell’azione umana, disinnescherebbe la possibilità per l’uomo di risolvere la causa del proprio disagio e della propria angoscia nella realtà, attraverso un’azione che punti a toccare, a trasformare la realtà.
Un elemento in particolare disturba Abrahams, elemento che ha a che fare con una certa violenza. Nel Dialogo psicoanalitico sono frequenti i momenti in cui i due “attori” si accusano vicendevolmente di violenza, violenza fisica del paziente, violenza simbolica dell’analista. Ed è proprio contro questa “violenza simbolica” che il nostro intende fare qualcosa, per riscattare sé stesso e tutte le altre vittime di tale violenza.
“In cosa consiste questa violenza?”, si chiede Fachinelli nel suo commento, scorgendo nel Dialogo psicoanalitico e negli altri due testi una collocazione precisa di tale violenza: “Ciò che conta soprattutto è la traduzione in parole effettuata dall’analista, o meglio il presupposto di traducibilità - implicito nella sua posizione e nella sua tecnica - di tutto ciò che proviene dall’altra parte. Insomma, il conflitto dentro l’analisi è solo in parte conflitto tra chi interpreta e chi viene interpretato; più profondamente, esso si concentra intorno alla decisione di permutazione o equivalenza verbale di quanto accade” (p. 46).
Psicoanalisi, linguaggio, voce. Sotto accusa è dunque la legge fondamentale di ogni civiltà umana: la legge della parola. Sotto accusa, secondo Fachinelli, è quella strana legge non scritta, ma scritta ovunque e da sempre, che impone che tutto il reale passi attraverso la strettoia del simbolico. Jacques Lacan, utilizzando Ferdinand De Saussure, parlerà di significante. L’essere umano si costituisce prendendo le distanze, emancipandosi dal reale attraverso la mediazione del significante, attraverso cioè una struttura che abolisce la cosa nella sua immanenza per conservarla nella trascendenza del simbolo di quella stessa cosa (la hegeliana Aufhebung). Nell’habitat umano, le cose significano altre cose, e la significazione è il movimento che collega tutte le cose e che crea un discorso. Il discorso sarà dunque un modo per fondare un legame sociale tra esseri umani attraverso la stabilizzazione di determinate significazioni, di determinati sensi. Nell’ordine del discorso si “dirà” ciò che è ammesso e ciò che non lo è, ciò che è riconoscibile, visibile, dicibile, conscio, e ciò che è irriconoscibile, invisibile, indicibile, inconscio. La voce del Padrone pronuncia un discorso che denota, inquadra la vita come vita umana; il soggetto, dice sempre Lacan con un gioco di parole, è assoggetto, in posizione di sudditanza rispetto all’Altro. Nell’habitat umano, il reale è dunque cancellato originariamente, pertanto insiste e torna sempre allo stesso posto.
Tutta la lotta di Abrahams sembra andare contro questo funzionamento. Il gesto del nostro uomo col magnetofono veicola una obiezione fondamentale, mirabilmente colta da Fachinelli, contro un dispositivo terapeutico (che sarebbe scorretto identificare nella psicoanalisi, come se esistesse La psicoanalisi) fondato rigidamente sul “presupposto di traducibilità” in parola di tutto ciò che non è parola. “Un movimento teorico che, riferito non a ciò che taglia fuori, ma a ciò che si annette, dobbiamo pure chiamare predace, tende perciò ad abbinarsi a una pratica della “trasformazione”, del “controllo”, che in alcuni suggerimenti estremi delinea una “somministrazione” del codice della normalità”. Ciò che l’uomo col magnetofono mette in atto, continua Fachinelli, è “un movimento di cui occorre sottolineare insieme la problematicità e la positività, e che passa attraverso la parola contaminata, per così dire, vale a dire una parola non scissa, o il meno scissa possibile, da ciò che non è parola” (p. 47).
Ci sembra allora importante avere l’occasione di ricordare, o incontrare per la prima volta, il personaggio concettuale di Jean-Jacques Abrahams, grazie al lavoro di questo vitalissimo gruppo di studiosi, consolidatosi attorno all’interesse per le marginalità, letterarie, psicoanalitiche, filosofiche, storiche. Ricordiamo infatti un altro bel lavoro a cura di Barbetta e Valtellina, Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale (Manifestolibri, 2014), dedicato allo “studente di lingue schizofrenico” che, con i suoi due romanzi in neolingua, ha insegnato più di qualunque teoria su linguaggio e schizofrenia. Così come in Wolfson, anche nell’uomo col magnetofono possiamo trovare una importante lezione, messa in scena ad opera di quello che di solito è l’oggetto dei saperi “psi”, oggetto piuttosto recalcitrante. E possiamo intendere questa lezione, a condizione, però, di sospendere le difese rispetto all’evento, che in psicoanalisi possono prendere il nome di “diagnosi”, “passaggio all’atto”, “follia”.
* http://www.psychiatryonline.it/node/6845, 22 giugno, 2017
Dalla "scoperta dell’infanzia" all’infanzia oggi /
Pedofilia
di Sergio Benvenuto (doppiozero, 11.05.2017)
Confesso di aver paura di scrivere o parlare di pedofilia - oggi, è come attraversare un campo minato. Il vespaio provocato dal romanzo di Walter Siti, Bruciare tutto, il cui protagonista è un prete che desidera i bambini ma casto, mostra bene che la pedofilia tocca certi nostri nervi scoperti.
Siti in un’intervista (“Il caso Siti”, La Repubblica, 20 aprile 2017) si è sbagliato quando ha detto che desiderare i bambini senza farci nulla non è reato. Invece, si incrimina qualcuno anche solamente per aver visitato siti pedopornografici. Non solo gli atti pedofili, ma il desiderio pedofilo in sé oggi è criminalizzato. Come il decimo comandamento, il solo che proibisca un desiderio - dei beni altrui, compresa la donna altrui.
Anni fa una rivista di psicoanalisi mi chiese un intervento sulla pedofilia, e io scrissi un saggio in cui esaminavo alcuni casi di pedofilia presi dalla letteratura clinica. Con mia sorpresa il saggio fu rifiutato; il compianto amico Pietro Barcellona, membro della redazione, mi disse che quel mio scritto era apparso una lancia spezzata a favore dei pedofili. Caddi dalle nuvole. Il mio pezzo, almeno così credevo, era un’analisi scientifica, cioè distaccata, del mondo mentale pedofilico, senza una minima intenzione di apologia. Eppure, quel mio articolo è uno dei pochissimi, tra i tanti da me scritti, che nessuno abbia voluto pubblicare. In effetti, articoli anche di genere scientifico iniziavano con un anatema contro il flagello della pedofilia, con una denuncia di una quasi-cospirazione mondiale dei pedofili, ecc. Il mio saggio mancava di questo preambolo, forse perciò era apparso compiacente nei confronti della pedofilia.
Perciò tengo a informare prima di tutto il lettore di due cose: 1) non sono pedofilo; 2) ritengo giusto che la legge punisca l’adulto che indulga ad atti sessuali con bambini. Spero che, detto questo, io possa esprimere impunemente la mia idea.
Appunto, quel che mi sembra importante analizzare è proprio questa nostra esacerbata reattività quando si parla di pedofilia. Perché non è stato sempre così. Quando alla fine del XIX° secolo nacque la sessuologia medica, e Krafft-Ebing, Havelock Ellis e altri descrissero le perversioni - oggi chiamate parafilie - la pedofilia vi svolgeva un ruolo alquanto marginale. I medici europei di allora erano ossessionati piuttosto dall’omosessualità e dalla masturbazione. L’omosessualità era descritta come la peggiore perversione, del resto era perseguita penalmente in molti paesi (ma - questo lo si ignora - non in Italia, paese sempre permissivo nei confronti degli omosessuali). Gli omosessuali erano perseguitati in modo triplice: come peccatori dalle chiese, come malati mentali dagli psichiatri, e come delinquenti dallo stato. Quanto alla masturbazione, specialmente quella infantile, veniva denunciata come causa di terribili disturbi mentali e sessuali. I medici di allora ricorrevano a strumenti inquietanti per combattere “la peste onanista”, come corsetti antimasturbatori, astucci da erezioni, macchinari per allargare le gambe delle bambine, manette per le mani, addirittura cauterizzazione della clitoride, e altri sistemi sado-medici. All’inverso, si parlava e si scriveva ben poco di pedofilia. In sintonia con una certa omertà della popolazione nei confronti dei pedofili, soprattutto di quelli ecclesiastici, fino a pochi decenni fa.
Mio padre, professore di filosofia nato nel 1916, aveva studiato a Napoli in scuole di barnabiti e gesuiti, cosa che aveva prodotto in lui un desiderio di sacerdozio. Eppure ogni tanto alludeva a preti chiaramente pedofili; mi disse che un nostro caro amico di famiglia, una persona molto fragile, da ragazzo aveva accettato una relazione con un prete pedofilo. Mi disse che anche lui era stato oggetto di attenzioni, che aveva respinto. Apparirà oggi stupefacente che poi lui stesso mi mandasse a 15 anni a studiare dai barnabiti, a Napoli, istituto Bianchi, per due anni. E là alcuni compagni mi indicarono a dito i due o tre monaci “pericolosi”, dai quali stare alla larga.
Una volta un barnabita che non avevo mai visto, un uomo magro sulla trentina, mi dette appuntamento per parlarmi; evidentemente era il sacerdote incaricato della consulenza spirituale dei giovani allievi, tutti maschi. La sera mi recai al Bianchi. Attraversai lunghi corridoi bui con grandi finestroni, senza incontrare anima viva; quindi giunsi nella camera di questo sacerdote, anch’essa alquanto spettrale. Mi fece sedere di fronte a sé, molto vicino, la sua bocca quasi mi alitava in faccia, e mi prese una mano. Ricordo le sue mani fredde, i suoi grandi occhiali, il volto ossuto, la voce felpata e vischiosa. Senza andare troppo per le lunghe, mi chiese se avevo avuto polluzioni, se mi toccavo... mentre mi guardava fisso negli occhi come a volermi trivellare l’anima. Capii che dovevo tagliare la corda, difatti, senza rispondere alle sue domande, trovai una scusa e me ne andai.
Non so se quel tutore spirituale volesse sedurmi sessualmente, ma considero la sua lubrica curiosità sulla mia aurorale vita sessuale come già di per sé un attentato pedofilo. Era evidente che godeva nello strappare il velo di pudore degli adolescenti, nel penetrare anche solo verbalmente la loro intimità. Fu così che trovai del tutto pertinente la tesi che, molti anni dopo, Michel Foucault espresse in La volontà di sapere: che il nostro moderno interesse per il sesso, lungi dall’essere una novità rivoluzionaria, eredita una lunga tradizione, non solo cattolica, di investigazione della libido, di confessioni balbettanti, di puntiglioso smascheramento delle nostre fragilità sessuali.
Come mostra il film Spotlight di Tom McCarthy, quando il giornale The Boston Globe lanciò un’inchiesta sui preti pedofili ruppe un muro del silenzio. Ma questo muro non era stato alzato solo dalle alte gerarchie cattoliche, era mantenuto e rafforzato dalle stesse famiglie, non diversamente da quel che accadeva nella Napoli degli anni ’50 e ’60. D’un tratto, qualcosa che tutti sapevano ma di cui non si poteva parlare in pubblico, e che andava accettato come fosse un dato di natura, come i freddi invernali e la canicola estiva, veniva immesso nel discorso pubblico come oggetto di denuncia. Un cambio di discorso. O, come si dice in filosofia della scienza, un cambio di paradigma.
Sin dalla seconda metà degli anni ‘80 il mondo anglo-americano, pur dominato dall’apologia reaganiano-thatcheriana dei valori familiari, fu scosso dalla campagna contro il child abuse. D’un tratto un’intera società alzò un velo sulla privacy propria e altrui, e si convinse che una quota ingente di famiglie - anche insospettabili - praticava correntemente l’incesto e la violenza sui figli piccoli. Questo ciclone ha fatto breccia nella pedagogia, nella critica letteraria, nella psichiatria, nel cinema, ecc. Vi ricordate che per molti anni in tanti film americani i protagonisti prima o poi evocavano violenze o molestie subìte nell’infanzia, a opera di parenti o vicini? Se qualche personaggio rivelava turbe psichiche, potevate essere certi che prima o poi spuntava qualche abuso sessuale patito nell’infanzia. La psichiatria si convinse del valore patogeno del trauma, e il trauma per lo più erano abusi sessuali. Non si contavano i biografi di scrittori, artisti, politici, musicisti, ecc., che ricostruivano qualche violenza, o gioco erotico, di cui le suddette celebrità sarebbero state oggetto da bambini, come esperienze cruciali della loro vita. In Italia si dice "i panni sporchi si lavano in famiglia", invece nel mondo anglo-americano si andavano e si vanno a cercare prima di tutto i panni sporchi delle famiglie per esibirli in pubblico. La denuncia della pedofilia fu all’inizio una denuncia degli scheletri negli armadi delle rispettabili famiglie middle class. Poi il faro dell’attenzione si è spostato sui preti e sul “potere pedofilo”.
Eppure questa ricerca del parente pedofilo aveva orli paranoidi. Ho vissuto spesso negli Stati Uniti negli anni ‘90, e mi resi conto che in tante famiglie dei miei amici erano state sporte denunce per pedofilia da parte di figli o nipoti nei confronti di genitori, zii o nonni. Una febbre querelante, dove era difficile separare il delirio dalla rimemorazione di eventi reali, sconvolse le famiglie statunitensi. Se un americano soffriva di qualche malessere spirituale, si lambiccava il cervello per ritrovare nella propria lontana memoria situazioni e atti incestuosi, e di solito li trovava, perché spesso è difficile stabilire una linea di demarcazione netta tra l’abbraccio affettuoso e quello eroticamente stimolante.
Ha colto qualcosa di questo il regista danese Thomas Vinterberg. Nel 1998 Vinterberg diresse un film, Festen, in cui a una festa di famiglia ricca uno dei figli denuncia drammaticamente il padre-padrone per aver abusato sessualmente di lui e della sorella, morta suicida, quando erano piccoli. Era chiaramente una critica in chiave “di sinistra” della pedofilia familista, dove il pedofilo coincideva non solo col padre, ma anche con “il capitalista”.
Poi nel 2012 Vinterberg produce Jagten, “Caccia”, distribuito in Italia col titolo fuorviante Il sospetto; mentre si tratta propriamente di caccia, di caccia al pedofilo. Un giovane maestro di asilo in un villaggio danese viene accusato (noi spettatori sappiamo ingiustamente) di aver sedotto sessualmente una bambina sua allieva. Il villaggio non è garantista, per cui tutti sono convinti che il maestro sia un pedofilo e perseguitano lui e il figlio adolescente. Poi il maestro viene scagionato dal giudice, ma questo non basta: egli continua a essere oggetto di violenze e ostracismi. Col tempo, tutto sembra calmarsi, il risentimento pare archiviato. Ma un giorno, durante una partita di caccia con amici, qualcuno che non vediamo spara addosso al maestro, mancandolo.
Insomma, “il villaggio” continua a vederlo come un pedofilo, anche se è stato prosciolto da ogni accusa. Quel che Vinterberg coglie è insomma un bisogno collettivo di avere un pedofilo da perseguitare. Un paradossale desiderio di pedofili. Siamo nella logica del capro espiatorio, su cui tanto si è scritto. Così, la psicosi della pedofilia si è diffusa anche nel mondo carcerario e tra la criminalità. I condannati per pedofilia non possono essere messi in cella con i detenuti “normali”, altrimenti verrebbero sicuramente uccisi. Mentre un compagno di cella che ha ucciso più persone viene accettato.
Nel film di Vinterberg si tratta di fiction, ma storie analoghe sono accadute realmente in molti paesi. In Italia avemmo il caso inquietante di Rignano Flaminio: in questa tranquilla cittadina a nord di Roma, nel 2007, quattro insegnanti, tutte donne, della scuola materna locale e un autore televisivo furono accusati di praticare orge sessuali con alcuni piccoli allievi. Molti media parlarono di loro come di “orchi”, anche se sin dal primo giorno non ho mai creduto in una storia così assurda: possibile che quattro maestre tutte pedofile si ritrovassero guarda caso nella stessa scuola e portassero fuori dell’edificio scolastico dei bambini senza che nessuno se ne accorgesse? Sembrava una storia di caccia alle streghe del Rinascimento (anche allora, contrariamente a quel che si pensa, l’Inquisizione perseguiva donne che venivano denunciate “dal basso”, attraverso la vox populi, come streghe). In seguito tutti gli accusati sono stati assolti e le accuse archiviate, ma non c’era bisogno di aspettare quelle sentenze per rendersi conto che si trattava di un delirio collettivo. Una persecuzione come quella delle streghe di Salem nel Massachusetts, nel 1692, potrebbe ripetersi anche domani, qui in Italia; e le “streghe” sarebbero ovviamente delle pedofile.
Come spiegare questo orrore per il pedofilo, ambiguo perché esprime il desiderio di averne uno da perseguitare? Alcuni sostengono che esso è il segno di una nostra maggiore sensibilità al mondo infantile, che insomma oggi i genitori sono molto più attenti nei confronti dei figli. Dovremmo rallegrarci del fatto che finalmente la nostra società si sia accorta di qualcosa che pur esiste da che mondo è mondo, e cioè che i bambini vengono picchiati, i padri vanno a letto con le figlie e i fratelli con le sorelline, e alcuni preti seducono ragazzi e ragazze.
Non a caso, si dice, nelle società industriali avanzate facciamo sempre meno figli: anziché disperdere le cure e l’eventuale patrimonio tra tanti figli, preferiamo concentrare cure ed eredità su uno o due figli. Viviamo in una società dove il bambino è sempre più importante, da qui la tendenza - soprattutto italiana - a permettergli tutto. La psicosi del pedofilo sarebbe solo un corollario della venerazione per quello che Freud chiamava “Sua Maestà il bambino”.
Ma qualcun altro non la pensa così.
Mi colpì un episodio, letto sui giornali qualche anno fa. In una cittadina inglese si diffuse l’idea che ci fosse in giro un pedofilo. Una banda di uomini alticci andò in giro per la città, di notte, con una maledetta voglia di picchiarne uno. Videro una porta con su scritto “Paediatrician” e presero la scritta per “Pedophile” - devastarono lo studio della pediatra. Ora, quel che mi colpisce non è solo l’idea assurda che un pedofilo possa mettere una targhetta qualificandosi come tale, ma anche che, in vino veritas, si sia punita una persona che cura i bambini, non che li violenta. È una specie di lapsus freudiano, che andrebbe interpretato.
Emerge insomma un’ambivalenza nei confronti del bambino che andrebbe esaminata con attenzione. Come ha mostrato bene lo storico Philippe Ariès nel libro Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (Laterza, 1981), l’infanzia non è sempre esistita; la “scoperta” dell’infanzia è un evento relativamente recente, che risale al XVI° secolo; prima i piccoli d’uomo erano visti altrimenti. Insomma, ogni epoca ha un diverso sentimento dell’infanzia, ogni società la tratta, la veste, la educa, la ama, la detesta in modi diversi. Dovremmo chiederci quale sia il nostro modo attuale.
Mi pare che oggi trattiamo l’infanzia in una maniera che parrebbe del tutto opposta a quella che l’angoscia del pedofilo farebbe supporre. Ovvero, aboliamo sempre più la differenza tra i bambini e noi, soprattutto per quel che riguarda la sessualità. Innanzitutto vestiamo i bambini sempre più come noi adulti. Il successo della Barbie - attraverso i giocattoli gli adulti plasmano la mente dei loro bambini - la dice lunga: si propone alle bambine come ideale non una bambola-bambina, ma una ragazza alta e magra, quasi anoressica, bionda, modello scandinavo, vestita sportivamente... La Barbie ha imposto alle bambine il paradigma della donna moderna. Quanto poi alle altre bambole alternative alla Barbie, come Bratz, mi sembra che esaltino la figura della adolescente sexy e alla moda che va in discoteca. E non dobbiamo più dare scappellotti ai nostri bambini, proprio perché non li diamo agli adulti.
Il sesso viene insegnato nelle scuole, ovvero vogliamo che i nostri bambini sappiano sulla sessualità e sulla nascita più o meno le stesse cose che sappiamo noi. Favole come la cicogna o i bambini sotto i cavoli sono derise e vituperate. Inoltre esponiamo sempre più i bambini a immagini sessuali, attraverso la televisione, i rotocalchi, i film; questo spiegherebbe tra l’altro la tendenza delle bambine occidentali ad anticipare sempre più la loro pubertà. L’esposizione a scene erotiche ha l’effetto, pare, di affrettare il primo ciclo estrale. Aggiungiamo che la verginità non è più considerata un valore, così che se una ragazza perde la verginità a tredici anni, i genitori ormai non se ne preoccupano più di tanto.
Evidentemente la teoria di Freud - che ha svelato un segreto di Pulcinella, il fatto che i bambini abbiano impulsi sessuali, cosa che ogni madre e padre e baby sitter sa - è stata assorbita dalla nostra cultura, per cui non reprimiamo più atti sessuali tra bambini. Certo non proibiamo più la masturbazione. Insomma, la barriera tra il mondo infantile e quello adulto - che era enorme ancora nella mia infanzia, anni ’50 - è caduta. Assieme al femminismo, che ha realizzato un’ampia omologia tra uomini e donne, un tacito bambinismo ha omologato sempre più bambini e adulti. Come si spiega allora questo accanimento anti-pedofili? Non contraddice la nostra tendenza a secolarizzare l’infanzia, ovvero a de-sacralizzarla?
Probabilmente proprio questa caduta della barriera bambini/adulti ha riaperto un vasto campo di tentazioni in molti: siccome i bambini sono “come noi”, perché non avere giochi sessuali con loro? Ci sono impulsi pedofili in moltissime persone, anche se sono repressi dalla nostra etica sessuale. La secolarizzazione dell’infanzia fa affiorare questi impulsi, da qui il terrore di esternarli. L’orrore per i
pedofili - per coloro che non resistono a questi impulsi - va allora letto come un orrore per la propria stessa pedofilia. Il pedofilo funziona allora come capro espiatorio su cui delegare il proprio interesse morboso per i bambini. Come nel film di Vinterberg o a Rignano Flaminio, si ha bisogno di un pedofilo, anche se inventato, per incarnare in un altro le proprie tentazioni.
È l’eterno ritorno della lettera scarlatta di Hawthorne: il pastore che perseguita la donna peccatrice è proprio colui che l’ha resa peccatrice.
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
L’enigma Lacan (guidatore spericolato)
di Sergio Benvenuto (DoppioZero, 03.05.2017)
Il film celeberrimo di Orson Welles Citizen Kane (Quarto potere) si snocciola come una ricostruzione biografica. Un giornalista deve ricostruire la vita del magnate della stampa e tycoon Charles Foster Kane, giusto dopo la sua morte. Il giornalista compone una sorta di puzzle intervistando varie persone che hanno condiviso parte della vita di Kane. Le molteplici testimonianze vengono a comporre un’immagine sfaccettata del personaggio, ma il giornalista vuole capire soprattutto perché prima di morire Kane abbia pronunciato la parola rosebud. Chi o che cosa era questo Rosebud? Questo significante sembra indicare un pezzo mancante nel puzzle.
Rosebud letteralmente significa bocciolo di rosa, ma viene usato anche come bocca di rosa, una bocca con labbra delicate e rosee. Come orifizio con mucosa, il termine evoca anche le piccole e grandi labbra della vagina. Rosebud sembra insomma riferirsi a una donna, ma è anche significante di qualcosa che in francese si chiama béance, ciò che resta aperto come una vena tagliata o una bocca socchiusa. Il giornalista non scoprirà nulla, la rivelazione finale - un MacGuffin come si dice nel cinema - è riservata allo spettatore, una rivelazione che però lascia aperta la domanda sul significato ultimo di quel significante pronunciato sull’orlo della morte.
Mi sono ricordato del film di Welles dopo aver letto Vita con Lacan (La vie avec Lacan) di Catherine Millot (Raffaello Cortina editore). Costei, psicoanalista e scrittrice, negli anni ‘70 fu amante, allieva e compagna di Lacan. Tra loro c’erano 43 anni di differenza, e l’autrice nota che oggi scrive questo libro avendo l’età che aveva Lacan quando lei l’aveva conosciuto, attorno ai 72 anni. Questa di Millot è una testimonianza sulla sua esperienza personale con Lacan. Che si aggiunge a varie altre testimonianze, pubblicate nel corso degli anni da parenti amici allievi o analizzanti di Lacan, da prospettive tra loro diverse, a cui bisogna aggiungere la lunga biografia di Lacan scritta da Elisabeth Roudinesco. Abbondano aneddoti anche gustosi, altri più o meno immaginari, sul personaggio Lacan. Dobbiamo mettere queste testimonianze una accanto all’altra, un po’ come fece il giornalista di Citizen Kane, se vogliamo costruire il puzzle Lacan. Ma ci resta un rosebud a cui dare risposta? Penso di sì. Insomma, per me c’è un enigma Lacan.
Vari amici, che stimo, mi hanno detto che questo libretto secondo loro non vale granché. Mi chiedo che cosa abbia potuto motivare questo giudizio severo. Un libro-testimonianza deve il suo interesse non al fatto che sia scritto più o meno bene, che sia più o meno profondo, ma al fatto che testimoni appunto, che ci informi su aspetti a noi ignoti di una vita. Certi lacaniani aborriscono gli scritti biografici su Lacan in genere, “sono solo pettegolezzi” dicono, ma in fondo ogni storiografia è una forma di pettegolezzo. E la stessa analisi appare in qualche modo un pettegolezzo su se stessi, un tradurre in parola qualcosa di intimo e inconfessabile. Forse alcuni vorrebbero che di Lacan si scrivessero non biografie ma agiografie. Le biografie serie comportano sempre un alone di demistificazione, e posso capire che chi vota a Lacan una forma di culto della personalità non possa accettarle.
A me interessano invece anche i “pettegolezzi” su Lacan perché, come la psicoanalisi insegna, le teorie psicoanalitiche non sono il prodotto di menti disincarnate, ma di soggetti particolari con la loro storia, il loro inconscio, le loro ferite. D’altro canto è vero che ogni biografia fa appello al nostro voyeurismo. Al limite, ci saremmo aspettati che Millot ci parlasse anche dei suoi rapporti sessuali con Lacan, o dei suoi rapporti con la moglie di Lacan Sylvia, perché no? Ma più ne sappiamo di uomini e donne eminenti, più un tarlo, simile a Rosebud, ci assilla: resta sempre qualcosa che ci sfugge, una sorta di buco. Insomma, chi era veramente Lacan?
Di Lacan colpisce un comportamento che i suoi più intimi mettono in evidenza: il suo modo di guidare l’auto. Correva oltre i limiti di velocità, non dava la precedenza, passava col rosso, prendeva anche la corsia d’emergenza pur di superare un ingorgo, insomma metteva a repentaglio la vita propria e di chi gli stava accanto. Anche se un altro guidava, di fronte a semafori rossi si spazientiva subito e talvolta usciva dall’auto. Questo anarchismo automobilistico sorprende perché Lacan è stato, tra tutti gli psicoanalisti, quello che ha dato più peso al ruolo della legge nell’inconscio e nel destino individuale. Per Lacan, come per S. Paolo, la legge non è un ostacolo posto al nostro desiderio, è anzi la condizione del desiderio stesso, ciò che lo costituisce e lo sferra. Ora, come vedere il fatto che il teorico della legge non tenesse in alcun conto la legge più banale, il codice stradale? Cogliamo qui una discrasia tra la teoria e la vita?
La trasgressione, appunto. Non credo sia un caso che Lacan sia venuto in rotta di collisione con l’International Psychoanalytic Association - l’organizzazione ufficiale e più antica degli psicoanalisti - non per il contenuto del suo insegnamento, ma per ragioni direi fiscali: il fatto che facesse sedute a tempo variabile (e non a tempo fisso, di solito 45 minuti, come fanno gli analisti ortodossi) e che queste sedute fossero di solito troppo corte. Non c’è nulla di male in sé nell’ideare una nuova tecnica analitica, nel fare sedute corte, ma trovo significativo che la rottura sia avvenuta perché Lacan non rispettava il codice del setting analitico. Ritroviamo questo suo rapporto problematico con “le regole” in molti altri comportamenti, in particolare nel fatto che abbia preso Catherine Millot come sua amante quando era ancora sua analizzante e allieva.
Lo stesso Lacan racconta quando incontrò il famoso psicoanalista austriaco Ernst Kris al congresso psicoanalitico di Marienbad nel 1936 (“La direzione della cura”, Scritti). Il giovane Lacan gli disse di voler andare poi alle Olimpiadi di Berlino, che si tenevano allora. Il punto è che queste dovevano essere le Olimpiadi di Hitler... E Kris, ebreo, gli disse in francese “Cela ne se fait pas!”, “Questo non si fa!” Lacan ci andò lo stesso.
Appunto, cela ne se fait pas. Non si passa col rosso, non si va a letto con le pazienti, non si fanno sedute eccessivamente corte, si deve dare la precedenza in strada... E dico questo non per gettare l’anatema su Lacan, tutt’altro. Piuttosto per dire che Lacan era un dandy.
Nessun biografo o testimone di Lacan, a quanto io ne sappia, ha presentato Lacan come un dandy. Forse perché i grandi dandies - Baudelaire, Oscar Wilde, Raymond Roussel, ecc. - non ci appaiono eticamente corretti. Essi si escludevano dai valori e dai gusti della massa, vantando la loro libertà rispetto alle regole che valgono per la gente comune, ovvero per i mediocri. Ora, sembra che la fascinosa arroganza del dandy non possa conciliarsi con la psicoanalisi, che è pur sempre, lo si riconosca o meno, un’attività di cura, di aiuto, un servizio alla persona. Può essere il dandy un filantropo, o semplicemente un medico? Millot sottolinea come Lacan facesse sentire la gente comune a proprio agio, come sapesse interloquire bene con gli psicotici; insomma, sapeva aiutare. E poi, quando si ha quel fascino misterioso che oggi chiamiamo carisma, si riesce ad aiutare meglio il prossimo che quando non lo si ha.
Il dandy, dunque, si sente libero. Ora, si dà il caso che Lacan abbia sempre disdegnato di predicare la libertà, cosa che lo separa nettamente da Sartre, il filosofo della sconfinata libertà dell’essere umano.
Quando una giornalista televisiva gli chiese qualcosa sulla libertà, Lacan si mise a ridere e alla fine disse “Io non parlo mai di libertà”. Non ne parlava, ma la praticava, anche a costo di rompersi l’osso del collo.
Millot accenna all’allievo di Lacan Giacomo Contri, traduttore degli Ecrits, e qui lei commette un errore. Dice che Lacan era esasperato dal fatto che Contri avesse chiamato Comunione e Liberazione la sua scuola di Milano. In realtà Contri aveva chiamato il suo gruppo Scuola freudiana (di cui io stesso feci parte per qualche anno), ma era anche membro del movimento Comunione e Liberazione che noi italiani conosciamo bene.
Di fatto Lacan rimproverava a Contri la sua adesione all’integralismo cattolico. In un incontro a Milano con gli allievi di Contri, disse che i due significanti “comunione” e “liberazione” erano profondamente estranei al suo insegnamento, che certamente non era catto-comunista. In particolare, l’analista non è mai libero: “Non si può dire che il mio discorso vi prometta una liberazione da alcunché, perché si tratta, al contrario, di incollarsi alla sofferenza delle persone...” (Lacan in Italia/En Italie Lacan, La Salamandra, 1978, p. 122).
Scrive Millot: “A un transessuale che rivendicava la sua qualità di donna, non smise di ricordare durante il colloquio il fatto che era un uomo, che lo volesse o no, e che nessuna operazione ne avrebbe fatto una donna” (p. 42). Ecco una posizione che oggi apparirebbe retrograda, che il movimento LGBT contesterebbe. Oggi prevale la concezione per cui il proprio gender è qualcosa che ci si assegna, non qualcosa che si è oggettivamente. Ma appunto, egli non compiaceva l’ideologia liberal secondo cui si deve essere liberi di essere quello che si vuole, con l’aiuto anche della chirurgia e della tecnologia. La retorica della liberazione, che all’epoca andava per la maggiore sia a sinistra che a destra - “è proibito proibire”, la teologia della Liberazione, ecc. - gli era del tutto estranea.
In effetti, all’epoca altre teorie si contrapposero a Lacan rivendicando, sulla scia del ’68, una liberazione incondizionata: era il caso dell’apoteosi orgasmica di Wilhelm Reich, o delle macchine desideranti di Deleuze e Guattari, o della critica liberatoria da parte di Jean Baudrillard... Rispetto a queste filosofie di esaltazione della libertà del desiderio, il pensiero di Lacan appare un dolente richiamo al determinismo in cui l’essere umano è preso.
Eppure Lacan si sentiva libero da ogni regola. Quindi, il suo pessimismo sulla libertà era solo una faccia della medaglia, l’altra era quella di una liberazione direi in extremis che nasce proprio da una sorta di sottomissione inaugurale. Lo si può così accostare ad Antigone - su cui tenne bellissimi seminari - l’eroina che si ribella alla legge della città per seguire la propria legge, la legge del proprio desiderio.
Perché le trasgressioni di Lacan erano contro le leggi di Creonte - dalle sedute standard dell’IPA fino ai semafori rossi - per affermare un’altra legge, quella del desiderio. “Ci si sente colpevoli - diceva - quando si cede sul proprio desiderio”. Egli non voleva cedere sul proprio desiderio. “Per lui, non c’erano piccoli desideri, la minima voglia era già sufficiente” dice Millot (p. 69), comprese le voglie delle persone che amava, voglie che doveva soddisfare subito, senza mai rimandare all’indomani ciò che poteva essere fatto immediatamente.
Non a caso in gioventù fu amico di surrealisti, tra i quali Dalì, anche se Millot preferisce definirlo “dadaista”. E forse non a caso sposò la ex moglie di Georges Bataille, che possiamo considerare il massimo filosofo libertario. È proprio negando teoricamente la libertà umana, come fece Lutero (De servo arbitrio), che la si deve praticare, in modo ingenuamente disperato.
Lacan voleva sempre godere di tutto: delle donne, del danaro, del sapere, del pensare. Insomma, di Lacan non si può dire affatto che fosse saggio - in barba al pregiudizio secondo lui l’analista deve essere un campione di saggezza. Lacan esprimeva piuttosto una straordinaria vitalità, una passione quasi futurista per il movimento, gli sport, la velocità, i viaggi. Una vitalità quasi infantile, che Lacan stesso riconosceva quando diceva che aveva l’età mentale di un bambino di cinque anni. In fondo, quel che alla fine decide tra chi è semplicemente intelligente, anche molto intelligente, e il genio è proprio la vitalità, l’energia. Lacan non aveva bisogno di amfetamine, come Sartre che ne prese a bizzeffe, per essere sempre un po’ su di giri. E in effetti, come Erik Porge, potremmo interpretare il titolo del libretto di Millot come “Con Lacan, la vita”.
Questa vitalità si esprimeva anche nell’opposto del movimento: Lacan passava lunghe ore assorto, silenzioso, immobile. Questo vuoto immoto che faceva attorno a sé, in casa, assorbito dalle sue riflessioni, esprime in realtà la vitalità del suo pensare, che, frustato dall’urgenza di una soluzione forse impossibile, lo inchiodava. Un correre veloce per la vita che però si dirigeva dritto verso la morte, e non nel senso che ciascuno di noi deve morire. Dopo aver avuto la diagnosi di cancro all’intestino, Lacan rifiutò di curarsi. E alla figlia che gli chiedeva perché, rispose “Così, per capriccio”. Un’ombra di quasi-suicidio plana così su di lui; e gli stoici dicevano che il suicidio è uno dei pochi atti veramente liberi che l’essere umano possa permettersi.
Chi è molto vitale, non teme la morte. E Millot insiste sulla impavidità di Lacan. Una volta, mentre faceva una supervisione, dei ladri entrarono con le pistole puntate chiedendogli soldi; ma lui si rifiutò assolutamente di darglieli. Quando la morte gli si presentava davanti, non la fuggiva.
Come il dandy, pagava il prezzo di una solitudine di fondo. “Non c’era mai un ‘noi’, c’era lui, Lacan, e c’ero io che lo seguivo... D’altronde se a me il ‘noi’ non è mai stato congeniale, a Lacan era del tutto estraneo... La sua profonda solitudine, il suo apartismo [sentirsi “a parte” rispetto agli altri] rendevano il ‘noi’ qualcosa di fuori luogo” (p. 19). Il ‘noi’ è quella dimensione di comunione che, come abbiamo visto, rimproverava agli emuli di don Giussani. Perciò non credeva nel comunismo, e sono allergici a Lacan quelli che praticano l’analisi di gruppo. Freud si era occupato della dimensione del ‘noi’ in Psicologia delle folle e analisi dell’Io, in cui descrive ogni Mass, ogni collettivo, ogni ‘noi’, come qualcosa di essenzialmente fascista. Perché l’unità nel ‘noi’ presume sempre un Führer, un leader, una sorta di alienazione del desiderio in lui. Come ha potuto Lacan fondare allora una scuola quasi di massa di cui lui era il capo indiscusso? Il fatto che poco prima della sua morte l’abbia sciolta ci dice però che non era fatto per il potere sulle folle. “Aveva con l’esercizio del potere un rapporto che definirei minimalista” (p. 52).
Qual era allora il rosebud di Lacan? Direi proprio averci detto che ogni esistenza singolare - anche la propria - gira attorno al mistero di una bocca socchiusa che si presenta come dolcissima. Egli era a un tempo Kane con il suo buco e il giornalista che lo cerca. Quell’enigma che Lacan è per noi, è il suo modo di girare attorno a quell’enigma che ogni essere umano, anche per se stesso, è. In fondo, ha indicato sempre un buco fondamentale che rompe la coerenza del soggetto-organismo. Una beanza - se mi si permette questo neologismo - nella teoria psicoanalitica, certo, anche nella propria teoria, che però a sua volta esprime una beanza fondamentale dell’essere umano. Come ci ricorda Millot, chiamò l’essere umano “il singolare”, separandolo dal particolare. Egli cercava una singolarità senza senso con cui ciascuno di noi deve confrontarsi.
In fisica si chiama singolarità ogni fenomeno per cui le leggi della fisica normale cessano di valere, come nei buchi neri. Lacan pensava che il fondo di ciascuno è qualcosa di “impossibile” per il quale non valgono le nostre leggi e che lui chiamava il Reale, un buco nero che lo ha polarizzato negli ultimi anni.
Allora Lacan fu completamente assorbito, direi assillato, dai nodi borromei. Si tratta di un numero indefinito di anelli - minimo tre - allacciati in un certo modo che, se se ne taglia uno, tutti gli altri risultano liberi.
Millot ci ricorda che gli spaghi per fare catene borromee avevano ormai invaso le due case di Lacan. Negli ultimi tempi, nei suoi seminari si limitava a disegnare sulla lavagna anelli e nodi sempre più complessi, in silenzio; quasi non parlava più.
Non discuto qui l’eventuale utilità dei nodi borromei nella pratica e nella teoria analitiche; ma certamente la passione di Lacan per essi erano il suo godimento e il suo sintomo. Bisogna psicoanalizzare anche la teoria psicoanalitica, e lo psicoanalista che la elabora. Evidentemente Lacan si interrogava: come mettere assieme il fatto che riusciamo a legare aspetti della nostra soggettività in modo da “chiuderci” felicemente, con il taglio, lo spezzarsi del nodo, che getta tutto nella baraonda della libertà? In quei nodi vedo il tentativo di una risposta a un paradosso fondamentale, quello dell’esistenza umana che la psicoanalisi non fa altro che ricalcare.
Attorno a questo paradosso, il vortice del modo di vivere e di pensare di Lacan. Questo vortice lo rende indigesto a molti, proprio perché non ci si può mai riposare in una definitiva consistenza della teoria. In questo vortice faceva girare insieme gran parte dello scibile, in una bulimia simile a quella speculativa di Hegel: psicoanalisi e opere letterarie, matematica e filosofia, logica arte e linguistica. Questo ciclone girava attorno a un occhio che egli chiamò Reale. Con questo qualcosa che manca al puzzle - e che in qualche modo ci libera pericolosamente da ogni legge - si è confrontato tutta la vita.
Gli strumenti d’ombra
di Alessandro Foladori (Doppiozero, 01 marzo 2017)
Nel 1964 Roland Barthes fa pubblicare in una rivista universitaria una raccolta di appunti dedicata agli studenti, che sarà destinata a diventare quel testo intitolato Elementi di semiologia. Non è un caso che un’opera così semplice si sia imposta tra gli intellettuali dell’epoca suscitando dibattiti e polemiche, che talvolta ancora si protraggono: la sua semplicità è infatti mera apparenza. Con la pretesa di istituire un agile compendio di riferimenti e nozioni ad uso e consumo di coloro che sono intenzionati a occuparsi di semiotica, Barthes compie in sottotraccia delle operazioni tutt’altro che scontate: la sovversione di un credo intellettuale, la provocazione a un certo modo di intendere la critica sociale, la testimonianza e la collocazione di una tappa del proprio percorso filosofico e biografico.
Si potrebbe dire, sintetizzando molto, che il primo aspetto risiede nell’inversione del progetto saussurriano di subordinare la linguistica alla semiotica, laddove Barthes utilizza strumenti linguistici per poter fondare la sua semiologia. Il secondo aspetto critica la massima sociologica della cosiddetta “società dell’immagine”, mostrandone una sovrabbondanza di elementi verbali e scritturali e gettando le vere e proprie basi di un metodo di indagine sociale. Infine il terzo aspetto sta nel fatto che Barthes non dà seguito ai suoi Elementi, considerandoli un punto d’arrivo più che di partenza, e si dedica ad altro dagli anni immediatamente successivi. Che si sia o meno in linea con i contenuti che Barthes esprime, i suoi movimenti restano indubbiamente legati a una cifra inaggirabile del suo pensiero e, forse, del pensiero in generale: l’abbandono e l’aggressione a quanto c’è di calcificato in sé e attorno a sé, nell’intento di scoprire e riscoprire sempre i flussi di pensiero vivo e creativo che possano rendere ragione di alcuni sistemi di analisi e di pratiche, o crearne di nuovi. Per parafrasare Nietzsche: la rottura delle vecchie tavole e - dove serve - anche delle nuove, per quanto esse già hanno della canzone da organetto.
Il più recente testo ripubblicato dell’opera di Enzo Melandri, Alcune note in margine all’Organon aristotelico (Quodlibet, Macerata 2017, pp. 192), è accumunato al lavoro di Barthes sia per il formato, essendo tratto dalle dispense destinate agli studenti di un suo corso, sia per il periodo di elaborazione (anno accademico 1964/65 - con pubblicazione nel ’65). Non solo, anche in Melandri il senso esplicito del libro - una chiara e rigorosa trattazione dei testi logici di Aristotele - sembra intrecciarsi con numerosi intenti impliciti, dall’afferrabilità più o meno semplice. Sia chiaro che le note melandriane non si presentano affatto come un pretesto per poter dire dell’altro a partire dall’Organon aristotelico, di cui invece offrono una visione puntuale sia da un punto di vista di coerenza interna, sia da uno filologico e interpretativo, ma resta netta la sensazione, talvolta esplicitata, che lì intrecciati si snodino dei temi di altro tipo e di portata più vasta. È forse proprio perché chi scrive è digiuno di logica formale o antica che sembra di maggior interesse o urgenza cercare di mettere a fuoco qualcuno di questi aspetti.
Infatti se, come dice Melandri, «per capire un autore è sufficiente rendersi ragione della struttura di fondo del suo discorso», questo non va inteso come un modo un po’ goffo di scrollarsi di dosso la responsabilità di spiegare nel dettaglio il pensiero di colui o colei di cui ci si accinge a parlare, bensì come un vero e proprio manifesto metodologico e contenutistico di un ampio progetto che non si riduce a fare della buona storia della filosofia. Indagare la “grammatica speculativa implicita” di un sistema di pensiero non è solo il modo probabilmente migliore di cogliere quel sistema, ma anche una complessa ed efficace pedagogia del pensare in quanto tale, dal momento che consente di vedere la fattura degli strumenti di qualcun altro, permettendo così di farli propri - o rifiutarli - con coscienza di causa.
All’interno di questa cornice teorica e pratica sembra di poter dire, a libro concluso, che non esisteva tema migliore da trattare della logica aristotelica. Melandri infatti, a partire da una profonda consapevolezza delle strutture logiche che gli sono contemporanee, continua a dispiegare i meccanismi del pensiero di Aristotele come qualcuno che smonta un orologio e, con ogni ingranaggio che preleva, altri saltano e non si capisce più in che modo potessero occupare il posto in cui stavano. Fuor di metafora, è come se puntare il proprio sguardo e la propria moderna formazione sull’Organon avesse la diretta conseguenza di mostrare una fortissima componente aporetica, quando non contraddittoria. Che fare, quindi? Rigettare la logica aristotelica in quanto arcaica e poco utile?
Evidentemente no, non solo perché questo genere di giudizio è del tutto alieno all’approccio di Melandri, ma anche perché mostrare le aporie non è che l’inizio del processo che permette di rendere ragione del funzionamento di un pensiero. Giacché quello che sappiamo, a questo punto, è che paradossalmente l’orologio funzionava, anche se i suoi ingranaggi non erano reciprocamente compatibili. Diventa quindi necessario abbandonare l’idea di trovare in Aristotele un sistema formale chiuso, completo e in grado di abbracciare la totalità del pensabile, e cominciare a coglierlo per quello che è, uno strumento (d’altronde “organon” non ha mai significato altro). E in quanto strumento vederlo come qualcosa a disposizione per scopi ulteriori e che da altrove riceve la sua regola di fabbricazione e di impiego.
È questa la tesi che Melandri ripete da un estremo all’altro del volume: non si viene a capo della logica di Aristotele se non ci si rende conto che è strettamente legata ad una concezione ontologica non riducibile alla logica che pure cerca di renderne pensabili e dicibili le formulazioni. È il paradosso che comporta partire da un principio da cui poter operare una qualsiasi messa in forma, ma che non si lascia mai esibire in quanto tale (farlo renderebbe necessario doversi appoggiare a un altro principio, a sua volta non indicabile). Nel caso di Aristotele molte difficoltà logiche emergono dalla tesi squisitamente ontologica dell’isomorfismo che, inoltre, continua a replicare se stessa e le corrispondenze che fa proliferare. Nei suoi minimi termini, c’è isomorfismo tra le cose, gli affetti (i segni che le cose lasciano nell’anima), e il linguaggio che le esprime (i segni “parlati” dei segni nell’anima).
Macrocosmo e microcosmo continuano a riflettersi l’uno nell’altro in un intreccio di logica, ontologia e psicologia che, legati da una corrispondenza nelle forme, continuano a presentare tuttavia una differenza ontologica tra loro che rende il problema particolarmente complesso. Se da un lato i “cento talleri” pensati non devono avere niente di meno di quelli reali, ma non possono comprare alcunché (per riprendere un esempio kantiano citato dallo stesso Melandri); dall’altro lato le proposizioni non si possono limitare ad essere logicamente valide, a seguire delle regole di coerenza espressiva, perché stanno già implicitamente formulando un giudizio di esistenza su ciò che esprimono, dal momento che si parla solo a partire da cose che lasciano dei segni. Si pensi al famigerato principio di non-contraddizione: non si tratta semplicemente di una regola formale per rendere valida - cioè vera - un’argomentazione, bensì si pone come un vero e proprio principio per evitare di ammettere un conflitto insolubile in ciò che esiste. Allo stesso modo per Melandri la parte modale, intensionale, della logica aristotelica non regge ai moderni strumenti di formulazione, ma diventa meno incoerente di quanto non sembri nel momento in cui se ne rintraccia la genealogia nell’elaborazione metafisica dell’atto e della potenza, cioè - per dirla nei minimi termini - in quel motore che consentirebbe di pensare il divenire e che, schivando la staticità di un sistema formale, non può che creare dei grossi problemi in seno al pensiero logico.
Ciò significa che, per quanto la logica in Aristotele abbia la pretesa di essere lo strumento giusto per ogni tipo di formulazione scientifica, resta uno strumento aperto con fondamenti in altri campi e contatti plurimi con ulteriori modalità dell’esperire umano. D’altronde sono libri di Aristotele anche la Retorica e la Poetica, ad indicare la consapevolezza di molteplici modalità dell’espressione, che rispondono a criteri diversi, e che rendono impossibile pensare ad una totalizzazione dell’esperibile, anche per colui che è considerato volgarmente il padre o l’iniziatore del pensiero razionale. E davvero il fatto di avere molti strumenti, di poterli trasformare e scegliere, sembra essere il vantaggio più vitale del pensiero.
Commentando la proliferazione segnica dell’isomorfismo Melandri dice, riecheggiando forse gli intenti che all’inizio abbiamo attribuito a Barthes: «Noi ci esprimiamo mediante “ombre sul muro”. Nella “tradizione”, cioè nel processo con cui si tramanda il sapere acquisito di generazione in generazione, può avvenire che si dimentichi di che cosa sono proiezione le ombre sul muro. Quando la struttura degrada a forma, la scienza si trasforma in superstizione. In altri termini, la forma assume un altro senso strutturale; e precisamente non un senso nuovo, ma regressivo. Ciò che per i pionieri era una conquista, per i continuatori diventa una formula ovvia; finalmente, negli epigoni, diventa un dogma da difendere alla lettera.» (pp. 32-33)
Anche il prezioso lavoro di Enzo Melandri sembra allora mettersi a disposizione come uno strumento in grado di “strumentalizzare” - lo si sarà ormai capito, in un’accezione molto positiva - i pensieri altrui, per poter continuare a capire e a pensare. Strumenti di strumenti, per portare una lanterna nelle ombre e farle muovere, farle vivere.
Psicoanalisi, Storia e Politica....
Verità nascoste.
Il Telemaco, il messia e la Costituzione
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 19.11.2016)
Massimo Recalcati nell’elogiare, alla Leopolda, Matteo Renzi, ha accusato la sinistra del No di essere masochista, paternalista e di odiare la giovinezza. Accuse fondate su luoghi comuni.
Un discorso aforistico, privo di argomenti, teso a screditare l’avversario piuttosto che ad esprimere una propria opinione sui quesiti referendari.
L’andazzo è proprio questo: la grande maggioranza degli italiani nel referendum prossimo voterà pro o contro Renzi, a prescindere dalla valutazione di una riforma che modificherà in modo sostanziale la costituzione italiana.
La personalizzazione del conflitto politico ha finito per espropriarci della cura nei confronti delle regole fondamentali della nostra convivenza democratica. Si è fatta strada una corrente di «eccezione dalla costituzione», che mentre aspira formalmente a riformarla, di fatto crea il clima di una sua sospensione sul piano emotivo.
Questo tipo di sospensione dell’ordinamento costituzionale è il più pericoloso. La restrizione diretta e apertamente autoritaria delle garanzie costitutive dei nostri diritti, crea opposizione e ribellione.
La loro sostituzione con l’affidamento regressivo all’«uomo della provvidenza», da una parte sposta l’attenzione su un quesito fuorviante - se costui è quello «vero» o quello «falso» - e dall’altra favorisce la deresponsabilizzazione.
La nota identificazione del premier con Telemaco, nella versione ideata da Recalcati come riparazione (impropria) dell’assenza del padre, è espressione di un vissuto di delegittimazione collettiva. Di questa delegittimazione, della cui origine non è responsabile, Renzi si è costituito come l’interprete più importante.
L’ha fatto per negazione, cioè oscurandola: più incerta sente la propria legittimità, più insiste sulla delegittimazione degli altri.
La rottamazione pura e semplice di una classe politica inadeguata non produce di per sé legittimazione. Se resta come unica opzione perpetua il senso di delegittimazione. Infatti, Renzi, il rottamatore, si identifica con Telemaco: un figlio reso illegittimo dall’assenza del padre e dalla solitudine, vedovanza «bianca», della madre (le due condizioni sono inscindibili).
Dimentica che il ritorno della legge nel regno di Itaca, non è opera di Telemaco. Deriva dal ritorno di Ulisse nel letto coniugale, dal suo riconoscimento e legittimazione come uomo e come padre dall’amore di Penelope.
Le regole «costituzionali» che garantiscono la buona gestione delle relazioni familiari, sono fondate sulla capacità dei genitori di essere soggetti paritari nel loro legame di desiderio. I figli che rottamano il padre, cercando di sostituirlo nell’amore della madre, finiscono per assumere un ruolo messianico.
In modo analogo al governo familiare, il governo della Polis non può essere affidato a un Telemaco capovolto nel suo significato, che non sa attendere il suo tempo. Aspettare il momento giusto per sentirsi adulti - l’accesso alla piena comprensione della congiunzione erotica dei genitori e della sua problematicità - è il senso vero dell’attesa del padre in Odissea.
Un leader capace di identificarsi con Penelope e Ulisse, cioè con il senso di corresponsabilità che costituisce le relazioni cittadine in termini di condivisione e di scambio, è molto più affidabile di un figlio che si sostituisce ai genitori. Costui si imprigiona nel destino del redentore e, diversamente da Telemaco di Omero, si considera il frutto di una unione spirituale tra un padre ideale e una madre/figlia vergine. Promuove la deresponsabilizzazione che gli ha assegnato la sua funzione immaginaria e si/ci illude di poter farcela.
Psicanalisi e politica: due volti, una sola voce
“Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989)” di Elvio Fachinelli a cura di Dario Borso, una raccolta di testi che offrono una chiave inedita per affrontare le questioni politiche
di Delia Vaccarello (l’Unità, 1 giugno 2016)
Psicanalisi e politica: due volti per un solo “cuore”. C’è un nesso stretto tra la psicanalisi che considera l’inconscio un “ospite interno”, straniero eppure intimo, e una visione secondo la quale «il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Due volti e una voce, quella di Elvio Fachinelli nella veste di giornalista che giunge a noi grazie alla raccolta Al cuore delle cose.
Scritti politici (1967-1989) a cura di Dario Borso (DeriveApprodi). Pagine attraversate da uno slancio che vede il pensiero, la clinica e la pratica politica in grado di lavorare per azzerare barriere ed esclusioni. Fachinelli crea, anticipa, interroga con quel coraggio che al contrario di Don Abbondio «uno se lo può dare». La sua politica, che vuole uscire dai problemi «tutti insieme», trova radici nelle innovazioni da lui proposte in psicanalisi. Ed è legata all’uso di una parola che è atto in grado di cambiare la realtà sia nelle stanze di analisi (quando il setting funziona) che nella politica degna di questo nome.
Nelle riflessioni “Sulla spiaggia”(“la mente estatica”, Adelphi) Fachinelli abbandona la psicanalisi come difesa pignola da un presunto pericolo interno, come fabbrica di armi ben appuntite e di corazze, per volgersi all’accoglimento dell’inconscio, a un modo «femminile» di andare al cuore delle cose. L’inconscio, ancora prima di esaminarlo, diventa un «ospite» da accogliere. Ma se il sistema di vigilanza-difesa è collegato con la impostazione virile, «allora accogliere: femminile? Il femminile sarebbe allora nel cuore, il cuore di molte e diverse esperienze». Sarebbe esporsi all’estasi laica e alla gioia, rinunciando all’illusione di padronanza. Tematica ripresa dalla «fachinelliana» Cristiana Cimino nel suo Il discorso amoroso (manifestolibri, del quale abbiamo parlato in queste pagine) dove proprio a partire dalla «posizione femminile», che implica l’accantonamento del primato della coscienza ed è strada praticabile da maschi e femmine senza prerogative di genere, c’è una possibilità di uscire da sé per intrecciare un legame intimo.
Con Fachinelli giornalista è come se ci trovassimo alla radice di un doppio registro: se non mi difendo dall’Altro che mi abita dentro, cioè dall’inconscio, ma lo accolgo, posso aprire gli occhi anche sull’Altro fuori di me e prendermi cura del legame sociale. Il cambiamento rispetto all’inconscio diventa «visione». Così una psicanalisi che è atto etico nei confronti dell’Altro può ispirare una politica che si muova nella stessa direzione. Messaggio attualissimo.
Pensiamo alla necessità di rapportarci agli esclusi di oggi, i migranti, che sono in mezzo a noi ma “estranei”, in cerca di casa e lavoro, ma sempre di passaggio. Ospiti. Specchio di una precarietà esistenziale che suscita inquietudine e angoscia. Sarebbe vitale una politica dell’immigrazione ispirata dall’etica di una vulnerabilità che riguarda tutti. I migranti di oggi sono, negli scritti politici di Fachinelli, i ragazzi che scrivono Lettera a una professoressa con Don Milani, e saranno tra le urgenze che lo spingeranno a immergersi nel ’68. «Trovai in quel libro», dice, «un richiamo alla eguaglianza delle condizioni e una prima denuncia delle deficienze della istituzione scolastica».
Di 56 alunni, dopo gli anni dell’obbligo, ne erano rimasti 16. Richiamo che lo portò nell’asilo autogestito di porta Ticinese ad analizzare il sorgere della società fascista o mafiosa: se manca la figura dell’adulto, a fare legge è la prepotenza, dice Fachinelli, o meglio “Elvio cacato”, come per un periodo fu chiamato da quei bimbi molti dei quali immigrati del nostro Sud. Articolo dopo articolo vediamo la psicanalisi offrire chiavi alla politica. Così ne Il desiderio dissidente, scritto comparso in Quaderni piacentini proprio nel ’68, «la società che soddisfa il bisogno ruba l’identità».
Allora, essenziale per i gruppi di giovani che si stavano formando proprio in quel momento è alimentare uno stato nascente: «il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio ma lo stato di desiderio», laddove il desiderio appagato muore trascinando con sé il gruppo. Occhio ad incarnare il desidero nella figura del leader - che sia persona o valore -perché altrimenti si entra nella fissità del bisogno. Osservazioni fertili anche oggi se pensiamo alla trasformazione dei movimenti nati grazie al web in nome di una modalità orizzontale di rappresentanza e gestiti poi dalle logiche del leaderismo. Anni dopo, nel 1988, in “estasi metropolitane” la condizione estrema della mente, nella sua accezione laica diviene accessibile a tutti grazie al gusto della «velocità per la velocità» che attrae in quanto stravolgimento del tempo.
Una metropoli come New York permette l’estasi della promiscuità, l’appartenenza a una dimensione più vasta e la gioia. Se la voce di Fachinelli si fa graffiante e interrogante dinanzi al «suo paziente più complicato» che fu l’Italia, come sottolinea l’ottimo curatore , non è priva dei toni dell’indignazione e dello scacco. Una delle chiavi va trovata nell’uso del termine «prudenza», cioé viltà. Con i ragazzi di Barbiana Fachinelli concorda: si accettano consigli «purché siano per la chiarezza, si rifiutano i consigli di prudenza». Nel ’75 analizzando il nuovo rapporto tra operai e imprenditori, gli uni “pro tetti” gli altri “assistiti”anticipa la fisionomia della futura classe dirigente: «ne deriva un nuovo potere costretto a concentrare politica, economia e controllo sociale».
Così come una società frenata, immobile, che taccia di “imprudenza” i piccoli gruppi capaci di cambiamento: le femministe, i radicali per l’aborto. Toccante, infine, l’ultimo scritto della raccolta, Don Abbondio, “il vittorioso”. Fachinelli nota che Manzoni, mostrando il cuore nero (e avaro) dell’universo umano, ha cancellato dal lessico del curato viltà e coraggio, e «al posto della prima troviamo la prudenza». E’ il 1989, Fachinelli sta per morire, lasciandoci un buon itinerario per andare al «cuore delle cose» . E tutto il suo coraggio.
GLI OFFENDICULA DI PIPPO BAUDO
di Elvio Fachinelli *
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L’analista cammina sulla superficie liscia e lucente dell’intervista all’uomo-spettacolo e non incontra ostacoli. Finché, a un certo punto, urta contro un sassolino roseo, anzi Rosa... È un nome, il nome della zia Rosa alla quale è stata dedicata persino una canzone e che ci viene presentata dall’attore-giornalista come una figura di «ballerina», di «complice» nell’ambito familiare. Possiamo da ciò arguire che si tratta di una persona accettante, consenziente, entusiasta delle imprese «esibitive» del bambino Pippo Baudo? Se così è stato, e non sembra eccessivo affermarlo, allora abbiamo davanti una figura di madre chiamata a compensare le difficoltà suscitate dalla madre vera, matriarca ostinata e severa, capo della casa, che non ha mai visto di buon occhio - perlomeno fino a un certo punto! - l’attività di entertainer e si è augurata per il figlio qualcosa di più «serio», quanto meno la presentazione del telegiornale...
Di fianco alla madre «complice», avremmo perciò per il giovane Baudo un’altra madre - non approvante, forse vietante, forse giudicante - che provoca un rancore non sopito («Lo dico a costo di offendere mia madre, ma lo debbo dire»).
È un sassolino, si è detto, e si potrebbe ritenere senza alcuna importanza rispetto alla riuscita trionfale di Baudo, nata dall’esercizio e dallo sviluppo di un talento, di un gusto per lo spettacolo, di un piacere di stare in scena che risalgono alla primissima infanzia.
Ma qui l’analista incontra sulla sua strada un altro sassolino da nulla in apparenza, che questa volta è segnato da un grazioso nome latino: gli offendicula («bisogna mettere gli offendicula»). Termine non dei più noti e frequenti, che ha in sé qualcosa di elegante e impertinente insieme, degno di un umanista ironico. E che non ci aspetteremmo di trovare sulla bocca del popolarissimo presentatore di Domenica In.
Ermanno Rea, l’intervistatore, ha guardato nella sua libreria e vi ha trovato libri in serie, casuali, acquistati per fare arredamento. Sarà. Ma gli offendicula testimoniano che la mente dell’intervistato non è così uniforme come le copertine dei suoi volumi d’enciclopedia. Non è così liscia e piatta come l’immagine sul teleschermo dei suoi spettacoli. Vi si svolge in sordina quasi un dibattito tra aspirazione alla serietà, alla severità, al rigore, termini che ricorrono continuamente nell’intervista, e il principio dominante, assoluto, dello spettacolo a ogni costo. «Se la cosa fa spettacolo, m’interessa; se non fa spettacolo, non m’interessa». Se la cultura fa spettacolo, allora via libera a scrittori e intellettuali; sono richiesti e benvenuti; se non fa spettacolo, bocca chiusa. E Spinoza non fa spettacolo, ci vien detto in un punto dell’intervista; di conseguenza, lo si cancelli.
Ma Spinoza, cancellato, si vendica e mette gli offendicula; la sua severità si sposta sullo spettacolo: ed ecco allora che, quando Giorgio Bocca tuona contro la melassa delle domeniche televisive, il cuore di Baudo sanguina e si ode un grido: il mio spettacolo è serio, serissimo; è una sfida, una battaglia, un fronte di lotta. Il rigore della madre innominata si è insinuato nella madre ballerina e l’ha fatta incespicare.
Il protagonista della tragedia di Sofocle è diventato la figura emblematica dell’uomo vittima del suo destino
Condannato senza colpa a infrangere i due divieti fondativi: non uccidere tuo padre, non giacere con tua madre
Ma secondo Lacan più che l’incesto il re di Tebe incarna l’eccessivo desiderio di verità che è in noi
Siamo tutti Edipo l’eroe maledetto della conoscenza
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 10.01.2016)
Per definire la vita umana Lacan ha più volte evocato la leggenda antica dello schiavo-messaggero che portava iscritto sulla propria nuca rasata il messaggio che avrebbe dovuto recapitare senza poterlo leggere. Tutti noi portiamo sulle nostre nuche le sentenze, le maledizioni, gli auspici, le speranze, i desideri, le gioie delle nostre madri e dei nostri padri senza mai poterle leggere direttamente. Ciascuno porta scritto sulla propria nuca il destino che l’Altro ci ha assegnato senza poterlo decifrare. La nostra vita è allora solo l’esito di una necessità inesorabile? Ecco arrivare la sagoma inquietante di Edipo, il figlio innocente che il destino ha voluto colpevole. L’oracolo consultato al momento della sua nascita legge la sua nuca: infrangerà i tabù più grandi, i tabù dei tabù: ucciderà suo padre e si unirà sessualmente con sua madre. È questo il suo dramma: la fine della sua vita coincide con il suo inizio senza alcuna possibilità di movimento.
Conosciamo la sua storia che per Freud è la nostra storia: l’oracolo sentenzia al padre Laio il destino disgraziato di suo figlio Edipo. Per evitare che la profezia si compia, il re consegna il figlio a un pastore con la raccomandazione spietata di ucciderlo. Abbandono e infanticidio sono alle radici del dramma del figlio Edipo. Nel racconto di Sofocle il primo ad infrangere la Legge non è il figlio ma il padre: Laio vuole fare uccidere il figlio perché altrimenti ne sarebbe ucciso. Figlicidio e parricidio si corrispondono drammaticamente come due facce della stessa medaglia. Tutto, proprio tutto, è già scritto per Edipo, sin dall’inizio. Il pastore mosso a pietà affida il bimbo a un altro pastore che a sua volta lo affida a una coppia regale della città di Corinto che non poteva avere figli. Edipo scopre il suo destino consultando il Dio Apollo e proprio per evitare che si compia decide di allontanarsi dalla sua città. Lungo la strada incontra però, senza riconoscerlo, il proprio padre e lo uccide in uno scontro mortale. In seguito risolverà l’enigma della Sfinge e diventerà il re di Tebe, sposo della sposa di Laio, di sua madre Giocasta. La tragedia di Edipo si condensa nella sua impossibilità a sfuggire al proprio destino: tutto era già scritto e più Edipo rifiuta la scrittura del proprio destino, più resta impigliato.
In un primo tempo Edipo è vittima passiva della sentenza dell’Altro che porta tatuata sulla sua nuca: è un figlio abbandonato e adottato. In un secondo tempo della sua vita diviene un eroe, un salvatore; libera Tebe risolvendo il mistero della Sfinge. Sembra aver modificato il suo destino: diventa un re che assicura prosperità al suo popolo e alla sua famiglia. Ma l’ombra tetra dell’epidemia cade sulla sua città a causa di una colpa oscura. Edipo vuole sapere la causa del flagello. Attiva con decisione un’inchiesta per scoprire il colpevole ma anche in questo caso volendo sfuggire al proprio destino lo incontra inesorabilmente. La sua inchiesta trascura di indagare se stesso; è tutta rivolta verso l’esterno. È il contrario di Socrate; se questi sa di non sapere, Edipo non sa di sapere. La sua determinatezza lo allontana, paradossalmente, dalla verità. Il nucleo della tragedia, scrive Ricoeur, «non è il problema del sesso, ma quello della luce». Mentre Edipo pensa di vedere, è cieco; è Tiresia, il veggente cieco, che invece può vedere rivelandogli la verità più scabrosa: «Sei tu l’impuro che infetta questa terra... tu cerchi l’assassino di Laio. L’assassino sei tu: questo ti dico... viene da te il tuo Male...».
Edipo preferisce la verità al suo bene e a quello di chi gli sta vicino e lo ama («tutto questo bene mi ha seccato!»). Edipo non patteggia, non media, non ascolta i consigli di Tiresia e di Giocasta, non è attaccato alla propria identità, alla sicurezza delle sue proprietà. La verità, per lui, conta di più di ogni altra cosa. La sua volontà di sapere assume la forma di una hybris radicale che sfida ogni tabù. E questa verità, alla fine, sarà accecante, violenta, traumatica. L’accecamento a cui si sottopone dopo la rivelazione di Tiresia denuncia la sua colpa irrimediabile: «Luce di questo giorno, tu devi essere l’ultima mia luce. Ecco chi sono: nato da chi non mi doveva generare. Vissuto accanto a chi non mi doveva vivere accanto. Chi non dovevo uccidere, io l’ho ucciso».
Edipo non ha il dono della visione immediata della verità propria dell’oracolo. Egli è solo un uomo. La sua ricerca della verità - come quella di tutti gli uomini - è un cammino necessariamente lento e faticoso. Egli paga la colpa del suo desiderio di sapere che non si frena di fronte a nessun limite. Se Edipo non avesse voluto sapere la verità della sua origine sarebbe rimasto padre, Re e marito. Egli non accetta la rimozione, la maschera, non si accontenta di quello che sa; vuole interrompere l’omertà borghese dell’Io, vuole andare sino in fondo.
È la forza tragica di questa figura maledetta. Edipo esce dall’oscurità del non-sapere potendo finalmente vedere quello che ha compiuto. La sua identità di Re, padre e liberatore si ribalta in quella di figlio parricida e incestuoso, destinato a vivere da reietto. È il punto su cui ha insistito, dopo Freud, Lacan: la tragedia del parricidio e dell’incesto è, in realtà, una tragedia della verità. Possiamo chiederci, con Edipo, quanta verità può sopportare un uomo? Nel suo caso la rivelazione della verità coincide con la realizzazione del suo destino; la sua innocenza diventa la sua colpa; la verità non è soltanto luce che libera la visione, ma può essere anche talmente insopportabile da rendere impossibile ogni visione.
I dubbi di Amleto, l’uomo che sa ma non sa agire
La vicenda segna il passaggio dalla tragedia antica che pone il soggetto a confronto con il proprio destino, al dramma della modernità che oppone conoscenza e decisione
Il personaggio shakespiriano è stato studiato da Freud e da Lacan. Entrambi hanno indagato i motivi che lo trattengono dal compiere la sua vendetta per l’omicidio del padre. Il primo li mette in relazione con le sue pulsioni incestuose. Il secondo sposta l’accento sul desiderio della madre
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 20.03.2016)
Se l’Antigone di Sofocle è il modello più puro e più estremo della forza della decisione - l’eroina tragica preferisce morire piuttosto di cedere sul suo desiderio di dare sepoltura al proprio fratello morto - , l’Amleto di Shakespeare è quello, altrettanto puro ed estremo, della difficoltà ad assumere con la determinazione necessaria del proprio desiderio.
Diversamente da Antigone, infatti, Amleto, di fronte al proprio desiderio, tentenna, esita, non riesce, se non alla fine del dramma, a realizzare il suo atto. Conosciamo la sua storia: lo spettro del padre - ucciso nel sonno dal fratello Claudio che, con questo atto spietato, si impossesserà del trono e della sua sposa - ritorna per comunicare la sua orribile verità al figlio Amleto chiedendogli di fare giustizia. Ma il figlio, anziché agire, sprofonda nel dubbio differendo il tempo della decisione che solo alla fine del dramma, in modi rocamboleschi, potrà realizzarsi togliendo la vita a sua madre, all’amico-rivale Laerte, allo zio usurpatore e a se stesso.
Freud ne L’interpretazione dei sogni si è soffermato sulla figura del figlio Amleto presentandola come il rovescio di quella di Edipo sebbene animato, per così dire, dallo stesso complesso. Perché Amleto non agisce? Che cosa lo trattiene, che cosa lo inibisce rendendogli impossibile l’atto? Risposta di Freud: Amleto non compie l’atto che vendicherebbe suo padre perché inconsciamente vede in Claudio la realizzazione dei propri desideri incestuosi (eliminare il padre, diventare Re e possedere sua madre). Colui che dovrebbe compiere giustizia «non è, dunque, migliore del peccatore che dovrebbe punire», conclude Freud.
Lacan si è interessato ad Amleto - come altri psicoanalisti dopo Freud e prima di lui - in una parte centrale del Seminario VI titolato Il desiderio e la sua interpretazione, appena tradotto in italiano per Einaudi. Si tratta di una straordinaria lettura di Amleto che ha come punto di partenza la constatazione che il giovane principe di Danimarca - come accade, in realtà, ad ogni comune nevrotico - non è in grado di far convergere il sapere e l’azione. Amleto sa la verità - che invece sfugge a Edipo - , ma la sua azione è paralizzata; l’essere e il fare si disgiungono; l‘accesso all’atto gli è interdetto dalla ruminazione dubbiosa che lo getta in uno stato di impotenza depressiva.
Edipo ricerca affannosamente la verità che riguarda la propria identità e quella di suo padre («di chi sono figlio?») senza sapere quello che fa - la sua tragedia è una tragedia della conoscenza - , mentre Amleto sa già tutto - è lo spettro del padre che gli rivela una verità che in realtà lui stesso sospettava - , ma resta bloccato e paralizzato nell’azione.
Mentre Edipo agisce senza sapere, Amleto sa senza agire. È lo spostamento sensibile d’accento che caratterizza il passaggio dalla tragedia antica che confronta il soggetto con il suo destino al dramma della modernità che mostra invece quanto il sapere possa essere d’intralcio alla decisione.
Più precisamente, Lacan sposta l’accento dal desiderio edipico (incestuoso) del figlio rivolto verso la madre che incontra il padre come ostacolo (Edipo), al desiderio della madre, della regina, che si rivela, al figlio, al di là della Legge del padre, come insaziabile e osceno (Amleto). Questo desiderio - il desiderio di Gertrude - non si esaurisce nella fedeltà al marito morto, ma si mostra abitato da un eccesso che disturba il figlio. La donna eccede la madre esibendo un desiderio che reclama oscenamente il suo diritto. È il tabù del sesso della madre che esiste anche come donna che viene qui in primo piano.
Amleto non sopporta l’incontro con questo eccesso perché vorrebbe essere lui il solo oggetto della madre in grado di colmarne la mancanza. Solo se egli si impegnerà a fare il lutto della sua condizione di figlio che colma il desiderio della madre potrà accedere al proprio desiderio e, di conseguenza, compiere l’atto al quale il padre lo ha contradittoriamente chiamato: «Lo spettro reclama la decisione pura, ma che decisione sarebbe mai una decisione imposta?», ha precisato giustamente Massimo Cacciari in Hamletica (Adelphi, 2009).
Di qui l’importanza che Lacan assegna alla scena dove Amleto scende nella fossa nella quale Laerte si dispera per la povera sorella Ofelia morta suicida. Solo questa discesa di Amleto nella fossa può liberarlo dalla sua indecisione, dunque anche dallo spettro paterno che esige la vendetta.
È solo attraverso il lutto che Amleto può ritrovarsi uomo e non più figlio, ovvero può, spiega Lacan, smettere di sintonizzare il suo desiderio su quello dell’Altro. È il punto veramente cruciale della sua lettura: solo se il figlio rinuncia ad essere il fallo della madre e a “dimenticare” il padre può diventare davvero un uomo.
La discesa nella fossa - per Lacan il “lutto del fallo” e il “lutto del padre” - è un’esperienza che l’essere umano deve fare per assumere la verità singolare e incomparabile del proprio desiderio.
Heidegger aveva chiamato questa discesa “essere- per-la-morte”: solo attraverso la rinuncia al fantasma di essere padroni del nostro desiderio ci si può rendere soggetti attivi di desiderio. Solo se l’immagine del figlio viene liberata dall’illusione narcisistica di “essere il fallo” che colma la mancanza della madre e dallo spettro del padre che esige una fedeltà senza libertà al passato, egli può accedere all’atto. È un insegnamento che trascende il dramma di Amleto per toccare nel più intimo la vita di ciascuno.
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini**:
AMLETO
Orazio, muoio.
Tu vivi; e riferisci onestamente
della mia causa tutto quanto il giusto,
a chi vorrà saperlo.
ORAZIO
Non pensatelo.
Io sono, più che un Danese, un Romano,
e qui ci resta ancora del liquore.
AMLETO
No, dammi quella coppa!
Se sei uomo, dammela, perdio!
Mio buon Orazio, qual nome macchiato
vivrà di me, se questi avvenimenti
avessero a rimanere ignoti!
Se m’hai tenuto nel tuo cuore, Orazio,
tieniti ancor lontano, per un poco,
dalla gioia suprema del trapasso,
e seguita su questo duro mondo
a respirare ancora il tuo dolore
per raccontare ad altri la mia storia.
(Marcia militare e spari all’interno)
Che cos’è questo strepito di guerra?
OSRICO
È il giovin Fortebraccio di Norvegia.
Torna dalla Polonia vincitore,
e lancia queste salve a salutare
gli ambasciatori del re d’Inghilterra.
AMLETO
Io muoio, Orazio... Sento che il veleno
s’impadronisce di tutto il mio spirito.
Ormai più non mi resta tanta vita
da sentir le notizie d’Inghilterra;
ma profetizzo che su Fortebraccio
cadrà la scelta; a lui, in suo favore
va il mio voto morente. Digli questo,
insieme al più e il meno degli eventi qui succedutisi
[...]
FORTEBRACCIO
E noi ci accingeremo ad ascoltarla,
qui, tutti insieme, coi nostri maggiori.
In quanto a me, abbraccio la mia sorte,
col dolore nel cuore;
ho dei diritti, mai dimenticati,
su questo trono, che l’ora presente
mi esorta a far valere.
ORAZIO -
Anche di questo vi dovrò parlare,
ed a nome di chi, con il suo voto,
molti altri ne trarrà alla vostra parte.
Ma si proceda subito al da farsi,
mentre gli animi sono ancora scossi,
così che altri intrighi ed altri errori
non abbiano a recarci altre sventure.
FORTEBRACCIO -
Quattro miei capitani
mettano il corpo d’Amleto su un palco,
così come s’addice ad un soldato: perché se fosse stato lui sul trono,
si sarebbe mostrato un buon sovrano.
Diamo il nostro saluto al suo trapasso
con musiche e con riti militari.
Gli altri corpi toglieteli alla vista:
è una vista da campo di battaglia
e s’addice assai male a questo luogo.
E s’ordini alla truppa di sparare.
FINE
Cit. da: William Shakespeare, Amleto - evidenziazioni mie, fls
I DUELLANTI di Joseph Conrad. Un invito alla lettura
di Francesco Bollorino (Psychiatry-on-line, 5 novembre, 2015)
Credo che in tanti conoscano la storia raccontata nel romanzo breve di Conrad “The Duel, A Military Tale” scritto nel 1907 durante un breve soggiorno dell’autore nel sud della Francia a Montpellier.
In tanti, infatti, anche per merito degli innumerevoli passaggi televisivi, hanno visto e penso ammirato lo splendido film di esordio, “I Duellanti”, di Ridley Scott ispirato in maniera molto precisa al testo da cui non si distacca mai se non come vedremo nel finale.
La critica ha sempre considerato questo racconto come un’opera minore del genio anglo-polacco, lontana dagli abissi di un Lord Jim, di un Cuore di Tenebra o di Linea d’Ombra eppure nella sua apparente e magistrale, per me, levità della scrittura il testo merita non solo un’attenzione diciamo così letteraria ma pure una attenta riflessione di natura psicoterapica che mi ha portato a proporlo essenzialmente come un invito alla lettura e alla sua scoperta ai lettori di Psychiatry on line Italia.
La storia, che prende spunto da un episodio vero scoperto casualmente dall’Autore leggendo un giornale, narra di un duello durato 15 anni tra due ufficiali napoleonici che attraversano l’avventura militare di Napoleone iniziando a sfidarsi a Strasburgo e continuando a farlo in ogni occasione possibile, pur procedendo nella loro carriera militare ma non per questo restii a sfidarsi ogni volta che la cosa è possibile senza che in realtà vi sia una vera “ragione” per farlo in una logica dove il conflitto cruento diviene una sorta di ragione di vita per entrambi pur nella differenza notevole dei caratteri e dei modi: aristocratico e compassato D’Hubert, irrefrenabile e cocciuto Feraud, accomunati però da un unico destino militare e personale. Sullo sfondo la storia dell’Impero dalla sua ascesa alla sua rovinosa caduta.
Nonostante la Critica, come dicevo, lo collochi tra le opere minori di Conrad sottolineando come rispetto ai suoi romanzi maggiori il racconto “pecchi” in profondità e in significato simbolico io trovo invece che la libertà di scrittura che Conrad si è regalato nell’inverno del 1907 e la scrittura di getto (molto diversa dal suo lavoro usuale meticolosissimo anche per l’uso di una lingua appresa l’inglese rispetto alla lingua madre polacca) ci abbiano regalato un piccolo capolavoro che merita l’attenzione SPECIALMENTE di chi si occupa di salute mentale.
Fiumi di inchiostro sono stati usati per commenti e interpretazioni psicoanalitiche dei Romanzi di Conrad, che in effetti si prestano molto bene ad approfondimenti di tal fatta.
Eppure come scrive Giorgio Montefoschi sul Corriere della Sera (23 settembre 2002): “Conrad pubblicò per la prima volta in volume Cuore di tenebra, presso l’ editore Blackwood, nel 1902. In realtà, il romanzo era già apparso a puntate, in rivista, nel 1898. In quegli stessi anni - uscì, senza calorose accoglienze, nel 1899 - Freud scriveva l’Interpretazione dei sogni. E’ difficile immaginare che i due si conoscessero. Certo è che la coincidenza non è affatto casuale: se è vero che le idee profonde circolano come fiumi carsici nelle viscere della terra e - simili alle ninfe dell’ antichità, trasformate in sorgenti che s’ inabissano - riemergono, magari contemporaneamente, a Londra e a Vienna”.
Pure “I duellanti” non si sottrae a parer mio a questa carsicità offrendoci anzi una lettura, ancorchè involontaria, but who does care of it?, di assoluta impronta psicoterapica.
Sotto le mentite spoglie di un’assurda faida personale intrisa di onore, aggressività, accettazione ineluttabile, si cela per me, nelle pagine del racconto, la teatralizzazione del conflitto nevrotico e la chiave di soluzione dello stesso con una mirabile aggiunta che definirei “tecnica” nel suo bellissimo finale.
Cosa è infatti questo infinito duello tra gli ufficiali D’Hubert e Feraud se non la rappresentazione del conflitto tra l’emergere delle pulsioni inconsce e il tentativo frustrato dell’Io di incanalarle verso qualcosa di meno distruttivo o insensato del sintomo?
Feraud è l’Es, D’Hubert è l’Io incapace di costruire difese adeguate perché affascinato e legato alle sue pulsioni che gli impediscono di crescere fino al drammatico e catartico finale.
Come in un ritorno del rimosso Feraud ricompare, intatto nella sua cieca ferocia, nella vita apparentemente rasserenata di Armand D’Hubert costringendolo, direi spingendolo a ricominciare come se nulla in 15 anni fosse cambiato tra loro. Nell’ultimo duello i due contendenti si affrontano rincorrendosi tra le rovine di un castello con due pistole in mano ma Feraud sbaglia i due colpi a sua disposizione e si ritrova davanti D’Hubert con le pistole cariche.
Ecco il passo del testo:
“Il Generale D’Hubert abbassò con cura il cane delle pistole. L’operazione fu osservata dall’altro generale con sentimenti contrastanti.
“Mi hai mancato due volte - disse freddamente il vincitore - l’ultima da quasi mezzo metro. Stando alle regole dei duelli, la tua vita mi appartiene. Questo non significa che voglia togliertela ora”
“Non so che farmene della tua indulgenza” - boffonchiò cupo il generale Feraud.
“Permettimi di farti notare che la cosa mi lascia affatto indifferente. - disse il generale D’Hubert. (...) - Non avrai la pretesa di dettarmi casa devo fare di ciò che è mio”
Il generale Feraud parve stupito e l’altro riprese: “Mi hai costretto per un punto di onore a tenere la mia vita a tua disposizione, diciamo così per quindici anni. Benissimo. Ora che la questione si è risolta in mio favore, io farò della tua quanto mi pare e piace, in base allo stesso principio. La terrai a mia disposizione finchè ne avrò voglia. Né più né meno. Ritieniti vincolato sul tuo onore fino a nuovo ordine. (...) Non posso certo stare a discutere con uno che, per quanto mi riguarda, ha cessato di esistere”.
Conrad reifica nel racconto la risoluzione del conflitto interiore che può avvenire solo se l’Io e, io aggiungo, il terapeuta riesce a parlare alle pulsioni con il loro linguaggio che non può essere tradotto per essere compreso e divenire efficace. Ridley Scott sceglie di finire la storia qui mentre Conrad sceglie di andare avanti e inserisce nel finale il concetto di integrazione che sola può garantire una equilibrata vita ad ognuno di noi.
Riconoscere le nostre parti bambine e bisognose come un pezzo della nostra storia che ci ha portato ad essere ciò che siamo da adulti: tutto questo è detto nel magnifico finale che inserisco alla fine di questa che più che una recensione è un caldo invito alla lettura di un racconto che forse troppo pochi conoscono.
(...) «Se uno dei nomi del vostro bambino fosse stato Napoleone, o Giuseppe, o anche Gioacchino, avrei potuto congratularmi con te per il lieto evento con più cuore. Siccome hai stimato bene di dargli i nomi di Charles, Henri, Armand, io rimango confermato nella mia convinzione che tu non hai mai amato l’Imperatore.
Il pensiero di quel sublime eroe incatenato a una roccia nel mezzo dell’Oceano selvaggio rende per me la vita così scarsa di valore che con vera gioia riceverei il tuo ordine di bruciarmi le cervella.
Il suicidio, ritengo, mi è vietato dall’onore. Ma tengo la pistola carica nel cassetto.».
Madame la Générale D’Hubert alzò le mani al cielo disperata, dopo la lettura di quella risposta.
« Vedi? Non vorrà mai riconciliarsi,- disse il marito - Bisogna che mai, a nessun costo, riesca a sapere da chi gli arriva il danaro. Sarebbe terribile. Non reggerebbe.»
« Sei un brave homme, Armand » - disse Madame la Générale, con ammirazione.
«Mia cara, io avevo il diritto di bruciargli le cervella; ma non avendolo fatto, non possiamo lasciarlo morire di fame. Ha perduto la pensione ed è assolutamente incapace qualsiasi cosa al mondo per se stesso. Dobbiamo prenderci cura di lui, in segreto, sino alla fine dei suoi giorni. Non devo forse a lui il momento più estasiato della mia vita?...............Senza la sua stupida ferocia, mi sarebbero occorsi degli anni per scoprirti. E’ straordinario come quell’uomo in un modo o nell’altro è riuscito a legarsi a miei sentimenti più profondi.».
L’oscuro oggetto del desiderio e l’analista
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 31.10.2015)
Il controtransfert è la reazione dell’analista al “ transfert” del paziente. Il transfert è la tendenza universale a trasferire nelle relazioni significative della vita aspetti conflittuali rimossi della propria infanzia nella speranza che possano essere risolti. Anche il controtransfert ha carattere universale: ci relazioniamo con le persone a cui siamo affettivamente legate, accettando, inconsciamente, di abitare, in parte, la scena della loro storia obliata.
L’analisi è impostata in modo da facilitare lo sviluppo di entrambe le correnti, che sono fatte della stessa materia del sogno, il luogo in cui i vissuti rimossi tornano alla vita. Attraverso la comprensione del posto che inconsciamente occupa, di volta in volta, nella storia del paziente, che torna al presente, l’analista può accedere alla natura più profonda della domanda che gli è rivolta. Ciò gli consente anche la riparazione delle aree di una propria cecità nei confronti della relazione, l’elaborazione della riluttanza ad affrontare questioni che attivano i propri conflitti inconsci.
L’analista è impegnato in modo più diretto quando incontra il paziente a partire dal proprio desiderio e mette in discussione il proprio modo di essere nel mondo. L’analisi riceve dalla madre del paziente in eredità il modo in cui lei l’ha accolto. La madre accoglie il bambino in due modi opposti. Per certi aspetti proietta su di lui parti irrisolte di sé e, affidandogli un ruolo messianico, rimanda al futuro, in modo consolatorio, l’incontro con l’inconsueto.
Nella direzione opposta, il nuovo arrivato attiva in lei il desiderio di rimettersi in gioco, accettando le perturbazioni necessarie di cui è foriero il cambiamento. Più la madre (sostenuta dal padre) riesce a mantenersi nella seconda prospettiva, più il bambino è vivo e desiderabile e la madre gode della riapertura dei propri confini con la vita.
L’analista deve farsi carico di situazioni in cui la madre non è riuscita a far sentire il figlio pienamente autorizzato a essere vivo per conto suo. Nelle condizioni più drammatiche il paziente lotta per evadere dalla prigionia di uno sguardo esterno alla sua soggettività, che ha preconfezionato la sua posizione nel mondo. Non può farlo se non destabilizza l’assetto dell’analista, obbligandolo a uscire dal suo centro di gravità, a esporsi, rischiare. L’analista è in difficoltà: la persona che cura si è posta fuori dall’obnubilamento della propria esistenza e non vuole essere interpretata, ma vista come se fosse arrivata al mondo per la prima volta.
La domanda del paziente, inevitabilmente contraddittoria e confusa, disorienta. L’analista rischia una crisi perturbante d’identità, la confusione dei propri interessi con quelli dell’altro (il caso di Jung con la Spielrein). Tuttavia, questa è per lui l’opportunità di andare oltre la paura che oscura il nostro oggetto di desiderio, al punto di fare dell’oscurità la cosa desiderata.
Scoprire che l’irriducibile differenza dell’altro, percepita come minaccia di destabilizzazione della propria identità (il fondamento della paura), è per costui l’unica possibilità di sentirsi vivo. Chi è veramente vivo non ci minaccia, il pericolo viene dalla non vita che invade la vita. Liberare la vita dalla morte, attraversando una crisi delle proprie vedute, è la vocazione di fondo dell’analista.
Cacciari nel «labirinto» del Moderno demoniaco e inattuale
Il nuovo testo del filosofo che fa ritorno alla nostra concreta esistenza
di Giuseppe Cantarano (l’Unità, 05.06.2014)
IL MODERNO - È STATO PIÙ VOLTE DETTO - È COME UN LABIRINTO. MA UN LABIRINTO UN PO’ PARTICOLARE. Perché, sebbene vi sia un centro, questo centro è in realtà vuoto. Non contiene, non custodisce, non nasconde, diciamo così, nessuna Verità. Nessuna salvezza. Non solo. Ma le molteplici vie - i molteplici percorsi - che lo costituiscono a volte si incontrano, si intersecano, si annodano in un groviglio apparentemente inestricabile. Per poi di nuovo separarsi, dividersi, allontanarsi. Sentieri - percorsi - tutti diversi. Inassimilabili. Ciascuno geloso della propria irriducibile, intraducibile singolarità. Della propria distinta identità. Del proprio inconfondibile timbro linguistico. Sentieri - percorsi - tutti differenti. Eppure tutti «identici». Perché tutti hanno in comune l’identico labirinto che li contiene. Quel labirinto le cui vie sono - di volta in volta - tratteggiate, segnate dal loro stesso cammino. Dal loro stesso procedere. Che a volte improvvisamente e inaspettatamente si arresta, si interrompe - come i sentieri di un bosco - per tornare indietro. E per intraprendere un altro cammino. Un’altra direzione. Poiché se è vero che in questo curioso labirinto - che è la filosofia - non c’è un centro, è altrettanto vero che non c’è un’unica via d’uscita prestabilita, predeterminata. Ecco perché ciascun sentiero filosofico è «condannato» a costruirsela, a trovarsela da sé, la via d’uscita.
Metafora del Moderno, questo strano labirinto è però il luogo dove l’interrogazione della filosofia non ha smesso mai di aggirarsi, di avventurarsi, se ci pensiamo bene. È il luogo da dove i molteplici e differenziati percorsi della filosofia non riescono ancora a congedarsi. Perché nessuno è sinora riuscito a crearsi la propria via d’uscita. Mentre il centro è sconsolatamente, disperatamente vuoto. E non c’è più alcun motivo, alcuna ragione, alcun senso per soggiornare in esso.
È a questo paradossale labirinto filosofico che Massimo Cacciari ha dedicato il suo ultimo bel libro, Labirinto filosofico, (Adelphi, pp.348, euro 38,00 ). Un libro «inattuale». Controcorrente, diciamo così. E a suo modo «demoniaco », se vogliamo. Perché non si può certamente scrivere un libro come questo, se non si è spinti, trascinati quasi a farlo da quel demone - di cui parlava Socrate - che abita in ciascuno di noi. E che ci obbliga incessantemente a interrogarci. A tornare a interrogarci ancora sulle «cose ultime». Che ci obbliga, insomma, a far ritorno alla metafisica. E alle sue «eterne» questioni. Troppo frettolosamente - e, peraltro, con puerile ingenuità - liquidate dalle correnti mode filosofiche. Che hanno contribuito a inaridire la filosofia. Relegandola nell’astrazione degli specialismi accademici. Dove agonizza ormai da troppo tempo. Lontano dalla vita. Lontano da quelle domande che cercano di scuoterla. Di acciuffarla. Di «curarla».
Far «ritorno» alla metafisica, per Massimo Cacciari, è tornare infatti a prendersi cura soprattutto di quella «cosa ultima» che è il nostro esserci. La nostra concreta esistenza. Ma senza l’amore - senza la philia - nessun sapere - nessuna sophia - sarebbe davvero in grado di corrispondere a questa disperata «vocazione terapeutica». Perché è vero che è la meraviglia - thauma -, lo stupore per le cose esistenti che muove l’interrogazione della filosofia. È vero - come scrive Cacciari - che «metafisica è l’interrogazione intorno alla physis dell’ente che ci ha tremendamente meravigliato».
Certo, la prima domanda della filosofia scaturisce dallo stupore per le cose esistenti:« Che è “questo” che ci sta di fronte? È qualcosa, certamente - osserva Cacciari -. Da Dove? Perché qualcosa esiste?».
Ma cos’è che tremendamente ci meraviglia, ci spaventa - delle cose che esistono - se non l’angosciante esperienza che noi facciamo del loro dileguamento? Se noi non amassimo le cose che esistono - e le creature che vivono - perché dovremmo tremendamente meravigliarci - angosciarci - del loro dileguamento? Il thauma - la paura più tremenda - è il fatto che dobbiamo morire, ci dice Cacciari.
Ma il nostro pensiero - il «divino», il trascendente che è in noi - si ribella a questa «apparente» evidenza. È l’angoscia della nostra morte che ci costringe a pensare. A filosofare. Che ci costringe a trascenderci.
Ecco perché la filosofia - come erroneamente si crede - non potrebbe mai essere una «cura» per il morire. Non potrebbe mai essere una preparazione alla morte - melete thanatou. Ma è «cura- angoscia contra il nudo fatto che moriamo », precisa Cacciari. È davvero mortale il soffio che dà vita al nostro corpo? Può davvero spegnersi il principio della nostra vita? Siamo davvero convinti che tutto, nel divenire, sia destinato al nulla? Siamo davvero sicuri - si chiede Cacciari - che per «guarire» dall’angoscia della morte, dobbiamo rassegnarci ad abbandonare il nostro corpo - che è soltanto dolore e sofferenza - e «correre a morire, correre incontro alla sua morte per poter credere alla immortalità della pura anima»?
No, la filosofia non è cura per la morte, ma per la vita. La filosofia è sì interrogazione dell’angoscia massima, la morte. Ma non si può «guarire» dalla morte morendo. Ma semmai pensando la morte. Al centro della nostra psiche c’è il nostro pensiero vivente, che ci dice che noi viviamo. Il nostro pensiero vive, è pensiero del vivente poiché si oppone al fatto «apparente» che noi dobbiamo morire. Solo chi è dotato-armato del logos - proprio della filosofia - potrà mettere a morte ogni padrone. Perfino quel padrone che è la nostra morte. Ecco perché la filosofia non può essere una attesa impaziente e impotente della morte liberatrice.
Ma è un saper mettere a morte tutto ciò che ostacola, impedisce una piena vita: «Trapassare il padrone ultimo - la morte - e fare del dato “che si muore” un fatto del pensiero: ecco la cura suprema e il supremo esercizio. Da limite del vivere - ci dice Cacciari - la morte, nell’esser pensata da parte dell’anima, diviene così fattore essenziale della sua vita».
Teologia politica
«Parousia» senza apocalisse
Si può smontare il meccanismo teologico di sudditanza all’Uno su cui si fondano i rapporti di potere? La risposta nel nuovo saggio di Roberto Esposito
di Remo Bodei (Il Sole-24ore-domenica, 20.04.2014)
Si tratta di un libro teoricamente denso, caratterizzato da una fitta tessitura, con tanti nodi come nei tappeti pregiati, e in grado di spaziare dalla filosofia alla politica e dalla teologia al diritto romano. Continua, innovando, la riflessione già condotta dall’autore in Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale (Torino, Einaudi, 2007).
L’intuizione di fondo che guida Due è che non riusciamo a smontare la macchina della teologia politica che «funziona precisamente separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che divide mediante la sottomissione di una parte al dominio del tutto».
È difficile abbandonare questo schema in quanto siamo completamente immersi nel suo orizzonte, «non perché la porta d’ingresso sia sbarrata, ma perché l’abbiamo da tempo immemorabile varcata, prima che essa si richiudesse alle nostre spalle impedendoci di uscire».
La sfida consiste, dunque, nel procurarsi uno sguardo esterno e nell’abbattere la prigione mentale, ormai invisibile, in cui la nostra civiltà ci ha rinchiusi. Un’impresa, in apparenza impossibile, simile a quella del barone di Münchausen, che pretendeva di sollevarsi da terra tirandosi su con il codino.
Ma cosa è che ci vincola in maniera così stringente e come è possibile liberarsene? Essenzialmente, è la radicata concezione che l’uno assorbe la dualità degli opposti, sottoponendo un elemento all’altro (ad esempio dividendo l’uomo in anima e corpo e asservendo questo a quella o considerando la cultura europea come universale perché ha incluso in sé, separandosene, quella di altri popoli).
Il dispositivo teologico-politico è riuscito a imporsi soprattutto attraverso la categoria di persona, in cui confluiscono il diritto romano e la teologia cristiana. Infatti, è a partire dalla summa divisio di Gaio tra persona e res che si separano i liberi dagli schiavi, riducendoli a cosa pur senza escluderli dall’appartenenza a una comune umanità. Ed è nel dibattito dei primi secoli del cristianesimo sulla doppia natura di Gesù/Cristo - vero uomo e vero Dio - e nella faticosa formulazione del dogma trinitario (una sola sostanza in tre persone) che si cristallizza e domina l’inclusione oppositiva o l’opposizione includente.
Una parte del libro è consacrata alla ripresa della nozione paolina di katechon (contenuta nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, 19, 2), la forza frenante che, trattenendo il male, impedisce però l’avvento della parousia, della seconda venuta di Cristo. Anche in questo caso, il bene contiene in sé il male che sottomette fino all’apocalisse. Da cosa deriva questa idea di invitare i fedeli ad attingere la salvezza evitando di scontrarsi con colui che Paolo definisce enigmaticamente l’anomos, l’Anticristo?
Credo che, al di là delle dispute teologiche, bisognerebbe storicizzare maggiormente la funzione del katechon, nel senso di vederla come una risposta tattica di Paolo alle attese deluse dei cristiani, ai quali Gesù aveva predetto «verrò presto» (erchomay tachy): la parousia non si è ancora prodotta perché è frenata e ritardata dalle forze del male.
La proposta di Esposito (che ricorda per certi versi «la piccola porta attraverso la quale può entrare il Messia» di Walter Benjamin) è di conseguire una parousia senza apocalisse, una affermazione senza negazione, di spezzare cioè la subordinazione forzata del due all’uno e di fare coesistere quelli che appaiono ora come opposti.
Ciò è per lui possibile qualora ci si colleghi a una tradizione filosofica che, seppur minoritaria, attraversa l’Occidente da quasi mille anni, da quando Averroè scrisse il Grande commento al De anima di Aristotele. In esso il filosofo arabo sostiene che il pensiero in atto, l’intelletto attivo, non appartiene alla persona.
In altri termini: come per il vedere qualcosa sono necessari gli occhi e gli oggetti, ma non si vede nulla se non c’è la luce, allo stesso modo gli uomini hanno in potenza la facoltà di pensare (l’intelletto passivo) e i concetti (noemata) pensabili, ma se manca l’intelletto attivo, la luce - quella che gli scolastici chiameranno lux intellegibilis - non si riesce effettivamente a pensare.
Questa luce non appartiene, tuttavia, all’individuo: simile alla luce del sole che continua a brillare anche quando il singolo muore, il pensiero è impersonale. Averroè - difeso da Dante e contrastato da San Tommaso - sostiene dunque la mortalità dell’anima e il carattere collettivo del pensiero, in ciò seguito, in diversi modi, da una serie di pensatori che Esposito opportunamente inquadra: Pomponazzi, Bruno, Spinoza, Schelling, Nietzsche, Bergson, Deleuze.
Che Bruno e Spinoza seguano questa linea sembra pacifico. Meno scontato che lo sia Nietzsche, il quale in Aurora sostiene che il compito del filosofo consiste nel coltivare le conclusioni dei pensieri che germogliano spontaneamente dal grembo di quel «saggio ignoto» che è il corpo: «Spuntano in noi da giorni umidi e nuvolosi, dalla solitudine, da due parole, conclusioni, come fossero funghi: eccole arrivare un bel mattino, chissà da dove, e girano attorno lo sguardo per cercarci, con aria grigia e malcontenta. Guai al pensatore che non è il giardiniere, ma soltanto il terreno delle sue piante!».
Meno ovvio è invece l’inserimento in questa genealogia dello Schelling delle Lezioni di Stoccarda, che parla dell’impersonalità dell’anima, o di Bergson, che mostra, attraverso la similitudine del cinema in cui il movimento è prodotto da fotogrammi fissi, come funzioni il dispositivo duale riportato all’unità: prima si fissano le astrazioni e poi si genera meccanicamente il movimento.
L’audace strada percorsa da Esposito è interessante e, in parte condivisibile, in quanto il pensiero, al pari della lingua, non appartiene al soggetto. Eppure, alla De Saussure, un ruolo bisognerebbe pur attribuirlo alla parole, all’elemento di specificità e di creatività di un individuo all’interno della langue impersonale di una comunità. Forse le cose sarebbero più perspicue se Esposito distinguesse tra pensiero (impersonale) e coscienza (personale) di chi pensa.
http://www.inventati.org/apm/archivio/320/ERB/lerbavoglio.php
IL PROBLEMA DELLA ILLUMINAZIONE, AL DI LA’ DELLA DUPLICE ORIGINE E DELLA DUPLICE NATURA *:
"Il problema dell’ispirazione o illuminazione o rivelazione - o in qualsiasi modo si voglia chiamarlo - non interessa soltanto qualche caso particolarmente notevole e raro. Le caratteristiche che comunemente sono considerate atte a stabilire la differenza tra rivelazione e prodotti ordinari e naturtali dell’attività mentale dell’uomo, appartengono in verità a ogni pensiero e a ogni azione.
Imprevedibilità, assenza di sforzo, passività (ed anche come vedremo più tardi, chiarezza e certezza) sono caratteri che possono essere applicati ugualmente a ciò che è grande e a ciò che è piccolo, a ciò che è vero e a ciò che è falso, a ciò che è religioso e a ciò che è laico.
Non è più il tempo in cui se ne faceva il criterio di una duplice origine e di una duplice natura dei pensieri e delle azioni umane, e se ne traeva argomento per imprimere agli uni il timbro di una provenienza umana, e agli altri quello di un dono disceso dall’alto.
Gli esempi straordinari e sorprendenti nei quali, dopo uno sforzo mentale e infruttuoso, appare bruscamente e all’improvviso la soluzione di un problema, non sono che i casi estremi del processo normale del pensiero cosciente e razionale. Solo che, in questi casi più impressionanti, i problemi sono tanto considerevoli e la fase di passività tanto lunga da colpire l’attenzione e provocare la sorpresa".
* James H. Leuba, La psicologia del misticismo religioso, Feltrinelli, Milano 1960, p. 265 (l’edizione originale, inglese, è del 1925).
Gaetano Benedetti
La follia ci aiuta a capire l’uomo
di Laura Andreoli (Corriere della Sera, 02.01.2014)
Il 2 dicembre, esattamente un mese fa, a Basilea, è mancato Gaetano Benedetti. Un maestro, un pioniere in quei territori della malattia psichica che, come la psicosi, più interrogano l’uomo nella sua dimensione esistenziale. Aveva 93 anni, ma la sua morte appare comunque qualcosa di irreale a chi ha sperimentato il suo pensiero, la sua presenza così viva nelle supervisioni, da diventare una voce costante nel proprio mondo interno, in particolare nei momenti terapeutici più difficili. La sua stessa storia, di uomo e di ricercatore, testimonia l’esigenza di rivolgersi alla follia come un elemento essenziale per capire l’uomo.
Assistente alla clinica universitaria di Malattie Nervose e Mentali di Catania (dove è nato nel 1920), in un tempo in cui la psichiatria in Italia quasi non esisteva ed era per lo più relegata alla semplice custodia manicomiale, volge il suo appassionato interesse verso quei malati psichiatrici che egli vede nel cortile dell’Ospedale di Catania «accoccolati per terra, fra stracci e camicie di forza».
Questa fortissima esigenza di ricerca che appariva estranea alla psichiatria italiana, allora caratterizzata da un contesto positivistico in cui dominavano le teorie di Lombroso, trova invece una terra felix nella clinica Burghölzli di Zurigo; a 27 anni, il giovane Benedetti lascia l’Italia per poter aprirsi all’esperienza della psichiatria di lingua tedesca di quel periodo: dalla visione clinica di Eugen Bleuler, a cui si deve proprio l’introduzione della categoria della schizofrenia, fino alla corrente fenomenologica che in psichiatria pone attenzione alla esperienza vissuta e alla comprensione intuitiva.
Nonostante il pensiero di Benedetti molto debba a questo retroterra fenomenologico, gli è indispensabile qualche cosa che egli avverte come più fecondo per poter veramente «entrare» nella sofferenza del paziente «sentendone tutto il peso».
È la relazione terapeutica al centro della cura: in tal senso «sterili» gli appaiono come strumenti le sole diagnosi psichiatriche, ma anche il troppo impersonale «essere con» della fenomenologia; è nella psicoanalisi freudiana che trova, nella comunicazione tra inconsci del terapeuta e del paziente, il motore della cura.
Qui si colloca il suo contributo, che rompe il tabù freudiano di una impossibilità di cura psicoanalitica della psicosi e pone un capovolgimento della terapia della psicosi. Per arrivare in questo territorio, la psicoanalisi ha bisogno di ampliare il proprio statuto, il punto nodale della cura è che proprio nella costruzione di un inconscio «duale» stia il vero potenziale di cura.
Benedetti «scopre» e precorre l’importanza terapeutica di attivare codici non verbali, come particolare linguaggio dell’inconscio, quando le radici del pensiero sembrano inattingibili. Ciò che più sostiene la sua «fiducia» terapeutica è il rivolgersi all’inconscio non solo come archivio di tutte le sofferenze, ma come forza generativa dell’unica possibilità di sentirsi «esistere», contro «l’identità di non-esistenza», che è - per lui - la fondamentale cifra del vivere psicotico. Nelle sue parole «il sintomo psicotico... è sia la fonte della massima sofferenza del paziente come il suo unico fronte di sviluppo potenziale».
Il pensiero e l’esperienza clinica sulla psicosi di Benedetti sono arrivati in Italia alla fine degli anni Settanta e hanno trovato un terreno particolarmente recettivo, quasi un «laboratorio» di trasformazione radicale della cura psichica. Ma sarebbe una lezione necessaria anche oggi, in un momento storico in cui le istituzioni di cura del malato psichico non vivono un momento felice, tra una psichiatria che rischia di rinchiudersi nelle griglie strette di protocolli diagnostici e farmacologici e una psicoanalisi che deve potersi aprire alle nuove potenzialità di cura di un inconscio «a circuito aperto».
Freud secondo Elvio Fachinelli
di Raoul Bruni (Alfabeta2, n. 25, 06.12.2012)
Sono molte le ragioni per cui vale la pena (ri)scoprire oggi la straordinaria figura di Elvio Fachinelli. Attivo nel campo della pedagogia antiautoritaria, lo psicoanalista trentino fondò l’importante rivista (e casa editrice) “L’erba voglio” e si impegnò in prima persona nell’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano; pubblicò pochi ma fondamentali volumi, oggi inseriti nel catalogo Adelphi, ai quali però vanno aggiunti molti sorprendenti scritti estravaganti, come quelli raccolti, per l’appunto, in questo libretto Su Freud. Fachinelli, che ne tradusse varie opere, a incominciare da L’interpretazione dei sogni, instaurò col padre della psicoanalisi un dialogo ininterrotto, tra fedeltà e slanci eterodossi, condotto in sostanziale sintonia con quel “ritorno a Freud” propugnato da Jacques Lacan. Ma a qual era il Freud a cui tornare, secondo Fachinelli?
Nel denso ritratto di Freud, risalente al 1966, che inaugura il volumetto, si punta l’accento, prima ancora che sullo scienziato, sull’uomo e sullo scrittore: «Il rapporto tra il creatore e la sua opera è in questo caso [nel caso di Freud] assai vicino al legame di figliolanza carnale, per così dire, che si stabilisce fra lo scrittore e il suo libro, fra il pittore e il suo quadro, che non al riferimento indiretto dello scienziato con la sua scoperta. C’è qualcosa di irripetibile, che conferisce per sempre alla costruzione freudiana un carattere di unicum culturale e che genera la sempre risorgente difficoltà di ‘collocarla’ positivamente tra le altre scienze».
Del Freud “scrittore” Fachinelli prospetta (in un articolo apparso sul “Corriere della Sera” nel 1986, incluso in questo libretto) anche un suo proprio canone, inidcandone persuasivamente il vertice nei casi clinici, definiti «dei quasi racconti, dei nuclei narrativi ora più ora meno elaborati» (intuizione che prefigura la recente e felice iniziativa, di Mario Lavagetto, di ripubblicarli, nella collana einaudiana dei “Millenni”, sotto il titolo di Racconti clinici). Sotto questo aspetto, verrebbe da dire, Fachinelli fu perfettamente fedele a Freud, dato che molti dei suoi stessi scritti sono caratterizzati da un evidente afflato narrativo.
Le distanze tra l’autore e il suo nume titolare vengono invece in luce in un articolo in margine al celebre saggio del 1915 in cui Freud, dialogando con un poeta identificabile con Rilke, fornisce una giustificazione filosofica del dramma della caducità. Freud collega la questione della caducità al disastro bellico che allora incombeva sull’Europa, sostenendo che, una volta trascorsa questa terribile crisi, l’uomo avrebbe ricostruito «ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima».
A differenza di tutti i precedenti commentatori, Fachinelli non sottoscrive la conclusione freudiana, ma anzi osserva: «Il mondo solido e duraturo che Freud si augurava sorgesse dalla catastrofe non sorse affatto. Al contrario. In Europa sorsero nazismo e fascismo e con essi scoppiò una guerra ancor più spaventosa della prima». In questa cogente confutazione della tesi freudiana, si intravede la tipica inquietudine del pensiero psicoanalitico fachinelliano, intrinsecamente riluttante ad ogni soluzione consolatoria dell’enigma dell’esistenza. Fachinelli respinge infatti la tendenza all’«onniesplicabilità, rovinosamente attiva sia dentro l’analisi stessa, sia all’esterno, nel comune gergo psicoanalitico» e auspica invece un’idea quasi zen dell’analisi, basata sull’«elemento sorpresa»: «tutto può essere attivo e fecondo [...] se nasce come sorpresa inaspettata».
L’articolo da cui sto citando (che chiude il volumetto) risale al 1989, l’anno della morte di Fachinelli, e mostra come questi abbia saputo coraggiosamente spingersi ben oltre Freud; d’altronde, in quel periodo, egli stava concludendo La mente estatica, la sua opera testamentaria, incentrata su un’area tematica estranea non solo al freudismo, ma a tutta la tradizione razionalistica occidentale.
La terapia creativa di Elvio Facchinelli
“Su Freud”, una raccolta di scritti dell’analista italiano
di Massimo Recalcati
(la Repubblica, 20.12.2012)
Elvio Fachinelli è stato probabilmente, insieme a Franco Fornari, ma diversissimo per stile e vocazione teorica, lo psicoanalista italiano più originale e creativo degli anni Settanta-Ottanta. La sua opera non ha mai assunto quello spirito di sistema che ha invece caratterizzato il pensiero di Fornari e anche per questo ne costituisce, seppure nel solco comune della tradizione freudiana, una alternativa radicale.
Se Fornari diede luogo alla psicoanalisi come macchina interpretativa (teoria coinemica), Fachinelli non ha mai smesso di ricordare la centralità dell’imprevisto e della sorpresa nell’esperienza singolare dell’analisi. Se il primo si muoveva attraverso l’uso programmatico di codici simbolici immutabili, il secondo sospingeva la teoria della psicoanalisi al limite dell’indicibile, al confine con l’esperienza estatica rivendicandone il carattere anarchico e avverso ad ogni sistematizzazione che pretendeva di proporsi come definitiva.
Se il primo insisteva sul carattere trasmissibile della psicoanalisi, sulla possibilità di farne una disciplina universitaria, il secondo metteva in guardia sulla dimensione didattica della psicoanalisi che ai suoi occhi appariva come una truffa, una mistificazione intellettuale dell’autentica esperienza dell’inconscio come incontro con il non ancora visto, né saputo. Se il primo è stato un produttore infaticabile di scritti teorici sulla psicoanalisi ordinati in un sistema concettuale rigoroso, il secondo ha sempre scritto nella forma del frammento, dell’intervento breve, privilegiando la parola orale a quella scritta a partire dalla convinzione che lo spirito della psicoanalisi abbia a che fare con il dialogo vivente più che con il carattere immobile della scrittura.
Per tutte queste ragione, e per altre ancora, Jacques Lacan lo considerava il suo allievo prediletto in Italia, sebbene Fachinelli avesse sempre declinato garbatamente l’investitura ufficiale decidendo di non lasciare mai la sua società di appartenenza (la Società psicoanalitica italiana).
Ho incontrato di persona Elvio Fachinelli una sola volta nella mia vita. L’occasione fu quella di un convegno di psicoanalisi svoltosi verso la fine di novembre del 1988 alla Casa della Cultura di Milano. Intervenne tra gli ultimi e mi colpì come la sua parola si differenziasse nettamente da quella pesantemente erudita e scolastica di altri relatori.
Ora questo breve intervento è disponibile in una piccola raccolta di suoi scritti rari proposta da Adelphi col titolo Su Freud.
La mole anoressica di questo libretto conferma il carattere nomadico e anti-sistematico dell’opera di Fachinelli. Il lettore troverà la tesi che ha ispirato tutto il suo lavoro di analista: non si dà esperienza dell’analisi se non attraverso un effetto imprevisto con qualcosa che scompagina l’ordine costituito dei nostri pensieri. Questo significa che un’analisi non è una semplice acquisizione di sapere già dato attraverso la sua accumulazione progressiva. Il sapere analitico si incontra e si produce solo a partire da una sorpresa, da una sospensione del sapere dell’Io, da un suo vacillamento.
E’ questo il contributo decisivo di Freud che in queste pagine Fachinelli ci ricorda puntualmente: la psicoanalisi come nuova pratica della cura non si applica ad un paziente passivo, ma esige un movimento attivo di ricerca da parte dei soggetti (l’analista e il paziente) che vi sono impegnati. Fu questo il contributo più profondo di Freud: porsi lui stesso, nella sua carne e nelle sue ossa, come malato di inconscio.
Egli, ci ricorda Fachinelli, diverrà, con una lucidità che potrà apparire persino “disumana”, “paziente di se stesso” (“Il malato che più mi preoccupa sono io stesso”). E’ su questa base freudiana che egli propone di differenziare una “psicoanalisi della risposta” (quale è, per esempio, quella della teoria coinemica di Franco Fornari) da una “psicoanalisi della domanda” che anziché applicare un codice interpretativo alle parole del paziente dovrebbe essere in grado di sapersi rinnovare ogni volta proprio grazie a quelle parole.
Questo è il grande contributo di Freud: il sapere della psicoanalisi non si trova nelle biblioteche, non è sapere scritto, catalogato, codificato, ma è sapere sempre in movimento, vivente nella dimensione orale della parola di cui si nutre la pratica della psicoanalisi. Per questa ragione, sempre secondo Fachinelli, l’autentico spirito freudiano non va rintracciato nei paradigmi positivistici che riducono la malattia mentale ad una malattia del cervello, ma nell’aver dato valore al potere trasformativo della parola, nell’aver dato forma ad una “conversazione conoscitiva” la cui tradizione si inaugura con la “nobile sofistica” di Protagora e Socrate.
Psicoanalisi anti crisi
A Milano un Centro Musatti offre assistenza gratuita
Il presidente Giuseppe Pellizzari «In questa epoca di incertezza e smarrimento vogliamo fare la nostra parte e ritrovare la vocazione sociale del nostro lavoro»
di Stefania Scateni (l’Unità, 13.11.2012)
Succede in tempi come questi, precari e oscuri per l’animo e la carne, epoca «delle crisi»: economica, politica, spirituale... D’altronde la crisi è «il mestiere» della psicoanalisi: strada maestra verso il cambiamento, la crepa è un momento di verità che porta alla trasformazione, passaggio, attraversamento verso qualcosa di ignoto, nuovo. Oggi l’angoscia che permea il vissuto soggettivo è impalpabile e incombente, difficilmente identificabile, subita e imprendibile come le ombre scure dei film dell’orrore. L’angoscia che accompagna le vicissitudini del nostro mondo è senza prospettiva, è angoscia allo scoperto. Uno stato dell’anima ancora tutto da esplorare e conoscere radicalmente diverso dai disturbi del passato anche recente.
In mancanza di chiarezza analitica, di questa congiuntura odierna si fa la conta in percentuali di disagio: in Grecia, dal 2008 al 2011, le persone tra i 25 e i 34 anni con problemi di ansia o di depressione sono passati dal 3,8% al 13,6%. La psicoanalisi stessa soffre della crisi e registra, negli ultimi tre anni, un crollo dei pazienti del 20%. Ma persino questo «disfacimento» può essere letto come un’indicazione al cambiamento.
«Oggi viviamo la scomparsa dei grandi contenitori ideologici e simbolici, sperimentiamo una grande sfiducia nelle istituzioni e nei partiti, ci sentiamo derubati del futuro ci dice il presidente del Cmp Giuseppe Pellizzari -. La crisi ha acuito questo senso di smarrimento e incertezza. La decisione di proporre il nostro servizio clinico nasce dall’esigenza di fare la nostra parte: per la psicoanalisi questo è un ritorno alle origini, quando nel 1919 nacque, in un momento di grave crisi post bellica, l’Istituto Psicoanalitico di Berlino, con chiari intenti sociali. Per un decennio funzionò benissimo e nell’istituto lavorarono i migliori analisti di quegli anni». Il loro intento sociale era ispirato a ciò che Freud disse durante il Congresso di Budapest del 1918: la gente ha diritto di essere curata non solo per la tubercolosi, ma anche per le malattie nervose, e lo Stato dovrebbe andare incontro a queste esigenze.
L’iniziativa milanese non è solamente e semplicemente un andare incontro ai cittadini. «Le difficoltà contemporanee non sono soltanto economiche spiega Pellizzari -, la crisi interessa anche i valori, i fondamenti simbolici della vita delle persone. E questo ci interessa, interessa la psicoanalisi. Non possiamo guardare questo fenomeno dall’esterno, perché anch’essa vive una crisi dei suoi fondamenti. Ed è un momento di grande fecondità. Il servizio che vogliamo offrire al territorio ha anche uno scopo formativo per chi ci lavora e uno scopo di ricerca per noi. I “nuovi” pazienti hanno caratteristiche nuove e poco conosciute e per questo possono rappresentare un’occasione importante per imparare cose nuove e sollecitare la psicoanalisi a funzionare in modo nuovo rispetto ai canoni classici».
Oggi le nevrosi classiche, le sindromi ossessive, le isterie e le perversioni, non sono le più diffuse come lo erano un tempo; ad esse si sostituiscono sindromi narcisistiche, disagio, insoddisfazione, vuoto, apatia diffusa, disturbi difficili da trattare perché quasi incosistenti, senza un sintomo predominante e urgente. Quelle più profondamente mutate nel più breve tempo sono le problematiche adolescenziali: non ci sono più i ragazzi ribelli che si scontrano con la cultura dei genitori e vogliono cambiare il mondo. Moltissimi adolescenti oggi non sanno cosa piace loro, non sanno cosa fare, non sanno chi sono, non studiano e non lavorano, non fanno niente.
E infine, la domanda dalle cento pistole: ci avete sempre detto che pagare il trattamento è essenziale e indispensabile per la pulizia e l’efficacia della terapia. Come la mettiamo con il vostro trattamento gratuito?
«Ci sono sempre stati analisti che hanno trattato gratuitamente qualche paziente, ma questo ha sempre posto dei problemi nella conduzione tecnica dell’analisi, cioè nell’ambito del transfert e controtransfert, perché il paziente potrebbe sentirsi diverso, speciale, oppure un povero oggetto di elemosina. Ci siamo resi conto che è molto importante il fatto che la nostra è un’iniziativa istituzionale, del Centro Milanese di Psicoanalisi, non del singolo analista che è tanto buono. La mediazione istituzionale consente una gestione più libera». Miracoli della crisi.
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE! AL DI LA’ DELLA "PULSIONE DI MORTE" DEL CATTOLICISMO ATEO E DEVOTO ...
"CANTICO DEI CANTICI": CANCELLATA OGNI DIFFERENZA, L’AMORE E’ FORTE COME LA MORTE, E LA MORTE E’ FORTE COME L’AMORE. Finalmente su Piazza San Pietro, sventola il “Logo” del “Dominus Iesus”: “Deus caritas est”!!! Il Terzo Millennio prima di Cristo è già iniziato ...
Federico La Sala