Una riunione di grandi intellettuali (uomini e donne) delle Accademie e delle Università della Penisola ha deciso all’unanimità di approvare il nuovo inno "nazionale": "Forza Italia"!!!
Alla fine, però, il Presidente della riunione, entusiasta ma non del tutto soddisfatto, ha detto: «Di più, molto di più». E ha proposto la sostituzione, nella "Nona" di Beethoven, dell’inno "nazionale" al posto del vecchio "Inno alla gioia".
Un applauso che non finiva mai ha accolto le parole del Presidente!!!
Una Commissione di grandi Direttori e di grandi Musicisti si è formata all’istante e si è messa subito al lavoro, per portare avanti la gloriosa impresa e dar vita così a un grande Con-certo "nazionale" e "ropeuo" (ah, dimenticavo: è stato deciso anche di togliere "eu", dinanzi al nome "Eu-ropa", per scaramanzia - perché significa che porta solo "bene" per tutti e per tutte, ma ovviamente "noi" lo vogliamo solo per il "nostro Grande Bene-Fattore")!!!
M. Saluti
"FORZA ITALIA"!!!
Prof. Pasquale Zamputo Aristogitone
CAMPANIA EX-FELIX
EX-ITALIA
P.S.
IL CALENDARIO SCOLASTICO DEL PROSSIMO ANNO.
***
Per chi ha ancora ed eventualmente residui di febbre nostalgica, un consiglio terapeutico.
Nel sito, si cfr.:
PASQUALE!!!
CHISSA’ QUESTO STUPIDO DOVE VUOLE ARRIVARE!!!
La bustina di minerva
Il Cavaliere, il mugnaio, l’Italia
"C’è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia. Ora possiamo dire, con orgoglio, che c’è un giudice anche a Roma di Umberto Eco * ’Ci deve pur essere un giudice a Berlino’ è espressione che, anche quando se ne ignora l’origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l’aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all’inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Non potendo girare per tutte le città tedesche a cercare soddisfazione, Berlusconi se n’era tornato a casa coi pifferi di Hamelin nel sacco, ma aveva continuato a ignorare che, senza fare dispendiosi viaggi all’estero, si sarebbero potuti trovare giudici corretti (e non corruttibili) anche a Roma.
Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l’aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo.
Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino.
Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all’inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell’imparzialità della giustizia.
Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un’area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Ma, lavorando solo su elementi di diritto e giurisprudenza, indipendentemente dai loro desideri o passioni, e ignorando ogni pressione politica, i giudici hanno scelto di attenersi alla legge, riconoscendo che la sentenza della corte d’appello di Milano non poteva essere annullata (e i particolari sulla durata dell’interdizione erano solo un contentino). Il mugnaio avrebbe detto "Ci sono dunque ancora dei giudici a Berlino". E che ci siano anche a Roma dovrebbe accenderci d’orgoglio. Eppure la cosa ci sconvolge a tal punto che parliamo di tutto meno che di questo. Tra i tanti sciacallaggi politici non riusciamo ad accettare l’idea che al mondo ci siano ancora delle persone per bene.
* Fonte: L’Espresso, 12 agosto 2013
Sul "caso del mugnaio Arnold",, si cfr. anche: Alessandro Barbero, Federico il Grande, Sellerio, Palermo 2007, pp. 119-121.
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo (Il Fatto, 25.02.2018)
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. -Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza.
Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa.
Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci.
Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool).
Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito.
Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto.
Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire.
Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
"FORZA ITALIA": LA LUNGA E ’BRILLANTE’ CAMPAGNA DI GUERRA DI SILVIO BERLUSCONI CONTRO L’ITALIA ....
CONFLITTO D’INTERESSI E BARRIERE DI PROTEZIONE. Walter Veltroni annuncia una sua proposta di legge, Furio Colombo ha già depositato alla Camera la sua del 1996 e del 2006
MUSICA, STORIA, E SOCIETA’: IL CANTO DEGLI ITALIANI. Goffredo Mameli, Giuseppe Verdi, il Risorgimento, la tradizione ebraica, il fascismo, e la Repubblica....
“Fratelli d’Italia” diventa ufficialmente inno nazionale
Scelto nel 1946 con un provvedimento provvisorio, nessuna legge lo aveva reso definitivo
Dopo 71 anni di provvisorietà l’Inno di Mameli, o meglio «Il canto degli Italiani», diventa ufficialmente l’Inno della Repubblica Italiana. Dopo svariati tentativi nelle precedenti legislature, il Senato ha approvato definitivamente la legge che rende ufficiale quell’inno che il Consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946 adottò provvisoriamente.
«Su proposta del Ministro della Guerra - si legge nel verbale di quel lontano Consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi - si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli». Nulla di più definitivo del provvisorio, come spesso accade in Italia, anche perché l’Inno di Mameli entra a tutti gli effetti nell’immaginario collettivo, grazie soprattutto alla nazionale Italiana di Calcio e ai successi che un tempo elargiva. Poi nella legislatura 2001-2005 ecco sia una proposta di legge ordinaria che una costituzionale, che però non vengono approvate. Lo stesso avvenne nelle due successive legislature (2006-2008 e 2008-2013). Curiosamente però una legge del 2012, nata per promuovere il senso di cittadinanza tra gli studenti, prevede che l’Inno di Mameli venga insegnato nelle scuole.
Anche l’attuale legislatura sembrava destinata allo stesso esito e invece la Commissione Affari costituzionali della Camera in poche settimane ha approvato in sede deliberante la legge attesa da anni (di iniziativa di alcuni deputati del Pd), imitata dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, che in due settimane ha dato il sì definitivo. «Abbiamo l’Inno» ha commentato Salvatore Torrisi, presidente della Commissione.
«La Repubblica - afferma la nuova legge - riconosce il testo del `Canto degli italiani’ di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale». Ciò significa che tutte e sei le strofe del testo di Mameli costituiscono l’Inno e non solo le prime due, che tutti conoscono per motivi calcistici. E appare quasi una beffa del destino il fatto che i tifosi non possano cantare l’Inno ai mondiali di calcio per la prima volta dopo 60 anni, proprio dopo la storica approvazione della legge attesa da 71 anni.
Comunque Mameli ha avuta vita difficile anche per la concorrenza di «Va pensiero» il coro dal Nabucco di Giuseppe Verdi, che in passato la Lega propose come Inno alternativo, anche perché esso non parla di Roma, come invece fa «Fratelli d’Italia». E proprio la Lega è stata assente sia al momento dell’approvazione della legge alla Camera che oggi al Senato, anche se Roberto Calderoli assicura che non sia una scelta politica, ma una semplice coincidenza di impegni dei senatori in più Commissioni.
* Fonte: La Stampa, 15/11/2017 (ripresa parziale - senza immagine).
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO , SI CFR.:
VIVA VERDI, VIVA PUCCINI: NESSUN DORMA!!!.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
Federico La Sala
Conversioni - Il fondatore di “Repubblica” va in tv e si rimangia 20 anni di “guerra al puzzone”: “Preferisco lui a Di Maio”. È la scelta dell’establishment per il 2018
Ora Scalfari vota Berlusconi: “Populista sì, ma di sostanza”
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 23.11.2017)
Nelle ore in cui si scaldano le rotative che sforneranno la nuova Repubblica, interamente scritta col carattere tipografico sobriamente ribattezzato “Eugenio”, Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e autorità morale, è a La7, ospite di Giovanni Floris.
Esordisce dicendo che se il Pd “sta esaurendo il suo ruolo”, nondimeno Renzi è il suo “nipotino” e non si sente “il nonno di nessun altro”. La frecciata è per quelli di Mdp (in particolare per Bersani che, macchiandosi d’ignominia, “fece la corte ai 5Stelle”), colpevoli di aver abbandonato il tontolone neoliberista al suo destino invece di farsi carico della sua prossima, ennesima sconfitta.
I diseredati per Scalfari prenderanno tra l’8 e il 10%, che “è niente” rispetto a quanto prenderà Renzi, peraltro alleandosi con tutte le frattaglie della Repubblica. “Io sono perché si rinnovi il Pd”, dice Scalfari ieraticamente: in questo senso gli pare “notevole il colloquio che Renzi ha avuto con Macron”, due “pilastri dell’europeismo” (Scalfari pensa che Renzi sia Bismarck, ogni tanto lo critica e lo indirizza ma come Machiavelli farebbe col Valentino). Il Fondatore sa bene che Renzi è europeista solo quando gli fa comodo, che in lui convivono lo statista kitsch della portaerei al largo di Ventotene e il bamboccione capriccioso delle bandiere europee tolte dal set di Palazzo Chigi per fare una delle sue gradassate; ciò nondimeno, del figaccio in Scervino apprezza il cinismo, e la tempra per fondare l’unica cosa che per Scalfari conta più della democrazia: l’oligarchia.
A questo punto viene fatto entrare Bruno Vespa, che come tutti sanno è venuto a promuovere il nuovo libro che ancora deve uscire ma è già in classifica (è come la Apple, ogni anno sforna un aggiornamento): si intitola Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo; titolo che farebbe sorridere se non venisse dallo stesso autore di Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi (come se uno storico del cinema scrivesse Latin lover. Da Rodolfo Valentino a Er Mutanda).
La serata prosegue con geriatrica lentezza, rassicurante come un documentario di Geo & Geo: l’incontro con B. “quando lui non si occupava di politica ma di televisioni” (“era una delizia”), il giardino con le tombe, il materasso a cuore... Ma l’aneddotica sui mausolei e i bordelli di B. (che peraltro dopo la sfilata delle ragazze a Un giorno in pretura non può più emozionarci) è destinata a interrompersi. La bomba è grossa e Floris sa come innescarla: accertato il decesso del Pd, “tra B. e Di Maio, chi sceglierebbe?”. Scalfari incide su pietra: “Sono tutti populisti tranne il Pd, però il populismo di B. ha una sua sostanza”. Basti pensare alle dentiere e alle am-lire. Soprattutto, “B. è europeista, non sfegatato; mentre Salvini no” (riecco B. argine contro i populisti), ergo “in caso di estrema necessità può allearsi col Pd”, senza Salvini. Senza dimenticare che B. “è un attore-autore, sceglie il tema e lo interpreta, recita il suo testo”. E quindi? Qui Scalfari confessa: “Sceglierei B.”
Ma come? E i 20 anni di antiberlusconismo di Repubblica? E la distanza antropologica? E le 10 domande? E le Se non ora quando?
A noi disillusi, la confessione di Scalfari pare coerente. Logicamente: se non può vincere Renzi, che ha distrutto il Pd e in tre anni di governo ha attuato un programma neoliberista di destra, perché non votare B., che può allearsi con Renzi facendo argine contro gli odiati populisti?
Storicamente: fu lo stesso Scalfari, in occasione degli 80 anni di Berlusconi, a rivelare un retroscena “divertente” della “guerra di Segrate” tra il gruppo Espresso di De Benedetti e il magnate della Tv. Il quale, sconfitto, si rifiutò di pagare le spese legali (si sa come sono fatti questi ricchi quando c’è da pagare). Scalfari: “Dopo molti suoi rifiuti riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti”.
Non stupisce che oggi Scalfari difenda l’establishment, rassicurato solo da un’alleanza tra i due migliori, si fa per dire, lazzaroni su piazza. E tutto nel giorno del varo del nuovo font Eugenio! (che a questo punto poteva pure chiamarsi Silvio).
Prefazione a “Italieni” di Paolo Vincenti
di Massimo Melillo (Iuncturae, 18.07.2017) *
E’ un genere letterario antichissimo quello della satira e non staremo qui a raccontarne la storia perché sarebbe un esercizio troppo lungo, che rischierebbe di annoiare i lettori. Ma alcuni punti fermi, però, vanno stabiliti scrivendo subito che, come il cinico greco Menippo di Gadara, Paolo Vincenti, con questo suo “Italieni”, intinge ben volentieri la propria penna nel veleno. Nella letteratura latina, ad esempio, la satira annoverava esponenti come Lucilio, Persio, Orazio, Petronio, Giovenale, Marziale, ed aveva sempre un’intonazione moraleggiante, nel senso che la sua missione era quella di colpire la corruzione e i potenti, prendere di petto politici, ruffiani, debosciati, ipocriti e profittatori e di correggere costumi e pregiudizi. Passano i secoli ma la lezione della satira rimane la stessa e, sconfinando spesso nella comicità con battute, arguzie, mirate invettive, il suo compito resta quello della riflessione e del divertimento colto.
Certo la satira di Vincenti non proviene in maniera diretta dalla letteratura latina ma dall’evoluzione - in senso caustico, giullaresco, picaresco - che essa ha avuto nei secoli successivi, in particolare a partire dal Cinquecento. Forse l’antecedente letterario va proprio ravvisato nelle “pasquinate”, componimenti satirici che nella Roma papalina venivano affissi sulla statua di Pasquino e con i quali si dileggiavano pontefici, regnanti, nobili e gente in vista. Vincenti, infatti, utilizza un linguaggio colorito, vario per intonazione e stile, non disdegna la parolaccia, che però non è mai gratuita ma sempre adeguata alla struttura della narrazione.
L’autore si pone come un cronista beffardo e mordace dell’esistente, che smascherando vizi e infingardaggini del nostro panorama nazionale, spinge il lettore a riflettere sulla deriva cui sta andando incontro la nostra società, ad acquisire consapevolezza della criticità dell’attuale situazione italiana, a non dare nulla per scontato, a non cullarsi sull’adagio “mal comune mezzo gaudio”, a non lasciarsi andare al menefreghismo o, peggio ancora, all’indifferenza. Un monito, il suo, affinché le coscienze addormentate escano dal torpore per riprendere in mano non solo la propria esistenza ma sollecitando anche quelle altrui per diventare attori e protagonisti consapevoli di un cambiamento possibile e non più procrastinabile.
Vincenti, ad esempio, è abbastanza lontano da un certo populismo, che oggi impera sulla scena politica italiana e molto spesso del popolo ha addirittura un concetto tutt’altro che conciliante, disprezzandolo quando diventa furbo e servile, pronto a seguire le mode, ad accodarsi, ad abbassare la testa, ad affidarsi ciecamente all’uomo della provvidenza e ai taumaturghi di turno, che ancora oggi, purtroppo, abbondano.
Prendendo spunto da argomenti seri e a volte tragici, la satira esercita la propria corrosiva provocazione, portando sovente all’indignazione e quasi sempre a far meditare il lettore. Argomenti della politica, del costume e della cronaca, che altrimenti passerebbero inosservati, diventano dunque anche per i più distratti motivo di più approfondita osservazione e spunto di riflessione. Stesso ragionamento vale per le vignette, che nel libro sono firmate dal bravissimo Paolo Piccione, e per la stessa satira televisiva. Indipendentemente dallo strumento utilizzato, la satira, se è graffiante, acuta, intelligente, è una altissima forma di arte capace di curare l’anima con il balsamo dell’umorismo: una formula che ben conosce il mio amico Antonio Mele in arte Melanton (sue le vignette del precedente libro di Paolo Vincenti “L’osceno del villaggio”), che ha spesso sottotitolato le sue mostre con “Sorrido ergo sum”.
Capita che Vincenti, nel presentare il proprio lavoro, premetta, quasi a volersi giustificare, che il libro “è abbastanza cattivo”. Non so se lo faccia per una malcelata modestia o come excusatio non petita, sta di fatto che la sua premessa è del tutto inutile: la satira è ontologicamente cattiva. La satira colpisce tutti, sferza, fustiga i costumi, mette alla berlina malvezzi e cattive abitudini. Può essere fatta bene o male, può andare a segno oppure no, schiaffeggiare o solo accarezzare, ma la sua ragion d’essere è sempre la stessa. -Pensiamo alla rivista socialista L’asino, fondata nel 1892 da Guido Podrecca insieme a quello che si può considerare forse il più grande umorista di tutti i tempi, Gabriele Galantara, al quale oggi è intitolato un Centro studi nel Comune marchigiano di Montelupone, che gli ha dato i natali. L’asino, più volte censurato, fu chiuso dal fascismo dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti e lo stesso Galantara venne perseguitato e incarcerato.
Tra i tanti periodici di satira, redatti nel corso del tempo da prestigiosi giornalisti, vanno ricordarti tra gli altri anche Il becco giallo, Marc’Aurelio, Il Travaso delle idee, Il Bertoldo, Don Basilio, Candido, Il selvaggio e, per venire ad anni meno lontani, il Satyricon del quotidiano “la Repubblica”, Tango del giornale comunista “l’Unità” e Il Male. E proprio in queste testate, che vendevano centinaia di migliaia di copie, hanno lavorato grandi firme del giornalismo tra cui Indro Montanelli, Leo Longanesi, Giovanni Mosca, Mino Maccari, Giovannino Guareschi, Arrigo Benedetti, Sergio Saviane e tanti altri ancora, insieme ad autori e vignettisti che hanno fatto la storia del cinema italiano come Federico Fellini, Ettore Scola, Cesare Zavattini, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli (Age e Scarpelli), Vittorio Metz, Stefano Vanzina (Steno). Una stagione d’oro anche per disegnatori e caricaturisti che, a partire dalle straordinarie vignette di Giuseppe Scalarini, pubblicate nel primo Novecento dal quotidiano socialista Avanti!, sferzavano il potere e il capitalismo tanto che con l’avvento della dittatura fascista di Mussolini lo stesso Scalarini subì il carcere e fu confinato a Ustica e Lampedusa.
Certo, già prima dell’era di Internet, la satira ha pagato pegno e con la capillare diffusione della rete vi è stata una generale commistione di generi e stili. C’è da dire però che, per quanto invasivo e spesso fuorviante possa essere lo strumento informativo tecnologico, la scrittura di Vincenti si presenta originale, ricca e dinamica, utilizza una vasta gamma di sfumature comunicative, passa con disinvoltura dal basso all’alto con moltissime citazioni, a cominciare dai versi dei cantautori italiani che appaiono in esergo ad ogni intervento. Vincenti è stato definito un moderno giullare di corte dove però la corte è il “ villaggio globale”, che richiama il titolo della sua rubrica “L’osceno del villaggio” nella quale pubblica gli articoli raccolti nell’omonimo volume e in questo “Italieni”, due opere che costituiscono di fatto un continuum.
Al giullare tutto era concesso e godeva di una specie di immunità per cui, assumendo la maschera dello scemo, poteva permettersi di dire qualsiasi cosa rivelando le contraddizioni, i capricci, le magagne, gli intrighi, le oscenità che avvenivano nella corte. Era una figura poliedrica con tratti di poeta, attore, cantastorie, affabulatore, animatore di feste e festini, ironico castigatore di costumi. Caratteristiche che Paolo Vincenti possiede e padroneggia, fra ironia e autoironia, e questo libro ne è un caso esemplare.
Nel dimostrare allergia all’ipocrisia e alla falsità, l’autore fa una mirabile carrellata di tipi umani, quelli che lui detesta maggiormente, in “Ad ogni giorno il suo affanno”, che è forse il pezzo più corrosivo del libro, nel quale esercita al meglio la propria “vis polemica”. Sebbene questi siano ritratti universali, quindi non destinati a qualcuno in particolare, le descrizioni posseggono una straordinaria vivezza, e ognuno di noi può incollare ad ogni maschera umana almeno un nome, perché tutti nella nostra vita quotidiana abbiamo a che fare con personaggi che proprio non sopportiamo.
Una lettura, quindi, che invita tutti noi a fare i conti con le nostre debolezze e a sorriderne perché in fondo siamo davvero tutti “italieni”, chi più chi meno. Paolo Vincenti - lo confessa lui stesso - non ama cantare nel coro e questa sua tendenza a contrastare sempre l’opinione dominante e ad andare controcorrente, qualche volta lo spinge a sostenere tesi paradossali, come in “La sindrome di Totti” o in “E’ sempre festa” o in “Vegan party” e a tessere addirittura un antifrastico “Elogio del matrimonio”, pezzo in cui spinge al massimo il gusto per il paradosso e la provocazione. Potremmo definire molti di questi articoli “politicamente scorretti”, se non tenessimo presenti le premesse che abbiamo evidenziato. Vincenti, uomo lontano da qualsiasi parrocchia o confraternita, è contro tutto e tutti puntando il suo “j’accuse” in ogni direzione. E, tuttavia, lo fa senza eccessiva enfasi, senza retorica e senza acrimonia, bensì con il sorriso sulla labbra, ritenendosi un disimpegnato.
Ciò, però, è vero solo in parte poiché se lo fosse del tutto, il totale disimpegno lo condurrebbe inevitabilmente ad un banale e sciocco cinismo fine a se stesso. Invece, la sua disincantata denuncia dei mali della nostra società (dall’incoerenza al conformismo, dal consumismo alla corruzione dilagante, dalla barbarie di certe trasmissioni televisive al culto dell’apparenza) fanno emergere chiaramente la presenza di un nucleo di valori che l’autore cerca invano di celare nel suo proclamato disimpegno. D’altra parte, la satira non sarebbe tale se non nascesse sempre da una reazione di sdegno e di profonda indignazione. Per questo, c’è bisogno di osservatori lucidi e irriverenti che ce lo ricordino.
* Sul tema, cfr. anche M. Gaballo, Prima presentazione di "ITALIENI", il nuovo libro di Paolo Vincenti, Fondazione "Terra d’Otranto", 09.09.2017.
L’odio per Matteo Renzi. In risposta a Massimo Recalcati
di Franco Berardi Bifo (Alfabeta-2, 18 luglio 2017)
Provate a immaginare che qualcuno vi dia un pugno in un occhio e come se non bastasse vi rubi il portafoglio. Provate a immaginare che alle vostre rimostranze costui vi rida in faccia e vi dica che siete dei vecchi scemi, così scemi e così vecchi da credere che ci vuole il gettone per telefonare. Perché odiarmi? dice il rapinatore.
Sulla prima pagina di Repubblica (dove se no?) Massimo Recalcati cerca oggi (17 luglio) di spiegarci perché quelli della sinistra non sanno far altro che odiare il bravo Matteo Renzi. La ragione per cui quelli della sinistra lo odiano è che lui ha mostrato che la sinistra è un cadavere. Ecco allora che quelli della sinistra (chi saranno poi questi della sinistra non s’è capito) si imbufaliscono come certe tribù dell’Africa nera (il paragone è di Recalcati).
Io non so se sono uno della sinistra, non so bene cosa voglia dire, e Recalcati non perde il suo tempo a spiegarmelo. Io preferisco definirmi come un lavoratore truffato dalle politiche del neoliberismo che hanno decurtato il mio salario di insegnante, hanno distrutto la scuola in cui insegnavo e mi hanno costretto ad andare in pensione diversi anni più tardi di quanto prevedeva il mio contratto.
Poi ecco un tipo che mi dice che per telefonare non occorre più il gettone. Sarà per questo che odio Matteo Renzi?
Si tranquillizzi lo psicoanalista Recalcati. Io non perdo il mio tempo a odiare Matteo Renzi, per la semplice ragione che c’è una sproporzione assurda tra il valore dei miei sentimenti (anche il sentimento di odio) e quell’arrogante piccoletto. Se proprio devo odiare qualcuno preferisco rivolgermi a quelli un po’ più grandicelli. Per esempio un tizio che si chiama Tony Blair.
Questo tizio si presentò una ventina di anni fa sulla scena d’Inghilterra, ve lo ricordate? Era brillante, giovane e certamente un po’ più intelligente del suo seguace di Rignano. Parlò di Cool Britannia, e inaugurò il New Labour. Margaret Thatcher, la donna che per prima ha detto che non esiste nulla che possa definirsi società, esistono soltanto individui in competizione per il profitto, disse di Toni Blair che il giovanotto non le dispiaceva perché stava continuando le sue politiche.
In cosa consistono le politiche di Thatcher e del suo allievo Blair? E’ presto detto: ridurre il salario, privatizzare i servizi sociali, sottomettere la scuola agli interessi delle grandi corporation, distruggere le organizzazioni dei lavoratori, prolungare il tempo di lavoro, rinviare i pensionamenti, di conseguenza sprofondare i giovani nella disoccupazione, e costringerli ad accettare lavoro senza garanzie e senza contratto.
Poi viene Recalcati e chiede: ma perché mai dovete odiarlo?
Matteo Renzi si presentò sulla scena dichiarando il suo amore per Blair, e dichiarando che la sua intenzione era ripeterne le imprese, seppure con venti anni di ritardo. Non c’è un solo milligrammo di novità nelle proposte di questo Renzi, la sola cosa nuova è l’arroganza. Tutto quello che lui propone è già stato sperimentato, realizzato, e quel che più conta è già fallito. Il 4 dicembre del 2016 la grande maggioranza dei giovani, non quelli della sinistra, non quelli che quando vogliono telefonare cercano un gettone, non quelli con la sveglia al collo che odiano perché sono dei cadaveri, ma la maggioranza dei giovani gli ha detto: vai a casa, non ti vogliamo più vedere.
In Inghilterra il signor Blair è oggi considerato un criminale di guerra. E’ lui che ha aiutato un texano non molto brillante a scatenare una guerra infinita tra le cui conseguenze (come sanno tutti) c’è la nascita di Daesh, la distruzione dell’Iraq e della Siria. Questo non impedisce al signor Blair di farsi oggi pagare, (pensionato di lusso) per occuparsi di un ufficio che come oggetto, per estrema ironia, ha proprio il Medio Oriente.
Recalcati mi scuserà se non mi sono soffermato a lungo sul suo beniamino toscano. Le imitazioni tardive non mi interessano molto. Io preferisco odiare l’originale.
Una Risposta a L’odio per Matteo Renzi. In risposta a Massimo Recalcati
RIPRENDERE IL FILO (FREUD) E NON MENARE LACAN PER L’AIA!!! L’eco dell’URLO (Allen Ginsberg) si sente ancora. Il messaggio è: allargate l’area della coscienza....
SCRIVI:
BENE! Ma per non perdere la bussola e cercare di orientarci meglio non solo vale La pena ricordare le tre “B” (insieme a Blair, Bush e Berlusconi) ma anche controllare se in tasca hai ancora la carta d’identità originale o quella alla moda (“post-verità”, “fake news”)!
PER NON PERDERE IL FILO, UNA “VECCHIA” SOLLECITAZIONE. Dalla Cina, la lezione di Huang Jianxiang. A Lui, in omaggio perenne (CFR.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1044).
LEGGI:
PECHINO (Cina), 17 luglio 2006 - Tornato in patria dopo i “vocalizzi” mondiali, non finisce l’attenzione per il telecronista della televisione Nazionale cinese (Cctv) Huang Jianxiang che si era reso protagonista di un commento molto estroso e favorevole all’Italia, al momento del rigore assegnato a Fabio Grosso contro l’Australia, negli ottavi. Adesso gli tocca difendersi dall’eccesso di popolarità che ha trasformato la sua telecronaca addirittura nella suoneria dei telefonini. Cosa che a lui non è piaciuta, al punto da voler fare causa alle società che l’hanno messa in commercio. “Credo ne vada della mia immagine, della mia professionalità, dei miei diritti. Ho sbagliato, ma non vedo come qualcuno possa trarne un vantaggio economico”.
Subito dopo la fine dell’incontro, la polemica aveva assunto toni persino più alti delle sue urla di gioia alla trasformazione. La prima reazione era stata quella ufficiale dell’Australia (il cui premier John Howard proprio il giorno dopo arrivava per una visita alle città di Shenzhen e Canton, ndr) poi erano arrivate le accuse dei telespettatori cinesi, urtati non tanto per il tifo eccessivo, ma per l’utilizzo del termine “Yidali Wan Sui” (Lunga Vita all’Italia) usato rigorosamente solo vicino al nome del presidente Mao, della Repubblica Popolare Cinese e del partito Comunista. Si era parlato persino di un possibile licenziamento. Al suo ritorno in Patria era stato rincuorato dal sapere che non c’è mai stata intenzione di allontanarlo: “Gli sono state chieste delle spiegazioni - ha detto un dirigente di Cctv - e lui si è scusato per essersi fatto trascinare dall’emozione di quella partita.
Ma il suo contratto e la sua posizione all’interno della televisione non è mai stata messa in discussione”. Qualche giorno dopo aver fatto ritorno dalla Germania, Huang ha presentato in una libreria di Pechino, il suo ultimo lavoro editoriale intitolato: Combattere da veri uomini. Potrebbe far pensare ad un’altra apologia del calcio italiano, ma è stato scritto prima dei Mondiali. “Questo libro non c’entra niente, ma questa dei mondiali è stata un’esperienza di vita interessantissima - ha commentato Huang Jianxiang -: ho materiale a sufficenza per scrivere un nuovo libro solo su questo mese in Germania. Ma per ora preferirei non parlarne”.
Ora si concederà un periodo di vacanza, non prima di essersi scusato un’ultima volta con “i colleghi presenti in Germania e quelli in Cina che ci hanno rimesso per colpa mia”. Sarà, ma è probabile che tra qualche settimana, con l’inizio della serie A e delle telecronache notturne in diretta, ci sia qualche telespettatore in più solo per sentire di nuovo la sua voce. ===
CARO BIFO, MA COME RAGIONIAMO, MA DI CHE RAGIONIAMO!? MA COME RAGIONANO GLI ITALIANI E LE ITALIANE?! (E GLI EUROPEI?! E TUTTI E TUTTE QUESTI “TERRONI” E QUESTE “TERRONE” DEL PIANETA TERRA?!).
UNA NOTA:
di Federico La Sala *
Elementare!, Watson: Se, nel tempo della massima diffusione mediatica della propaganda loggika, l’ITALIA è ancora definita una repubblica democratica e “Forza Italia” (NB: ’coincidenza’ e sovrapposizione indebita con il Nome di tutti i cittadini e di tutte le cittadine d’ITALIA) è il nome di un partito della repubblica, e il presidente del partito “Forza Italia” è nello stesso tempo il presidente del consiglio dello Stato chiamato ITALIA (conflitto d’interesse), per FORZA (abuso di potere, logico e politico!) il presidente del partito, il presidente del consiglio, e il presidente dello Stato devono diventare la stessa persona. E’ elementare: queste non sono ’le regole del gioco’ di una sana e viva democrazia, ma di un vero e proprio colpo di Stato! (Shemi EK O’KHOLMES) -
Su quanti continuano a menare “Lacan per l’aia”, e su questi temi, se non l’hai letta,
LEGGI di questa
e alcune note su:
P. S. - PER EVITARE CONFUSIONI, e ben-distinguere, RICORDA CHE NON “La Corazzata Potëmkin”, MA - COME DICE “FANTOCCI”(cfr.: “Il secondo tragico Fantozzi”, film di Luciano Salce, 1976) - “La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”!!!
LUNGA VITA ALL’ITALIA .....
Federico La Sala
STORIA, CINEMA, E LETTERATURA ...
Fantozzi e Kafka. Vittime
di Sergio Benvenuto (DoppioZero, 15.07.2017)
Franz Kakfa era lo scrittore preferito da Paolo Villaggio. Questo non mi sorprende affatto, perché il Fantozzi che Villaggio ha fatto entrare nell’Enciclopedia dei Caratteri - assieme all’ipocrita, al misantropo, al millantatore, al soldato sbruffone, all’avaro, all’ipocondriaco, ecc. della commedia classica - è la versione burlesca, popolaresca, dei maggiori personaggi di Kafka, tutti un po’ fantozziani, anche se in chiave tragicissima. In fondo, anche Kafka spesso muove al riso, solo che la risata ci si congela in bocca, si storce in un ghigno di angoscia. La Repubblica ha riproposto Villaggio con lo slogan “Ci ha fatto piangere dal ridere”, Kafka invece ci fa ridere pur piangendo.
I protagonisti di Kafka sono quasi tutti, in effetti, delle vittime assolute. La più assoluta è forse Gregor Samsa, l’impiegato - guarda caso! - che un bel mattino si ritrova trasformato in scarafaggio, nel racconto La metamorfosi. Non solo Gregor è mutato nell’essere più abietto, ma la famiglia lo colpevolizza per questo, e suo padre finirà per punirlo con la morte. Impiegato vittima è anche Herr K. protagonista di Il processo. Si suol dire che K. subisce un processo e alla fine è condannato a morte per una accusa che non gli viene mai rivelata; ma Kafka non è così lineare. La verità è che a noi lettori l’accusa non è mai palesata, e il testo ci lascia liberi di pensare che invece K. la conosca, oppure no. Impiegato come agrimensore è il protagonista, chiamato K. anche lui, de Il Castello: qui l’eroe non riuscirà mai a entrare in contatto con i funzionari del misterioso Castello che pure lo ha chiamato; egli finirà col restare sempre nel villaggio dominato dal castello, cercando invano di essere accolto dall’invisibile datore di non-lavoro.
Kafka chiama K. molti suoi protagonisti perché era lui stesso un fantozzi. Prima di essere pensionato per la sua tubercolosi, per anni ha lavorato come impiegato all’Agenzia Assicurativa per gli Incidenti sul Lavoro del regno di Boemia. “Lavoro alimentare” da lui disprezzato, ma che pervade il mondo dei suoi eroi.
Come gli impiegati-vittime di Kafka, anche Fantozzi non è cattivo, non farebbe male a una mosca. È servile, pavido, imbranato, ma non cattivo. Ogni tanto ha dei moti alquanto velleitari di rivolta contro i suoi capi, tutti, anche se in modi diversi, sadici. Così il suo famoso urlo “La Corazzata Potëmkin è una boiata pazzesca!” quando un capoufficio cinefilo impone di vedere il film di Ėjzenštejn proprio in coincidenza con la finale del Campionato del mondo di calcio. Ma sono rivolte senza domani, puri scatti “non-costruttivi” che vengono puntualmente puniti.
Si è detto che la saga fantozziana avrebbe tacitamente contestato il primato che per la sinistra hanno avuto sempre la classe operaia e i contadini. Villaggio, focalizzando sulla miseria esistenziale degli impiegati, avrebbe reso comprensibile la famosa marcia dei 40.000 (impiegati) della FIAT a Torino che nel 1980 pose fine, in Italia, a una certa egemonia politica operaia. In realtà il povero impiegato era stato scoperto come eroe letterario già dal Romanticismo. Gli impiegati bacherozzi o condannati alla pena capitale di Kafka sono il culmine di una tradizione letteraria, e poi cinematografica, che ha prodotto grandi capolavori negli ultimi due secoli. È il filone che chiamerei La Tragedia della Mediocrità - il versante opposto della Banalità del Male di Hanna Arendt.
Tra i più eminenti di questo filone è certamente Bartleby lo scrivano, entrato ormai nel Canone occidentale. Fu pubblicato da Hermann Melville nel 1853, si noti, in forma anonima, come se l’autore avesse avuto vergogna di firmarlo. Il giovane Bartleby è assunto a Wall Street da un avvocato, un brav’uomo peraltro, e dapprima si comporta da impiegato modello, da solerte macchina umana. Poi, d’un tratto, quando il capo gli ordina qualcosa, risponderà sempre “I would prefer not to”, “avrei preferenza di no”, come tradotto da Gianni Celati. Questo sciopero cortese è però solo il primo passo verso un processo di catatonia, che porterà Bartleby a non muoversi più dall’ufficio, senza più parlare né mangiare, fino al suo ricovero nel manicomio di New York, e alla sua morte per anoressia.
All’epoca il racconto di Melville fu un flop. Fu solo nel XX secolo, ben dopo la morte di Melville, che questo è diventato uno dei testi fondamentali della letteratura. Ogni anno si pubblicano paper e libri su Bartleby, e tutte le chiavi interpretative che hanno riscosso qualche credito nell’ultimo secolo sono state usate per decriptare questa storia inquietante: marxiste, strutturaliste, anti-strutturaliste, mistico-religiose, psicoanalitiche, storiciste, decostruzioniste... Il racconto di Melville è certamente una coupure perché i personaggi tragici, prima, non erano mai grigi impiegati di concetto, ma figure sempre interessanti, affascinanti: re, regine, avventurieri, puttane, spadaccini, banditi, nobili decaduti o impazziti come Don Chisciotte...
Certo Bartleby fa il contrario di Fantozzi, non si piega, ma ha in comune con il suo discendente questo: entrambi non agiscono, sono come immobilizzati dalla loro condizione subalterna.
Fino agli anni ‘60 per indicare l’impiegato ideal-tipico non si diceva “un fantozzi” ma “un travet”. Da Ignazio Travet, protagonista della commedia piemontese "Le miserie d’Monsù Travet" del 1863, di Vittorio Bersezio, testo che idealmente inaugura l’Italia unita. Travet è un misero impiegato perseguitato dal capoufficio, disprezzato da moglie e figlia, insomma l’antesignano risorgimentale di Fantozzi.
Un’altra vetta è Death of a Salesman, “Morte di un commesso viaggiatore”, di Arthur Miller, del 1949. Il protagonista, un anziano venditore alla fine della carriera, si chiama Willy Loman, ovvero porta lo stigma del proprio essere nel nome stesso - Low-man, uomo basso, uomo mediocre. Anche qui si tratta di una storia tragica. Willy è uno che non vuole accettare l’evidenza di essere stato sempre un poveraccio, peraltro disprezzato dai due figli, che non sono riusciti in nulla. Egli si vanta di essere popolare, di conoscere un sacco di gente, insomma di essere simpatico. Anticipa la massa di persone fiere di avere migliaia di friends su Facebook e di avere centinaia di Like per internet. Anche se un suo amico gli dice più o meno: “A che pro aver cercato sempre di essere uno simpatico? Dovevi fare soldi. Quando hai soldi, diventi subito simpatico.” Loman si uccide contando sul successo di pubblico ai suoi funerali, ai quali invece saranno presenti solo pochi familiari.
Sia il tragico Morte di un commesso viaggiatore che il tragicomico serial di Fantozzi sono apprezzati anche da impiegati e venditori. Mi chiedo: come possono ridere di un loro collega? Certo Villaggio ha l’accortezza di rendere il suo eroe così ridicolo e irrealistico che tutti si diranno “Per fortuna non sarò mai come Fantozzi!”. Nessuno di noi sarà mai come Fantozzi, egli è sempre l’Altro di cui ridiamo. Eppure, il trick di Villaggio è molto sottile. C’è una parte di noi, anche se siamo intellettuali e professori, che sa di essere come Fantozzi. In fondo, tutti noi da qualche parte abbiamo un capo, a qualcosa o a qualcuno ci sottomettiamo. Fantozzi è la caricatura di una mediocrità di cui ciascuno può sospettare che sia la propria, se ci confrontiamo ai grandi in ogni campo. Mostrando in modo tragico o buffo la nostra mediocrità, l’arte ce la riscatta. Mettendola a distanza da noi in un capro espiatorio con la pancia e il berretto, ne diminuisce il peso.
Si potrebbe credere che quando Fantozzi getta l’anatema contro Ėjzenštejn, Villaggio presti al suo personaggio la propria stessa voce, ma non è vero. Villaggio era un intellettuale raffinato, un uomo politicamente a sinistra, insomma, suppongo che apprezzasse La corazzata Potëmkin. Credo che in realtà Villaggio abbia descritto l’embrione psichico di quello che diventerà poi il tipico elettore populista, in particolare di Grillo, ma anche di Bossi e Salvini. La rabbia erratica e impotente di Fantozzi contro “chi comanda” è stata poi intercettata politicamente, e l’apolitico Fantozzi ha trovato finalmente i suoi portavoce politici.
Costoro sono quelli che Peter Sloterdijk (in Ira e tempo) ha chiamato “banche dell’ira”. Il Fantozzi che è in molti di noi è un grumo di ira, che i demagoghi ben sanno gestire. Il populismo in effetti si riduce a questo: “chi sta sotto” è contro “chi sta sopra”. Non i poveri contro i ricchi, ma i Fantozzi contro i dirigenti. L’impiegato “tragico” non è assillato dalla povertà - anche se la sua condizione economica è modesta - ma dalla subalternità, e in effetti il cosiddetto populismo non se la prende con i ricchi. Se la prende con “chi sta sopra”, ovvero con i politici, e in fondo con gli intellettuali, quelli che godono nel vedere film muti. Perché l’impiegato non incontra quasi mai il ricco, non si confronta con lui: ogni giorno si confronta con chi per varie ragioni gli è superiore.
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MEDIOCRITA’, BANALITA’, E TRAGEDIA. LO "STATO" SONNAMBOLICO DELL’ITALIA...
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
ADOLF EICHMANN CHIARISCE COME E’ DIVENUTO “ADOLF EICHMANN”, MA HANNAH ARENDT TESTIMONIA CONTRO SE STESSA E BANALIZZA: “IO PENSO VERAMENTE CHE EICHMANN FOSSE UN PAGLIACCIO”!!!
BERLUSCONI E LA "MEZZA" DIAGNOSI DEL PROF. CANCRINI. Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" - "L’Italia è il mio Partito": "Forza Italia"!!!
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Federico La Sala
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
Il Comma 22 del sistema politico italiano
di Paolo Pombeni (Il Mulino, 06 febbraio 2017)
Vista dall’esterno la attuale situazione politica sembra descrivibile come il famoso Comma 22. Infatti da un lato ci sono quelli che invocano elezioni nel più breve tempo possibile, perché c’è una situazione in cui senza un saldo governo sono scarse le prospettive di avere reazioni efficaci per affrontare i molti problemi che ci affliggono. Dal lato opposto ci sono quelli che ci avvertono che il risultato di un ricorso rapido alle urne sarebbe un parlamento incapace di produrre qualsiasi governo dotato della necessaria saldezza. Il Comma 22 sta, come da tradizione, nel fatto che hanno ragione entrambi.
Come se ne esce? Questa sarebbe la vera domanda da porsi. Al momento si assiste solo a un estenuante gioco di tattica in cui i contendenti fanno più che altro delle «finte», giusto per ingannare gli avversari e per trarre profitto da questo.
Sul fatto che la situazione sia difficile, se non difficilissima, c’è un certo consenso. Del resto basta guardare all’economia, fra disoccupazione, crisi bancarie, conflitto sul bilancio con la Commissione europea. Come se tutto ciò non bastasse, c’è un ricco contorno di preoccupazioni, tanto sul fronte nazionale quanto su quello internazionale. Dunque che serva un governo in grado di farsene carico è pacifico.
L’attuale esecutivo può rispondere a queste sfide? Già qui la risposta si complica: in parte sì, in parte no. Sì, perché non mancano i ministri capaci, perché il presidente del Consiglio è persona equilibrata, perché ci sono in atto interventi che possono andare nella giusta direzione. No, perché non tutti i ministri sono capaci (prezzo pagato al continuismo con il governo Renzi), perché al presidente del Consiglio sembra mancare il guizzo di leadership necessario a dominare una platea indisciplinata, ma soprattutto perché non ha un sostegno convinto da parte di una maggioranza che è più impegnata a farsi una guerra intestina senza quartiere che a dare linfa all’azione riformatrice necessaria (e tacciamo di una opposizione che pensa solo allo sfascio, o a quello sfrontato alla Salvini-Grillo & Co., o a quello soft del tramonto berlusconiano).
Veniamo all’alternativa elettorale. I fari sono puntati su stucchevoli dibattiti circa le tecnicalità che potrebbero produrre una legge elettorale che facesse il miracolo di assestare la distribuzione del consenso. Sono piuttosto rari quelli che ricordano alla pletora dei nostri psefologi, professionisti o dilettanti che siano, che i sistemi elettorali possono organizzare la realtà, ma non sono in grado di crearne una diversa. Il problema infatti è, come si suol dire, nel manico. Infatti il sistema che produce opinione (parlare di cultura politica è eccessivo) è tutto preso nel vortice delle lotte di fazione e delle «narrazioni», o, se volete un termine più à la page, delle «post verità» che queste producono.
Che la diatriba fra renziani e antirenziani sia davvero un dibattito fra destra e sinistra fa sorridere e in ogni caso nessuno dei due campi spiega quale sarebbe il progetto di risoluzione dei nostri problemi che ha in mente. Quelle che sentiamo sono tautologie: noi siamo i buoni e di conseguenza diamo buone ricette che porteranno buoni frutti. Amen.
E che dire dei vari dibattiti dei grillini, dei cosiddetti «sovranisti», e via elencando? Ogni tanto vediamo che esibiscono qualche tecnico che fa calcoli economici. Noi siamo digiuni della materia, ma ci permettiamo di ricordare che non si fanno i calcoli senza l’oste, cioè che sono tutte argomentazioni che non tengono conto del fatto che intorno a noi c’è un mondo complicato che non ci lascerà agire come sarebbe meglio, ma che è molto intenzionato a farcela pagare (e qualche indizio ci sembra di coglierlo).
In queste condizioni il ricorso alle urne è ovviamente rischioso perché abbiamo davanti due scenari. Il primo è che continui il trend per cui il Paese si dividerà dietro tutte le varie narrazioni e post verità che gli stanno propinando, dando vita a un sistema corporativizzato e feudalizzato in perenne, endemico conflitto, dove decidere diventerà molto difficile se non impossibile. Il secondo è che i cittadini, stanchi o inorriditi da questa prospettiva, scelgano di mettersi nelle mani di qualcuno che abbia il potere per creare un unico punto di riferimento. È possibile. E in genere non viene scelto il migliore e il più saggio.
Per assurdo che possa sembrare, l’unica via d’uscita razionale, per quanto estremamente difficile sarebbe poter contare su un responsabile movimento di rigetto dell’universo di faide tra tribù politiche e populismi d’accatto che sembra in procinto, quello sì, di stabilizzarsi. Non si tratta astrattamente di contrapporre società civile e società politica, perché posta così la questione è evanescente. Si tratta di operare perché i ceti dirigenti di questo Paese riprendano in mano la formazione della coscienza collettiva costringendo la componente politica che hanno dentro a uscire dall’autoreferenzialità dei propri scontri e a produrre nuovi quadri capaci di mettersi su questa lunghezza d’onda (chi non è capace di farlo merita di essere rottamato).
Se non ci si riuscirà, non facciamoci illusioni: torneremo ad essere, come all’inizio del XVI secolo, il Paese che ha tante cose belle, ma che cadrà preda del mondo che ci circonda, con buona pace di tutti, dei sovranisti e di quelli che sono rimasti alla sinistra luddista.
Dal "Diario" di Elsa Morante*
Roma 1° maggio 1945
Mussolini e la sua amante Clara Petacci sono stati fucilati insieme, dai partigiani del Nord Italia. Non si hanno sulla loro morte e sulle circostanze antecedenti dei particolari di cui si possa essere sicuri. Così pure non si conoscono con precisione le colpe, violenze e delitti di cui Mussolini può essere ritenuto responsabile diretto o indiretto nell’alta Italia come capo della sua Repubblica di Sociale. Per queste ragioni è difficile dare un giudizio imparziale su quest’ultimo evento con cui la vita del Duce ha fine.
Alcuni punti però sono sicuri e cioè: durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbe meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). Fra tali delitti ricordiamo, per esempio: la soppressione della libertà, della giustizia e dei diritti costituzionali del popolo (1925), la uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni, società cui l’Italia era legata da patti (1935), la privazione dei diritti civili degli Ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno (1938).
Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi. Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti. Se poi li favorisce e applaude, peggio che complice, si fa mandante di questi delitti. Perché il popolo tollerò favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo.
Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti di questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel miglior dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani). Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosìffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto.
Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine. In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano.
Debole in fondo, ma ammiratore della forza, e deciso ad apparire forte contro la sua natura. Venale, corruttibile. Adulatore. Cattolico senza credere in Dio. Corruttore. Presuntuoso: Vanitoso. Bonario. Sensualità facile, e regolare. Buon padre di famiglia, ma con amanti. Scettico e sentimentale. Violento a parole, rifugge dalla ferocia e dalla violenza, alla quale preferisce il compromesso, la corruzione e il ricatto. Facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità, se fa della beneficenza è per questo motivo, oltre che per vanità e per misurare il proprio potere. Si proclama popolano, per adulare la maggioranza, ma è snob e rispetta il denaro. Disprezza sufficientemente gli uomini, ma la loro ammirazione lo sollecita.
Come la cocotte che si vende al vecchio e ne parla male con l’amante più valido, così Mussolini predica contro i borghesi; accarezzando impudicamente le masse. Come la cocotte crede di essere amata dal bel giovane, ma è soltanto sfruttata da lui che la abbandonerà quando non potrà più servirsene, così Mussolini con le masse. Lo abbaglia il prestigio di certe parole: Storia, Chiesa, Famiglia, Popolo, Patria, ecc., ma ignora la sostanza delle cose; pur ignorandole le disprezza o non cura, in fondo, per egoismo e grossolanità. Superficiale. Dà più valore alla mimica dei sentimenti , anche se falsa, che ai sentimenti stessi. Mimo abile, e tale da far effetto su un pubblico volgare.
Gli si confà la letteratura amena (tipo ungherese), e la musica patetica (tipo Puccini). Della poesia non gli importa nulla, ma si commuove a quella mediocre (Ada Negri) e bramerebbe forte che un poeta lo adulasse. Al tempo delle aristocrazie sarebbe stato forse un Mecenate, per vanità; ma in tempi di masse, preferisce essere un demagogo. Non capisce nulla di arte, ma, alla guisa di certa gente del popolo, e incolta, ne subisce un poco il mito, e cerca di corrompere gli artisti. Si serve anche di coloro che disprezza. Disprezzando (e talvolta temendo) gli onesti, i sinceri, gli intelligenti poiché costoro non gli servono a nulla, li deride, li mette al bando.
Si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, e quando essi lo portano alla rovina o lo tradiscono (com’è nella loro natura), si proclama tradito, e innocente, e nel dir ciò è in buona fede, almeno in parte; giacché, come ogni abile mimo, non ha un carattere ben definito, e s’immagina di essere il personaggio che vuole rappresentare.
* Cfr.: Elsa Morante, Opere, Mondadori (Meridiani), Milano 1988, vol. I, pp. L-LII.
L’ETERNO SHOW DEL CANDIDATO SILVIO
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 04.02.2013)
Nel Paese dei Balocchi, che di norma va alle urne insieme al limitrofo Paese di Acchiappacitrulli, nell’arco di vent’anni e di 14 campagne elettorali, l’infinita replica della promessa berlusconiana ha fatto in tempo a sedimentarsi con una sua in-confondibile espressività.
Per cui anche stavolta la voce è solenne, lo sguardo è fiammeggiante, ma il braccio non è più teso, e il Cavaliere non garantisce più il suo impegno puntando il dito indice verso le telecamere, bastone del comando, bacchetta magica, radar, antenna e connettore di consenso a buon mercato. Forse non ci crede più neanche lui.
Oggi il rimborso dell’Imu, e vabbè. Ma già prima delle elezioni del 2006, impostatosi con le consuete movenze, aveva assicurato l’abolizione dell’Ici, "Sì, avete capito bene!", durante il duello con Prodi. Di lì a qualche giorno il leader del centrodestra fu sconfitto, sia pure di un soffio. Ma due anni dopo, di nuovo sfoderando quell’indice con l’accattivante sicurezza del presentatore di televendite, da vincitore l’Ici l’abolì sul serio, e subito. Dal che si deduce - e anche dai disastri dell’economia italiana - che purtroppo non sempre egli promette a vuoto, come la maggior parte dei politici. Lo specifico guaio, semmai, è che l’ottimismo elettorale berlusconiano è per natura temerario, per vocazione impudente e quasi sempre, nei suoi risultati, catastrofico.
Le tasse - non solo "meno tasse", ma anche per "per tutti" - rientrano tuttavia nel novero del generico e prevedibile impegno, per quanto iscritto in giganteschi cartelloni che nel 2001 invasero le strade italiane. Così come all’insegna dell’ordinario miracolismo si può ormai storicamente collocare il "milione di posti di lavoro" che nel 1994 costituì il primo esperimento sociale di parola data e non mantenuta.
Berlusconi infatti non teme verifiche. Sia nel 2001 che nel 2008 le tasse, anziché diminuire, aumentarono. Studiosi e statistiche possono documentarlo. Ma lui certamente saprebbe spiegare meglio di loro che questo non è vero: con lui diminuirono, o comunque non è questo il punto. La foga di enumerazioni e parole ha il potere di trasportare chi ascolta in una dimensione irreale. Per sfinimento, a quel punto, più per convinzione, si finisce per credere che tutto è relativo, e la politica lo è anche di più.
Così ieri Berlusconi ha potuto permettersi di fare perfino lo spiritoso. "Sei un mito!" gli ha gridato una fan dalla platea, e lui ha accolto l’invocazione con una specie di sospiro, facendo notare che c’è chi, al colmo dell’assurdità, lo ritiene un "contaballe". In realtà si può considerare l’imperatore di quella diffusa categoria. Più che sulla pressione fiscale o sulle politiche dell’occupazione lo si capisce nelle promesse mirate, settoriali e a sorpresa di cui si perde facilmente la memo-ria. Il bonus bebé, per dire, o la "Golden Card".
E’ su questo terreno che il Cavaliere da il meglio di sé lasciando credere ai prediletti vecchietti che con la sua vittoria non pagheranno il cinema, la partita, l’ingresso al museo, il viaggio in treno. A tali vani benefici nel 2006 si sommarono anche delle dentiere ("Operazione Sorriso") e la possibilità, non meglio precisata, di acquisire un animale di compagnia. E se pure la campagna elettorale a volte assume i toni della commedia nera, è anche vero che l’ideologia berlusconiana, mutuata dalla cultura pubblicitaria, dispone di codici emotivi che con la scusa del sogno pescano nell’inconscio; ma a volte non ce n’è nemmeno bisogno, per cui prima del voto del 2008 il futuro presidente arrivò a promettere ai pensionati, dotati o meno che fossero di cani gatti e pappagallini, nientemeno che la sconfitta del cancro e l’allungamento della vita attraverso la medicina predittiva.
Per il resto, al discount delle meraviglie trovano posto prodotti semplificati come le "tre i" (impresa, inglese, internet), misteriosofiche, ma risolutive semplificazioni delle procedure, la sempiterna abolizione del canone Rai, l’istituto del poliziotto di quartiere e anche un certo "modello universale" al quale, prima dell’inevitabile oblio, venne affidato il salvifico rapporto tra i cittadini e la Pubblica amministrazione.
Sotto elezioni, e a dispetto di un popolo che per secoli si è ritenuto orgogliosamente furbo, la Cuccagna e Bengodi erano sempre a portata di mano. Furono promesse e ri-promesse ad esempio le Grandi Opere: e agli automobilisti che ancora oggi percorrono imprecando la Salerno-Reggio Calabria vale senz’altro la pena di ricordare il Berlusconi che disegnava come sarebbe cambiata I’Italia del futuro; e a chi fa la fila a Messina i molteplici filmati mandati in onda per illustrare le virtù del Ponte sullo Stretto come se esistesse già.
Nel 2001, dopo un immane lavorio demoscopico, Berlusconi firmò sulla famosa scrivania di ciliegio di Porta a porta il "Contratto con gli italiani", che poi disse di essersi appeso nel bagno di casa (di cui resta preziosa documentazione fotografica grazie alle amiche di Tarantini). Ma già nel 2005 una pensionata si era rivolta a un giudice perché alcuni dei cinque punti erano stati disattesi. Fu anche aperto un procedimento, poi archiviato. Di recente Berlusconi ha spiegato che secondo l’Università di Siena gli impegni erano stati realizzati per l’84 per cento. Ma poi nel Parlamento dei Balocchi e di Acchiappacitrulli si è capito che la percentuale riguardava disegni di legge presentati, ma non approvati. E insomma: se vince, promette di rimborsare l’Imu. Poi si vedrà.
Le lodi tattiche di Berlusconi a Mussolini
di Philippe Ridet (Le Monde, 29 gennaio 2013 - traduzione: www.finesettimana.org)
Le “gaffe” di Silvio Berlusconi sono raramente dovute all’improvvisazione. Affermando, domenica 27 gennaio, Giornata della memoria dell’Olocausto, che Benito Mussolini “ha fatto molte cose buone”, a parte “le leggi razziali che rappresentano la peggiore colpa del leader”, si è assunto il rischio di scatenare una nuova polemica, ma sa che una parte dell’opinione pubblica italiana lo ha capito.
Mentre Angela Merkel, il giorno prima, dichiarava che la Germania ha “una responsabilità permanente per i crimini del nazionalsocialismo”, l’ex presidente del consiglio sostiene che “L’Italia non ha le stesse responsabilità”. “Il governo di allora, per il timore che la potenza tedesca si concretizzasse in una vittoria generale, preferì essere alleato alla Germania di Hitler piuttosto che contrapporsi. La connivenza con il nazismo, almeno all’inizio, non fu completamente consapevole.”
Non è la prima volta che Berlusconi minimizza il bilancio del regno di Mussolini, dal 1922 al 1943. Nel 2003 aveva sostenuto che “il fascismo non ha mai ucciso nessuno”. Il regime fascista ha adottato nel 1938 e del tutto liberamente, le leggi razziali, escludendo gli ebrei dall’esercito e dall’insegnamento e limitando il loro diritto di proprietà. Durante la seconda guerra mondiale, più di 7000 uomini, donne e bambini ebrei italiani furono sterminati nei campi della morte. Un bilancio a cui bisogna aggiungere gli assassini politici o l’esilio sistematico degli oppositori al regime.
Elettoralismo? Revisionismo? Impegnato in vista delle elezioni del 24 e 25 febbraio a capo di una coalizione che va dalla Lega Nord, favorevole alla secessione, a piccole formazioni neofasciste (La Destra, Fratelli d’Italia), nostalgiche di uno Stato forte, Berlusconi mirava domenica all’ala più nazionalista.
Ma, al di là del calcolo tattico, rafforza in molti italiani l’idea di un fascismo schizofrenico: uno efficiente (organizzazione dello Stato, lotta alla mafia, costruzione di infrastrutture, riorganizzazione dello Stato, instaurazione di un sistema pensionistico), l’altro cattivo (leggi razziali, privazione delle libertà civili), senza rapporto logico tra i due.
Il giornalista Massimo Giannini, autore del libro Lo Statista (Dalai), che sottolinea le analogie tra il Cavaliere e il Duce, analizza: “Berlusconi si rivolge a quella parte di opinione pubblica che crede ancora che si possa separare il buon grano dalla zizzania nel bilancio di Mussolini. Ma l’uno e l’altro hanno in comune la stessa fede nell’uomo della provvidenza, la stessa ricerca di un rapporto senza mediazione con il popolo, la stessa volontà di imporre la narrazione di una realtà virtuale con la propaganda. Ancora una volta, Berlusconi scommette sulla parte peggiore degli italiani”.
“Queste dichiarazioni non sono solo superficiali e inopportune, ma prive di senso morale e di fondamento storico, ha denunciato il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna. Dimostrano a qual punto l’Italia faccia ancora fatica ad accettare la propria storia e le proprie responsabilità”.
Inno, è obbligatorio impararlo a scuola
Senato dà ok: 17 marzo giornata Unità d’Italia
ROMA - D’ora in poi sarà più difficile notare sportivi che rimangono in silenzio o persone che inseriscono parole a caso mentre suona l’inno di Mameli: impararlo a scuola è obbligatorio. Il Senato, infatti, tra le accese proteste della Lega, ha dato il via libera definitivo al ddl che prevede l’insegnamento dell’inno tra i banchi. La norma, che è passata con 208 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti, istituisce inoltre il 17 marzo giornata nazionale dell’Unità d’Italia, della Costituzione, dell’inno nazionale e della bandiera.
In base al testo approvato oggi, a partire dal prossimo anno scolastico, nelle scuole di ogni ordine e grado saranno organizzati "percorsi didattici, iniziative e incontri celebrativi finalizzati ad informare e a suscitare riflessione sugli eventi e sul significato del risorgimento nonché sulle vicende che hanno condotto all’unità nazionale, alla scelta dell’inno di Mameli, alla bandiera nazionale e all’approvazione della Costituzione, anche alla luce dell’evoluzione della storia europea".
Lo scopo che si prefigge la legge con l’istituzione di questa nuova festività (che non avrà comunque effetti civili, non sarà insomma un giorno di vacanza o di ferie) è quello di "ricordare e promuovere" nella giornata del 17 marzo, data della proclamazione nel 1861 a Torino dell’unità d’Italia, "i valori di cittadinanza, fondamento di una positiva convivenza civile, nonché di riaffermare e consolidare l’identità nazionale attraverso il ricordo e la memoria civica".
Le reazioni. Accese le proteste della Lega prima dell’approvazione del testo. Alcuni senatori hanno lasciato l’Aula prima del voto. "Senatori del Parlamento italiano, magari ex ministri, non possono affermare di non sentirsi italiani. È vergognoso", ha detto il senatore Udc Achille Serra intervenendo in Aula. Attribuisce ’grande valore storico’ alla decisione presa dal Senato il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri: "Da oggi - ha detto - il 17 marzo diventa il giorno di tutti gli italiani che, attraverso una memoria finalmente condivisa, avranno la possibilità di riaffermare i valori dell’identità nazionale". Per il coordinatore nazionale del Pdl, Ignazio La Russa, l’inno è parte integrante della nostra storia: "È importante che proprio a scuola, culla dell’insegnamento e della cultura, i giovani possano imparare non solo il testo, ma ciò che esso rappresenta per tutti gli italiani". "Con questo ddl - ha detto il senatore del Pd Antonio Rusconi - alle scuole è affidato un compito importante: recuperare e rinnovare le radici di una Nazione, dei sacrifici compiuti e di quelli che si è ancora disposti a compiere insieme’’.
Il pianeta del cavaliere
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 31 ottobre 2012)
Forse è il caso di ascoltare il grido di rabbia, e anche di speranza, che sale dalla Sicilia, questa terra dove fare giustizia è scabroso. Un sindaco anti-mafia, Rosario Crocetta, diventa governatore anche se il Pd è alleato con gli ex tutori di Cuffaro nell’Udc. La vecchia battaglia di Grillo per un Parlamento pulito (2005), che escluda condannati di primo, secondo e terzo grado, ha ottenuto un premio enorme: il suo Movimento è primo partito dell’isola. Non ha usato, stavolta, l’arma del web: Grillo ha battuto città dopo città come i professionisti d’un tempo, facendo comizi per ben 20 giorni. I siciliani, allibiti, si sono sentiti onorati, visti, non identificati con la mafia che pretende incarnarli. Il Movimento offre anche un orizzonte non eversivo: Grillo non ha torto quando dice che senza di lui saremmo sommersi da neonazisti come in Grecia e Ungheria.
Chi vive in un altro pianeta è Berlusconi, che tutto questo non l’ha presentito. Per questo vale la pena ricostruire la genesi dei tribunali. La giustizia, i processi, le leggi, esistono in primo luogo per l’innocente, per il senza-potere: non per il reo da condannare. Se c’è desiderio che sia fatta luce su chi vilipende il bene comune (in Sicilia anche la bellezza comune), è perché l’innocente non sia confuso con il colpevole, sprofondando in una melma dove non distingui nulla. È questo bisogno di giustizia che l’ex Premier offende, disattento alla Sicilia e all’Italia in mutazione. Ogni processo è ritenuto veleno, che ammorba la democrazia e la spegne. La magistratocrazia si sostituirebbe eversivamente alla democrazia, contro il popolo sovrano.
Il dubbio che i processi siano al servizio soprattutto degli indifesi non lo sfiora: lui, condannato per truffa ai danni dello Stato, si presenta come vittima, perfino capro espiatorio. Non sa che per definizione il capro è innocente: che proprio per questo il rito è barbarico. Non c’è, nel capro, la «naturale capacità a delinquere» che i giudici di Milano ravvisano in Berlusconi: non sarebbe agnello sacrificale, se avesse questa capacità.
È importante che gli italiani sappiano che l’idea stessa di giustizia - pietra angolare della pòlis - è negata, ignorata, da chi parla del pianeta giustizia quasi estromettendola dall’orbita terrestre. Che sappiano quel che spinge Berlusconi condannato ad aborrire le sentenze che lo riguardano ma anche, d’un sol fiato, quelle che giudicano colpevoli di incuria gli scienziati che tranquillizzarono gli abitanti dell’Aquila e dintorni, raccomandando di restarsene in casa perché la grande scossa del 6 aprile 2009 era invenzione della paura. Non è escluso che la stessa ripugnanza tocchi alle sentenze del giudice per le indagini preliminari a Taranto, che ha punito la disinvoltura, all’Ilva, con cui la salute dei cittadini è stata per anni messa a repentaglio.
Non è vera follia, perché sempre nelle follie dell’ex Premier c’è un metodico fiuto di rancori nascosti: non della società, ma certo del «suo popolo». Rancore per le tante sentenze, che invadono i campi più diversi perché arati senza legge e controlli a fini privati. La lotta a chi froda impunemente, la protezione dalle catastrofi naturali o da acciaierie tossiche, ma anche la custodia della nostra ricchezza che è il patrimonio artistico: sono mansioni che dovrebbero competere allo Stato, non ai magistrati. I quali non sono giudici vendicatori, e nemmeno chirurghi che guariscono alla radice i mali dell’incuria cialtrona. Possono intervenire solo a danno o crimine compiuto, e non per cambiare le leggi, selezionare onesti amministratori, presidiare il bene pubblico prima che il malaffare lo sfasci. È quel che diceva Borsellino, quando insisteva sull’obbligo propedeutico dei politici di far pulizia a casa propria, sventando patti mafiosi.
Lo dice a 23 anni di distanza Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, quando invoca, contro la ‘ndrangheta radicata ormai stabilmente a Nord, un «cambio di classe dirigente e di ceto politico», tale che si possa «girare la pagina» e bloccare le contrattazioni Stato-mafia. Fu ancora Borsellino, il 22 giugno 1990 in un dibattito a Roma (il tema era “Stato e criminalità organizzata: chi si arrende?”) a replicare che lo Stato non si era arreso, non avendo combattuto. Attilio Bolzoni magistralmente scrive su Repubblica che qualcosa mancherà nel processo sulle stragi del ’92-93. Non un pentito di mafia: «Quel che è sempre mancato è un pentito di Stato».
Cambiare classe dirigente non significa cambiar facce, o rottamare. Significa interrogarsi severamente sulla giustizia omessa, sul vuoto di politica che moltiplica le sentenze, e porre rimedio premurandosi del bene comune. Compreso il bene europeo, altro bersaglio di Berlusconi (perché dobbiamo tener conto delle inquietudini dei tedeschi? si chiede stupito). Significa riconoscere che non solo governanti e politici debbono apprendere la responsabilità e la giustizia, ma anche la classe dirigente non schierata. Anche chi, specialista o manager, ha poteri d’influenza: tecnico della scienza, dell’economia, delle imprese.
Tutti questi potenti tendono a diffidare della magistratura, e non a caso c’è un ministro, Corrado Clini, che giunge sino ad equiparare la condanna di Galilei e quella dei sette scienziati che minimizzarono gli sciami sismici incombenti sull’Abruzzo dal dicembre 2008. Come se gli scienziati fossero accusati di scarsa preveggenza, non di avere perentoriamente escluso rischi gravi. Non di aver servito il potere politico (Bertolaso, Berlusconi) che voleva occultare la verità ai cittadini.
Non dimentichiamo uno dei sette, Bernardo De Bernardinis, che consigliava di chiudersi in casa (in casa! uno scienziato dovrebbe sapere che la casa uccide, nei terremoti) e per calmarsi di bere un bicchiere di Montepulciano in più. Non dimentichiamo lo scienziato Enzo Boschi, che il 9 aprile si piegò all’ingiunzione di Bertolaso: «I sismologi mi servono per un’operazione mediatica (...). È ovvio che la verità non la si dice».
In Todo Modo, Leonardo Sciascia fa dire al luciferino protagonista, Don Gaetano: «Le cose che non si sanno, non sono». Ecco come le classi dirigenti tradiscono. Non il giudice unico dell’Aquila, Marco Billi, è il cardinale Bellarmino censore di Galilei, ma il potere politico che asservisce la scienza. Chi ammorba la democrazia è Berlusconi che truffa, non il tribunale di Milano.
Se a fare le cose con senso di giustizia fossero i politici, i comitati scientifici, gli imprenditori, non avremmo questa riduzione d’ogni gesto all’aspetto penale. Ma è anche vero che senza sentenze, oggi, l’uomo diverrebbe lupo per l’uomo. Perché la catarsi della politica e delle classi dirigenti ancora non c’è. Perfino il governo Monti esita, con le sue leggi anticorruzione piene di indulgenze; anche se ha deciso, grazie a Di Pietro, di costituirsi parte civile nel processo di Palermo sulle trattative Stato-Mafia.
Già, Palermo. Anni di omertà e umiliazione non cancellano la sete di giustizia. È quello che ha dato le ali a Grillo. Non perché si sia dilungato sulla mafia, ma perché per quasi un mese si è messo in ascolto delle collere siciliane. Il grido che sale dalla Sicilia è la risposta più forte all’urlo di Berlusconi a villa Gernetto. A parole che pesano, non raddrizzabili. Per citare ancora Sciascia, parole simili «non sono come i cani, cui si può fischiare a richiamarli».
Tutti antiberlusconiani
L’ultimo sport nazionale
degli ex amici del Cavaliere
di Jacopo Jacoboni (La Stampa, 28/5/2012)
Uno da Almodovar le critiche a Berlusconi se le aspetta, da Tremonti e Formigoni, e Belpietro e Gasparri, in teoria, no.
Celebriamo in questi giorni una tragedia nazionale che investe la politica e i media, ex berlusconiani che forse - ma sarebbe psicanalisi - non sanno neanche più di esserlo stati, e l’ostentano. Quasi meglio chi, come Daniela Santanchè, lo difende perinde ac cadaver, «se qualcuno pensa che Berlusconi debba fare un passo indietro sbaglia profondamente». Ma se ha sentito il bisogno di ribadirlo è perché tanti lo pensano, e lo dicono, senza imbarazzi.
E’ una un po’ triste Revirgination collettiva. Giulio Tremonti in tv da Formigli aveva messo su l’aria dell’osservatore economico, non di colui che fu il potente ministro dell’Economia. Enfatizzò la dialettica che ebbe con l’allora premier, «quello che cercai di fare è noto», sospirò. Adesso dà un’intervista a «Chi» - pensosa rivista di critica del berlusconismo diretta dal mai berlusconiano Alfonso Signorini - e confida: «Quando ero ministro non ho mai pensato di fare le scarpe a Berlusconi. Silvio avevi i voti e, quindi, il potere. Allora non era scalabile». Allora, appunto; oggi, invece...
I cambi di casacca dei paria sarebbero il meno, la Carlucci, Santo Versace. Le lettere dei deputati frondisti - gli Stracquadanio, le Giustine Destro - farebbero sorridere. Già più rivelatrici di questa antropologia gregaria sono certe conversazioni intercettate, come la Prestigiacomo che si lascia andare, «Berlusconi purtroppo non è intelligente»; o miserie come la Minetti che dà al Cavaliere del «vecchio di m...». Per non dire del senso di ripulsa quando pezzi da novanta del berlusconismo - per esempio Roberto Formigoni, il Celeste che farebbe forse meglio a occuparsi dei suoi, di guai - ne sanciscano spensieratamente la fine prima che lo sappia l’interessato: a ottobre il governatore lombardo già gonfiava il petto, «non sarà Berlusconi il nostro candidato». Oppure di Roberto Calderoli, che tra i leghisti era l’ufficiale di collegamento col berlusconismo, il quale fa il sardonico sulla proposta del Cavaliere semipresidenziale, «si finge di voler cambiare tutto quando invece non si vuole cambiare niente...». Era il ministro per le Riforme di Berlusconi, vi rendete conto?!?
«Libero» sembra diventato «Il Fatto». Belpietro sulla proposta del semipresidenzialismo del Pdl scrive cose come «fossimo nel Cavaliere, invece di pensare al Colle penseremmo al Pdl». È già leggenda, in tema Rai, la lite di qualche mese fa tra Gianluigi Paragone e Stracquadanio, col conduttore che gridò al deputato «avete sbagliato tutto! voi politici non siete i padroni della Rai!». Ma assistiamo anche al patetico fenomeno di polemisti superberlusconiani che s’arrampicano sugli specchi e si professano pro Grillo.
Ecco. Dopo le amministrative Ignazio La Russa in tv si sentiva in condizioni di dettare la linea al Capo, «fossi stato in Berlusconi non avrei incontrato Monti prima dei ballottaggi». E Maurizio Gasparri, da sempre superberlusconiano, oggi non teme più il reato di lesa maestà: «Se Berlusconi dovesse dire che non vuole più andare avanti con il Pdl il partito andrà avanti lo stesso. È un problema suo se non ne vuole far parte». Un problema suo? Non ci si crede.
Sarebbe nulla se tutto questo riguardasse solo la tragedia di un uomo ridicolo; illumina invece le inclinazioni peggiori di un Paese, il voltagabbanismo, la ricerca di facili colpevoli, e un’inestirpabile tendenza all’autoassoluzione: l’autobiografia di una nazione. Quel che è peggio, forse, è che il Palazzo è davvero uno specchio (magari leggermente deformato) di ciò che accade nella società italiana. Filippo La Porta su Europa notava che ormai la parola «berlusconiano» si usa come insulto al supermercato: ovviamente, da parte della maggioranza silenziosa che fino a ieri, al Cavaliere, ha rumorosamente leccato i piedi.
STORIA DELLA FILOSOFIA: NEW REALISM o, che è lo stesso, NEW IDEALISM. Dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Foucault ...
"NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. DATO L’ ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO).
A LEZIONE DA DANTE NUOVO REALISMO: CONOSCERE SE STESSI E CHIARISI LE IDEE, PER CARITA’!
Un dubbio manifesto: la cultura della Domenica
di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 09.03.2012)
Ci sarebbero molte ragioni per non prendere sul serio il manifesto «per una costituente della cultura» lanciato dal giornale di Confindustria: prima tra tutte «una determinata opacità, oscillante tra convenzionale deferenza per le competenze umanistiche e indifferenza o fatale estraneità al tema» (così, perfettamente, Michele Dantini sul “Manifesto”).
Tra gli stessi firmatari molti confessano (ovviamente in privato) di trovare il testo irrilevante («Me l’hanno chiesto, son cose che passano come acqua»), mentre altri raccontano di esser stati inclusi a loro insaputa, o addirittura dopo un diniego. Ma la solenne adesione dei ministri Passera, Profumo e Ornaghi e il successo che il “manifesto” sta riscuotendo nel paese più conformista del mondo, significano che esso ha interpretato nel modo più rassicurante un’opinione diffusa. Al famoso “la cultura non si mangia” di Giulio Tremonti, il giornale di Confindustria oppone un discorso che vuol essere «strettamente economico»: “la cultura si mangia eccome”.
Niente di nuovo: è questo il dogma fondante del trentennale pensiero unico sul patrimonio culturale, per cui «le risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene concepito come convenienza economica» (Gianni De Michelis, 1985). Su questo dogma si fonda l’industria culturale che sta trasformando il patrimonio storico e artistico della nazione italiana in una disneyland che forma non cittadini consapevoli, ma spettatori passivi e clienti fedeli.
È a questo dogma che dobbiamo la privatizzazione progressiva delle città storiche (Venezia su tutte), e un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi “capolavori” redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando un vasto precariato intellettuale.
È grazie a questo dogma che prosperano le strapotenti società di servizi museali, che lavorano grazie a un opaco sistema di concessioni e che stanno fagocitando antiche istituzioni culturali e cambiando in senso commerciale la stessa politica del Ministero per i Beni culturali.
È in omaggio a questo dogma che la storia dell’arte è mutata da disciplina umanistica in “scienza dei beni culturali” (e infine in una sorta di escort intellettuale), e che le terze pagine dei quotidiani si sono convertite in inserzioni a pagamento. Appare, insomma, realizzata la profezia di Bernard Berenson, che già nel 1941 intravide un mondo «retto da biologi ed economisti dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico». Di tutto ciò il manifesto confindustriale non si occupa, preferendo affermare genericamente che «la cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo».
Naturalmente questo è vero, ed è giusto dire che anche dal punto di vista strettamente economico investire in cultura “paga”. Ma il pericolo principale di questa stagione è la debolezza dello Stato e la voracità con cui i privati declinano la valorizzazione (leggi monetizzazione) del patrimonio. E che il manifesto del Sole non intenda per nulla smarcarsi da questa linea dominante, induce a crederlo il nome del primo firmatario, quell’Andrea Carandini che è un guru del rapporto pubblico-privato nei beni culturali, visto che è riuscito ad autoerogarsi fondi pubblici per restaurare il castello di famiglia chiuso al pubblico.
Né tranquillizza il fatto che il “manifesto” fosse accompagnato da un articolo di fondo del sottosegretario Roberto Cecchi, artefice del più smaccato trionfo degli interessi privati in seno al Mibac (dal caso clamoroso del finto Michelangelo alla svendita del Colosseo a Diego della Valle). Induce, infine, a più di un dubbio la sede stessa in cui il “manifesto” è comparso, quel Domenicale che da anni pratica (almeno nelle pagine di storia dell’arte) un elegante cedimento delle ragioni culturali a quelle economiche, con lo sdoganamento di “eventi” impresentabili e di “scoperte” improbabili.
Un meccanismo approdato a una filiera completa: 24 Ore Cultura produce le mostre (per esempio l’ennesima su Artemisia Gentileschi), Motta (dello stesso gruppo) ne stampa i cataloghi, il «Domenicale» le vende con una pubblicità martellante. Dopo il pirotecnico lancio iniziale, il «Domenicale» ha dedicato ad Artemisia altre quattro pagine, con foto di Piero Chiambretti che visita la mostra e con l’immancabile sfruttamento intensivo della condizione femminile di Artemisia (stupro incluso). Così, una mostra mediocre che si apre con la commercialissima trovata di un letto sfatto che si tinge del rosso della verginità violata di Artemisia si trova a essere la mostra più pompata della storia italiana recente.
È forse pensando a questo tipo di esiti che il “manifesto” consiglia l’«acquisizione di pratiche creative, e non solo lo studio della storia dell’arte»? Più che un programma per il futuro, la santificazione del presente. La risposta vera a quanti affermano che la “cultura non si mangia” è, innanzitutto, che «non di solo pane vive l’uomo»: la nostra civiltà non si è mai basata solo su un «discorso strettamente economico», e la cultura è una delle pochissime possibilità di orientare le nostre vite fuori del dominio del mercato e del denaro. Il punto non è «niente cultura, niente sviluppo», ma: lo sviluppo non ci servirà a nulla, se non rimaniamo esseri umani. Perché è a questo che serve la cultura.
Sarebbe stato assai meglio se, invece del fumoso e conformista “manifesto” confindustriale, gli intellettuali italiani avessero sottoscritto una dichiarazione antiretorica e pragmatica come quella pronunciata, qualche anno fa, da uno dei massimi storici dell’arte del Novecento, Ernst Gombrich: «Se crediamo in un’istruzione per l’umanità, allora dobbiamo rivedere le nostre priorità e occuparci di quei giovani che, oltre a giovarsene personalmente, possono far progredire le discipline umanistiche e le scienze, le quali dovranno vivere più a lungo di noi se vogliamo che la nostra civiltà si tramandi. Sarebbe pura follia dare per scontata una cosa simile. Si sa che le civiltà muoiono.
Coloro che tengono i cordoni della borsa amano ripetere che “chi paga il pifferaio sceglie la musica”. Non dimentichiamo che in una società tutta volta alla tecnica non c’è posto per i pifferai, e che quando chiederanno musica si scontreranno con un silenzio ottuso. E se i pifferai spariscono, può darsi che non li risentiremo mai».
150° UNITA’: GELMINI, IL 17 MARZO SCUOLE RESTINO APERTE
I presidi replicano: ’’Valore ricorrenza non va sottaciuto’’ *
La posizione ufficiale del governo sui festeggiamenti dei 150 anni dell’Unita’ d’Italia non e’ ancora nota nel frattempo pero’ di registrano i vari punti di visti dei ministri.
Ultima in ordine tempo ad intervenire, il ministro Maria Stella Gelmini che al Consiglio dei ministri di ieri, si sarebbe schierata per una festa passata al lavoro.
’’La ricorrenza - avrebbe detto la Gelmini - potra’ essere celebrata in classe durante l’orario normale dedicando una particolare attenzione a quel momento storico cosi’ importante. Un modo per dare piu’ valore a questo appuntamento, altrimenti si correrebbe il rischio di considerarlo solo un giorno di vacanza in piu’’’. Per questo il ministero dell’Istruzione starebbe preparando una circolare che spieghera’ alle scuole come comportarsi.
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PRESIDI, IMPORTANTE CHE SCUOLE RESTINO CHIUSE.
Di diverso avviso i presidi. Il 17 marzo le scuole devono restare chiuse e poi magari recuperare il giorno perso in un’altra occasione. Ha sottolineato Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione nazionale presidi (Anp).
’’A me pare sia invece importante - ha detto ancora Rembado - sottolineare la ricorrenza con una vacanza scolastica che, se si pone attenzione o preoccupazione alla necessita’ di non perdere un giorno di scuola, si puo’ recuperare nell’ambito del calendario scolastico. Non voglio dire io quando, la decisione potrebbe essere demandata alle scuole stesse’’.
Il presidente dell’Anp ha pero’ voluto sottolineare che ’’non vogliamo assolutamente recuperare un giorno di vacanza ma festeggiare la ricorrenza. Il valore simbolico della data e’ tale che non deve essere sottaciuto’’.
* www.asca.it
La Provincia celebra Berlusconi
"Statista di rara capacità"
Il premio Grande Milano per i 150 anni di Palazzo Isimbardi verrà consegnato stasera anche a Don Verzè
di DAVIDE CARLUCCI *
Il più sobrio degli aggettivi è "statista di rara capacità". Segue poi una sfilza di qualità superlative: dalla "straordinaria lungimiranza" alle sue "eccezionali qualità". Le motivazioni con cui il presidente della Provincia conferisce oggi a Silvio Berlusconi il premio Grande Milano creano un mare di polemiche.
Per Filippo Penati quello del suo successore è un clamoroso caso di adulazione istituzionale nei confronti del suo sponsor politico. Il premio per i 150 anni di palazzo Isimbardi - conferito anche a don Luigi Verzè, fondatore del San Raffaele - "sembra il riconoscimento di un dipendente al proprio capo", dice Penati, alludendo agli esordi lavorativi di Podestà nelle aziende del Cavaliere. Matteo Mauri, capogruppo del Pd in Provincia, ritiene il premio "una messa pagana in onore di Berlusconi celebrata in un luogo sacro alla Cristianità". E conferma: l’opposizione non ci sarà.
IL VIDEO Berlusconi Aznavour ironia su YouTube
La replica di Podestà: "In tutta la sinistra italiana non possono, anche sforzandosi, individuare una personalità di tale levatura da meritare il premio". Anche per il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini è solo "invidia": "Nessun altro politico in Italia merita il premio Milano più di Berlusconi, che incarna l’operosità e la generosità milanese". Ma a far storcere il naso è il tono degli elogi. La chiusa delle motivazioni ricorda il finale della poesia per i 70 anni di Stalin: se il dittatore sovietico avrebbe reso "l’umanità eternamente felice nella fraternità dell’amore", Berlusconi "conduce il Paese verso un futuro di donne e di uomini liberi, che compongano una società solidale, fondata sull’amore".
Il premio è un momento dell’evento organizzato dalla Fabbrica del Duomo per restaurare le guglie della cattedrale. Ci sarà anche il concerto del cantante francese Charles Aznavour e un parterre di politici interamente di centrodestra - vista la decisione dell’opposizione di disertare, mettendo a disposizione gli inviti per le vendite - dal governatore Roberto Formigoni al sindaco Letizia Moratti, da Rosy Mauro a Fedele Confalonieri. "Uno spot pacchiano", secondo Roberto Caputo, del Pd, che chiede trasparenza sui costi.
* la Repubblica, 18 luglio 2010
Il programma per le celebrazioni del 150esimo anniversario per esaltare le "libertà locali"
Un "Tg del Risorgimento", l’orchesta di Arbore e su Facebook gli "amici" di Garibaldi e Mazzini
Dialetti e nuovo nome a piazza Venezia Ecco il piano per l’Unità d’Italia
di FRANCESCO BEI *
ROMA - Una celebrazione "pop", poco istituzionale, che molto concede ai nuovi fenomeni di comunicazione tipo Facebook e alla televisione. Con una decisa coloritura leghista sull’insieme e diverse sorprese, come quella di cambiare nome a piazza Venezia a Roma per ribattezzarla "piazza dell’Unità d’Italia". È il programma per le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità che Silvio Berlusconi e Sandro Bondi hanno illustrato ieri al capo dello Stato. Repubblica è in grado di anticiparne i contenuti, in attesa che il comitato dei Garanti presieduto da Carlo Azeglio Ciampi si pronunci nel merito.
E proprio Napolitano, preso atto "con soddisfazione" che il governo ha recepito il suo impulso a definire "senza ulteriori ritardi" il programma delle celebrazioni, ieri ha chiesto a Berlusconi il "pieno coinvolgimento" del comitato Ciampi.
"Che cosa è l’Italia per noi?", si è chiesto Bondi in Consiglio dei ministri illustrando le proposte. La riposta, musica per le orecchie di Bossi, è stata questa: "Il nostro governo ha sempre pensato alle molte Italie, perché la caratteristiche principale del nostro paese è di avere storie diverse". L’obiettivo del governo è quindi quello di "dare valore alle differenze in chiave federale". E per far questo ci sono molte strade. Anzitutto la "valorizzazione delle molte anime del Risorgimento". Non più o non solo "quella monarchica e quella democratico-liberale, ma anche quella federalista" di Cattaneo, nume tutelare del Carroccio.
Nella bozza del ministro si prevede inoltre un’antologia degli statuti comunali per esaltare le "libertà locali" delle Repubbliche italiane precedenti al Regno d’Italia. In quest’operazione rientra anche la riscoperta dei dialetti locali, che Bossi vorrebbe introdurre nelle scuole. "Un censimento dei dizionari dai vari dialetti all’italiano - sostiene Bondi - fotograferebbe la variegata realtà linguistica del dopo Unità e risponderebbe anche ad un’esigenza avvertita". E certamente sentita dalla Lega.
Ma visto che si parla di partito del Sud, anche i nostalgici dei Borbone saranno accontentati. Il piano del governo ipotizza infatti una manifestazione a Gaeta, la rocca dove venne schiacciata l’ultima resistenza di Francesco II, come "riconciliazione fra piemontesi e borbonici". Altre "chicche" del piano sono il cambio di nome di piazza Venezia a Roma e una grande manifestazione di avvio delle celebrazioni nel marzo 2011 all’Altare della Patria, a cui dovranno partecipare "tutti i sindaci d’Italia". Un’adunanza di più di 8000 primi cittadini.
Nel regno del magnate della tv, importanza primaria viene ovviamente data al piccolo schermo con un massiccio coinvolgimento della Rai. L’idea più originale è quella di dar vita a un "Tg del Risorgimento", un racconto della Storia "come fosse il Tg delle venti", per descrivere le giornate più memorabili dell’unificazione: "Titoli di apertura, corrispondenze dai campi di guerra, i retroscena della politica, le interviste ai protagonisti, gli editoriali". Spazio anche ai concerti. Quelli di musica classica, ma anche quelli dell’orchestra di Renzo Arbore.
E poi Facebook, nella speranza di attirare i giovani: "Verranno realizzate - dice Bondi - delle pagine dei principali protagonisti come Garibaldi, Mazzini, Cavour, che dialogheranno direttamente, come se fossero vivi, con i loro "amici" sulla Rete". Infine l’Italia in Dvd: "Venti Dvd da allegare ad uno dei maggiori quotidiani italiani per raccontare i momenti più importanti e i personaggi che hanno caratterizzato i primi 150 anni della storia d’Italia". Un solo quotidiano, ma al momento non è specificato quale.
* la Repubblica, 5 settembre 2009.
Il Paese di Sua Gioia
Ciao a tutti, mi chiamo Carlo e sono felice perché vivo nel paese di Sua Gioia, un bel paese, in cui tutti si vogliono bene e insieme lavorano per il Suo bene comune.
Nel "mio" Paese chi prende le decisioni per "noi cittadini" è il Governo di Sua Gioia, composto da persone talmente affabili, altruiste, umili e piene d’amore da agire solo per il Suo interesse comune e per elevare la dignità, la cultura e favorire in tutti i sensi la formazione dei singoli.
A capo di tale Governo impera, amorevolmente, il Presidente del Consiglio Oil Vis (faccia d’olio, l’unto del Signore) colui che con generosità e premura ha ben pensato di mettere a nostra disposizione il Suo impero economico, mediatico e sportivo, edificato con ingenti fatiche e lealtà, per informarci con notizie veritiere, obiettive, pluraliste e assolutamente imparziali.
Che dire poi della cultura? I programmi che il nostro amato Oil Vis ci propone, attraverso il Suo impero mediatico, sono le punte di diamante della cultura, l’apogeo dei valori universali, l’apice del sapere; il nostro amato palladino desidera acculturarci, renderci consapevoli dei valori veri, fornirci notizie dispensandoci dall’impegno di cercarle.
La scuola da noi è assolutamente innovativa, l’autonomia delle istituzioni scolastiche si basa, grazie al nostro Ministro Imen Gel, incarnazione del sapere e della competenza psico-pedagogica, sulla “teoria delle idee” platonica. Per la formazione dei futuri cittadini non sono importanti i fondi, le persone e gli strumenti è più importante l’idea unica e perfetta, il no-u-meno platonico della formazione e ad un livello più alto quello inconoscibile e kantiano. Solo attraverso l’immaginazione e la ragione senza esperienza si possono raggiungere le conoscenze, le abilità e le competenze più elevate. La vera innovazione della nostra scuola consiste nel binomio produttività - meritocrazia.
La scuola non può essere soltanto un luogo di formazione e di socializzazione, deve avere la capacità di produrre (“la psicologia degli acari” l’ultima opera di un nostro eminente professore è ormai un best seller) e competere con le altre scuole perché solo in tal modo è possibile mantenere il primato alle olimpiadi del sapere. Nel contesto scolastico la meritocrazia è importantissima e oltre a garantire la professionalità dei docenti favorisce la produzione di opere culturali importanti per tutta la società.
A titolo informativo vi cito alcune delle nostre opere più importanti: “La relazione tra RNA messaggero e Lancillotto”; “Il teorema di Pitagora e le scarpe di Aladino”; “Come rubare ai poveri per dare ai ricchi” di Tremont Hood. Non so dirvi chi stabilisce i criteri di merito, sicuramente persone valide, preparate e imparziali tuttavia una cosa è certa la meritocrazia è un principio validissimo rivolto assolutamente a tutti coloro che hanno la capacità di produrre.
Che dire poi degli insegnanti? Aaah, che brave persone, nel nostro paese lavorano per amore del sapere, per la gioia di vedere fanciulli che, crescendo, diventano uomini, donne e "cittadini" consapevoli, capaci e autonomi. Gli insegnanti si nutrono e si vestono di ciò ed è per questo che si è pensato, da tempo, di non adeguare il loro stipendio, sarebbe per loro un’onta troppo grande, l’antitesi del fondamento della nostra scuola: “la teoria delle idee”.
Il Presidente della commissione cultura Arpia, considerando la professionalità docente per premiarla e rendere manifesta la gratitudine della società gioiosa, ha pensato di ridurre consistentemente il numero degli insegnanti in pochi anni e di smantellare la scuola pubblica per favorire quella privata.
Nooo, non dovete pensar male, lo ha fatto solo perché in questo meraviglioso paese di Sua Gioia la solidarietà è molto forte. Solo in questo modo la professionalità docente potrà raggiungere traguardi ancor più alti e gratificanti. Solo in questo modo anche i più ricchi potranno finalmente sentirsi più vicini a chi ha di meno, solo in questo modo si garantisce l’equità e il diritto allo studio per tutti.
E’ giusto e lecito, quindi, dirottare una parte di fondi pubblici verso le scuole private prive di strumenti e frequentate solo da una piccola parte della popolazione.
Aaah, che bontà ! Ooohh, che meraviglia ! Ooohhh che progresso!
E’ talmente grande la benevolenza di Oil Vis e talmente umile la sua persona che ancor prima di farsi eleggere Presidente del Consiglio si è impegnato a risolvere gran parte dei problemi del paese. Voi penserete che sia normale, che faccia parte del gioco della politica. Ebbene non è così. Ciò che distingue il nostro eroe dai suoi predecessori è l’assoluta buona fede, pensate che si è fatto eleggere pur sapendo che l’immane impegno non gli avrebbe reso alcun interesse personale. E’ proprio una brava persona !
“Ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ vo scorte.”
Anche da noi purtroppo non tutto è perfetto; il nostro amato Presidente del Consiglio è stato preso di mira dai soliti giudici zelanti e comunisti che non sopportano la sua integrità morale. Questi abominevoli inquisitori stanno cercando a tutti i costi di mandare in galera l’essenza incarnata dell’onestà, della lealtà e della rettitudine, che vergogna ! Anche in questo caso Il nostro caro Oil Vis per mettersi al riparo, con un atto di magnanimità senza precedenti, ha ben pensato di far introdurre una norma blocca processi che permetterà a lui di dedicarsi senza preoccupazioni al bene del paese e ad altri di trarne vantaggio. Anche in questo caso emerge il senso della giustizia, l’altruismo e la solidarietà che il nostro beniamino esprime con i suoi atti, alcuni già emanati altri in procinto di esserlo.
Concludo dicendovi che questo meraviglioso Governo di Sua Gioia si appresta ad introdurre nuove riforme sulla sanità e sulle pensioni per garantire a tutti il diritto alla salute. La sanità pubblica è troppo costosa. Il nostro paladino ha pensato, quindi, di informare con assoluta precisione e tempestività i "cittadini", dicendo loro che dovranno accollarsi, progressivamente, gli oneri sanitari.
Grazie a Bindao, un precedente ministro, oggi possiamo usufruire anche delle strutture private. Non posso dirvi di chi sono tali strutture perché da noi la riservatezza è un valore molto importante.
Che giocherellone il nostro Oil Vis, ci riserva sempre delle piacevoli sorprese.
In un paese così non c’è nulla da temere, l’informazione è pura, la scuola è innovativa, il lavoro, la salute e le pensioni, sono e saranno sempre garantite e gli interessi di tutti sono tutelati.
Che bel paese! Viva il paese di Sua Gioia !!!
Carlo Aladin
1938-1994-2008: «ITALIA», CHIAVE DEL CATTO-BERVELUSCONISMO
Quattordici anni fa, sul Giornale d’Italia, del 15 luglio) veniva pubblicato in forma anonima il Manifesto del Partito "Forza ITALIA" (poi ripubblicato con estensori e aderenti e venduto porta a porta - televisione per televisione - il 5 agosto).
Fu certo una «svolta» per la vecchia Repubblica, avallata da scienziati e antropologi e filosofi (come Qualcuno che aveva almeno il pregio della chiarezza e il coraggio dell’esporsi in prima persona) e tutti gli Altri VIP delle varie Accademie e Università - pubbliche e private!!!
Ma non già un’innocua mitologia d’occasione, accettata solo per «conformismo» dagli italiani e in fondo priva di conseguenze, come suggeriva Qualcuno sul Giornale di ieri. No.
C’erano e ci sono intanto forti addentellati col positivismo biologistico e vitalistico di Mussolini, intriso di Imperialismo romano-italico latente, e di superomismo da baraccone volgare e pedestre. E poi c’erano e ci sono le leggi sulla «dignità e l’integrità della Persona», fatte valere dal cattolicesimo-fascista ben prima del 1938-2008, contro le religioni non concordate con il Vaticano, e le persecuzioni agli ebrei, ai rom e a tutti gli altri. Inoltre il mito "Forza Italia" era del tutto coerente col mito totalitario e mediatico-imperiale. Che vede una «forza italiana e mediterranea» al centro di un spazio globale "ropeuo", proiettato verso il Mediterraneo e l’Oceano indiano....
Infine, grazie alle leggi contro i rom e impronte a tutti entro il 2010, sono stati stilati gli elenchi della «Democratura», come quelli già usati dalla Rsi e dai nazisti ecc. Che hanno consentito l’idiotismo di 37658 (in approssimazione, per difetto) italiani e italiane.
Altro che burletta e leggi all’italiana! Queste leggi e questa cultura ci possono far dire senza timore di smentite: anche il catto-fascio-berlusconismo è entrato nella storia. E tutti e tutte potranno dire - senza vergogna - c’ero anche io - nel Regno Mediatico dell’Unto del Signore, di Sua gioia - OIL VIS.
John Vepp
DOPO LA MODIFICA IN CORSO DELLA "NONA" DI BEETHOVEVON, SI PASSERA’ SUBITO ALL’APPROVAZIONE DELLA GIA’ AVVIATA
REVISIONE BIBLICO-COSTITUZIONALE.
LA VERITA ULTIMA E PRIMA è:
In principio il Caimano creo’ il cielo e la terra....
LE PROVE DEFINITIVE DEL "DISEGNO INTELLIGENTE"
DEL GRANDE GOVERNO ATEO-DEVOTO SONO STATE ACCERTATE.
QUESTE LE DICHIARAZIONI DELLA SCIENTIFICA:
PRESE FINALMENTE LE IMPRONTE DIGITALI DI DIO!!!
LA RICERCA E’ FINITA - E COSI’ ANCHE LA STORIELLA!!!
N.B.: Per evitare brogli futuri e dormire tranquillo, il capo del governo ha subito deciso che tutte le impronte vanno prese assolutamente non truccate o modificate da alcun preservativo!!!
John Vepp
LA NONA DEL PROF. BARICCO
A Locarno lo scrittore debutta come regista con “Lezione ventuno” sulla celebre Sinfonia. Il film è visionario e difficile. Con un dubbio: il pubblico lo capirà?
di ALESSANDRA LEVANTESI *
LOCARNO. «Non mi piace il rapporto che ha con Lui la cultura ufficiale, mi pare che Lui non meriti un approccio tanto banale». Il «Lui» con la maiuscola, oggetto del discorso, è niente di meno che Ludwig Van Beethoven, vero protagonista (anche se sullo schermo appare fugacemente, di spalle e per soli quattro secondi) di Lezione ventuno, opera prima dello scrittore Alessandro Baricco, autore di una sceneggiatura tanto personale che il produttore Domenico Procacci non ha voluto affidarla a mani altrui. Con scelta spericolata perché, non avendo una struttura narrativa lineare, Lezione ventuno è un film particolarmente complicato da imbastire soprattutto per un esordiente nella regìa: «Mi diverte quando scrivo libri intrecciare le storie... Ma nel cinema è più rischioso fare acrobazie del genere: non si sa fino a che punto il pubblico è disposto a seguirti».
Ora il rischio è proprio questo: capirà il pubblico che l’idea alla base del film è paradossale? E che tramite l’immaginario personaggio di Mondrian Killroy (John Hurt) - professore che gioca a buttare giù dalla torre 144 capolavori a sua opinione sopravvalutati, fra i quali (udite udite) il Partenone e l’Ulisse di Joyce - Baricco intende smontare non quell’opera gigantesca che è la Nona Sinfonia, ma l’apparato retorico che il tempo vi ha incrostato sopra? «Beethoven è un compositore immenso e proprio per questo si dovrebbe accostarlo con uno sguardo laico, critico, non sottomesso. Invece lo vediamo sempre monumentalizzato. Ho voluto cambiare l’ottica: se solo ci spostiamo sul fianco, se mettiamo a nudo le sue umane debolezze e identifichiamo le incrinature è pazzesco quello che possiamo trovare di bellezza. In questo modo il monumento prende vita. La Nona è la grandiosa sfida di un artista sprofondato ormai nell’isolamento e nell’infelicità».
A confermare l’importanza fondamentale di chi lo ha aiutato a cavarsela in un mestiere di cui sapeva pochissimo, Baricco è venuto accompagnato non solo da Procacci e dagli attori Noah Taylor e Leonor Watling, ma anche dal direttore della fotografia, Gherardo Gossi, che ha saputo tradurre in immagini pittoriche («Ci siamo rifatti a ritratti borghesi del primo Ottocento») il suo pensiero; e dal fumettista Tanino Liberatore che, con i suoi schizzi, ha provveduto per primo a dare forma e volto a personaggi ancora fisicamente indistinti. Ma al neofita che molto ha amato l’avventura (ma «ai suoi primi passi nel cinema uno scrittore ha come la sensazione di pareti che gli si chiudono intorno») è stata utile anche la precedente esperienza teatrale: «Non mi sarebbe neppure venuto in mente di fare un film del genere, se non avessi visto tante platee riunirsi per stare a sentire uno che parla».
Perché un’innevata cornice montana? «A volte ti viene in mente una visione e lì per lì non te la spieghi: il mondo bianco e silenzioso della neve... Io ho sempre immaginato la mente di Beethoven in quegli ultimi anni come un nulla appoggiato su due o tre punti fermi. Ti inoltri in uno spazio silente e siderale ed è là che la tua voce risuona».
La patria immaginaria
di ILVO DIAMANTI *
"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all’indomani della manifestazione di Pontida. Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione. Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".
Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all’appartenenza e all’identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: "Patriottismo repubblicano e Unità d’Italia". Appunto: l’Unità d’Italia. Divenuta un tema centrale dell’agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l’Italia: l’inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell’organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita. Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.
Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l’etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c’è.
Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l’importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch’essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d’altronde, l’invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.
Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell’esperienza di governo con Berlusconi. Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l’indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita. No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall’Italia. E quindi alternativa. In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita.
Per questo nel 1999 Bossi rientra nell’alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all’anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l’identità leghista. L’antagonismo contro Roma. La lotta contro l’Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.
Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana". Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l’Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.
* la Repubblica, 22 giugno 2010