In questi tempi di crisi non si può più pensare che tutta la cultura
sia finanziata con i fondi statali. L’intervento pubblico ha prodotto stagnazione
Basta soldi pubblici al teatro
meglio puntare su scuola e tv
di ALESSANDRO BARICCO
Sotto la lente della crisi economica, piccole crepe diventano enormi, nella ceramica di tante vite individuali, ma anche nel muro di pietra del nostro convivere civile. Una che si sta spalancando, non sanguinosa ma solenne, è quella che riguarda le sovvenzioni pubbliche alla cultura. Il fiume di denaro che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni. Dato che il fiume si sta estinguendo, ci si interroga. Si protesta. Si dibatte. Un commissariamento qui, un’indagine per malversazione là, si collezionano sintomi di un’agonia che potrebbe anche essere lunghissima, ma che questa volta non lo sarà. Sotto la lente della crisi economica, prenderà tutto fuoco, molto più velocemente di quanto si creda.
In situazioni come queste, nei film americani puoi solo fare due cose: o scappi o pensi molto velocemente. Scappare è inelegante. Ecco il momento di pensare molto velocemente. Lo devono fare tutti quelli cui sta a cuore la tensione culturale del nostro Paese, e tutti quelli che quella situazione la conoscono da vicino, per averci lavorato, a qualsiasi livello. Io rispondo alla descrizione, quindi eccomi qui. In realtà mi ci vorrebbe un libro per dire tutto ciò che penso dell’intreccio fra denaro pubblico e cultura, ma pensare velocemente vuol dire anche pensare l’essenziale, ed è ciò che cercherò di fare qui.
Se cerco di capire cosa, tempo fa, ci abbia portato a usare il denaro pubblico per sostenere la vita culturale di un Paese, mi vengono in mente due buone ragioni. Prima: allargare il privilegio della crescita culturale, rendendo accessibili i luoghi e i riti della cultura alla maggior parte della comunità. Seconda: difendere dall’inerzia del mercato alcuni gesti, o repertori, che probabilmente non avrebbero avuto la forza di sopravvivere alla logica del profitto, e che tuttavia ci sembravano irrinunciabili per tramandare un certo grado di civiltà.
A queste due ragioni ne aggiungerei una terza, più generale, più sofisticata, ma altrettanto importante: la necessità che hanno le democrazie di motivare i cittadini ad assumersi la responsabilità della democrazia: il bisogno di avere cittadini informati, minimamente colti, dotati di principi morali saldi, e di riferimenti culturali forti. Nel difendere la statura culturale del cittadino, le democrazie salvano se stesse, come già sapevano i greci del quinto secolo, e come hanno perfettamente capito le giovani e fragili democrazie europee all’indomani della stagione dei totalitarismi e delle guerre mondiali.
Adesso la domanda dovrebbe essere: questi tre obbiettivi, valgono ancora? Abbiamo voglia di chiederci, con tutta l’onestà possibile, se sono ancora obbiettivi attuali? Io ne ho voglia. E darei questa risposta: probabilmente sono ancora giusti, legittimi, ma andrebbero ricollocati nel paesaggio che ci circonda. Vanno aggiornati alla luce di ciò che è successo da quando li abbiamo concepiti. Provo a spiegare.
Prendiamo il primo obbiettivo: estendere il privilegio della cultura, rendere accessibili i luoghi dell’intelligenza e del sapere. Ora, ecco una cosa che è successa negli ultimi quindici anni nell’ambito dei consumi culturali: una reale esplosione dei confini, un’estensione dei privilegi, e un generale incremento dell’accessibilità. L’espressione che meglio ha registrato questa rivoluzione è americana: the age of mass intelligence, l’epoca dell’intelligenza di massa.
Oggi non avrebbe più senso pensare alla cultura come al privilegio circoscritto di un’élite abbiente: è diventata un campo aperto in cui fanno massicce scorribande fasce sociali che da sempre erano state tenute fuori dalla porta. Quel che è importante è capire perché questo è successo. Grazie al paziente lavoro dei soldi pubblici? No, o almeno molto di rado, e sempre a traino di altre cose già successe. La cassaforte dei privilegi culturali è stata scassinata da una serie di cause incrociate: Internet, globalizzazione, nuove tecnologie, maggior ricchezza collettiva, aumento del tempo libero, aggressività delle imprese private in cerca di un’espansione dei mercati. Tutte cose accadute nel campo aperto del mercato, senza alcuna protezione specifica di carattere pubblico.
Se andiamo a vedere i settori in cui lo spalancamento è stato più clamoroso, vengono in mente i libri, la musica leggera, la produzione audiovisiva: sono ambiti in cui il denaro pubblico è quasi assente. Al contrario, dove l’intervento pubblico è massiccio, l’esplosione appare molto più contratta, lenta, se non assente: pensate all’opera lirica, alla musica classica, al teatro: se non sono stagnanti, poco ci manca. Non è il caso di fare deduzioni troppo meccaniche, ma l’indizio è chiaro: se si tratta di eliminare barriere e smantellare privilegi, nel 2009, è meglio lasciar fare al mercato e non disturbare.
Questo non significa dimenticare che la battaglia contro il privilegio culturale è ancora lontana dall’essere vinta: sappiamo bene che esistono ancora grandi caselle del Paese in cui il consumo culturale è al lumicino. Ma i confini si sono spostati.
Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione. Quando si parla di fondi pubblici per la cultura, non si parla di scuola e di televisione. Sono soldi che spendiamo altrove. Apparentemente dove non servono più. Se una lotta contro l’emarginazione culturale è sacrosanta, noi la stiamo combattendo su un campo in cui la battaglia è già finita.
Secondo obbiettivo: la difesa di gesti e repertori preziosi che, per gli alti costi o il relativo appeal, non reggerebbero all’impatto con una spietata logica di mercato. Per capirci: salvare le regie teatrali da milioni di euro, La figlia del reggimento di Donizetti, il corpo di ballo della Scala, la musica di Stockhausen, i convegni sulla poesia dialettale, e così via. Qui la faccenda è delicata. Il principio, in sé, è condivisibile. Ma, nel tempo, l’ingenuità che gli è sottesa ha raggiunto livelli di evidenza quasi offensivi.
Il punto è: solo col candore e l’ottimismo degli anni Sessanta si poteva davvero credere che la politica, l’intelligenza e il sapere della politica, potessero decretare cos’era da salvare e cosa no. Se uno pensa alla filiera di intelligenze e saperi che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico, passando per i vari assessori, siamo proprio sicuri di avere davanti agli occhi una rete di impressionante lucidità intellettuale, capace di capire, meglio di altri, lo spirito del tempo e le dinamiche dell’intelligenza collettiva? Con tutto il rispetto, la risposta è no. Potrebbero fare di meglio i privati, il mercato? Probabilmente no, ma sono convinto che non avrebbero neanche potuto fare di peggio.
Mi resta la certezza che l’accanimento terapeutico su spettacoli agonizzanti, e ancor di più la posizione monopolistica in cui il denaro pubblico si mette per difenderli, abbiano creato guasti imprevisti di cui bisognerebbe ormai prendere atto. Non riesco a non pensare, ad esempio, che l’insistita difesa della musica contemporanea abbia generato una situazione artificiale da cui pubblico e compositori, in Italia, non si sono più rimessi: chi scrive musica non sa più esattamente cosa sta facendo e per chi, e il pubblico è in confusione, tanto da non capire neanche più Allevi da che parte sta (io lo so, ma col cavolo che ve lo dico).
Oppure: vogliamo parlare dell’appassionata difesa del teatro di regia, diventato praticamente l’unico teatro riconosciuto in Italia? Adesso possiamo dire con tranquillità che ci ha regalato tanti indimenticabili spettacoli, ma anche che ha decimato le file dei drammaturghi e complicato la vita degli attori: il risultato è che nel nostro paese non esiste quasi più quel fare rotondo e naturale che mettendo semplicemente in linea uno che scrive, uno che recita, uno che mette in scena e uno che ha soldi da investire, produce il teatro come lo conoscono i paesi anglosassoni: un gesto naturale, che si incrocia facilmente con letteratura e cinema, e che entra nella normale quotidianità della gente.
Come vedete, i principi sarebbero anche buoni, ma gli effetti collaterali sono incontrollati. Aggiungo che la vera rovina si è raggiunta quando la difesa di qualcosa ha portato a una posizione monopolistica. Quando un mecenate, non importa se pubblico o privato, è l’unico soggetto operativo in un determinato mercato, e in più non è costretto a fare di conto, mettendo in preventivo di perdere denaro, l’effetto che genera intorno è la desertificazione. Opera, teatro, musica classica, festival culturali, premi, formazione professionale: tutti ambiti che il denaro pubblico presidia più o meno integralmente. Margini di manovra per i privati: minimi. Siamo sicuri che è quello che vogliamo? Siamo sicuri che sia questo il sistema giusto per non farci derubare dell’eredità culturale che abbiamo ricevuto e che vogliamo passare ai nostri figli?
Terzo obbiettivo: nella crescita culturale dei cittadini le democrazie fondano la loro stabilità. Giusto. Ma ho un esempietto che può far riflettere, fatalmente riservato agli elettori di centrosinistra. Berlusconi.
Circola la convinzione che quell’uomo, con tre televisioni, più altre tre a traino o episodicamente controllate, abbia dissestato la caratura morale e la statura culturale di questo Paese dalle fondamenta: col risultato di generare, quasi come un effetto meccanico, una certa inadeguatezza collettiva alle regole impegnative della democrazia.
Nel modo più chiaro e sintetico ho visto enunciata questa idea da Nanni Moretti, nel suo lavoro e nelle sue parole. Non è una posizione che mi convince (a me Berlusconi sembra più una conseguenza che una causa) ma so che è largamente condivisa, e quindi la possiamo prendere per buona. E chiederci: come mai la grandiosa diga culturale che avevamo immaginato di issare con i soldi dei contribuenti (cioè i nostri) ha ceduto per così poco?
Bastava mettere su tre canali televisivi per aggirare la grandiosa cerchia di mura a cui avevamo lavorato? Evidentemente sì. E i torrioni che abbiamo difeso, i concerti di lieder, le raffinate messe in scena di Cechov, la Figlia del reggimento, le mostre sull’arte toscana del quattrocento, i musei di arte contemporanea, le fiere del libro? Dov’erano, quando servivano? Possibile che non abbiano visto passare il Grande Fratello? Sì, possibile. E allora siamo costretti a dedurre che la battaglia era giusta, ma la linea di difesa sbagliata. O friabile. O marcia. O corrotta. Ma più probabilmente: l’avevamo solo alzata nel luogo sbagliato.
Riassunto. L’idea di avvitare viti nel legno per rendere il tavolo più robusto è buona: ma il fatto è che avvitiamo a martellate, o con forbicine da unghie. Avvitiamo col pelapatate. Fra un po’ avviteremo con le dita, quando finiranno i soldi.
Cosa fare, allora? Tenere saldi gli obbiettivi e cambiare strategia, è ovvio. A me sembrerebbe logico, ad esempio, fare due, semplici mosse, che qui sintetizzo, per l’ulcera di tanti.
1. Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo? Che senso ha salvare l’Opera e produrre studenti che ne sanno più di chimica che di Verdi? Cosa vuol dire pagare stagioni di concerti per un Paese in cui non si studia la storia della musica neanche quando si studia il romanticismo? Perché fare tanto i fighetti programmando teatro sublime, quando in televisione già trasmettere Benigni pare un atto di eroismo? Con che faccia sovvenzionare festival di storia, medicina, filosofia, etnomusicologia, quando il sapere, in televisione - dove sarebbe per tutti - esisterà solo fino a quando gli Angela faranno figli?
Chiudete i Teatri Stabili e aprite un teatro in ogni scuola. Azzerate i convegni e pensate a costruire una nuova generazione di insegnanti preparati e ben pagati. Liberatevi delle Fondazioni e delle Case che promuovono la lettura, e mettete una trasmissione decente sui libri in prima serata. Abbandonate i cartelloni di musica da camera e con i soldi risparmiati permettiamoci una sera alla settimana di tivù che se ne frega dell’Auditel.
Lo dico in un altro modo: smettetela di pensare che sia un obbiettivo del denaro pubblico produrre un’offerta di spettacoli, eventi, festival: non lo è più. Il mercato sarebbe oggi abbastanza maturo e dinamico da fare tranquillamente da solo. Quei soldi servono a una cosa fondamentale, una cosa che il mercato non sa e non vuole fare: formare un pubblico consapevole, colto, moderno. E farlo là dove il pubblico è ancora tutto, senza discriminazioni di ceto e di biografia personale: a scuola, innanzitutto, e poi davanti alla televisione.
La funzione pubblica deve tornare alla sua vocazione originaria: alfabetizzare. C’è da realizzare una seconda alfabetizzazione del paese, che metta in grado tutti di leggere e scrivere il moderno. Solo questo può generare uguaglianza e trasmettere valori morali e intellettuali. Tutto il resto, è un falso scopo.
2. Lasciare che negli enormi spazi aperti creati da questa sorta di ritirata strategica si vadano a piazzare i privati. Questo è un punto delicato, perché passa attraverso la distruzione di un tabù: la cultura come business. Uno ha in mente subito il cattivo che arriva e distrugge tutto. Ma, ad esempio, la cosa non ci fa paura nel mondo dei libri o dell’informazione: avete mai sentito la mancanza di una casa editrice o di un quotidiano statale, o regionale, o comunale? Per restare ai libri: vi sembrano banditi Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Adelphi, per non parlare dei piccoli e medi editori? Vi sembrano pirati i librai? È gente che fa cultura e fa business. Il mondo dei libri è quello che ci consegnano loro. Non sarà un paradiso, ma l’inferno è un’altra cosa. E allora perché il teatro no? Provate a immaginare che nella vostra città ci siano quattro cartelloni teatrali, fatti da Mondadori, De Agostini, Benetton e vostro cugino. È davvero così terrorizzante? Sentireste la lancinante mancanza di un Teatro Stabile finanziato dai vostri soldi?
Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell’ambito della cultura. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull’accessibilità economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti. Basta con l’ipocrisia delle associazioni o delle fondazioni, che non possono produrre utili: come se non fossero utili gli stipendi, e i favori, e le regalie, e l’autopromozione personale, e i piccoli poteri derivati. Abituiamoci ad accettare imprese vere e proprie che producono cultura e profitti economici, e usiamo le risorse pubbliche per metterle in condizione di tenere prezzi bassi e di generare qualità. Dimentichiamoci di fargli pagare tasse, apriamogli l’accesso al patrimonio immobiliare delle città, alleggeriamo il prezzo del lavoro, costringiamo le banche a politiche di prestito veloci e superagevolate.
Il mondo della cultura e dello spettacolo, nel nostro Paese, è tenuto in piedi ogni giorno da migliaia di persone, a tutti i livelli, che fanno quel lavoro con passione e capacità: diamogli la possibilità di lavorare in un campo aperto, sintonizzato coi consumi reali, alleggerito dalle pastoie politiche, e rivitalizzato da un vero confronto col mercato.
Sono grandi ormai, chiudiamo questo asilo infantile. Sembra un problema tecnico, ma è invece soprattutto una rivoluzione mentale. I freni sono ideologici, non pratici. Sembra un’utopia, ma l’utopia è nella nostra testa: non c’è posto in cui sia più facile farla diventare realtà.
* la Repubblica, 24 febbraio 2009
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente della Repubblica
ACCADEMIA E BERLUSCONISMO. PREMIATO IL PRESIDENTE BERLUSCONI, PER IL RILANCIO DEL PLATONISMO ATEO E DEVOTO. "IO, PLATONE, SONO LA VERITA’": "FORZA ITALIA"!!! Nelle piazze e nei campi di calcio il popolo ateo-devoto è tutto in festa, in un mare di bandiere "nazionali"
È quasi guerra sulle proposte dell’autore. Se Muti e Accardo sono favorevoli
Lella Costa e Fo polemizzano. Ma tutti dicono: si cambino le regole
Il teatro replica a Baricco
Muti: "Gli sprechi ci sono"
di ANNA BANDETTINI *
SU due punti sono tutti d’accordo. Primo: in nessun paese del mondo il teatro e la musica sopravvivono senza soldi dello Stato. Secondo: le regole di investimento di quei soldi vanno cambiate, riformate. Ma sul resto è quasi guerra. Due fronti pronti a dirsele, pro e contro Alessandro Baricco che ieri con una lunga, articolata riflessione su cultura e spettacoli dalle pagine di Repubblica, ha lanciato una bomba culturale: non è un obiettivo primario del finanziamento pubblico sostenere spettacoli, festival, eventi - ha scritto - meglio dirottarlo sulla formazione di un pubblico consapevole che oggi è a scuola e davanti alla televisione. Dunque finanziamo scuole e tv invece dei teatri. Apriti cielo.
La spericolata riflessione è parsa coraggiosa a Riccardo Muti - raggiunto a Parigi durante le prove del concerto dedicato a Berlioz con l’Orchestra della Radio Francese e voce recitante Gerard Depardieu - perché pone l’accento su molti dei punti sul quale egli stesso si batte da sempre. "In particolare la centralità della scuola fin dalla tenera età, il potenziamento di programmi formativi che attraverso la televisione sono in grado di raggiungere anche le persone più lontane e isolate, e la formazione dei giovani musicisti, sono tutti ambiti dove è necessario il sostegno delle istituzioni pubbliche - ha detto - Così come ci vorrebbero più risorse private perché potrebbero ridare nuova linfa ad un mondo che ha davvero bisogno di una "vera rivoluzione mentale"". Concorda il "collega" Salvatore Accardo, violinista e direttore d’orchestra: "Baricco scrive giusto quando parla di dare soldi alle scuole: la musica va imparata e insegnata fin dai banchi di scuola. È vero anche che ci sono sprechi nei teatri con le loro produzioni faraoniche ma non è così, per esempio, per la musica da camera e le istituzioni concertistiche che andrebbero sostenute dallo Stato".
Le molte critiche a Baricco cominciano quando il direttore del Piccolo Teatro, il primo teatro pubblico italiano finanziato dallo Stato, Sergio Escobar sbotta: "Non voglio polemizzare, ma le tesi di Baricco sono sconclusionate. La fascinazione per il mercato è fuori tempo massimo: perfino Tremonti dice che non è risolutore. Vabbé, il disorientamento degli intellettuali di sinistra... ma non si può stare ancora nel Duemila a difendere il principio che la cultura è un bene pubblico". Con Escobar c’è mezzo mondo dello spettacolo italiano. Tra i più feroci, due attori su fronti politici opposti. Luca Barbareschi in procinto di debuttare con Alessandro e Maria di Gaber: "Ma proprio Baricco che ha fatto teatro a botte di sovvenzioni? Il sistema dello spettacolo in Italia non va rotto come dice lui, va risistemato come in Francia, Germania, Inghilterra, ora perfino America: l’intervento dello Stato ci vuole. Chi deve andar via è la politica che ha egemonizzato poltrone, denari, tutto". E Lella Costa: "Ma perché spararci addosso in questo modo gratuito? Il teatro è bollito? Ma chi lo decide, Baricco? Quello che lui scrive è offensivo verso il pubblico innanzitutto, ma anche verso chi con quattro lire tiene aperti i teatri, organizza festival... Altro che mettersi sul mercato. Fare uno spettacolo non è come fare un libro". "Sì questo è un punto debole del suo ragionamento di cui condivido molte cose: un conto è stampare un libro che se va male è costato poco, un conto è finanziare un film che ha costi elevatissimi". Lo dice Paolo Sorrentino regista di Il Divo, un milione e 700mila euro finanziati dallo Stato e 4 milioni e 600mila incassati. "Senza quel finanziamento io non ce l’avrei fatta. Ma concordo con Baricco quando dice che vanno cambiati gli obiettivi culturali: sostenere scuola e tv. Ma devono cambiare anche le regole di questo sostegno, liberarle dalla politica".
Cambiare le regole dell’intervento pubblico: lo chiedono tutti. Lo auspica Francesco Saverio Borrelli, presidente del Conservatorio di Milano, lo ribadisce Dario Fo: "Ci vogliono regole trasparenti", dice il Nobel, "per rispetto anche del pubblico. Ma sul finanziamento non si discute: anzi in Italia la percentuale del Pil alla cultura è dieci volte inferiore alla media europea".
Come una litania gli fa eco una folla di artisti: Carlo Giuffrè ("senza finanziamenti mancherebbe il pane"), Gigi Proietti: ("il teatro da solo non può farcela. La gestione dei teatri ha costi enormi. Ma parliamone. Baricco, apriamo un dibattito non dico con tre B ma almeno con una"), Paolo Damiani, direttore del festival jazz di Roccella Jonica ("cosa farebbero i giovani artisti senza lo Stato?"), Fiorenzo Grassi dei Teatridithalia di Milano ("i teatri sono luogo di incontro tra persone e anche questa è cultura"), Filippo del Corno, compositore ("finanziare la tv? Paradossale in un paese in cui paghi un canone che concorre col 47 % al budget Rai che non restituisce nulla di culturale allo spettatore".). Sì: la proposta di Baricco di finanziare la tv è la più spinosa da digerire. Emilia De Biase, membro pd della commissione Cultura della Camera: "Il presidente del Consiglio ha lavorato per questo tutta la vita". E il musicista Oscar, Nicola Piovani: "Una sciocchezza così non l’avevo mai sentita. A Roma si dice "Levateje er vino"". Riporta la pace, serafico, Paolo Poli: "Baricco dice quello che vuole e noi continuiamo a lavorare. Ho visto passare tante stagioni, buone e cattive. Spero di resistere anche a questa".
* la Repubblica, 25 febbraio 2009
Pennac, Baricco e la scuola
di Alain Goussot*
Interessante paragonare le recenti riflessioni dello scrittore francese Daniel Pennac (leggi l’intervista di lejdd.fr) con quelle dello scrittore italiano Alessandro Baricco sulla scuola (tra i diversi interventi recenti leggi qui): il primo punta sull’importanza del desiderio di apprendere, anzi sul piacere di apprendere, addirittura consiglia di non fare entrare gli alunni in classe con ipad, cellulare e pc poiché questi mezzi (da non demomizzare) favoriscono la fuga dall’esperienza relazionale che costituisce il fondamento dell’esperienza educativa, invece Baricco propone quasi il contrario con una scuola che dovrebbe rinnovarsi partendo dal digitale. Pennac si preoccupa della formazione come cittadino consapevole e autonomo, dell’apprendimento possibilità di fare emergere una soggettività critica per combattere la trasformazione dell’alunno in consumatore asservito ad un sistema alienante che uccide ogni capacità di essere per davvero libero.
Baricco afferma che digitale e linguaggio scolastico non s’incontrano evitando tuttavia di ragionare, come fa Pennac, sugli effetti del digitale sullo sviluppo psico-emozionale e neuro-cerebrale del bambino. Non si pone minimamente la questione del rapporto da consumatore che ha il bambino con questi oggetti. Pennac, dalla sua esperienza d’insegnante e anche di alunno “difficile” (vedi Chagrin d’école), vede nella relazione l’essenza del processo educativo - in questo la presenza pervasiva dell’oggetto digitale rappresenta un ostacolo che spinga all’autoisolamento e non all’apertura all’altro -, considera anche l’importanza dell’incontro con l’adulto consapevole e attento pedagogicamente.
Questioni che non sembrano preoccupare Baricco che sembra, alla differenza di Pennac, ignorare i lavori dei neuroscienziati come Lamberto Maffei e Nicholas Carr sull’impatto dell’invasione del digitale nella vita dell’infanzia e della pre-dolescenza: impoverimento emotivo e relazionale, restringimento della sfera cerebrale che gestisce le funzioni del linguaggio e del pensiero, quindi di tutta la sfera cognitiva, una perdita progressiva della capacità di fantasticare e, come hanno scritto il filosofo Bernard Stiegler sui fenomeni di “captazione mentale” e il pedagogista Philippe Meirieu sull’emergere di “nuovi poteri ascendenti” quali sono i media informatici, una incapacità di sublimare e una ipertrofia del volere tutto subito senza riuscire a gestire il tempo dell’attesa e quindi a strutturare quel linguaggio intrapsichico che permette di fornire un senso e un significato a quello che si prova nella relazione con l’altro.
Ci sembra che l’approccio di Daniel Pennac sia molto più profondo e attento all’importanza dell’esperienza relazionale come spazio della crescita soggettiva e come base della formazione di un cittadino consapevole, Baricco affronta una questione importante come quella della presenza del digitale senza tuttavia porsi veramente la domanda del come educare all’uso di questa tecnologia e del come la ricerca di senso, rispetto alla condizione umana e alla propria esistenza in un mondo fatto di diseguaglianze, non possa avvenire a scapito del senso di appartenenza al genere umano e quindi dell’importanza di vivere questa dimensione nel rapporto con l’altro e l’esperienza educativa reale e non virtuale.
Per di più mentre Pennac assume esplicitamente una posizione critica verso i progetti neoliberisti di riforma della scuola che emergono in Francia, sembra che quest’aspetto non interessi più di tanto lo scrittore italiano. Sono due modi di concepire la funzione dello scrittore e dell’intellettuale nella società: quella di Pennac che prende posizione sul piano etico-politico e quella di Baricco che rimane nella sua funzione di specialista della letteratura e basta.
Come lo sappiamo sono due visioni che storicamente (come l’ha ben descritta Gramsci nei suoi scritti sugli intellettuali) caratterizzano l’atteggiamento degli intellettuali francesi che intervengono nella sfera pubblica rispetto alla gestione della polis e gli intellettuali italiani che curano la propria estetica senza sporcarsi più di tanto le mani.
* Comune.Info, 6 giugno 2015 (ripresa parziale)
Scuola
Se a scuola non sei Baricco sei out
Videoscuola. Epifenomenologia dei cantori della Videoscuola: Alessandro Baricco e lo "storytelling" di Renzi
di Anna Angelucci (il manifesto, 11.06.2015)
Intellettuale à la page, affabulatore multimediale, variamente scrittore-saggista-critico musicale-conduttore televisivo-pianista-sceneggiatore-regista, proprietario, animatore e docente di una scuola privata per aspiranti neo Salinger 2.0: non mancano le credenziali ad Alessandro Baricco - teorico del barbarico che avanza - per parlare di scuola, insegnanti e disegno di legge del suo amico Matteo Renzi. Dal pulpito radical chic di Repubblica delle Idee 2015, ça va sans dire.
La premessa epistemologica del ragionamento di Baricco è questa: essendo i paradigmi dell’esperienza profondamente mutati - multitasking e surfing i nuovi modelli - i giovani privilegiano gesti e modalità conoscitive in continuo movimento e affastellamento, il cui fine non è una meta da raggiungere, dentro o fuori di noi, ma il movimento stesso.
E la scuola pubblica italiana contemporanea, lungi dall’essere capace di cavalcare in superficie l’onda della barbarica modernità - governandola - si ostina a voler infilare gli studenti nella profondità del lavoro di scavo e della ricerca di senso, poco utile e per nulla dilettevole.
Metaforicamente, ci dice, un crepaccio. Mortifero. Che va evitato percorrendo nuove strade. Più orizzontali che verticali, più accessibili che profonde, più facili, stimolanti, originali, veloci, divertenti che faticose e complesse.
Lo strumento perfetto cui la scuola dovrebbe ispirarsi, suggerisce il professor Baricco, è il videogioco, più utilmente articolato e impegnativo sotto il profilo formativo delle tradizionali operazioni con mele e con pere, come sa per esperienza di padre.
Il modello è quello anglosassone in cui, ci spiega, il docente registra una lezione perfetta, che i ragazzi guardano a casa. L’esempio, aggiungerei per completezza del ragionamento, potrebbe essere quello di Renzi e Orfini inebetiti davanti a un videogame con il pad della playstation in mano, nell’attesa dei risultati delle ultime elezioni regionali.
La scuola ideale, secondo Baricco e i cantori delle magnifiche sorti e progressive del digitale, è quella che elimina l’insegnante e, insieme, altre cose inutili e superate, come la divisione in materie e classi. Baricco è in buona compagnia: anche la senatrice Puglisi, responsabile Istruzione del Pd, dal suo blog invoca il superamento della logica additiva delle discipline al grido di basta lamentismo, e addirittura Luigi Berlinguer, meritocraticamente titolato a discettare vita natural durante di teoria e prassi dell’istruzione in Italia proprio in virtù delle sue leggi, responsabili del declino di scuola e università nell’ultimo quindicennio, ci rimprovera per le nostre lezioni ex cathedra, i programmi, le materie, i percorsi, e finanche, dalle pagine del Corriere, per l’arcaicità della motivazione educativa.
Che dire? Da Gramsci, Calamandrei, don Milani e dall’idea di una scuola in cui proprio attraverso la fatica dell’impegno collettivo e cooperativo si diventa cittadini istruiti, a Baricco, Berlinguer, Puglisi, portatori di un’idea di scuola che promuove - divertendo beninteso - l’autismo.
Gli epifenomeni della società dello spettacolo colpiscono anche qui, a scuola, ultima trincea delle forme di sapere logico-critiche complesse che si stanno perdendo, estrema difesa dall’iperstimolazione sinestetica superficiale digitale assurta a totem dei nostri tempi, che aggrega informazione e nega la conoscenza, la profondità, l’empatia, la compassione, la contemplazione, il tempo.
Se fai una lezione in corpore vili ma non proponi un ‘evento’ sei out. Se parli e leggi un libro ma non sfoderi un tablet o un iPad sei out. Se guardi negli occhi e ascolti i tuoi studenti ma non sei connesso sei out. Se stai in classe ma non sei sui social sei out. Perché, come ci spiegano gli epifenomeni, se hai gli attributi ma non hai l’accessorio sei out.
Che fastidio il teatro? Ma mi faccia il piacere!
Chi detesta jazz e opera sarà presto accontentato dal governo
di Nicola Piovani (l’Unità, 02.03.2009)
Gli intellettuali italiani non amano il Teatro, non è una novità. Questa considerazione antica è sempre più attuale. Le ultime polemiche sui fondi alla cultura hanno ancora una volta evidenziato questa nostra bella lacuna: la cultura italiana, a differenza di quella anglosassone, ma anche francese, tedesca, statunitense, considera il Teatro non lo spazio principe e imprescindibile di ogni civiltà nazionale, ma una specie di soffitta dove relegare i nostalgici amanti della prosa: un pubblico anzianotto e impellicciato che va a sbadigliare davanti all’ennesimo Tartufo o Zio Vania o Enrico terzo, quarto, quinto che sia.
Solo nostalgici?
In certi ambiti dichiarare «Io a teatro non ci vado mai» è un vanto anziché una confessione, è una frase che suona bene; mentre magari dire «Io non leggo mai libri» suona male, come «Non sento mai concerti classici», «Mi annoio davanti a Caravaggio», «Mai visto Kaurismaki».
Leggendo quello che gira in questi giorni, avverto l’espandersi di questo fastidio diffuso dei pensatori italiani verso il lavoro e la ritualità teatrale. E penso che sia proprio questa la causa dei tanti equivoci che girano in questi giorni sul tema delle sovvenzioni alla cultura. Lo schema del ritornello è più o meno sempre lo stesso, Brunetta o Baricco che sia: «I teatri stabili non funzionano, quindi chiudiamoli». «Gli enti lirici sperperano, quindi chiudiamoli». «Il paziente ha la febbre quindi sopprimiamolo» anziché cercare dei buoni antibiotici. E per spararla più grossa si dice anche: «Siccome i teatri funzionano male, spostiamo quei fondi dedicati allo spettacolo sulla televisione pubblica», che come tutti sanno funziona benissimo culturalmente, senza sprechi e disfunzioni.
Alla Totò
Certo, ha ragione Lucarelli a dire che il tema è serio e merita un dibattito approfondito - che peraltro non è del tutto mancato -, ma ci perdonerà se ogni tanto, di fronte a certe enormità ci scappa una risposta leggera, alla Totò, un sorridente «ma mi faccia il piacere!» Chi ha girato il territorio italiano sa quanta vitalità civile, sociale e perciò culturale si sviluppi attorno agli spettacoli dal vivo, alle attività delle piccole compagnie locali, agli eventi di prosa e di musica. Tante persone entusiaste, dal Veneto alla Sicilia, escono di casa la sera, affrontano anche disagi, spese, freddo, per ritrovarsi in una sala a condividere uno Zio Vania, un Paolo Rossi, una Bohème o anche un Paese dei Campanelli...
Se questa vitalità collettiva vogliamo spegnerla e rimandare questi uomini di buona volontà tutti a casa a vedere la televisione, si fa presto: basta tagliare quel po’ di fondi che ancora l’Italia dedica allo spettacolo dal vivo. Ricordo che sono somme incresciosamente piccole rispetto agli investimenti degli altri paesi europei (le cifre, per chi non le sapesse, sono ufficiali e facilmente consultabili).
La prospettiva
Comunque, quelli che la pensano così, quelli che detestano e vogliono veder scomparire i teatri d’opera o di prosa, i concerti classici o jazz, i musical e i cabaret, possono stare tranquilli: a breve saranno accontentati dal nostro governo.
PRO-POSTA....
DOPO BONOLIS, alias PAOLO BERLUSCOLIS, ALLA DIREZIONE DEL PROSSIMO FESTIVAL DI SANREMO - BARICCO!!!
John Vepp
Una risposta alla provocazione di Baricco: lo Stato non può imporre una propria linea. ma non può neanche essere privo di un pensiero
L’Ulisse di Dante
e i soldi alla cultura
di EUGENIO SCALFARI *
Come sempre sa fare quando prende in mano la penna e si inoltra in un discorso pubblico Alessandro Baricco comincia da lontano, usa la logica, ragiona sulle premesse pianamente, non è mai provocatorio ma didascalico. Pone questioni, sollecita risposte che sono già contenute nelle domande.
A che cosa serve la cultura? E spiega: serve a migliorare l’anima delle persone, a farle riflettere, a renderle più tolleranti verso i diversi da sé, quindi a scoprire il valore della democrazia e della solidarietà, a ricacciare indietro le pulsioni della violenza. Perciò la democrazia, cioè lo Stato democratico, ha un interesse primario a promuovere la cultura, ad allargarne le radici e le fronde.
E poiché il nostro mondo è in preda a un rigurgito di violenza e d’intolleranza, lo Stato democratico è chiamato a intraprendere una necessaria alfabetizzazione incoraggiando la nascita di quella che lui chiama una "intelligenza di massa".
Chi non è d’accordo con questo "incipit"? Io lo sono completamente.
Ma qui terminano le premesse e qui comincia la sua provocazione: per realizzare in un tempo ragionevole i due obiettivi dell’intelligenza di massa e dell’alfabetizzazione occorre concentrare le scarse risorse disponibili sulla scuola e sulla televisione. E qui il mio accordo con lui comincia a vacillare.
La scuola è un grande servizio pubblico cui lo Stato deve provvedere prioritariamente con il proprio bilancio e la scuola privata con risorse proprie nell’ambito di standard di qualità che includono il principio della libertà d’insegnamento. Gli stanziamenti di denaro pubblico destinati alla cultura non riguardano la scuola come non riguardano la giustizia, l’ordine pubblico, la difesa del territorio nazionale, i grandi servizi definiti "indivisibili". A essi si provvede con le imposte che prelevano una quota del reddito dei contribuenti accertato con i vari strumenti a disposizione dell’amministrazione.
Quanto alla televisione, quella di proprietà di gruppi privati si configura come un’impresa con i relativi rischi. Quella di proprietà pubblica viene finanziata con un canone proprio per promuovere gli aspetti culturali a fianco di quelli dell’intrattenimento cui è destinata la pubblicità commerciale. Forse sarebbe opportuno riservare il canone a una sola rete della Tv pubblica, privatizzando le altre o affrancandole dagli obblighi che il pubblico servizio comporta, ma una discussione in proposta esula dall’oggetto di questo articolo e quindi l’accantono.
Incoraggiare gli aspetti culturali dei programmi delle Tv private non mi sembra un’idea praticabile. L’imprenditore televisivo ha un suo interesse ad accreditare le proprie emittenti anche dando spazio alla cultura. Poiché si tratta di imprese di lucro solo all’imprenditore spetta decidere la combinazione ottimale dei vari fattori produttivi. Allo Stato spetta soltanto di fissare regole standard per chi utilizza un bene pubblico come l’etere. Altro non deve e non può fare.
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Poiché le risorse da destinare alla cultura sono scarse - prosegue Baricco - si tratta di formulare una scala di priorità. Chi la deve formulare? Baricco esprime a questo punto una sua personale classifica di priorità avvertendo però correttamente che si tratta di scelte soggettive che hanno semplicemente un valore esemplificativo.
Vediamola comunque questa classifica. Via il teatro di prosa il cui pubblico è limitato a una élite di anziani che prediligono repertori ripetitivi e non più formativi, disertati dai giovani. E via, per le stesse considerazioni, i teatri di opera lirica e di musica concertistica. Via soprattutto le esecuzioni di musica contemporanea, incomprensibili poiché non c’è nulla da comprendere. Se lo scopo è la formazione dell’intelligenza di massa è chiaro che essa non può nascere nei teatri di prosa, di opera lirica e di concerti, inevitabilmente finanziati da denaro pubblico. Bisogna dunque abolire quei finanziamenti consentendo ai privati di sperimentare a proprio rischio forme di impresa culturale che si sostengano da sole con un mix di capitali privati e di sostegno pubblico concesso a chiunque intraprenda progetti culturali.
Portare il melodramma romantico in teatro, magari miscelandolo con l’operetta di Lehar e di Strauss? Mandare in scena un "musical" tratto dall’Inferno dantesco liberamente rimaneggiato? Usare la Bibbia come canovaccio cinematografico facendo intervenire un Gianni Letta accanto ad Abramo e un Andreotti alla guida di un’arca al posto di Noè? Infine raccontare un Giudizio Universale al modo del Benigni del 1998 e farne un "kolossal" hollywoodiano mettendoci dentro anche Maometto e le Vergini promesse dal Corano ai difensori di Allah?
Lo Stato democratico, ci ricorda opportunamente Baricco, non può avere un contenuto etico senza snaturarsi. Quindi non può scegliere tra questi diversi progetti quello che gli piace e quello che gli dispiace. Li deve accettare tutti destinando a tutti il suo aiuto in termini di esenzioni fiscali, facilitazioni immobiliari, libera circolazione nelle sale, accesso alle Tv pubbliche e private.
Il mercato guida e intraprende, il denaro pubblico aiuti tutti senza alcuna discriminazione nei limiti delle risorse disponibili. Questo è il nocciolo della provocazione baricchiana. E poi vinca il migliore, la cultura vincerà con lui, l’intelligenza di massa e l’alfabetizzazione culturale faranno decisivi passi avanti. Perfino il Fedone, con opportune contaminazioni, può esser arrangiato come un "reality" con Socrate e Alcibiade in funzione di "Grandi Fratelli".
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Chi storce il naso di fronte a un sì fatto progetto è a mio avviso un cretino. Chi l’accetta scambiandolo per un’entusiasmante trovata è un poveretto. Forse piacerebbe al ministro Bondi che sta facendo scempio dei Beni culturali, ma questa, caro Alessandro, sarebbe una pessima adesione e sono sicuro che ne convieni. Dal canto mio permettimi qualche osservazione.
1. Non è esatto pensare che i veri acculturati conquistino la tolleranza e l’amore per la democrazia. I capi delle SS, lo Stato maggiore della Wehrmacht e perfino i dirigenti della Gestapo si commuovevano ascoltando la Settima, la Nona e persino i Quartetti di Beethoven, adoravano Mozart e Haydn, assistevano con raccoglimento all’Oro del Reno e al Tristano e Isotta. Poi uscivano da questi bagni dell’anima e andavano a scannare gli ebrei, gli zingari e gli omosessuali. La cultura è uno degli elementi della civilizzazione, ma ce ne vogliono molti altri per umanizzare l’animale uomo.
2. Lo Stato non deve essere etico ma neppure privo di pensiero. Deve tutelare il patrimonio culturale della società che lo esprime. Quindi l’archeologia. La memoria collettiva. I reperti. I repertori. Deve renderli accessibili. Deve favorire la ricerca storica e quella scientifica. Le risorse culturali debbono avere questa oculata destinazione.
3. Alcune istituzioni pubbliche sono necessarie per realizzare questi obiettivi.
4. I privati debbono avere piena libertà di intraprendere facendo della cultura un mezzo per ottenere un lecito profitto. Siano liberi di farlo a proprio rischio così come si costruiscono automobili, reti televisive, telefoni satellitari e mille altre cose e servizi.
Ho fatto, caro Alessandro, un’esperienza personale interessante: ho costruito insieme a molti altri amici e colleghi imprese giornalistiche culturalmente impegnate e fonti di larghi profitti. Tu hai vissuto in campi diversi dai miei analoghe e positive esperienze. Dunque si può fare. Lo Stato faccia ciò che deve, i privati facciano ciò che sanno e possono. La società usi questi servizi e si autoeduchi uscendo dall’atonia, dal culto delle icone, dalla condizione di folla "che nome non ha".
Noi possiamo soltanto ripetere l’incitamento dell’Ulisse dantesco ai suoi compagni: "Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza". Altro non possiamo fare, ma questo sì, possiamo e dobbiamo.
* la Repubblica, 27 febbraio 2009