LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! Alcune note *
GRAMSCI: "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (1924). All’interno di uno straordinario articolo, scritto per celebrare Lenin (morto il 21 gennaio 1924), nella prima pagina dell’Ordine Nuovo del 1° marzo 1924, con il titolo “Capo” (ripreso, poi, nell’Unità del 6 novembre 1924 col titolo Lenin capo rivoluzionario), Antonio Gramsci - in contrapposizione - delinea con magistrale e storica lungimiranza i tratti essenziali del governo guidato dal “Duce”:
“Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti.
Conosciamo quel viso (...) Abbiamo visto la settimana rossa del giugno 1914. Più di tre milioni di lavoratori erano in piazza, scesi all’appello di Benito Mussolini, che da un anno circa, dall’eccidio di Roccagorga, li aveva preparati alla grande giornata, con tutti i mezzi tribunizi e giornalistici a disposizione del «capo» del partito socialista di allora, di Benito Mussolini: dalla vignetta di Scalarini al grande processo alle Assise di Milano.
Tre milioni di lavoratori erano scesi in piazza: mancò il «capo», che era Benito Mussolini. Mancò come «capo», non come individuo, perché raccontano che egli come individuo fosse coraggioso e a Milano sfidasse i cordoni e i moschetti dei carabinieri. Mancò come «capo», perché non era tale, perché, a sua stessa confessione, nel seno della direzione del partito socialista, non riusciva neanche ad avere ragione dei miserabili intrighi di Arturo Vella o di Angelica Balabanoff.
Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia. (...)
Benito Mussolini ha conquistato il governo e lo mantiene con la repressione più violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, più per vedere com’era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi entro l’orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia...
Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo” (Antonio Gramsci, Sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 223-229)
STORIA E STORIOGRAFIA: DE FELICE (1966). Renzo De Felice, nel capitolo quinto del volume della biografia del “Duce”, dedicato a “Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925” (Einaudi, Torino, 1966), scrivendo delle “prime esperienze di governo” del Duce, riprende e ricorda questo “noto articolo” di Gramsci e, pur apprezzandone la “lucida intuizione (al fondo della quale si sente l’antico socialista che aveva visto in Mussolini l’uomo nuovo del socialismo italiano e ne era rimasto deluso): Mussolini non era un «capo»” e pur esprimendo la giusta persuasione che questo giudizio “merita a nostro avviso di essere attentamente vagliato” (p. 464), mostra di essere assolutamente dimentico della nota iniziale dell’analisi gramsciana (“Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti”) e alla sua nota finale (“Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo”)! E, assunta a tutto solo una parte (“Mussolini [...] il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti”, p. 464) , così conclude:
“Detto questo ci pare ci si debba però guardare dall’accettare la tesi generale che sottende tutto l’articolo di Gramsci: che cioè Mussolini non fu un «capo» [...] Se si accettasse questa tesi generale si dovrebbe negare la qualità di vero «capo» non solo a Mussolini, ma - facciamo solo l’esempio più macroscopico - a Hitler, il che in sede storica sarebbe veramente un assurdo. La risposta alla domanda se Mussolini, come un qualsiasi altro uomo politico, sia stato o no un vero «capo» non può essere ricercata in banali formule e in facili sillogismi” (p. 464)!
DE FELICE (1975): IL MITO DELLA ROMANITA’ E L’AVVIO DI UNA “AUTOCRITICA”. Nel 1975, nell’intervista sul fascismo, De Felice (con alle spalle già gran parte della sua imponente costruzione biografica dedicata a Mussolini e al fascismo) ricorda che, nel 1961 (all’inizio del lavoro sistematico sulla figura del “Duce”), in occasione del lavoro per la “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo” (Einaudi, 1961), ha avuto “la fortuna, più che altro sul piano della curiosità umana, di poter parlare a lungo - tutto un pomeriggio d’inverno - con Margherita Sarfatti, poco prima che morisse, in un appartamento d’albergo, in via Veneto a Roma”; e, al contempo, dichiara (e fa intendere in modo più che chiaro e forte) di non aver considerato a pieno o, meglio, di aver del tutto sottovalutato, relativamente al processo di conquista e di organizzazione del potere da parte di Mussolini, proprio il ruolo e la figura dell’autrice di “Dux”, la biografia ufficiale pubblicata con tale titolo nel 1926 (e già anticipata nel 1925, in una edizione londinese, con titolo “The life of Benito Mussolini”, con la prefazione dello stesso Mussolini):
“Da questa conversazione, attualmente, documentariamente, non ho cavato nulla. Mi è servita moltissimo, invece, per capire questa donna, per capire (...) il tipo di influenza che deve aver avuto per alcuni anni. Dopo quella conversazione mi sono chiesto, per esempio, quanto del mito della romanità fosse farina del sacco di Mussolini, e non invece piuttosto frutto dell’influenza della Sarfatti. Perché non ho mai conosciuto in vita mia una persona malata come lei di romanità” (Renzo De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di Michael Ledeen, Bari, Laterza, 1975, pp. 12-13).
MARGHERITA SARFATTI (1880-1961), RENZO DE FELICE (1929-1996), E "LUCIFERO". Nel 1993, nella “Prefazione” del loro lavoro “Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce” (Mondadori, Milano), 1993), dedicato "a Renzo De Felice", Philip V. Cannistraro - Brian R. Sullivan così scrivono:
“Abbiamo cominciato a scrivere questo libro per tentare di risolvere un mistero. In un piovoso pomeriggio di febbraio 1984 Philip Cannistraro raccontò a Brian Sullivan che forse le lettere di Benito Mussolini alla sua amante e confidente Margherita Sarfatti erano negli Stati Uniti. A rivelarglielo era stato l’anno precedente a Roma Renzo De Felice, il noto storico del fascismo italiano. (...) Seguendo gli indizi che ci fornì il professor De Felice, cominciammo le ricerche (...) Mentre eravamo alla ricerca delle lettere scomparse, scoprimmo Margherita Sarfatti. Come molte donne, Margherita era stata volutamente cancellata dalla storia. Mussolini non solo tentò di negarne il ruolo nella creazione del fascismo, ma dopo l’alleanza con Hitler non tollerò più che l’opinione pubblica fosse a conoscenza che una
donna - un’ebrea - aveva contribuito quanto lui a costruire il regime fascista. Negli ultimi anni della dittatura ne fece una “non persona”. Lei, per salvar se stessa e la famiglia, si prestò al gioco. La conseguenza fu che ancora prima di morire, Margherita Sarfatti sparì nel nulla. A quei pochi che la ricordavano non sembrava altro che la protagonista della più lunga storia d’amore di Mussolini” (pp. 3-4).
E nei “Ringraziamenti”, alla fine, gli Autori ancora precisano con chiarezza e forza: “Il professor Renzo De Felice, il maggior studioso del fascismo italiano, ci ha non solo suggerito l’argomento, ma ci ha ripetutamente dimostrato la sua simpatia e generosità fornendoci documenti, fonti e indicazioni preziose, e aprendoci, con la sua estesa rete di contatti, le porte degli archivi pubblici e privati. Il nostro debito nei suoi confronti è enorme” (p. 643).
Nel 1993, De Felice - evidentemente molto segnato dall’incontro del 1961 - in una intervista con Stefano Folli (“La bella Margherita guardò Lucifero. Lì c’era scritto il destino di Benito”, “Il Corriere della Sera”, 1° febbraio 1993), ritorna ancora sul tema e fornisce ulteriori elementi relativi al “sogno” sarfattiano, del “rinato Sacro Romano Impero” (Gramsci), e della «riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» (Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, la sera del 9 maggio 1936):
“Di Mussolini non parlava quasi mai negli ultimi anni della sua vita... Mi disse: «Anche Augusto, dopo la morte di Livia, si avviò a diventare un Tiberio». Il significato autobiografico era evidente. Lei si identificava in Livia. Come dire: finché lui è rimasto con me, io sapevo tenerlo sulla retta via (...) Conservò sempre un particolare riserbo (...) Quando la conobbi era già molto vecchia. Non molto ieratica ma certo una bella donna. Consapevole del suo passato. (...) Le idee guida della sua vita si erano trasformate quasi in ossessioni. La principale era la romanità. Cioè il senso delle forme classiche come motivo dominante della civiltà artistica (...)".
MARGHERITA SARFATTI E "IL CULTO DEL LITTORIO". E non ultimo, sempre nel 1993, Emilio Gentile, allievo di De Felice, presso Laterza, pubblica “Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista”. In questo lavoro, e in particolare in tutto il capitolo intitolato “I templi della fede” (pp.197-228), l’attenzione al ruolo e al contributo di Margherita Sarfatti comincia a essere portata al livello dovuto e a dare i suoi frutti, ai fini di una nuova e più profonda comprensione di come e quanto, “fin dai primi anni del fascismo al potere” - come scrive Gentile (p. 240) -, la “euforia per la «nuova Era» sbrigliò” non solo “la fantasia monumentalistica degli architetti”, ma la fantasia degli uomini e delle donne della gran parte della società italiana e delle sue Istituzioni (e non solo laiche, ma anche religiose)!
STORIOGRAFIA. Nel 2003, nella scia del lavoro di Philip V. Cannistraro - Brian R. Sullivan e di Emilio Gentile, viene pubblicata la biografia di Simona Urso, “Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano” (Venezia, Marsilio, 2003): un lavoro fondamentale, per ripensare la figura di una protagonista della storia italiana e per ricominciare a riscrivere una più “felice” biografia sia di Mussolini sia del fascismo!
Nel 2015, Rachele Ferrario,nella sua biografia “Margherita Sarfatti” (Mondadori, 2015), pur focalizzando maggiormente l’attenzione sull’aspetto di “regina dell’arte nell’Italia fascista”, riprende l’intervista di Stefano Folli e, così, continua e commenta:
“De Felice, che aveva colto la sensibilità di raffinato storico dell’arte della Sarfatti, vicino agli intellettuali europei - Focillon, Warburg, Le
Corbusier -, era rimasto colpito dal racconto che Margherita aveva accompagnato con un gesto simbolico: «La ricordo benissimo nel vano della finestra aperta. Mi fece avvicinare e alzò un braccio esile, con un ditino lungo e un po’ arcuato. Per la precisione non indicò la luna, ma una stella. E con un tono concitato e allusivo sibilò: “Lucifero...”. Si riferiva, credo, alla stella del destino, che determina le azioni e la fine degli uomini» “(pp. 182-183).
MITO E STORIA: "LA STELLA DEL DESTINO" (1993). Delio Cantimori, nella prefazione al primo volume del lavoro di De Felice (“Mussolini il rivoluzionario 1883-1920”, Einaudi, Torino 1965), a solo quattro anni dall’incontro del suo allievo e amico con Margherita Sarfatti, già accennando alla “fine della carriera personale e individuale di Benito Mussolini” e all’ultimo volume di un’opera “così importante e di così ampio respiro” (p. XI), sottolinea la difficoltà del lavoro dello storico, richiama “la saga dei Nibelungi nella traduzione cinematografica di Fritz Lang, o, se si vuole, alcune pagine del vecchio Rovani”, e così prosegue:
“[...] Nel giro della saga nibelungica Benito Mussolini era stato trascinato, durante gli ultimi anni della sua presenza sulla scena storica e politica, dal concatenarsi di eventi da lui in qualche modo presentiti [...] -Trascinato, in fin dei conti, e non sa da chi, né come: un uomo che cerca, - per usare un’immagine di De Felice, - e cammina seguendo una sua stella, - per usare un’immagine che fu attribuita a Mussolini -: la stella lo trae, - non si sa dove [...] ed osserviamo come ad un protagonista si addica non solo questo presentarsi quale uomo trascinato da questo o da quel «Fato» o «Destino», ma anche quel carattere generico e «classico» delle sue intuizioni politiche a lunga scadenza: propone e impone la direzione generale, e spesso vede o intravvede quel che c’è da fare in una situazione storica e in una data prospettiva, ma si lascia trainare dalla sua stella, non si occupa direttamente delle possibilità ed eventualità particolari” (p. XII).
PROBLEMA: "LUCIFERO!". Prima che a Stefano Folli, nell’intervista del 1993, del lungo incontro del 1961 con Margherita Sarfatti, a Philip V. Cannistraro (in un colloquio del 6 ottobre 1985) Renzo De Felice aveva già così raccontato:
“[...] verso la fine della conversazione Margherita si alzò dalla sedia e andò alla finestra, che inquadrava la luna piena sullo sfondo del cielo scuro. Tornando verso il suo ospite, gli posò una mano ossuta sulla spalla. «Venga, venga, professore,» lo pregò. Quando con De Felice raggiunse la finestra, Margherita lentamente alzò il braccio sottile e con il dito lungo e ricurvo indicò la stella della sera ed esclamò: «Lucifero!»" (cfr. Philip V. Cannistraro - Brian R. Sullivan, op.cit., p. 639).
Con il suo tono sibilante o esclamativo, cosa Margherita Sarfatti avesse voluto indicare o significare con la evocazione di “Lucifero”, a De Felice non fu chiaro né quella fatidica sera, né nel 1985, e né nel 1993. Con il voler credere che ella si volesse riferire “alla stella del destino”, egli continuò a ingannare solo se stesso e - come era già avvenuto - il suo stesso maestro, Delio Cantimori! E, paradossalmente, finì col ripetere - nei confronti di Margherita Sarfatti - lo stesso gioco del «duce»!
«VENGA, VENGA, PROFESSORE»: LA “LEZIONE” DELLA SARFATTI. Dal resoconto del racconto (a e) di Cannistraro, si percepisce in modo chiaro quale sia stato il tono del colloquio: “Si incontrarono nelle stanze di Margherita all’Hotel Ambasciatori in una sera tetra, gelida, e parlarono per ore. Margherita non si offrì di mostrare documenti al giovane studioso, né gli fornì rivelazioni. Gli aprì però uno squarcio sulla propria influenza sulla politica culturale del fascismo parlando a lungo del classicismo, che negli anni del regime era stato per lei uno dei capisaldi della critica d’arte. Per definire, inoltre, il proprio ruolo accanto a Mussolini e le cause della sua caduta citò un episodio della storia romana: «Anche Augusto, dopo la morte di Livia, si avviò a diventare un Tiberio...» (op.cit., p. 639).
Per De Felice, l’intervista concessa da Margherita, contrariamente a quanto forse all’inizio avrà pensato, alla fine si è risolta in una sorprendente lezione e, al contempo, in un vero e proprio trauma! Per lo storico che nel 1961 aveva già tutto impostato e “da poco cominciato lo studio sistematico di Mussolini e del regime fascista”, la “provocazione” della Sarfatti fu inaccoglibile - insopportabile!
Nel 1965, infatti, fin dall’inizio del capitolo primo (“Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza”) del volume primo, con il titolo “Mussolini il rivoluzionario 1883-1920” (Einaudi, 1965), con una dichiarazione (carica di straordinaria “superficialità” e di “autoritario” sprezzo), nei confronti della Sarfatti e della sua biografia ( il “Dux” dell’edizione del 1932 alla 13 edizione - non del 1926, e senza alcun riferimento all’edizione inglese del 1925), così scrive (pp. 3-4):
“I biografi di Mussolini, quelli che scrissero di lui dopo che egli era ormai divenuto il «duce» dell’Italia fascista, i Beltramelli [1923], le Sarfatti [1932], i De Begnac [1936], lo stesso Megaro [1947
(ed. inglese 1938)] - l’unico che per molti anni si sia posto di fronte alla figura di Mussolini non con l’animus dell’apologeta, ma neppure con quello del pamphlétaire, bensì con quello dello storico - hanno dato una grande importanza al fatto che egli sia nato e cresciuto in Romagna, alla sua «romagnolità»” (pp.3-4).
Per De Felice, la reazione (o, meglio, la “negazione”) fu sì “naturale” (come se l’incontro non ci fosse mai stato, continuò “tranquillo” per la sua strada), ma noi, di "Lucifero!" - come della Romagna, di Mussolini, di Sarfatti, e dello stesso Fascismo - ovviamente, continuiamo a saper e a capire ancora ben poco!
L’ITALIA GIACOBINA, L’EFFETTO "LUCIFERO!" E “IL PREMIO NOBEL". All’incontro con Margherita Sarfatti, storica dell’arte, giornalista, scrittrice e intellettuale cosmopolita (e" ghostwriter del Duce", come hanno ben mostrato nel 1993 Cannistraro e Sullivan proprio sulle indicazioni di approfondimento dello stesso De Felice!), Renzo De Felice si era - per così dire! - preparato fin dall’inizio con il suo lavoro sul periodo della rivoluzione francese e dell’Italia giacobina, dalle tesi sulle "Correnti del pensiero politico nella prima repubblica romana" (1954), allo studio del "triennio giacobino in Italia (1796-1799)", alle ricerche "sugli illuminati e il misticismo rivoluzionario (1789-1800)", all’evangelismo giacobino e altri studi.
Nel saggio sulla "Opinione pubblica, propaganda e giornalismo politico nel 1796-1799", De Felice così scrive:
"Ai giacobini italiani - in gran parte intellettuali e per il lungo esulato avulsi dalla vita e dal processo economico nazionale - mancò, oltre all’adesione delle masse e alla capacità di procurarsele, soprattutto una vera autonomia politico-sociale dal resto della borghesia. la loro grande forza fu una forza del tutto spirituale, psicologico-morale: fu la fede nella Rivoluzione e nella sua forza di rigenerazione. Nella loro azione è, da questo punto di vista, riscontrabile un che di religioso che inizia veramente il Risorgimento e inizia Mazzini. La loro grande debolezza fu di rimanere egemonizzati dal gradualismo della borghesia italiana del tempo" (cfr.: "I giornali giacobini italiani", a c. di R. De Felice, Milano 1962, p. 50).
Se è vero, come è vero, che alla fine del suo percorso, "da molto, tempo, andava palesando la sua insoddisfazione per l’interpretazione del fascismo che aveva dato fino ad allora", sicuramente - e contrariamente a quanto ipotizza Emilio Gentile (“Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio”, Laterza, Bari 2003, p. 140) - "sarebbe tornato a studiare i «suoi» giacobini, come egli era solito ripetere con una certa civetteria", e avrebbe ripreso la sua strada in compagnia di Gramsci, proprio dal “Lucifero!” della Sarfatti (da tener presente: molto amica di Antonio Fogazzaro, convertita al cattolicesimo nel 1928), cioè, dal poeta dell’Inno a Satana, dal Carducci giacobino, a partire dalla nota sul racconto di Filippo Crispolti (giornalista, scrittore, e uomo politico, molto amico di Antonio Fogazzaro e cattolico favorevole alla collaborazione con il fascismo, in Parlamento fino agli ultimi anni della sua vita nel 1942 ):
“Il premio Nobel. Filippo Crispolti ha raccontato in un numero del «Momento» del giugno 1928 (della prima quindicina) che quando nel 1906 si pensò in Svezia di conferire il premio Nobel a Giosuè Carducci, nacque il dubbio che un simile premio al cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: chiesero informazioni al Crispolti che le dette per lettera e in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le informazioni furono favorevoli. Così il premio Nobel al Carducci sarebbe stato dato da Filippo Crispolti” (“Quaderni del carcere”, Torino 1975, I, p. 79)!
Nel capitolo dedicato al libro della Sarfatti, "Dux", nel loro lavoro, Cannistraro e Sullivan, con grande acume hanno colto il filo di questo nodo: "Già nel 1919, al momento della fondazione del primo fascio, Margherita aveva insistito sul valore ideologico e propagandistico che avrebbe avuto l’associazione del fascismo con Roma imperiale. Margherita vagheggiava un capo che imponesse alla civiltà moderna un nuovo genere di cultura, una cultura che poggiasse sulle virtù romane dell’ordine e della disciplina. La concezione che Margherita aveva di Roma non derivava tanto dallo studio approfondito dei classici, quanto dalla letteratura italiana del tardo Ottocento, in particolare dal poeta Giosue Carducci"; e, brillantemente, cercano di chiudere il cerchio: "Una quarantina d’anni dopo uno studioso italiano [Renzo De Felice], intervistando Margherita, rimase colpito nel constatare quanto fosse ancora malata di romanità"(op.cit., pp. 337-338).
“Carducci giacobino”: "Decapitaro, Emmanuel Kant, Oddio,/ Massimiliano Robespierre, il re" ("Versaglia. Nel LXXIX anniversario della Repubblica Francese", sulla "Plebe" di Lodi, 2 novembre 1871). Un tema carico di (storia e) teoria, su cui ricollegandosi al lavoro già di Gramsci in dialogo con Croce, Edoardo Sanguineti (anch’egli poco prima di morire, nel 2007) ha cercato ("Cultura e realtà", Milano, 2010, pp. 111-122) di chiarire con la sua straordinaria e viva intelligenza il "nodo epocale filosofico e politico", proprio per neutralizzare l’“effetto Lucifero” e, finalmente, uscire dall’inferno! Coraggiosamente: ha cercato, ha lottato, ma non è riuscito a venir fuori dal labirinto.
La questione è filologica, certamente - ma non è solo storica: è filosofica, teologica, e antropologica - e bisogna scavare ancora nella direzione indicata da Gramsci (e Marx, e Feuerbach, e Kant: a riguardo, cfr., in particolare, le note su "Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi"). E proseguire nel lavoro di De Felice - e dello stesso Sanguineti. Ricominciando, ovviamente, da "capo" - da Kant e Gramsci, dalla critica dell’ideologia dell’uomo supremo e del superuomo di appendice!
Federico La Sala
FASCISMO (TRECCANI, 1932): "[...] Gl’individui sono classi secondo le categorie degl’interessi; sono sindacati secondo le differenziate attività economiche cointeressate ma sono prima di tutto e soprattutto stato. Il quale non è numero, come somma d’individui formanti la maggioranza di un popolo. E perciò il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti" (Arturo MARPICATI Benito Mussolini. Gioacchino Volpe).
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E -"CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile, recensito da Riccardo Chiaberge
D’ANNUNZIO, SHAKESPEARE, ARALDO DI CROLLALANZA. Così D’Annunzio ad Araldo di Collalanza, in una lettera del 1° Maggio 1930: "[...] io amo italianizzare i nomi stranieri [...] feci del nome di Will Shakespeare (shake = scuotere, scrollare; spear = lancia) Guglielmo Scotilancia. Ecco che il Vostro Nome, o Araldo, mi dà una parola sonora più italica e arcaica: Crollalanza".
E così di Crollalanza (il 24 Maggio 1930) a Gabriele D’Annunzio: "[...] La traduzione di Will Shakespeare lessi era vista e ascrivibile alle origini del mio cognome, comparsata in varie pubblicazioni araldiche di cui mio nonno e mio padre furono appassionati e ineguagliabili compilatori. Il mio capostipite Giovanni Alboino seguì Corrado III alle Crociate. Per la sua impareggiabile destrezza d’armi fu soprannominato spezzalance. La virtù del capitano di decreto sovrano finì con il diventare glorioso cognome Crollalance e successivamente per altro decreto di Carlo V Crollalanza. I discendenti e modestamente il sottoscritto, non immemori delle origini, cercano di tener vive e di tendere mano al cognome" (Cfr. Nicola Fanizza, "Araldo di Crollalanza. Un ministro all’ombra del duce", Progedit, Bari 2021, pp. 164-166).
II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
PATTI LATERANENSI (11 FEBBRAIO 1929). A un’udienza concessa ai professori ed agli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il 13 febbraio 1929, due giorni dopo la firma dei Patti Lateranensi, Pio XI così illustra il grande evento:
“Il Trattato conchiuso tra la Santa Sede e l’Italia non ha bisogno di altre spiegazioni e giustificazioni esterne, perché in realtà esso è a se medesimo spiegazione e giustificazione la più chiara e definitiva. Ma c’è pure una spiegazione ed una giustificazione esterna non meno chiara e definitiva, e questa è il Concordato. Il Concordato, anzi, non solo spiega e giustifica sempre meglio il Trattato, ma questo gli si raccomanda come a condizione di essere e di vita. È il Concordato che Noi, appunto perché esso doveva avere questa funzione, fin da principio abbiam voluto che fosse condizione «sine qua non» al Trattato... Le condizioni dunque della religione in Italia non si potevano regolare senza un previo accordo dei due poteri, previo accordo a cui si opponeva la condizione della Chiesa in Italia. Dunque per far luogo al Trattato dovevano risanarsi le condizioni, mentre per risanare le condizioni stesse occorreva il Concordato. La soluzione era di far camminare le due cose di pari passo. E così, insieme al Trattato, si è studiato un Concordato propriamente detto e si è potuto rivedere e rimaneggiare e, fino ai limiti del possibile, riordinare e regolare tutta quella immensa farragine di leggi tutte direttamente o indirettamente contrarie ai diritti e alle prerogative della Chiesa, delle persone e delle cose della Chiesa [...]”(Allocuzione di Sua Santità Pio XI ai professori e agli studenti dell’Università cattolica Sacro Cuore di Milano «Vogliamo anzitutto», 13 febbraio 1929).
L’INCARICO DI PAPA BENEDETTO XV (1919) E LA PROVVIDENZA DI PIO XI (1929). Sul conseguimento di questo risultato (“conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti”), e sulla sua comprensione (sul meglio capire come sia stato possibile), gettano luce non solo i “grandi” fatti - ricordiamo che la strada era stata già aperta dal Papa precedente, Benedetto XV (morto nel gennaio 1922), che aveva abrogato nel 1919 il “non expedit” e favorito l’ingresso dei cattolici nella vita politica e la nascita del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo - ma anche i “piccoli” fatti: in particolare, una lettera del 1919, inviata da una donna di Lecce a una sua amica pugliese di Mola di Bari.
In questa lettera, la donna salentina così scrive (“Lecce, 27-7-1919”):
“Carissima [...] sono tanto occupata, adesso; probabilmente, fra giorni, dovrò mettermi in viaggio per la Basilicata, per esercitare anche lì il mio apostolato, avendo avuto l’incarico dal Papa di delegata regionale anche della Basilicata e, forse, della Sicilia e della Calabria, essendo la Puglia divisa fra tre delegate, ed occorrendo nelle suddette altre regioni un tipo di delegata energica e attiva come mi hanno fatto l’onore di definirmi a Milano”.
E prosegue: “Poiché anche gli onori sono castighi di Dio, a me è stato dato un incarico più esteso e complicato che non quello delle altre sedici rappresentanti d’Italia. A Lecce i successi sono già cominciati e domenica, 3 agosto, ci sarà l’inaugurazione del primo circolo giovanile cattolico, che aspetta la mia parola di incoraggiamento. Possa, davvero, la mia povera opera essere proficua di bene alle giovanianime [...] Maddalena”.
MADDALENA SANTORO (1884-1944). Chi è Costei? Come mai di lei non c’è alcuna traccia nei libri di storia? Questo documento apre la pista a infinite domande: fa parte di un "carteggio" sorprendente (32 lettere - dal 1919 al 1938) tra Maddalena Santoro e la sua amica Caterina Tanzarella, riportato nel lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare" (Edizioni Dal Sud, Bari 2016).
Tale carteggio (pp. 109-154) è di grande rilevanza: mostra solo la punta di un gigantesco iceberg e sollecita a sapere di più e meglio di questa donna salentina, dirigente di primo piano dell’Azione Cattolica, intellettuale e scrittrice e, non ultimo, anche amante del fratello del Duce, "il fratello di un Grande Fratello", del quale sappiamo fondamentalmente poco (se "preferì restare nell’ombra", come scrive Indro Montanelli nel novembre del 2000 - cfr. "Il fascino di Arnaldo Mussolini", non per questo deve continuare a restarvi).
ARNALDO MUSSOLINI (1885-1931). Sul lungo lavoro, finalizzato alla Conciliazione tra Regno d’Italia e Vaticano, svolto “nell’ombra” (p.38) da Arnaldo Mussolini e probabilmente, alla luce dei “precedenti”, dalla stessa Maddalena Santoro, una grande traccia è in “una lettera inviata, in data 1 gennaio 1927”, dal marito di Caterina Tanzarella, Piero Delfino Pesce a un suo amico.
In un linguaggio “volutamente criptico”, così scrive: “La gente di corta vista, la maggioranza grandissima, guarda a Roma; io invece guardo a Fiesole, e so che a Roma impera assolutisticamente l’Abate Tacchi Venturi. (sic.) Questo il filo per intendere molte cose” (p. 38). Il riferimento (evidentemente “eco delle confidenze” della moglie Caterina) è alle trattative sul Concordato e agli incontri segreti in un convento di Fiesole, di Arnaldo con il gesuita Pietro Tacchi Venturi (1861 - 1956), presentato proprio da Arnaldo “a suo fratello Benito verso la fine del 1922”.
Il coraggioso e originale lavoro di Nicola Fanizza, sia per la qualità della sua scrittura sia della sua preziosa documentazione sulla "storia d’amore che il duce voleva cancellare", è una formidabile sollecitazione a riprendere anche una vecchia indicazione di Luisa Passerini (in una sua relazione nel convegno "Il regime fascista. Bilancio e prospettive di studio" Bologna 1993, ora in "Il regime fascista. Storia e storiografia", a c. di Angelo Del Boca, Massimo Legnani e Mario G. Rossi, Laterza, Bari 1995, pp. 498-506).): "coniugare la tradizione della storiografia antifascista sul fascismo con gli studi storici che adottano le categorie di genere e di generazione" e superare definitivamente la obsoleta prospettiva storiografica che voleva e vuole ancora "le questioni di genere e la storia delle donne come questioni separate e secondarie o come questioni che hanno a che fare più col sociale che col politico". Riguardare l’intera storia della società (e dell’umanità intera) con due occhi, non con un occhio solo!
Da notare che in quello stesso convegno una sola volta è citato Arnaldo Mussolini (p.133), per il connubio tra affari e politica, e una sola volta è citata Rosa Maltoni (p. 504), la madre del "Grande Fratello" (e Arnaldo ed Edvige), la quale invece durante il fascismo fu oggetto di "un culto molto ampio".
MARGHERITA SARFATTI (1880-1961) E MADDALENA SANTORO (1884-1944). In tale prospettiva va finalmente portata alla luce nella storia delle donne del Novecento non solo la complessa figura di Margherita Sarfatti, già oggetto (come accennato) di più ricostruzioni non solo come "amante del Duce", ma anche l’altrettanto complessa figura di Maddalena Santoro, non riducibile affatto a semplice amante del "fratello del Grande Fratello"!
L’UOMO DELLA PROVVIDENZA(1929). C’è da augurarsi allora che il lavoro di Nicola Fanizza cada nelle mani non solo di lettori e lettrici curiosi, ma anche di storici e storiche capaci di ricerche approfondite su queste due figure di grande importanza, specie in rapporto al fatto fondamentale (da ricordare: Margherita Sarfatti, di origini ebraiche, si convertì al cattolicesimo nel 1928)della storia d’Italia che portò Regno, governo fascista e Chiesa cattolico-romana alla firma dei Patti Lateranensi quando, come diceva Papa Pio XI subito dopo ai professori e agli studenti dell’Università cattolica di Milano,
“siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti... E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio”.
"SAPERE AUDE!" (I. KANT, 1784). C’è solo da augurarsi che gli storici e le storiche abbiano il coraggio di servirsi della propria intelligenza e sappiano affrontare "l’attuale crisi di identità della storiografia" (Emilio Gentile)!
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Federico La Sala (02.04.2017).
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Walter Benjamin, l’inquilino in nero (Massimo Palma, "Alfabeta2", 11 gennaio 3017),
Enzo Traverso, il principio malinconia (Massimo Palma - "Alfabeta2", 24 marzo 1917).
FLS
Immagine commemorativa. Da sinistra verso destra, Vittorio Emanuele III di Savoia, Papa Pio XI e Benito Mussolini. |
CITTADINANZA ATTIVA, FACOLTA’ DI GIUDIZIO, E ANTROPOLOGIA: #SAPEREAUDE! (#KANT2024).
LA LINGUA (LA COSTITUZIONE) BATTE DOVE I DENTI (I PARTITI) DOLGONO. *
Tutte le articolazioni del "corpo mistico" della democratica società italiana scricchiolano alla grande, a tutti i livelli, e da tempo: e la radice è non solo locale, ma globale (antropologica, teologica, e cosmologica)!
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FILOLOGIA AL SERVIZIO (DELLE ORECCHIE) DEI #MERCANTI, IL PROBLEMA DELL’#UNO (IN FILOSOFIA TEOLOGIA E POLITICA), E LA #QUESTION #HAMLETICA DELLA "PACE PERPETUA" (#KANT2024).
QUALE #FUTURO DELLE NAZIONI E DELLO STESSO #PIANETATERRA? DIO E’ AMORE ("DEUS #CHARITAS EST" (1 Gv. 4, 8-16) O "DIO E’ MAMMONA (" DEUS #CARITAS EST")?!
STORIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA: il "#SAPEREAUDE! (KANT, 1784) E LA FIGURA DEL "#CAPO" DEL "CORPO MILITARE" DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA...
A omaggio della tradizione critica (e cristica) dell’Europa, in particolare dello Spirito del messaggio evangelico (1 Gv. 1), ricordo la frase (in onore, oggi, #17gennaio) di Sant’#AntonioAbate (https://lnkd.in/e_HR5Cxw ): "Nulla potrà separarmi dalla #Carità di Cristo" (Rm 8,35-39) e, al contempo, che la #Parola "Charitas" dice della #grazia e di una Relazione d’Amore, non di una relazione militare e proprietaria di un "#Dominus" (un "#Vir", un #Signore) con il "corpo mistico" di tutti i suoi sacri "soldati", sottoposti al suo #giogo e ai suoi "ordini":
Non è il caso e il tempo di "non fare orecchie di mercante" e di risolversi dalla rovinosa "caduta" nel letargo filosofico e filologico di lunga durata? Se non ora, quando?
COSTANTINO, NICEA (325-2025), E LA STORIA DI UN "CODICE" DI LUNGA DURATA.
Nell’immaginario teologico-politico antisemita l’Europa abita almeno a partire da [Costantino, dall’editto "Codex Judaeis" del 321 (cfr. Arturo Schwarz,"Costantino? Tutt’altro che tollerante, inventò l’antisemitismo di Stato, fino ad oggi: per il 2025 già si preparano le celebrazioni dell’anniversario del primo concilio di Nicea (325).
L’EUROPA, "L’ELOGIO DELLA FOLLIA" (1511) E L’UTOPIA (1516). CULTURA E SOCIETÀ: "LA MONTAGNA INCANTATA" (1924) e "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929).
Una nota a margine di una "citazione" di una lettera di #Tommaso Moro a #Erasmo di Rotterdam:
«Non puoi immaginarti quanto ora io m’imbaldanzisca, quanto mi gonfi, quanto mi tenga più su. Immagino di continuo che i miei Utopiani mi vorranno eleggere loro sovrano perpetuo, tanto che mi vedo già incedere del diadema di frumento, mi vedo cospicuo nel paludamento francescano, mi vedo portare lo scettro venerabile di un covone di messi. Circondato da un’insigne accolta di cittadini di Amauroto, mi vedo, in pompa solenne, andare incontro agli ambasciatori e ai principi delle genti straniere, ben miseri al nostro confronto, pieni di sciocca superbia, perché ornati fanciullescamente, pieni di vanità femminile, carichi di disprezzabile oro, ridicoli per la porpora, per le gemme, per altre bazzecole.» (Cfr. E. Scelza, "LE CITAZIONI: il sogno ad occhi aperti di Tommaso Moro", "Gente e Territorio", 15 novembre 2023).
SE SI CONSIDERA CHE TOMMASO MORO (1478-1535) scrive quello che scrive ad ErasmodiRotterdam (1469-1536) il 4 dicembre 1516, e che, al contempo, Martin #Lutero (1483-1546) nell’ottobre del 1517 diffonde le sue #95Tesi, c’è da pensare che ognuno sognasse un proprio #sogno ad occhi aperti e non avessero affatto un #mondo "unico e comune" (#Eraclito) : questo spiega, soprattutto da parte di Erasmo e Moro, anche la loro presa di distanza dalle sollecitazioni di riforma della Chiesa da parte di Lutero.
Non è un caso che, pochi anni dopo (al tempo di Carlo V, dopo il Sacco di Roma nel maggio del 1527), la richiesta di un tentativo di edizione della "#Monarchia" di #DanteAlighieri, fatto da Alonzo de #Valdès (1490 - 1532) e Mercurino di #Gattinara (1465-1530), è lasciato cadere nel vuoto da Erasmo da Rotterdam (nel marzo del 1527), e, ancora e purtroppo, di lì a poco c’è la rottura di #EnricoVIII con Chiesa cattolica e l’avvio della Riforma Anglicana (1534).
All’indomani della Prima Guerra Mondiale, alla fine della sua "Montagna Incantata" (#Zauberberg, 1924), #ThomasMann scrive: "Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?" (trad. di E. Pocar).
Nel 1929, in Italia, la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano sottoscrivono il "Concordato" (#PattiLateranensi, 11 febbraio 1929): a Vienna, intanto, #SigmundFreud porta avanti il suo lavoro e pubblica il risultato delle sue ricerche e delle sue riflessioni sul "Disagio della civiltà" (e nella civiltà).
P.S. - STATO ITALIANO E STATO PONTIFICIO (CHIESA CATTOLICA): LA QUESTIONE ROMANA E IL "#20SETTEMBRE 1870" (Festa della liberazione della capitale e dell’unificazione nazionale, abolita dal Fascismo). #BENEDETTOCROCE, NELLA "STORIA D’ITALIA DAL 1871 AL 1915" (1928), A PROPOSITO DEL PERSONAGGIO "LUDOVICO SETTEMBRINI" DELLA "MONTAGNA INCANTATA" ("DER ZAUBERBERG", 1924) DI THOMAS MANN, COSI’ SCRIVE:
PASSAGGI STORICI. Otto saggi raccolti da Adriano Prosperi ampliano la sua penetrante lettura dei processi avviati dalla Chiesa in Italia all’epoca della Controriforma: «Una rivoluzione passiva», da Einaudi
Adriano Prosperi, carità, devozione e altre maschere sottili
di Francesco Benigno (il manifesto - Alias, 03 luglio 2022).
Controriforma è parola difficile, che segna la trasformazione di un mondo lontano, ma indica anche un processo decisivo, che ha segnato per secoli l’Italia. A metà del Cinquecento, col concilio di Trento la Chiesa Cattolica, una volta svaniti i tentativi di far rientrare la riforma protestante, faceva partire un processo di riorganizzazione delle proprie strutture, di controllo e di soggezione della popolazione, nonché di rilancio della predicazione su scala mondiale. Nasceva la religione cattolica per come l’abbiamo conosciuta, imperniata sulla messa settimanale, la predica, la confessione, i seminari, i catechismi, le reliquie, le missioni e un utilizzo innovativo delle immagini sacre. Nella penisola italiana questo processo ha avuto effetti poderosi e secondo Benedetto Croce non tutti e non sempre negativi: i rigori della controriforma avrebbero in sostanza fatto risparmiare all’Italia i drammi e i dolori causati dalle divisioni religiose che travagliarono invece per decenni altri paesi europei.
Oltre «Tribunali»
Al racconto di questa spinta, che fu molto più di una reazione difensiva, gli storici italiani hanno fornito negli ultimi tre decenni un contributo di grande livello. Tra loro, Adriano Prosperi ha lungamente lavorato su questo tema, e ne fornisce adesso una lettura penetrante nel suo nuovo libro "Una rivoluzione passiva Chiesa, intellettuali e religione nella storia d’Italia" (Einaudi, pp. 430, € 34,00). Gli otto saggi raccolti vanno letti in controluce a "Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari", quel testo del 1996 divenuto ormai un classico, in cui Prosperi aveva fissato una lettura della controriforma incentrata sulla capacità della Chiesa di radicarsi nella società italiana, plasmandone durevolmente i comportamenti.
Come in quel libro anche in questo si sottolinea l’importanza dei tre aspetti in cui si era articolato quel cruciale riposizionamento: e cioè le pratiche di controllo della cultura attraverso l’Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti; la diffusione della confessione come metodo di controllo e di condizionamento dei comportamenti individuali; e infine i nuovi stili della predicazione, quella dei parroci ma poi anche quella operata dai missionari. Soprattutto è presente qui una forte attenzione allo stile culturale e alle pratiche gestionali dei gesuiti, cui Prosperi aveva dedicato nel 2016 un altro libro importante, "La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento".
Quello che c’è di nuovo qui è la consapevolezza esplicita che ciò che la controriforma ha operato è stata una rivoluzione. Certo, non una rivoluzione dal basso che impone un mutamento violento dell’ordinamento politico, ma una rivoluzione dall’alto, che in modo più sottilmente violento cambia i connotati della vita sociale attraverso un nuovo uso della carità e della devozione, e che perciò va considerata, come indica il titolo, una «rivoluzione passiva». L’espressione, come si sa, è desunta da Antonio Gramsci, che - mutuando una frase di Vincenzo Cuoco - l’aveva utilizzata nei Quaderni dal carcere per parlare della «rivoluzione senza rivoluzione» che caratterizzava l’età tra le due guerre.
Questo rimando a Gramsci, tuttavia, va ben al di là del titolo del libro, perché sottolinea la messa in opera di un influente meccanismo di spiegazione. L’idea cioè che la reazione alla minaccia protestante sia stata ben più di una semplice difesa: qualcosa di diverso da un mero ritorno al passato, un mutamento che integra in modo differente il vecchio e il nuovo.
Prosperi descrive questa rivoluzione come incentrata sui cambiamenti di due gruppi sociali considerati decisivi: le classi subalterne, soprattutto contadine, da un lato e gli intellettuali dall’altro. Rispetto al mondo dei «semplici», il popolo analfabeta, si profila il tentativo della Chiesa di sradicarne la mentalità magica e le tradizioni folkloriche, ma mantenendolo in posizione di assoluta dipendenza; mentre verso gli intellettuali si esercitano forme di blocco della libera riflessione morale e soprattutto religiosa, come ad esempio il divieto dell’uso della bibbia in volgare. Il risultato di questa doppia operazione di direzione delle coscienze e di governo dei costumi sarà la nascita di una nuova società, in cui le masse popolari vengono plasmate dai parroci e in cui gli intellettuali laici, così prevalenti nell’epoca del rinascimento, lasciano il posto a chierici colti, secolari e ordinari, ormai lontani dall’interpretazione esteriore che della religione forniva tradizionalmente un certo mondo fratesco.
Radicamento personale
Ci si può chiedere se questa forbice gramsciana tra mondo contadino e intellettuali non sacrifichi l’analisi di altri gruppi sociali più variegati, incardinati nell’universo urbano, ma Prosperi confessa con grande onestà la sua predilezione per una prospettiva che ha sullo sfondo un radicamento esistenziale di tipo personale, derivato cioè dall’essere cresciuto in una famiglia contadina toscana sul finire dell’epoca fascista, divisa tra la fervente pratica religiosa, della madre, e la cultura comunista, del padre; un’esperienza avvicinabile a quella classica polarizzazione tra parrocchia e casa del popolo che ha ispirato Guareschi e la saga popolare di Don Camillo e Peppone. Un radicamento di vita che non spiega solo il riferimento a Gramsci, ma che ha sostenuto l’orientamento degli studi di Prosperi, una pratica storiografica intensa e impegnata civilmente e che continua ad offrirci risultati di grande spessore.
MONARCHIA, FASCISMO, E RESISTENZA: LA #DIVINACOMMEDIA E IL #25APRILE.
#ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, E #POLITICA. A 702 anni dalla morte di #DanteAlighieri, la società italiana mostra ancora grandi difficoltà al suo interno e non riesce a parlare una #lingua #comune, quella propria dei cittadini-sovrani e delle cittadine-sovrane.
#STORIA, #LETTERATURA E #FILOSOFIA. Prima di #Hegel, a tutti i livelli (antropologici e teologici), a cosa alludeva #Dante con la sua paradigmatica proposta della #Monarchia dei #DueSoli?!
LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI". Se, alla base del "dia-logo" delle due parti in cui l’Italia è divisa (la "destra" e la "sinistra" di "sempre"), non c’è il #Logos (l’accettazione e la condivisione della #Parola della #Legge), ma c’è solo il #Logo di una parte contro e sopra l’altra armata, in una "dialettica" da "#padrone e #servo", dov’è più il #dialogo, dove più la #Costituzione?, dove l’#Italia?!
#EarthDay #Koyaanisqatsi #Ubuntu #Earthrise
COSMOTEANDRIA (ATEA E DEVOTA), QUESTIONE ANTROPOLOGICA, E FILOLOGIA.
IL MACROANTROPO. "Alla chiusa della mia esposizione possono trovare il loro posto alcune considerazioni sulla mia #filosofia stessa. [...] che l’interno essere di tutte le cose sia assolutamente uno e medesimo, lo aveva già visto e compreso il mio tempo, dopo che gli elatici, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza l’avevano estesamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina. Ma che cosa sia quest’Uno e come esso giunga a rappresentarsi come Molto, è un problema, di cui la soluzione si trova per la prima volta presso di me. - Parimenti si era, fin dai tempi più antichi, riconosciuto l’uomo come microcosmo.
Io ho rovesciato il principio e dimostrato il mondo come #macroantropo, in quanto volontà e rappresentazione esauriscono l’essere dell’uno e dell’altro. Evidentemente però è più giusto, imparare a comprendere il mondo dall’uomo, che l’uomo dal mondo, perché si ha da spiegare ciò che è dato mediatamente ossia il dato dell’intuizione esterna, da quel che è dato immediatamente, ossia dal lato dell’autocoscienza, non viceversa."
(ARTHUR SCHOPENHAUER, Supplementi al "Mondo", II, Editori Laterza, Bari 1986).
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COSMOLOGIA E #ANDROCENTRISMO: "CONOSCENZA E RESPONSABILITÀ. [...] Il contrasto forte fra il progresso scientifico e l’arretratezza di alcune scelte di gestione e sfruttamento dell’#ambiente ci racconta di quanto sia difficile per alcuni di noi fare tesoro della conoscenza ed assumere responsabilità rispetto a se stessi e al mondo esterno. Si pensi ancora ad esempio a quanto #oggi si sa del mondo vegetale che possiede una sua “intelligenza” (#StefanoMancuso e #AlessandraViola, Verdebrillante - Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Giunti Editore, Firenze 2013). Questa intelligenza viene ignorata dai più, anche grazie a #Linneo, il padre della nomenclatura (ancora in auge nei libri scolastici) per la classificazione scientifica degli organismi viventi. Dal diciottesimo secolo, i vegetali sono posti sul gradino più basso in una #scala “naturale” degli esseri viventi. Essi, in realtà, non sono solo una risorsa del pianeta che l’uomo può utilizzare a suo piacimento per motivi estetici, alimentari o terapeutici; hanno una vita autonoma, ricchissima e degna di rispetto, e spesso hanno trovato, attraverso geniali forme di adattamento ed anche di comunicazione, innumerevoli strategie di convivenza, fra loro e con gli altri esseri viventi. [...]" (cfr. Rosanna Bologna, Insula Europea, 18 gennaio 2023
Per Dante, svoltare a destra
di Stefano Jossa (Doppiozero, 16 Gennaio 2023) *
Dante di destra? Lo ha dichiarato, col compiacimento di chi ritiene di lanciare una provocazione dirompente («so di fare un’affermazione molto forte»), il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano in un’intervista al direttore di «Libero» Pietro Senaldi durante un evento elettorale di Fratelli d’Italia a Milano. Il ministro ha individuato in Dante Alighieri «il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese», perché ritiene che «quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia sia profondamente di destra».
Sangiuliano sperava di suscitare reazioni indignate, com’è effettivamente avvenuto, per cui come provocatore alla Marco Pannella, alla Renato Zero o alla Aldo Busi ha decisamente funzionato bene. Molto meno bene ha funzionato come pensatore originale, perché la sua battuta ha una lunga storia, che si radica almeno in quel «Dante fascista» che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime.
Rivelandosi estremamente difficile assimilare Dante alla prospettiva politica e culturale del PNF, perché l’etica francescana e la concezione universalista del poeta non potevano coincidere con il nuovo orizzonte aggressivo e nazionalista delle camicie nere, gli ideologi del tempo non trovarono di meglio che aggregare Dante al Pantheon eroico della Nazione, facendolo entrare in una lunghissima lista di campioni dell’italianità, da Giulio Cesare al Duce in persona, passando per, fra gli altri, Giangaleazzo Visconti, Emanuele Filiberto, Ugo Foscolo, i fratelli Bandiera, Goffredo Mameli, Camillo Benso Conte di Cavour, Alfredo Oriani, Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e Nino Oxilia (così Vittorio Cian nel 1928): lista che di Dante faceva un santino come gli altri, ormai svincolato dalla sua reale esperienza letteraria e dalla sua concreta identità storica.
Dante veniva presto ridotto a una controfigura del Duce, di cui del resto avrebbe profetizzato l’avvento in quel verso del trentatreesimo canto del Purgatorio in cui si annuncia un DVX liberatore dell’Italia dalle divisioni e dalle guerre: «nel quale un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque» (dove il numero romano per 515, DXV, viene anagrammato per indicare l’avvento di un vendicatore dell’alleanza a delinquere tra la puttana, la curia papale corrotta, e il gigante, la monarchia di Francia). Lo sintetizzava perfettamente lo storico Domenico Venturini nel volumetto di poco più di cento pagine intitolato Dante Alighieri e Benito Mussolini, stampato a Roma dalla Nuova Italia nel 1927, con prefazione di Amilcare Rossi, Presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti. Il volume era «pubblicato a beneficio dell’Opera Nazionale per il cimitero monumentale del Grappa, sotto l’alto patronato di S. M. il Re».
L’associazione con l’eroismo militare, da un lato (essendo il sacrario militare del monte Grappa, in Veneto, uno dei più imponenti e significativi monumenti alla memoria dei caduti della Grande Guerra), e con la monarchia, dall’altro (essendo pur sempre il Re il garante dell’unità della nazione), inseriva fin dall’inizio il libretto in un orizzonte d’italianità, come si affrettava a chiarire il prefatore nella pagina introduttiva.
Il risultato era una raccolta di corbellerie che istituivano il parallelo tra il Poeta e il Condottiero, accomunati dalla triste esperienza dell’esilio, che vissero entrambi con «acutissimo dolore per la lontananza della patria», e dalle nobili aspirazioni politiche, perché «Mussolini è il Dux che sta operando, conforme voleva Dante, quella riforma politica e morale da cui il Poeta sperava salute per l’Italia travagliata da fierissime discordie derivanti dai colluttanti partiti, riforma, ripeto, che schiude la via al conseguimento de’ più alti destini d’Italia, destini che renderanno imperituro alla memoria de’ posteri il meraviglioso secolo di Mussolini».
Gli avrebbero fatto seguito il «Dante Italiano e Imperiale» di Emilio Bodrero (Dante, l’Impero e noi, sulla «Nuova Antologia» del 1931) e il Dante precursore di Mussolini di Tommaso Vitti (Dante e Mussolini, Caserta, Tip. Sociale Jacelli & Saccone, 1934). Di qui discendeva il culto di Dante, che culminava nel progetto di quel Danteum che avrebbe sintetizzato la visione della nazione contenuta nella Divina Commedia. Alle ossa di Dante il segretario del Fascio di Salò Alessandro Pavolini affidava addirittura, simbolicamente, l’ultimo sussulto d’italianità dei repubblichini, proponendo di trasferirle nel «ridotto della Valtellina», il luogo dove i fascisti avrebbero dovuto organizzare la difesa finale della Repubblica Sociale Italiana. Dante ridotto, è proprio il caso di dirlo, a icona vuota, insomma, dentro cui si potevano accomodare i contenuti dettati dalle convenienze e dalle contingenze: se il simbolo uccide la cosa, hegelianamente e lacanianamente, il piano trascendente del linguaggio e delle rappresentazioni strutturate in termini linguistici negherà la cosa, l’oggetto, i contenuti, la storia, a favore di un sistema di significati altri, costruiti altrove e determinati altrimenti.
Un Dante di destra, quindi, nell’ottica dei fascisti e dei loro seguaci, è già abbondantemente esistito e come provocazione è risibile. Dalle parole del ministro, tuttavia, emerge quella vaghezza del linguaggio del politico, che riduce tutto a slogan senza contenuti, che è persino più preoccupante del proclama di un Dante di destra (che, inutile dirlo, Dante non fu, per il semplice fatto che le categorie politiche del suo tempo erano guelfi e ghibellini, con i primi divisi, a Firenze, in bianchi e neri, anziché destra e sinistra). Che vuol dire, ad esempio, «pensiero di destra»? Quali sono la «visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri»? Qual è la «costruzione politica» nei saggi diversi dalla Divina Commedia (che non è un saggio)? Secoli di esegesi e critica danteschi sono ridotti a due massime capitali che non significano nulla, perché ciascuno può riempirle del contenuto che preferisce, chiamandolo «di destra» per partito preso, per ragioni di schieramento politico oppure per semplice preferenza di una mano sull’altra.
Al quale si può senz’altro contrapporre il suo uguale e contrario, quel Dante di sinistra che emergerebbe prima di tutto dalla richiesta di veicolare istanze di libertà, come avvenne quando i neri d’America nelle piantagioni adottarono versi danteschi per i loro canti spiritual, in un processo descritto magnificamente da Dennis Looney in Dante for Freedom (assumendo, con Norberto Bobbio, che la sinistra tenda verso la comunità e la destra verso l’individualismo, con le dovute scuse per la sempflicazione da citazione en passant).
La «vision dell’Alighieri» era del resto il richiamo decisivo dell’inno nazionale fascista, la canzone Giovinezza, cui lo scrittore Salvator Gotta imprimeva nel 1925 una risoluta svolta dantesca nel segno della continuità tra momento profetico e realizzazione storica con l’aggiunta di due versi: «la vision dell’Alighieri | oggi brilla in tutti i cuor». Dante nazionalista, insomma, secondo una retorica di lunga durata, che discende dalla lezione risorgimentale, incarnandosi nella famosa sentenza di Cesare Balbo secondo cui «Dante fu l’Italiano più italiano che sia stato mai» (Vita di Dante, 1839), e si esalta nella sintesi capitale di Giovanni Gentile, per il quale «con Dante comincia ad affermarsi idealmente l’Italia» (Dante nella storia del pensiero italiano, 1904). In mezzo c’era l’incoraggiamento del grande teorico dell’eroismo romantico, lo storico e filosofo scozzese Thomas Carlyle: «La nazione che possiede un Dante è unita come nessuna muta Russia può esserlo» (On Heroes, 1941).
Questa retorica è appartenuta tanto alla destra quanto alla sinistra, poiché è soprattutto una retorica delle Istituzioni (in quanto tale, perciò, tendenzialmente di destra), al punto che personalità di certo immuni dal contagio delle destre, come l’allora Ministro della Cultura Dario Franceschini e l’ancora presidente della Repubblica Sergio Mattarella hanno potuto dichiarare, rispettivamente, che «Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia» (Comunicato del Ministero della Cultura del 17 marzo 2021) e che «Dante è in realtà il grande profeta dell’Italia, un patriota visionario, destinato, quasi biblicamente, a scorgere ma non a calcare la Terra vagheggiata e promessa» (Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione delle celebrazioni per il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri).
La risposta più sciocca possibile e immaginabile al ministro Sangiuliano è dunque che Dante non è né di destra né di sinistra, perché è soltanto italiano: cosa che Dante, storicamente, non fu mai, semplicemente perché per lui non era neppure concepibile esserlo, muovendosi il suo orizzonte politico tra il municipale (Firenze) e l’universale (l’Impero). È di destra, tuttavia, ridurre ogni discorso a una «pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile». Così scriveva uno dei grandi interpreti della cultura di destra, l’antropologo Furio Jesi, che proseguiva definendo i caratteri di questa cultura: una «cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari» e «in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto tradizione e cultura ma anche giustizia, libertà, rivoluzione». La conclusione era drammatica, perché identificava la destra col partito del tradizionalismo fine a se stesso, della difesa ottusa delle identità statiche e della chiusura ideologica su malintese proprietà: «La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra».
I due grandi miti del padre della patria (che Dante non fu) e del padre della lingua (che Dante neppure fu), congiunti mirabilmente in endiadi («padre della lingua italiana, e quindi della Nazione») da Benito Mussolini in un discorso del 27 giugno 1932, in occasione dell’apposizione della targa commemorativa al monumento di Dante a Napoli, andranno definitivamente decostruiti, smontati e ricalibrati. Su questo forse dovremmo continuare a interrogarci: non se Dante sia di destra o di sinistra, che è una boutade che lascia il tempo che trova e ha la sua risposta nell’effimero di una risata, ma cosa vogliano dire destra e sinistra. La destra al governo continua a tenerlo nascosto, ma è arrivato il momento di stanarla, smontandone il linguaggio e individuandone le incoerenze.
Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista, in «The Italianist», XVI (1996), 1, pp. 117-42.
Luigi Scorrano, Il Dante “fascista” (2000), in Id., Il Dante “fascista”. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna, Longo, 2001, pp. 89-125.
Dennis Looney, Dante for Freedom. The African American Reception of Dante Alighieri and the Divine Comedy, Notre Dame: University of Notre Dame Press, 2011.
Martino Marazzi, Danteum. Studi sul Dante imperiale nel Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2015.
Guy P. Raffa, Dante’s Bones. How A Poet Invented Italy, Cambridge (Mass.) - London, Harvard University Press, 2020.
* Ripresa parziale - senza allegati (FLS).
ITALIA 1922-2022.
ITALIA 1922-2022. Che storia! E che storiografia! E che scuola! E che educazione civica e linguistica... Ma dove sta la logica e il diritto? E la filologia? A quando un bel convegno costituzionale sulla #mistica del PNF, del Partito Nazionale Fascista?!
Quando si parlerà dell’universalismo sovranista 1 (una parte che si è fatto Partito della Nazione e continua a cantare: forza...Italia) e dell’universalismo sovranista 2 (una parte che si è fatto Partito della Nazione e continua a cantare l’Inno della Nazione: fratelli di ...Italia)?
Ancora "Avanti, o popolo"!?
Cosa si aspetta la fine della storia? Ma la critica del "platonismo per il popolo" non ha con-vinto e il muro non è crollato?! Era solo una illusione?!
Forse è meglio uscire dal letargo (Par. XXXIII, 94) .... e riattivare la memoria: la rivoluzione copernicana è iniziata da tempo (1543) e il "Crepuscolo degli idoli" (1889), come l’ "Interpretazione dei sogni" (1899), è già stato scritto!
Federico La Sala
Il discorso della senatrice a vita Liliana Segre
L’apertura della seduta a Palazzo Madama per il voto del presidente
di Redazione Ansa*
***
Ecco il testo del discorso della senatrice a vita Liliana Segre che ha aperto a Palazzo Madama la seduta per il voto del presidente
Colleghe Senatrici, Colleghi Senatori,
rivolgo il più caloroso saluto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a quest’Aula. Con rispetto, rivolgo il mio pensiero a Papa Francesco.
Certa di interpretare i sentimenti di tutta l’Assemblea, desidero indirizzare al Presidente Emerito Giorgio Napolitano, che non ha potuto presiedere la seduta odierna, i più fervidi auguri e la speranza di vederlo ritornare presto ristabilito in Senato.
Il Presidente Napolitano mi incarica di condividere con voi queste sue parole: “Desidero esprimere a tutte le senatrici ed i senatori, di vecchia e nuova nomina, i migliori auguri di buon lavoro, al servizio esclusivo del nostro Paese e dell’istituzione parlamentare ai quali ho dedicato larga parte della mia vita”.
Rivolgo ovviamente anch’io un saluto particolarmente caloroso a tutte le nuove Colleghe e a tutti i nuovi Colleghi, che immagino sopraffatti dal pensiero della responsabilità che li attende e dalla austera solennità di quest’aula, così come fu per me quando vi entrai per la prima volta in punta di piedi.
Come da consuetudine vorrei però anche esprimere alcune brevi considerazioni personali.
Incombe su tutti noi in queste settimane l’atmosfera agghiacciante della guerra tornata nella nostra Europa, vicino a noi, con tutto il suo carico di morte, distruzione, crudeltà, terrore...una follia senza fine.
Mi unisco alle parole puntuali del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “la pace è urgente e necessaria. La via per ricostruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale, della libertà del popolo ucraino”.
Oggi sono particolarmente emozionata di fronte al ruolo che in questa giornata la sorte mi riserva.
In questo mese di ottobre nel quale cade il centenario della Marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio ad una come me assumere momentaneamente la presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica.
Ed il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente perché, vedete, ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre; ed è impossibile per me non provare una sorta di vertigine ricordando che quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco delle scuole elementari, oggi si trova per uno strano destino addirittura sul banco più prestigioso del Senato!
Il Senato della diciannovesima legislatura è un’istituzione profondamente rinnovata, non solo negli equilibri politici e nelle persone degli eletti, non solo perché per la prima volta hanno potuto votare anche per questa Camera i giovani dai 18 ai 25 anni, ma soprattutto perché per la prima volta gli eletti sono ridotti a 200.
L’appartenenza ad un così rarefatto consesso non può che accrescere in tutti noi la consapevolezza che il Paese ci guarda, che grandi sono le nostre responsabilità ma al tempo stesso grandi le opportunità di dare l’esempio.
Dare l’esempio non vuol dire solo fare il nostro semplice dovere, cioè adempiere al nostro ufficio con “disciplina e onore”, impegnarsi per servire le istituzioni e non per servirsi di esse.
Potremmo anche concederci il piacere di lasciare fuori da questa assemblea la politica urlata, che tanto ha contribuito a far crescere la disaffezione dal voto, interpretando invece una politica “alta” e nobile, che senza nulla togliere alla fermezza dei diversi convincimenti, dia prova di rispetto per gli avversari, si apra sinceramente all’ascolto, si esprima con gentilezza, perfino con mitezza.
Le elezioni del 25 settembre hanno visto, come è giusto che sia, una vivace competizione tra i diversi schieramenti che hanno presentato al Paese programmi alternativi e visioni spesso contrapposte. E il popolo ha deciso.
È l’essenza della democrazia.
La maggioranza uscita dalle urne ha il diritto-dovere di governare; le minoranze hanno il compito altrettanto fondamentale di fare opposizione. Comune a tutti deve essere l’imperativo di preservare le Istituzioni della Repubblica, che sono di tutti, che non sono proprietà di nessuno, che devono operare nell’interesse del Paese, che devono garantire tutte le parti.
Le grandi democrazie mature dimostrano di essere tali se, al di sopra delle divisioni partitiche e dell’esercizio dei diversi ruoli, sanno ritrovarsi unite in un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti.
In Italia il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l’unità del nostro popolo è la Costituzione Repubblicana, che come disse Piero Calamandrei non è un pezzo di carta, ma è il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti.
Il popolo italiano ha sempre dimostrato un grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre sentita amica.
In ogni occasione in cui sono stati interpellati, i cittadini hanno sempre scelto di difenderla, perché da essa si sono sentiti difesi.
E anche quando il Parlamento non ha saputo rispondere alla richiesta di intervenire su normative non conformi ai principi costituzionali - e purtroppo questo è accaduto spesso - la nostra Carta fondamentale ha consentito comunque alla Corte Costituzionale ed alla magistratura di svolgere un prezioso lavoro di applicazione giurisprudenziale, facendo sempre evolvere il diritto.
Naturalmente anche la Costituzione è perfettibile e può essere emendata (come essa stessa prevede all’art. 138), ma consentitemi di osservare che se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione - peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi - fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice.
Il pensiero corre inevitabilmente all’art. 3, nel quale i padri e le madri costituenti non si accontentarono di bandire quelle discriminazioni basate su “sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”, che erano state l’essenza dell’ancien regime.
Essi vollero anche lasciare un compito perpetuo alla “Repubblica”: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Non è poesia e non è utopia: è la stella polare che dovrebbe guidarci tutti, anche se abbiamo programmi diversi per seguirla: rimuovere quegli ostacoli !
Le grandi nazioni, poi, dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria.
Perché non dovrebbe essere così anche per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute come date “divisive”, anziché con autentico spirito repubblicano, il 25 Aprile festa della Liberazione, il 1° Maggio festa del lavoro, il 2 Giugno festa della Repubblica?
Anche su questo tema della piena condivisione delle feste nazionali, delle date che scandiscono un patto tra le generazioni, tra memoria e futuro, grande potrebbe essere il valore dell’esempio, di gesti nuovi e magari inattesi.
Altro terreno sul quale è auspicabile il superamento degli steccati e l’assunzione di una comune responsabilità è quello della lotta contro la diffusione del linguaggio dell’odio, contro l’imbarbarimento del dibattito pubblico, contro la violenza dei pregiudizi e delle discriminazioni.
Permettetemi di ricordare un precedente virtuoso: nella passata legislatura i lavori della “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” si sono conclusi con l’approvazione all’unanimità di un documento di indirizzo. Segno di una consapevolezza e di una volontà trasversali agli schieramenti politici, che è essenziale permangano.
Concludo con due auspici.
Mi auguro che la nuova legislatura veda un impegno concorde di tutti i membri di questa assemblea per tenere alto il prestigio del Senato, tutelare in modo sostanziale le sue prerogative, riaffermare nei fatti e non a parole la centralità del Parlamento.
Da molto tempo viene lamentata da più parti una deriva, una mortificazione del ruolo del potere legislativo a causa dell’abuso della decretazione d’urgenza e del ricorso al voto di fiducia. E le gravi emergenze che hanno caratterizzato gli ultimi anni non potevano che aggravare la tendenza.
Nella mia ingenuità di madre di famiglia, ma anche secondo un mio fermo convincimento, credo che occorra interrompere la lunga serie di errori del passato e per questo basterebbe che la maggioranza si ricordasse degli abusi che denunciava da parte dei governi quando era minoranza, e che le minoranze si ricordassero degli eccessi che imputavano alle opposizioni quando erano loro a governare.
Una sana e leale collaborazione istituzionale, senza nulla togliere alla fisiologica distinzione dei ruoli, consentirebbe di riportare la gran parte della produzione legislativa nel suo alveo naturale, garantendo al tempo stesso tempi certi per le votazioni.
Auspico, infine, che tutto il Parlamento, con unità di intenti, sappia mettere in campo in collaborazione col Governo un impegno straordinario e urgentissimo per rispondere al grido di dolore che giunge da tante famiglie e da tante imprese che si dibattono sotto i colpi dell’inflazione e dell’eccezionale impennata dei costi dell’energia, che vedono un futuro nero, che temono che diseguaglianze e ingiustizie si dilatino ulteriormente anziché ridursi. In questo senso avremo sempre al nostro fianco l’Unione Europea con i suoi valori e la concreta solidarietà di cui si è mostrata capace negli ultimi anni di grave crisi sanitaria e sociale.
Non c’è un momento da perdere: dalle istituzioni democratiche deve venire il segnale chiaro che nessuno verrà lasciato solo, prima che la paura e la rabbia possano raggiungere i livelli di guardia e tracimare.
Senatrici e Senatori, cari Colleghi, buon lavoro!
* Fonte: ANSA, 13 ottobre 2022 (ripresa parziale, senza immagini).
I RETROSCENA DI FIUME. L’IMPRESA DI D’ANNUNZIO VENNE ISPIRATA DA AMBIENTI ECONOMICI E FINANZIARI
Un saggio di Eugenio Di Rienzo, edito da Rubbettino, indaga sugli appoggi occulti e palesi che il poeta ottenne in quelle drammatiche circostanze La denuncia di Nitti e il ruolo svolto dalla massoneria guidata da Torrigiani
di Paolo Mieli *
Dieci mesi dopo la fine della Prima guerra mondiale, ai primi di settembre ciel 1919, partì la spedizione per Fiume. A guidare la conquista della città contesa tra il Regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, c’era Gabriele D’Annunzio. Il poeta proclamò la Reggenza del Carnaro e istituì un regime libertario, festante, vagamente ispirato all’anarcosindacalismo. A Fiume, ricordò lo scrittore Giovanni Comisso che prese parte all’impresa, «si faceva senza alcun ritegno tutto ciò che si voleva». Qualcuno cinquant’anni dopo paragonò l’aria respirata in quei giorni a Fiume a quella del Sessantotto. Altri, a ridosso degli eventi, vollero che fosse stata un’anticipazione della «marcia su Roma» e una sperimentazione in vitro di certi aspetti che avrebbe avuto il regime mussoliniano.
Ipotesi e tesi confutate dagli studi assai seri sulle origini del fascismo di Nino Valeri, Renzo De Felice e Roberto Vivarelli, che misero ben in evidenza le diversità tra dannunzianesimo e rn.ussolinismd. Ai quali si sono aggiunti, in tempi più recenti, i due preziosi libri di Marco Mondini - Fiume 1919. Una guerra civile italiana (Salerno) - e di Maurizio, Serra: L’Imaginifico. Vita di Gabriele D’Annunzio (Neri Pozza).
Il governo d’Italia presieduto da Francesco Saverio Nitti in un primo tempo fu relativamente tollerante nei confronti di D’Annunzio. Finché, alla fine del 1920, Giovanni Giolitti (successore di Nitti) mise termine all’occupazione nei giorni di un Natale definito all’epoca non senza una qualche enfasi «di sangue»: i morti, tra soldati del Regio esercito, legionari dannunziani e civili, furono poco più di una cinquantina. L’avventura durò 476 giorni. Arrotondati a 5oo da Giordano Bruno Guerri nel documentatissimo Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919- 1920 (Mondadori).
Resta il fatto che, dopo Fiume, D’Annunzio
gradualmente sparì dalla scena politica e si affermò, invece, Benito Mussolini. Nel duello ingaggiato dopo il 1921 con Mussolini, D’Annunzio fu sconfitto perché «nella competizione tra
un dilettante e un professionista della politica
l’esito della sfida era del tutto scontato», scrive
Eugenio Di Rienzo in D’Annunzio diplomatico
e l’impresa di Fiume, edito da Rubbettino. Ma
Di Rienzo non insiste più di tanto sulla «congenita inadeguatezza politica» del poeta. Dal
momento che la tesi dell’«inadeguatezza» non
terrebbe in sufficiente considerazione l’«indubbia maestria di mediare tra la sinistra e la
destra fiumana» del Vate che riuscì ad avere in
mano «sempre stretto» il bastone del comando. E fu capace, «con maggiore o minore successo», di far fronte a «maestri di intrighi della
stazza di Badoglio, Nitti, Giolitti, Sforza». Anche se Di Rienzo, citando Thomas Mann, fa
qualche concessione al concetto di «impoliticità dannunziana». Impoliticità ampiamente
documentata da manifestazioni di «nausea
per la politica» (sulle quali si soffermò Benedetto Croce) e di «disgusto per i maneggi del
politicantismo giolittiano».
Ciò che non fece
di D’Annunzio un protofascista. Ma «costituì il
terreno di coltura per l’affermarsi di simpatie
per il fascismo anche presso i più illustri esponenti del fronte liberale».
Detto questo, va aggiunto - secondo Di Rienzo - che l’impresa di D’Annunzio fu probabilmente «ispirata e resa materialmente possibile dal concorso dei Poteri forti (economici e finanziari), dei vari gruppi di pressione, a volte difficilmente etichettabili politicamente, della Fratellanza massonica, della grande e media stampa schierata o che si autodefiniva indipendente». Forze, queste, «ben radicate nella struttura dello "Stato invisibile" che, intrecciando la loro azione con quella dello "Stato visibile" (Forze armate, agenzie di intelligence, apparato burocratico, spezzoni del governo) in quel momento dettavano o quantomeno influenzavano fortemente l’agenda della politica italiana».
Se si accetta questa ipotesi, è da ridimensionare anche la definizione di «Antistato fiumano». Perché l’organismo statale italiano a cui quell’«Antistato» mirava appunto a contrapporsi, «si era già disgregato di fronte alla crisi dell’immediato dopoguerra in vari tronconi». Tronconi che avrebbero agito molto spesso autonomamente. Quali? Regio Esercito, Regia Marina (con i loro servizi di informazione e le loro attività coperte), Ministero dell’Interno con i suoi bureaux preposti ai cosiddetti «Affari riservate>, «spesso deviati rispetto ai loro fini istituzionali». Senza escludere, inoltre, che «i germi di questa frammentazione della sovranità statale si annidarono persino nel cuore profondo dell’esecutivo». Dove? Nella presidenza del Consiglio, risponde Di Rienzo, nella Consulta in cui «Carlo Sforza e l’onnipotente segretario generale del ministero degli Affari Esteri, Salvatore Contarini erano rimasti fedeli all’eredità della politica estera assertiva di Sonnino».
A queste forze si dovrebbe aggiungere la Casa regnante: «l’enigmatico» Vittorio Emanuele III ed Emanuele Filiberto, Duca d’Aosta, «perennemente in fregola di smanie golpiste». Tutti loro «consentirono all’impresa fiumana - finanziata, controllata e indirizzata dallo Stato Maggiore Generale, dai Palazzi romani, dalle banche e dai complessi industriali dell’Italia settentrionale - di nascere, sopravvivere consolidarsi, svilupparsi». Salvo poi abbandonarla al suo destino quando quell’impresa verrà giudicata «non più funzionale ai loro obiettivi». Q uesta la tesi di Di Rienzo. D’Annunzio non sarebbe stato «né l’ideatore né l’incontrastato primo attore dell’avventura di Fiume». In realtà - secondo l’autore - egli ricoprì, «fino ad un certo punto almeno», il ruolo di «semplice strumento manovrato da altri» come «alcuni politici e analisti di quella tormentata stagione avevano perfettamente compreso».
Lo stesso Nitti, nelle sue memorie - Rivelazioni. Dramatis personae (Edizioni Scientifiche Italiane) -, affermò che si era voluto fare di D’Annunzio «il creatore del movimento fiumano che certo contribuì a creare» mentre egli invece «fu, in definitiva, soprattutto l’esecutore di una situazione che era all’infuori di lui». Gaetano Salvemini, il quale avanzò un’ipotesi che Di Rienzo definisce «inquietante» e cioè che gli stessi Nitti e Giolitti avessero agito dietro le quinte per disgregare il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
In tutto ciò, prosegue Di Rienzo, «è veramente difficile non scorgere una continuità stretta con la "diplomazia di movimento" di Cavour prima sperimentata nei Balcani, attuata poi nella guerra non dichiarata contro Francesco II». Una diplomazia corsara di cui si avvalse in seguito Urbano Rattazzi nell’agosto 1862 e nell’ottobre-novembre 1867 «per giungere alla conquista di Roma senza arrivare a uno scontro frontale con la Francia del Secondo Impero». Servendosi nuovamente, come nel maggio del 1860, in Sicilia, «dei servigi del disobbediente-obbediente Giuseppe Garibaldi».
Dove si troverebbero le tracce delle trame a cui si riferisce Di Rienzo? Nitti, tra le personalità più importanti dell’epoca, fu colui che, nelle citate memorie, per primo chiamò in causa la massoneria. Massoneria da cui lui stesso sostenne di essersi sentito minacciato. E che, a suo dire, «aveva rappresentanti e agenti in tutti i centri importanti di popolazione, spesso anche in alcuni centri minori». Nessun partito se non la massoneria, secondo Nitti, «poteva nello stesso giorno e alla stessa ora inscenare riunioni e dimostrazioni e far credere a movimenti della coscienza nazionale che in realtà non esistevano». Ancor più puntuale in questo atto d’accusa, l’uomo che all’epoca era a capo del governo, scriveva: «Fra gli aderenti dell’insano tentativo di D’Annunzio furono, infatti, molti massoni». E «gli organi superiori della massoneria non avversarono D’Annunzio ma anzi esaltarono la sua impresa e la favorirono ben prima del suo inizio».
Nitti era convinto che la massoneria era stata responsabile nel 1915 «dell’entrata in guerra dell’Italia in forma incostituzionale e con procedimenti e metodi messicani». E che al Grand’Oriente fosse riconducibile «il male che fece il colpo di mano di Fiume». Responsabile, la massoneria, «solo in parte» per ciò che era accaduto tra l’aprile e il maggio del 1915. In «gran parte» invece per quel che si produsse tra il 1919 e il 1920. Il tutto comprovato dalle ammissioni del gran maestro di Palazzo Giustiniani, Domizio Torrigiani, il quale, in tempi successivi, «tenne non solo a riconoscere ma anche a rivendicare il merito della contribuzione massonica alla scellerata avventura dannunziana».
Torrigiani dal giugno del 1919 era stato, come successore di Ernesto Nathan, alla guida del Grand’Oriente d’Italia. Simpatizzò per l’avventura del Carnaro e si recò a Fiume per due missioni (concordate con Nitti). Poi, quando nel 1920 l’impresa dannunziana prese un carattere nettamente antigovernativo, se ne distaccò. Negli anni seguenti Torrigiani ebbe problemi con Mussolini soprattutto dopo la crisi successiva al rapimento e all’uccisione di Giacomo Matteotti. In quell’occasione Torrigiani tenne contatti con Giovanni Amendola e svolse un ruolo di rilievo nel rendere pubbliche carte che danneggiavano la reputazione di Mussolini. Nel 1925 il regime fascista sciolse le logge massoniche e il gran maestro espatriò in Francia. Tornato a Roma nel 1927, fu arrestato dalla polizia e mandato al confino, prima a Lipari, poi a Ponza. Si ammalò, venne curato sommariamente e gli fu restituita la libertà soltanto nell’aprile del 1932. Giusto in tempo per poter morire cinquantaseienne, a fine agosto del 1932, nella villa di famiglia a San Baronto, frazione di Lamporecchio, in provincia di Pistola.
Dell’iniziale appoggio di Torrigiani alla causa di D’Annunzio - dopo il primo viaggio del gran maestro a Fiume - sono rimaste innumerevoli tracce. Tra le quali, Eugenio Di Rienzo mette in risalto due articoli di giornale pubblicati lo stesso giorno: 6 novembre 1919.
Il primo comparve sul «Messaggero». Il giornale dei fratelli Perrone dava grande risalto a un comunicato del’ «Governo dell’ordine massonico» di esplicito sostegno ai legionari fiumani. La massoneria, sotto la guida di Torrigiani, assicurava il comunicato, «continuerà a seguire, come dall’inizio, con amorosa, ininterrotta cura e materiale sostegno, l’eroica azione concepita dall’eroe di Buccari e di Vienna per il trionfo dei popoli martiri e per il coronamento della Vittoria italiana». II tutto era accompagnato da un commento con il quale il giornale romano esprimeva il proprio entusiastico sostegno alla presa di posizione della massoneria.
L’altro articolo fu pubblicato quello stesso giorno dal quotidiano socialista l’«Avanti!». In esso si denunciavano gli intrecci tra quella che era stata la «massoneria interventista» e «i generali massóni che sono di fatto i comandanti dell’esercito fiumano». Tutte prove eloquenti che il Grand’Oriente aveva «sobillato» la «faccenda di Fiume». «Quando ci sarà concesso di parlare», proseguiva il foglio del Psi con un esplicito accenno alla censura, «vedremo perché insieme alla massoneria anche stavolta agiscono gli emissari della Grandi Banche, i Toeplitz gli emissari dei Perrone, e, con loro, i più noti arruffoni dell’affarismo capitalistico internazionale». Un articolo che Di Rienzo definisce «in larga parte profetico». O forse soltanto ben informato. Dieci giorni dopo, il 16 novembre 1919, Badoglio comunicava a Ñitti che D’Annunzio aveva ricevuto «una missione dei principali industriali e finanzieri italiani» tra i quali venivano, direttamente o indirettamente, individuati molti dei nomi pubblicati sull’«Avanti!».
* Corriere della Sera, 26.09.2022 - ripresa parziale, senza immagini.
Un giapponese a Fiume tra ju-jitsu, imprese aeronautiche e studi danteschi.
di Leonardo Palma *
Tra il novembre 1951 e il marzo 1952, Indro Montanelli soggiornò in Giappone per raccontarne il dopoguerra. Durante il rigido inverno, incontrò un vecchio poeta giapponese che gli avrebbe fatto da guida, un uomo piccolo, tozzo e brutto, con un’unica linea di folte sopracciglia resa ancora più densa dagli spessi occhiali da ipermetrope. Non parlava italiano ma solo il dialetto napoletano e, trovatosi di fronte a un piatto di spaghetti e ad un fiasco di Chianti, «mentre la sua forchetta arrotolava con partenopea pazienza i fili di pasta», confessò a Montanelli che:
Harukichi Shimoi era nato nel 1883 nei pressi di Fukuoka, quarto figlio del samurai Kikuzo Inoue. Il cognome Shimoi viene dal suo padre adottivo, l’architetto, commerciante di legnami e futuro suocero, Kisuke Shimoi. Quest’ultimo adottò il ventiquattrenne Harukichi nel 1907 in seguito ad una grave crisi economica che aveva ridotto sul lastrico la sua famiglia, un evento piuttosto comune tra le famiglie samurai che non avevano accolto con entusiasmo le trasformazioni dell’epoca Meiji.
Harukichi studiò alla Scuola Magistrale di Tokyo, l’attuale Università di Tsukuba, e ottenne la laurea in anglistica. Iniziò ad insegnare in un liceo femminile ma poco tempo dopo fece uno di quegli incontri che ogni tanto danno una svolta inaspettata alla vita delle persone.
Conobbe il traduttore, critico letterario e anglista Bin Ueda, fondatore del movimento modernista nipponico Pan No Kai, e fu introdotto da quest’ultimo alla Divina Commedia.
Shimoi cadde malato per l’amore di Dante, cominciò a raccogliere libri e studi danteschi, traduzioni in francese, tedesco, inglese e fondò la Dante Toshokan, la prima Società Dantesca Giapponese. Si iscrisse alla Gaikoku-go-Gakko, la Scuola Speciale di Lingue Straniere, ed iniziò a studiare l’italiano, più o meno negli stessi anni in cui l’italianista Yamakawa Heisaburo traduceva in giapponese l’Inferno.
Nel 1915, Shimoi decise di trasferirsi in Italia e grazie all’Ambasciatore Alessandro Guiccioli, un marchese ravennate, tipico rappresentante della carriera di età liberale, ottenne l’incarico di lettore di lingua giapponese al Reale Istituto Orientale di Napoli, la più antica scuola di sinologia europea. Tra i quartieri popolari e il notabilato cittadino, al mattino Shimoi leggeva nei caffè la rivista di Vincenzo Siniscalchi, L’Eco della Cultura, poi dopo aver pagato raggiungeva la bancarella di Via Toledo dove don Gaetano Pappacena, storico libraio analfabeta, lo intratteneva con i racconti della storia della città.
Grazie all’amicizia con l’ispanista Gherardo Marrone, Shimoi fu introdotto nei salotti bene di Napoli e prese a frequentare gli ambienti culturali dell’avanguardia che all’epoca subivano il fascino del futurismo, l’audacia delle sperimentazioni artistiche, la spinta utopistica di certe ideologie primo-novecentesche. Egli si legò in particolare allo scultore Raffaele Uccella ed a Elpidio Jenco, entrambi propugnatori di una visione artistica che aderiva ai principi futuristi dell’artecrazia teorizzata da Marinetti.
Fu in questo ambiente fecondo di arte e lettere e politica rasente l’utopia, quello raccontato così bene da Luciano Caruso in Futurismo a Napoli, che Shimoi maturò come intellettuale e poeta, ripetendo quel miracolo che la generazione dei suoi genitori, ad eccezione forse proprio del padre, avevano compiuto all’indomani dell’arrivo delle cannoniere di Perry. Accolse lo straniero, si immerse nelle acque di una cultura estranea, ne bevve dalla fonte e ne uscì come “scugnizzo giapponese”, italiano in tutto tranne che nel suo essere giapponese.
Forse, soltanto chi ha avuto la fortuna di conoscere quei giapponesi cresciuti in Occidente può capire questo miracolo di incontaminata contaminazione. Un giorno, di ritorno da Roma, Shimoi noleggiò una carrozzella, chiese al conducente di portarlo dal suo amico, il compositore Giovanni Ermete Gaeta, e il vetturino, vedendo solo uno straniero, commentò in dialetto gli abusi che avrebbe perpetrato sul suo ignaro cliente. Chiese una cifra spropositata per la corsa a cui Shimoi rispose domandando chiarimenti. «È pure surdo stu scemo!».
Al che il piccolo giapponese gli si fece accanto, lo prese per il bavero e con le pupille ridotte a due fessure minacciò in perfetto napoletano:
Negli anni che precedettero il baratro della guerra verso cui la locomotiva europea stava ciecamente correndo, Shimoi continuò ad insegnare all’Orientale e grazie al suo amico Morone pubblicò le prime raccolte di poesie e scritti giapponesi sulla rivista La Diana, tipico zibaldone novecentesco con uno scritto a mo’ di prefazione di Benedetto Croce. Quest’ultimo rappresentava in quegli anni il principale teorico della poesia pura e diede a Morone il coraggio necessario per pubblicare giovani intellettuali, futuristi, neoliberisti, metafisici, dadaisti, oltre alle sperimentazioni di Saba, Ungaretti e Onofri.
La rivista rappresentava cioè una avanguardia nella trasformazione della poesia italiana che, lentamente, stava cercando di perseguire l’ideale della purezza, del frammentarismo, di quel simbolismo di marca francese che sarebbe poi sfociato nell’ermetismo di cui Ungaretti e Montale furono padri putativi. In quel primo numero Shimoi pubblicò alcune traduzioni in prosa di componimenti giapponesi che, tradizionalmente, sono caratterizzati da immediatezza ed essenzialità. Ciò che Mallarmé definiva “il senso misterioso degli aspetti dell’esistenza”, la poesia che “dona autenticità al nostro soggiorno, e costituisce il suo compito spirituale”.
Proprio gli haiku giapponesi, componimenti nati nel periodo Edō, esprimevano questo mistero in appena tre versi di 17 more. Musica della matematica, numeri che cantano. La raccolta ebbe un immediato successo e divenne l’oggetto di un libro pubblicato nel 1917, curato da Shimoi e Marone, intitolato Poesie giapponesi. Nell’introduzione, Shimoi ricordò che il Giappone era il paese meraviglioso della poesia, dove
Giovanni Papini ne lodò i contenuti sul Mercure de France e anni dopo denunciò l’influsso della “moda giapponese” lanciata da Shimoi e Marone sugli sperimentatori italiani di quegli anni, soprattutto Ungaretti. Quest’ultimo, almeno fino al 1959, rifiutò sdegnosamente ogni parentela con la poesia nipponica ma la ricerca incentrata sulla parola come valore idealtipico, assoluto, non poteva non ricordare la sintesi dell’estremo oriente. Così Saffi e Jenco accostarono Porto Sepolto a Nobutsume Sasaki e Suikei Maeta.
Al contrario, Saba rivendicò i suoi esperimenti nel segno della poesia giapponese, sperimentazioni che chiamò “piccoli giocattoli” e che rientrarono in un libercolo quasi in miniatura di 40 composizioni di tre versi, intitolato Intermezzi giapponesi. Come spesso accade, una fatica generata dalla passione ebbe un influsso determinante sulla nascita di quella sensibilità letteraria da cui sarebbe sbocciato il fiore dell’ermetismo.
Poi venne la guerra. Harukichi Shimoi, professore uso a tradurre poesie, chiuse il suo ufficio e volle conoscere il fronte come inviato de il Mattino e il Mezzogiorno. Nel 1914 il Giappone si schierò al fianco dell’Intesa, vinse la Kaiserliche Marine tedesca a Tsingtau e, tre anni dopo, inviò l’incrociatore Akashi e alcuni cacciatorpediniere nel Mediterraneo per operazioni antisommergibile. Shimoi si sentì fin da subito partecipe di quella tragedia e grazie alle sue conoscenze riuscì ad eludere l’obbligo per la stampa straniera di restare nelle retrovie e raggiunse la prima linea.
Grazie all’intervento dell’ambasciata nipponica, egli fu raccomandato dal generale Caviglia, ex addetto militare a Tokyo e in quel momento comandante in capo delle truppe italiane, dal senatore regio Giuseppe De Lorenzo, geografo e orientalista, e dal Ministro Francesco Saverio Nitti. La guerra italiana vista da un giapponese raccoglie l’epistolario di Shimoi e le sue corrispondenze con De Lorenzo e Nitti. Quest’opera, da un punto di vista letterario scarna, disadorna, discontinua, incerta sintatticamente ma forzatamente schietta e sincera, si inserisce perfettamente nel solco delle opere di altri come Il Giappone in armi di Barzini, Kobilek di Soffici, Trevelyan e il suo Scenes from Italy’s war, Poore, Fairbanks, Page, e su tutti Hemingway.
Ciò nondimeno, in Shimoi quel fascino tipicamente marinettiano per la guerra bella - “più bella della Vittoria di Samotracia” - urtava l’evidente senso di smarrimento di fronte al dramma della morte e della sofferenza. Shimoi cercava nella carne ferita e nello spirito orgoglioso degli italiani quel senso di pietà e dignità che aveva scoperto in Dante. Se doveva scendere agli inferi, Shimoi voleva credere che fossero popolati da anime dannate ma comunque umane, anche di fronte al peccato e al dolore della pena.
Le trincee dovevano essere la guerra / sì del cammino e sì de la pietate. In una lettera a Corrado Pavolini del 1929, Ungaretti ricordava che durante la guerra, tra lo sporco delle trincee e i rumori delle artiglierie:
Shimoi disse di non aver interesse per la gloria spinta dalla vanità, bensì per l’eroismo puro, “perciò divino”, di giovani e vecchi che compiono ogni giorno atti straordinari senza essere ricordati da nessuno. Per lui Enrico Toti, umile operaio mutilato della gamba destra che si arruolò volontario e morì in trincea, era degno della più altra tradizione dell’aristocrazia guerriera giapponese.
Sotto la medesima coltre di umiltà, Shimoi descrisse il salvataggio di un soldato italiano ferito dalla mitraglia austriaca: gli fasciò la gamba martoriata, se lo caricò a spalla e lo portò al posto di medicamento. Quando il giovane italiano gli chiese chi fosse, egli rispose soltanto di essere un giapponese amante dell’Italia:
Tra le cime dell’Adamello, le mulattiere del Pasubio o le acque del Tagliamento e del Piave, nulla seppe però attrarre quel piccolo giapponese come le truppe degli Arditi. L’Ardito, la “più potente scultura del genio latino” secondo D’Annunzio, il “guerriero più simile a quello di Maratona” che diede un nome e una divisa al coraggio e che meglio di qualunque altro corpo personificò quel misto di anarchismo, genio e amor di patria che da sempre caratterizza il popolo italiano.
Un decennio più tardi, Mario Carli ricordava come, all’inizio, gli Arditi fossero poco più che “una leggenda bella e misteriosa” tra i fanti del suo battaglione, fino a quando una fredda notte del 1917 alla Sella di Dol, sul San Gabriele, li videro andare alla carica. E tutti capirono che chiunque, anche i vecchi, potevano essere uguali a loro.
Per Carli, all’Italia liberale ormai in età da pensione era mancata fino ad allora una formula che desse sostanza alla bellezza e alla temerarietà dell’eroica giovinezza, almeno fino alla nascita del futurista della guerra: l’Ardito. Scapigliato, libero, guascone, agile, sfrenato, “la forza gaia dei vent’anni che scaglia le bombe fischiettando i ricordi del Varietà”, mutata nell’avanguardia della Nazione in guerra.
Shimoi guardò a questi avvenimenti come ad una possente trama tessuta da divinità latine, uno sbocco rivoluzionario inevitabile che riuniva in sé lo spirito dei suoi antenati Samurai e il genio dei popoli mediterranei. Si dice che egli si fosse arruolato volontario tra gli Arditi e che avesse insegnato loro il karate tra le trincee del Carso ma si tratta di un romantico falso storico. Shimoi seguì le truppe scelte in combattimento come corrispondente di guerra, non come volontario, e la divisa e la qualifica di Ardito onorario furono un regalo da parte del generale Caviglia o, su raccomandazione di D’Annunzio, del capitano Carli. Nondimeno all’epoca il karate non era ancora conosciuto neanche in Giappone, veniva praticato esclusivamente ad Okinawa ed era chiamato toudi o tote-jutsu.
Funakoshi Gichin, considerato il padre del karate moderno, fu invitato soltanto nel 1922 a dimostrare la sua arte al Congresso di Educazione Fisica di Tokyo. Non è possibile neanche che Shimoi avesse insegnato agli Arditi il judo, non soltanto perché in quegli anni veniva ancora chiamato Kano-Jujitsu, ma perché non abbiamo prove che quest’ultimo avesse mai incontrato il prof. Kano o studenti del Kodokan prima del 1928. Tuttavia, le fonti sono concorde nell’affermare che Shimoi abbia insegnato qualcosa agli Arditi italiani ed è dunque possibile ipotizzare che si sia trattato di tecniche di ju-jitsu di una vecchia scuola (koryu) di famiglia.
Il padre biologico di Harukichi, del resto, era un vecchio samurai. Quel tipo di ju-jitsu era quanto rimasto dello yoroi kumi-uchi, la lotta in armatura, che prevedeva tecniche di leva, prese, spazzate, blocchi, per portare l’avversario a terra in mischia, sottometterlo e infliggere il colpo di grazia con l’arma corta (kodachi) solitamente alla gola, alla cervice o sotto le ascelle per arrivare al cuore.
Una tecnica adattabile alla scuola di coltello degli Arditi. Quest’ultimi venivano addestrati a Sdricca di Manzano, effettuando esercitazioni di assalto a fuoco su “colline tipo”, con il lancio corto di bombe a mano, le famigerate Thévenot, l’uso di mitragliatrici, fucili, lanciafiamme e la lotta con il coltello. A Shimoi, gli Arditi italiani ricordavano gli Sciro-Dasuhi di Port Arthur durante la guerra russo-giapponese, soldati armati unicamente di katana che indossavano una camicia bianca con le maniche strette da un nastrino bianco (sciro-dasuki) e un asciugamano intorno al capo.
L’Ottocento, quell’epoca che traeva gioia dal durevole, dall’incedere della tradizione e delle abitudini, si spegneva nell’effervescenza della gioventù; non risvolto demografico, bensì promessa di futuro, mito dell’uomo nuovo, di un ordine nuovo. E niente rese maggiormente palpabile questo anelito ad una palingenesi del mondo quanto le avanguardie culturali ed ideologiche del primo Novecento, tutte accomunate dalle suggestioni dell’infiammarsi, dell’accendersi, dell’ardere, del bruciare.
La fiamma di Marinetti, il fuoco di D’Annunzio, l’Incendiario di Palazzeschi, il “pensiero che si fa fiamma” di Carlo Michele Stetter, la Scintilla di Lenin, ognuna di queste esperienze segnalava il disperato desiderio della combustione del mondo. La generazione dei padri aveva costruito un mondo di “calma e voluttà”, quella dei figli aspirava con il loro ardimento a renderlo un fuoco perenne e in questo attrito di forze il Novecento divenne il secolo più breve di tutti, mentre qualcuno, come Proust, si rendeva conto che la nostalgia spaziale dei soldati svizzeri sradicati dalle loro valli nel ‘600 sarebbe presto divenuta dolore per una lontananza di tempo.
Tra questi due estremi, Shimoi apparteneva sinceramente al primo: la resistenza sul Piave, l’attraversamento del Tagliamento, la liberazione di Trento e Trieste, la mitraglia, l’assalto all’arma bianca, quel fiotto di adrenalina ed energia pura, come la poesia che egli ricercava a Napoli, dovevano essere quanto di più vicino ci fosse all’appagamento di un desiderio sessuale, intellettuale, spirituale.
Nella guerra e nei suoi drammi vide il compimento assoluto di quell’Italia ideale che aveva intravisto in Dante, in Cavalcanti, in Petrarca, in Leopardi. Essa c’era perché era, e poteva essere solo grazie al sacrificio di una gioventù che, ribaltando il pensiero di Cattaneo, ″infiammava l’Italia a surgere in armi″. Shimoi volle essere partecipe della felicità della sua patria adottiva e il 3 novembre 1918, alla liberazione di Trento, fu il primo ad entrare in piazza e, con la coccarda tricolore al petto, si diresse al monumento dedicato a Dante Alighieri e qui:
L’incontro con Gabriele D’Annunzio avvenne sul finire della guerra. I due poeti si videro a San Nicolò in Veneto, il Vate indossava su quel corpo secco ed emaciato un carico di medaglie che sembravano farlo vacillare ad ogni passo incerto e per salutare Shimoi, lui che era già piccolo, dovette inchinarsi.
Gabriele D’Annunzio e Shimoi ebbero un rapporto privilegiato. I due, giunti per strade sì diverse da così lontano, trovarono qualcosa l’uno nell’altro, un sentire comune che D’Annunzio definì un ricordo d’acqua e d’anima.
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Anni dopo, il Vate avrebbe ricordato come i giapponesi, gli unici a ″sentire l’odore del sangue″, fossero tra i pochi a possedere quella sensibilità d’animo necessaria per capire le sue opere. Per suggellare l’affratellamento, Shimoi propose a D’Annunzio l’avventura di un volo Roma-Tokyo; un tema, quello aeronautico, che anche l’interpretazione di Italo Balbo - chi vola vale, chi non vola non vale, chi vale e non vola è vile - non può che rimandare a quell’ansia di azione e movimento, di conquista, di superamento, e di affermazione di libertà in potenza.
La Sarfatti ne venne a conoscenza e scrisse al Vate, ansiosa di partecipare al raid: “Vi prometto assoluta obbedienza ed assoluta segretezza”. Nel Fastello della mirra, D’Annunzio avrebbe poi ricordato che da tempo pensava ad un volo verso l’oriente, non Odissea di un animo inquieto ma conquista spirituale, come ″i tre latini″ che recarono un’ampolla di olio al Santo Sepolcro dopo un lungo cammino da Acri. Ma gli eventi di Fiume lo costrinsero ad abbandonare l’impresa e degli stormi che partirono soltanto Arturo Ferrarin e Guido Masiero - “... il giovane eroe sostò sull’Alpe e si addormentò nella gloria gelida. ... Ho perduto il mio pilota. La sorte mi permetterà di ritentar la prova?” - giunsero a Tokyo.
I due aviatori furono accolti come eroi liberatori, quaranta giorni di festeggiamenti e il dono da parte del principe Hirohito di un kimono e di una katana delle collezioni imperiali a cui fece da rumoroso screzio la sorda indifferenza italiana, adusa alla polemica e mai alla riconoscenza. Ferrarin inchiostrò tutta la sua amarezza nelle pagine de “Il mio raid Roma-Tokyo”, ma volle anche dedicare quell’opera:
Il mondo di ieri incrociava lo zenit, quello dell’ardimento futurista passava pel nadir. D’Annunzio scrisse a Shimoi mentre i suoi legionari si armavano, dolendosi di non poter “vedere fiorire il pesco nella terra di Tokyo”. Gli offrì il suo posto nella carlinga:
Proprio a Fiume si concluse l’ultimo atto di D’Annunzio, la corsa che lo avrebbe trasformato da poeta-eroe a poeta-condottiero, uno sforzo di volontà sì forte da cangiar la vita in arte. Quel manipolo di irregolari, di legionari in cui si fusero senza ordine ufficiali, socialisti rivoluzionari, arditi, futuristi, nazionalisti, anarchici, sindacalisti, furono il suo verso più duraturo. L’estetica, che secondo il capitano Carli era ″avviata da un potente respiro di umanità″, tramortì Apollo e risvegliò all’ebbro Dioniso, e quel che era nato come un atto politico travolse se stesso e divenne prima vita-festa, poi vertigine rivoluzionaria e infine declinò in duello fratricida che, come sempre accade in Italia, si tinse dei colori della commedia tragica.
Si presentò a D’Annunzio vestito da Ardito, gli consegnò l’onorificenza di Cavaliere del Sol Levante e un messaggio di incoraggiamento. Il Vate lo abbracciò, lo nominò caporale d’onore della sua guardia del corpo e gli offrì un banchetto insieme ai suoi legionari durante il quale pronunciò un discorso augurale per il futuro del Giappone, intravedendone il riscatto morale e il suo ruolo guida nella resurrezione della Grande Asia. Funesta premonizione ai principi ideologici che guidarono lo spietato governo militare di Tokyo negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Da quel momento in avanti, D’Annunzio prese a chiamare Shimoi “camerata-Samurai”, lo coinvolse in scherzi alle truppe ma, soprattutto, lo usò come emissario con Benito Mussolini, all’epoca direttore de Il Popolo d’Italia e fondatore dei Fasci di Combattimento.
Shimoi usciva segretamente da Fiume assediata e raggiungeva Milano, consegnava a Mussolini le reprimende del poeta per lo scarso supporto e ne raccoglieva le confidenze e i malumori. “T’invio questo fratello Samurai”, scrisse la prima volta D’Annunzio. In poco tempo, anche nel futuro Duce crebbe la stima per quel giapponese venuto da così lontano. Proprio nel fascismo movimentista e sansepolcrista, quello più genuinamente rivoluzionario, ribelle, Shimoi intravide la cura per il suo paese natio.
Ciò nondimeno, il trapianto del fascismo in Giappone fu limitato all’espressione puramente estetica dello stesso, poiché il militarismo nipponico si caratterizzò sì per una ideologia ultranazionalista ma anche per la sua sincretica originalità. Negli stessi giorni in cui D’Annunzio portava i suoi legionari a Fiume, Ikki Kita pubblicava il Nihon kaizo hoan taiko (Linee di un progetto di ricostruzione del Giappone) che, in modo assai superficiale, è stato considerato come l’omologo orientale del Mein Kampf.
In esso, Kita sosteneva la necessità della nascita di un Impero rivoluzionario che avesse la forza di contrastare l’ordine internazionale occidentale e divenire la guida dei popoli asiatici. Shimoi condivideva le riflessioni di Kita ma credeva che la rivoluzione dovesse essere spirituale, prima ancora che politica e per questo si spese affinché il fascismo italiano desse i suoi frutti anche tra la gioventù nipponica.
Nell’atmosfera effervescente di Fiume, tra critici cinematografici, letterati, intellettuali, soldati, scrittori provenienti dalla Francia, dalla Russia sovietica, dalle regioni magiare e balcaniche, il poeta giapponese potrebbe aver ispirato a sua volta le radici ideologiche dell’associazione segreta Yoga, fondata dall’aviatore Guido Keller e nutrita di suggestioni orientali vagamente inquietanti come il culto della svastica indiana.
Gli offersero la cattedra di yamatologia succedendo al Balbi e negli anni seguenti s’impegnò nella divulgazione della poesia e della cultura giapponese, pubblicando a proprie spese la rivista Sakura e una annessa raccolta di libri. Intorno al giornale gravitarono numerose personalità artistiche di quegli anni come Nicola Maciariello, Rodolfo Vingiani, Attilio Colucci, Nakamura Kozo, Dan Koreyoshi e Yozano Akiko di cui pubblicò un piccolo capolavoro dal titolo Onde del mare azzurro.
Ma come nella poesia di Salvatore Di Giacomo, per Shimoi quegli anni furono solo un intermezzo ad un periodo in cui “ll’aria s’è fatta scura...‘O tempo se revota”. Nel 1921 fu assunto come interprete dall’ambasciata giapponese ed organizzò un incontro nella sede milanese del Popolo d’Italia tra Mussolini e alcuni diplomatici e deputati. Nell’ottobre dell’anno successivo fu tra le camicie nere che marciarono su Roma, forse una delle poche teste pensanti lì in mezzo, e poco tempo dopo, insieme al biografo del Duce Beltramelli, fondò la prima associazione culturale italo-giapponese.
Nel 1923 accompagnò due documentaristi, Masutomi e Itoi, che erano stati incaricati dal Ministero dell’Istruzione del Giappone di realizzare un film sulle meraviglie del mondo, a Napoli, Firenze, Venezia, Roma, ma volle che la loro macchina da presa non catturasse soltanto quella che lui chiamava l’Italia archeologica, bensì quella “viva e pulsante” di Enrico Toti, di Beccastrini, minatore cieco ed eroe di guerra, e della nave-asilo Caracciolo dove la ″Montessori dei mari″, Giulia Civita Franceschini, educava gli orfani napoletani. Convinto delle affinità elettive tra l’Italia e il Giappone, Shimoi volle poi che i due documentaristi potessero incontrare il Duce e riprenderlo mentre passeggiava o faceva il saluto romano.
Come Fiume fu figlia dell’ingenuità poetica di D’Annunzio, così lo fu l’ammirazione che Shimoi provava per il Duce. Quest’ultimo si appassionò alla cultura giapponese e lo stesso De Felice commentò gli estremi di questa ″simpatia″ in un articolo del 1988, ricordando come Mussolini fosse rimasto impressionato dalla storia dei samurai Byakkotai i quali, dopo essere stati sconfitti e convinti della morte del loro daimyo, fecero seppuku per rispettare il patto di fedeltà che li aveva legati in vita al loro signore.
Memore di questa epopea raccontatagli da Shimoi, nel 1928 il Duce donò al governo giapponese una colonna pompeiana, decorata con la scultura di un’aquila in bronzo forgiata da Duilio Cambellotti, che ancora oggi adorna la collina Limori-Yama e la cui targa commemorativa ricorda il sacrificio dei guerrieri Byakkotai. Questo interesse fu duraturo, non transitorio, e nel 1924 Mussolini accettò la proposta di Shimoi di fare da testimonial per una famosa bevanda analcolica giapponese, la Calpis, e scrisse di suo pugno un messaggio alla gioventù nipponica esaltando la vicinanza tra il fascismo italiano e lo spirito del Bushidō (Via del Guerriero) giapponese.
La campagna pubblicitaria fu un successo e questo diede a Shimoi lo slancio per fondare un movimento politico extraparlamentare - il Partito della Gioventù Imperiale - e per pubblicare una serie di opere sul Duce e sul fascismo, da “Fassho Undo a Gyorai no se ni matagarite” (Cavalcando sul retro di un siluro), da “Shinto Ponpeo o tou tame ni” (una guida artistica a Pompei) fino alle traduzioni di libri e discorsi del Duce, inclusa la sua tesi di laurea Preludio al Machiavelli. Quelle stesse traduzioni, inclusa quella in italiano di una commedia satirica su Mussolini e il delitto Matteotti che sarebbe poi stata sottoposta a censura, gli sarebbero costate l’espulsione dall’università negli anni ’50 per propaganda a favore dell’Asse.
Durante gli anni Venti e i primi anni Trenta, Shimoi continuò a fare la spola tra il Giappone e l’Italia, lavorando alacremente alla promozione e agli scambi culturali tra i due paesi. Fu l’interprete del prof. Jigoro Kano, il fondatore del Judo, quando quest’ultimo venne a Roma nel 1928 per incontrare esponenti del governo, della diplomazia e delle forze armate italiane, tra cui il maestro Carlo Oletti, marinaio e pioniere della lotta giapponese in Italia. Sul quotidiano L’Impero, Shimoi scrisse che:
Gli echi della sua personale visione dell’arditismo e della cultura guerriera sono evidenti. Dopo essersi fatto fotografare a Palazzo Venezia nel 1926 insieme a Mussolini, aveva dichiarato:
In Shimoi il sentimento incedeva sul pensiero politico poiché, scavando a fondo, egli rimaneva un poeta e un letterato, dunque un ingenuo come tutte le anime belle. E come tutti gli ingenui che arrivano a conoscere i propri idoli, alla fine ne rimase inevitabilmente deluso. Nonostante l’impegno profuso nel fondare un pensiero che fosse autenticamente nipponico ed altrettanto autenticamente fascista, senza contare le energie spese nella propaganda a favore del regime italiano anche in casi deplorevoli come la guerra etiopica, Shimoi decise di allontanarsi dalla politica e ritirarsi in un angusto cono d’ombra dopo l’abbraccio tra Mussolini e Hitler.
Continuò a credere nella necessità storica di un socialismo a carattere nazionale ma sentì anche montare la diffidenza nei confronti dei disegni di egemonia mussoliniana e hitleriana:
Forse, in fondo, aveva sempre saputo che si trattava di fesserie. “Fesserie sono tutte. Tutto quello che l’uomo fa è una fesseria ... E questa è la cosa più grande che mi abbia insegnato Napoli”. Shimoi trascorse la Seconda Guerra Mondiale lontano dalla politica, traducendo in giapponese l’opera di D’Annunzio, sforzo che avrebbe eccitato la voracità intellettuale di Yukio Mishima verso lo studio dell’italiano.
Quando nel 1940 gli fu chiesto, in occasione delle celebrazioni dell’Amicizia Italo-Giapponese, di scrivere un articolo, tenne chiusi nel baule della memoria i suoi trascorsi e indirizzò alla rivista una raccolta di poesie con piccole note critiche a margine. Sua figlia aveva deciso di restare in Italia durante la guerra e sarà proprio lei ad ospitare, grazie alla protezione dell’ambasciatore barone Shinrokuro Hidaka, Claretta Petacci per alcuni giorni.
Shimoi fu poi assunto dal Corriere della Sera come corrispondente dall’Estremo Oriente ed una delle poche ricostruzioni dell’attacco di Pearl Harbor da parte giapponese porta la sua firma. L’impegno per il quotidiano milanese finì nel 1943 con la caduta del fascismo ed a quel punto Shimoi decise di riprendere in mano la sua passione per Dante. Volle portare a compimento la nascita di una Casa Dante Alighieri a Tokyo ma come il bambino che scrive in riva al bagnasciuga durante una marea, così il suo sogno fu travolto dalle bombe alleate.
Durante l’occupazione che seguì alla sconfitta, Shimoi toccò con mano il problema delle epurazioni. Fu infatti interdetto dall’insegnamento, salvo poi doverlo richiamare quando si resero conto del valore altissimo della sua arte oratoria e della sua poetica in quanto:
Si riavvicinò un poco alla politica soltanto negli ultimi anni della sua vita, quando convinzioni anticomuniste lo spinsero verso il Partito Conservatore di Mamoru Shigemitzu, quello stesso ministro che subì l’onta di dover firmare la resa a bordo della corazzata americana Missouri il 2 settembre 1945. Quando Montanelli lo raggiunse a Tokyo, Shimoi gli procurò incontri con politici, aristocratici, diplomatici, e lo accompagnò perfino a conoscere suo nipote, l’unico kamikaze scampato alla morte perché la dichiarazione di resa giunse poco prima di calarsi nella carlinga.
Davanti a quel piatto di spaghetti, Shimoi assaporò ancora una volta un po’ d’Italia e si confidò. Ricordava ancora la prima volta in cui aveva consegnato una missiva di D’Annunzio a Mussolini:
Un giornalista americano si accorse della bottiglia di Chianti sul loro tavolo, illuminandosi. Fece cenno a Montanelli e quest’ultimo, con gentilezza, ne versò un calice. Il vecchio Shimoi gli afferrò il braccio, con il volto cinereo e la voce tonante: «Un bicchiere di Chianti a un Americano? Un esercito per combattere i Russi, sì, glielo diamo, e sono pronto anch’io. Ma un bicchiere di Chianti, mai...O almeno non prima di altri mille ottocento anni di storia». Si alzò in piedi, guardò torvo l’americano che non capiva una parola e in perfetto napoletano proseguì: «E se per questo mi vogliono epurare, mi epurino pure. Io ‘cca sto!».
Come in quello scritto introduttivo di Croce al primo numero de La Diana del 1915, raccontare Harukichi Shimoi significa difenderne la virtù imperfetta. Il suo filofascismo e l’adesione ad un nazionalismo di stampo militarista portatore di nefande conseguenze furono il peccato di un carattere che non fu privo di virtù.
“Non so quanto valga Shimoi come scrittore giapponese”, rispose Montanelli ad una studentessa che gli chiedeva notizie del professore, “come uomo e come amico valeva moltissimo. Non smetterò mai di rimpiangerlo”.
Nel dicembre del 1954, il cuore da Ardito italiano di quel piccolo giapponese si fermò per sempre.
“E se per questo mi vogliono epurare, mi epurino pure. Io ‘cca sto!”.
Eia, Eia, Eia, Alalà!
La maggior parte delle citazioni in questo articolo sono tratte da:
Pautasso, G., Un Samurai a Fiume. Harukichi Shimoi, Oaks Editrice, 2019;
De Felice, R., Le simpatie nipponiche di Mussolini, in Relazioni Internazionali, anno I, n. 2, 1988, pp. 45-58;
Ferrarin, A., Il mio volo Roma-Tokyo, Idrovolante Edizioni, 2019;
Guerri, G.B., Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, Mondadori, 2019;
Peluso, A., ″Il Judo nelle Forze Armate Italiane″, in Il Giappone, vol. 41, 2001, pp. 97-103;
Gatti, R., In alto il ferro. Scherma di pugnale per Arditi, Audacia, 2016;
Rochat, G., Gli Arditi nella Grande Guerra. Origini, Battaglie e Miti, Le Querce, 2017.
* Fonte: "Harukichi Shimoi: il samurai tra Dante, D’Annunzio e Mussolini", Rivista "Contrasti", 31 maggio 2020 (ripresa parziale - senza immagini).
NOTA*
ALL’ESCORIAL, CON FILIPPO II, NEL 1584: "(...) A Madrid in festa per la pubblicazione delle nozze di Catalina Micaela con Carlo Emanuele di Savoia e per il giuramento del principe Filippo come prossimo sovrano di Castiglia, furono ricevuti da re Filippo che li accolse in compagnia delle infanti e li gratificò di tutti gli onori possibili senza tener conto della differenza di rango tra sé e quei piccoli (non soltanto per ragioni anagrafiche) principi che gli presentarono lettere nelle quali i daimyo loro genitori chiedevano il suo aiuto perché la religione cattolica trionfasse in Giappone” (cfr. Angelantonio Spagnoletti, “#FilippoII”, Salerno Editrice, Roma 2018, pp. 223-224).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
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Il Mediterraneo e l’Italia: un abbraccio lungo millenni
di LORENZO TERZI *
Con i suoi ottomila chilometri di coste, l’Italia è naturalmente - quasi forzatamente - orientata verso una piena dimensione marittima e marinara. Lo dimostrano, fra l’altro, la diffusione della nautica da diporto, il ruolo della Marina militare e mercantile, la piccola e grande cantieristica, le flotte da pesca. Senza trascurare i moltissimi naviganti del Ferragosto.
Il mare, questo sconosciuto
Eppure, sul piano culturale e nella narrazione popolare e nazionale, il mare - che nel caso dell’Italia si identifica senz’altro con il Mediterraneo - non sembra rappresentato quanto meriterebbe. Perfino nella letteratura il mare, quando c’è, è una presenza incombente ma lontana, come nel caso dei Malavoglia.
Assai poche le eccezioni: Gente di mare di Giovanni Comisso, per esempio, oppure Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo.
Il Mediterraneo secondo Ivetic
Qual è, allora, il rapporto dell’Italia con il mare e con il Mediterraneo?
A questa domanda cruciale prova a rispondere Egidio Ivetic nella monografia Il Mediterraneo e l’Italia. Dal mare nostrum alla centralità comprimaria (Rubbettino, 2022).
L’autore, innanzitutto, inquadra il problema in una prospettiva storica.
La marineria italiana ha una sua tradizione in quelle ligure, napoletana e siciliana. E poi in quelle veneta (Venezia, Chioggia), istriana (compresa Trieste) e dalmata, tutte e tre eredi della Serenissima.
In sostanza, sono tre o quattro modelli storici corrispondenti a realtà marinare che per alcuni secoli si sono spartite il Mediterraneo nelle loro reti di navigazione e di commercio.
Geopolitica e mare (Nostrum)
In linea generale si può dire che, mentre l’idea di Europa si presenta a partire dall’alto medioevo (cioè da Carlo Magno), la percezione del Mediterraneo in quanto contesto geopolitico è di molto antecedente.
In particolare, la centralità dell’Italia in questo contesto risale al dominio di Roma sul mare: tale centralità, infatti, si sovrappone a quella della penisola nel sistema imperiale, che non venne meno neppure in seguito alle crisi del III secolo d.C.
L’area appenninica centro-meridionale diventò quindi il fulcro assoluto del Mediterraneo, in quanto collocata in perfetto equilibrio tra la dimensione adriatica e ionica, in direzione della Grecia e dell’Oriente, e la dimensione tirrenica, rivolta alla Sicilia, all’Africa, all’Iberia e alla Gallia. L’egemonia su questo centro strategico consentì la realizzazione del Mare Nostrum.
Dopo l’Impero
La caduta dell’impero e i tumultuosi avvenimenti successivi determinarono scenari nuovi. Fra il IX e l’XI secolo l’Italia si trovò nel cuore stesso dell’Europa cristiana latina, con Roma come capitale spirituale, e, allo stesso tempo, diventò oggetto delle mire espansionistiche arabe, proprio perché protesa nel Mediterraneo.
Nel contesto italiano l’Occidente e l’Oriente, sia arabo-islamico sia bizantino, si confrontarono e convissero soprattutto nelle regioni marittime, tra Adriatico, Jonio e Tirreno. Furono secoli in cui nei luoghi di mare si alternarono guerre, commerci e convivenze, e in cui si comprese la necessità (o la modalità) della mediazione tra mondi simili e diversi.
Le repubbliche marinare: Pisa contro Genova
Dopo il Mille si assiste all’avvento delle città marinare italiane, più note come repubbliche marinare. L’egemonia di Venezia sull’Adriatico è una realtà consolidata già nell’XI secolo. La rivalità fra Pisa e Genova, invece, aumentò per il dominio su Corsica e Sardegna. Nell’agosto del 1284, nelle acque della Meloria, ebbe luogo lo scontro decisivo: la flotta pisana fu completamente sbaragliata e i caduti e i prigionieri furono diverse migliaia. Genova ebbe definitivamente tutta la Corsica.
Inizialmente Pisa cercò di reagire, riuscendo a mantenere attive le sue colonie nel Mediterraneo.
Arrivano gli Aragonesi
Le cose precipitarono quando gli Aragonesi, ormai padroni della Sicilia, volsero alla conquista della Sardegna, ultima risorsa pisana. Nel 1324, a Lucocisterna, le flotte catalana e pisana si affrontarono, e ancora una volta Pisa ebbe la peggio. La città decadde lentamente ma inesorabilmente, e la stessa marineria toscana non fu più all’altezza delle sfide mediterranee, nonostante la tarda vicenda di Livorno.
Egemonia veneziana: Lo Stato da Mar
Caduta Pisa, seguì lo scontro per l’egemonia mediterranea tra Genova e Venezia. Nel 1298, presso Curzola, in Dalmazia, ci fu la battaglia decisiva con la vittoria di Genova, che però non ebbe la forza di dare il colpo di grazia all’avversaria. Si giunse così alla pace del 1299.
Dal canto suo Venezia, nel Duecento, gettò le basi per la costruzione di quello che chiamò, due secoli dopo, Stato da Mar, in contrapposizione allo Stato da Terra.
Lo Stato da Mar - afferma Ivetic - «rimane forse la più marittima e mediterranea delle compagini politiche che si sono susseguite nella storia del Mediterraneo».
Il primo pilastro di questo sistema politico, commerciale e marittimo era rappresentato dalle colonie commerciali di veneziani, che si diffondevano dalla Tana nel Mare d’Azov ad Antiochia, Damasco, Tripoli di Siria, Acri, Alessandria e Salonicco, nonché nei porti pugliesi.
Il secondo pilastro era la flotta commerciale e militare, che si affermò sempre di più, tra il medioevo e l’età moderna, come strumento atto a garantire la sicurezza e la sovranità nel Golfo di Venezia e oltre.
Il corsaro Barbarossa
A partire dal Quattrocento, un terzo pilastro fu identificabile nella rete diplomatica veneta, soprattutto nella rete dei consolati, presenti nei maggiori porti del Mediterraneo. La sovranità di Venezia si estese, così, su un’ampia fascia di territori nell’Egeo, a Creta e Cipro, nello Ionio, in Dalmazia e Albania, nonché in Istria. La supremazia della città di San Marco nell’Egeo durò fino agli anni del corsaro Barbarossa (1520-1530 circa), nello Ionio fino al 1718, nell’Adriatico fino alla scomparsa della Repubblica (1797).
Il declino italiano
Il punto più basso della parabola storica del rapporto fra Italia e Mediterraneo corrisponde all’irrilevanza politica degli Stati italiani emersi dal Congresso di Vienna: i due stati marinari, Venezia e Genova, non esistevano più, mentre quelli indipendenti - Regno di Sardegna, Regno delle Due Sicilie e Stato pontificio - erano periferie nel centro del Mediterraneo.
La tendenza di queste realtà fu di mantenere la marineria commerciale e militare per lo stretto necessario, senza tentare la crescita. Questa passività lasciò libero il Mediterraneo, anche nei settori italiani, all’iniziativa britannica e francese, mentre l’Adriatico finì all’ombra dell’impero d’Austria, il cui sviluppo costiero coincideva con gli ex possedimenti della Serenissima, con l’aggiunta di Trieste, Fiume e del litorale croato.
La rivalsa in tricolore
Gli anni successivi all’unità d’Italia segnarono la rinascita dell’interesse italiano per il mare. Ne furono espressione, da un lato, la questione adriatica, che mirava a compiere l’unificazione nazionale con la liberazione delle terre irredente, e, dall’altro, la politica coloniale inaugurata da Crispi.
L’idea del dominio del Mediterraneo raggiunse la sua massima espressione nell’età del nazionalismo, fra il 1908 e il 1943. Secondo Ivetic, vi sarebbero due eventi che possono esprimerne l’inizio e la fine: rispettivamente La nave, dramma di Gabriele d’Annunzio eseguito al Teatro Argentina di Roma nel gennaio del 1908, e l’inabissamento della nave da battaglia Roma il 9 settembre 1943 presso l’Asinara.
Una nuova mediterraneità?
Dopo la seconda Guerra mondiale, la negazione della mediterraneità, su cui molto si era spesa la propaganda fascista, divenne una catarsi necessaria. A ciò si aggiunse l’adesione alla Nato, che inaugurò la stagione dell’atlantismo, nuova fede di cui gli Stati Uniti erano il faro. Poi venne l’Europa: un altro riferimento fideistico, anch’esso astratto, distante dalla vita civile, così inevitabilmente locale. In questo clima non c’era posto per il Mediterraneo e, soprattutto, per una politica mediterranea.
Eppure, rileva Ivetic, si può ancora dare un «mediterraneismo italiano».
La centralità geografica della Penisola ha le sue problematiche e le sue complessità, ma comporta anche dei vantaggi. Tutti i paesi mediterranei devono in qualche modo rapportarsi con l’Italia, dal momento che essa è il centro del Mediterraneo inteso come regione e sistema: «Inteso nel bene (quando si pensa alle possibilità di sviluppo) e nel male (quando si pensa ai conflitti e alle emergenze umanitarie)».
* Fonte: L’indYgesto, LUGLIO 10, 2022
NOTA:
D’ANNUNZIO ("LA NAVE", FIUME, IL LAGO DI GARDA) E IL "MARE NOSTRO":
FORSE, NON è meglio distinguere e precisare che la massima espressione d’ispirazione nazionalistica, nasce sul filo della memoria di Venezia e finisce con l’impresa del "primo duce", a Fiume (1919-1920), di D’Annunzio, e il suo autoconfinarsi sul Lago di Garda; dopo, la massima espressione del dominio del Mediterraneo, quella "imperialistico-romana". è espressa dal "secondo duce" e finisce il 25 luglio 1943?
Federico La Sala
Una lettera di Eugenio Morreale su Dino Grandi
di Carlo Pulsoni *
***
Caro Direttore,
di ritorno dall’Italia, mia figlia Maria mi ha portato “il Giornale Nuovo” di ieri 21 luglio, che annunzia la pubblicazione di un nuovo libro di Renzo De Felice. A quel che intendo, esso si muoverà sulla solita altalena: Mussolini sì!, Mussolini no!; fascismo sì!, fascismo no!, proponendola come giuoco dominante dell’Italia d’oggi.
E se invece ci decidessimo ad affrontare la storia di tutto il periodo che dalla cosiddetta “marcia su Roma” giunge al 25 luglio 1943 come un periodo storico in cui Mussolini altro non fu se non un italiano intento ad inventare una ideologia che giustificasse quel tanto di dittatura che gli consentivano il re Vittorio Emanuele III e la sua arma dei reali carabinieri, non Le pare che entreremmo finalmente nel campo che veramente interessa la gioventù italiana odierna desiderosa di una Costituzione veramente democratica che abolisca finalmente quella uscita dalla paura delle varie nostalgie? Una Costituzione che consenta ai partiti di esprimere governi che legiferano ad un ritmo ben superiore all’attuale? E dunque? Non c’è dubbio che il nuovo libro di Renzo De Felice avrà il successo che ben gli meritano la sua abilità dialettica ed il battage del Giornale nuovo e, rievocando il periodo delle sventure, aiuti a fermare l’altalena a cui sopra ho accennato.
Confidando nella Sua imparzialità, suo Eugenio Morreale
P.S. - Per informazione personale: chi firma la presente è lo stesso Eugenio Morreale (ora novantaduenne) che Lei cita a pag. 207 del Suo Italia littoria; lo stesso che da “inviato speciale” della catena di giornali che facevano capo, per i servizi esteri, al Popolo d’Italia venne spesso a contatto col ministro degli esteri Dino Grandi nell’ambiente della Società delle Nazioni a Ginevra, lo stesso che nei suoi cinque anni di permanenza in Argentina, tra il 1947 e il 1952, venne a contatto amichevole con l’Ing. Rocca di cui il Grandi vanta, nei suoi ricordi, la fraterna amicizia etc. etc. Prendo quindi occasione della presente per manifestarle la mia opinione che sul piano storico la figura del Grandi mi sembra piuttosto modesta, sia come diplomatico che come politico. E mi sembra altresì doveroso esporle la versione che io, da cronista, posso dare della vera causa della destituzione del Grandi da ministro degli esteri avvenuta il 20 luglio del 1932. Il Grandi credeva di essere, come suol dirsi, nella manica del capo del laburismo inglese MacDonald per il servizio resogli durante una conferenza navale nella quale egli, rappresentando la richiesta mussoliniana di una parità navale tra Italia e Francia, aveva fatto anche gli interessi della Gran Bretagna assolutamente negativa in fatto di aumento della potenza navale francese. Orbene: si era nel giugno del 1932: gli esponenti dei Paesi europei debitori verso gli Stati Uniti venivano convocati a Losanna per una ennesima “conferenza” delle riparazioni. Passando da un “piano” all’altro - a seconda del nome del finanziere che lo aveva inventato, era entrato ormai nella coscienza generale, la necessità, più che l’opportunità, di una cancellazione di tutte le partite pendenti: ne erano convinti anche i due rappresentanti della Gran Bretagna presenti a Losanna: MacDonald e Stimson solo che non volevano esser loro a dire il “no” agli americani, volevano “salvar la faccia”. Conversando col piccolo gruppo degli inviati speciali italiani presenti a Losanna, Grandi ci dice di aver ricevuto nella mattinata la visita dei due inglesi testé menzionati ed era stato MacDonald a chiedergli come si sarebbe comportato il governo italiano allorché alla fine di dicembre sarebbe giunta a maturazione la rata italiana da pagare agli Stati Uniti: “Risposi” ci dice Grandi con l’aria più naturale che l’Italia avrebbe fatto fronte secondo le sue possibilità. Al che MacDonald, volgendosi verso Stimson: Ha sentito? A dir vero - soggiunse Grandi, rivolgendosi a noi della stampa, - questa insistenza non l’ho capita”. Evidentemente MacDonald si attendeva ben altra risposta dal suo pupillo italiano. Sicché i due britannici passarono nella stessa mattinata a setacciare la rappresentanza francese la quale, a quanto si seppe dopo, capita la sensibilità britannica, la negoziarono: avrebbero risposto con un no secco agli americani, la Francia non avrebbe pagato più un soldo per riparazioni, sol che la Gran Bretagna si impegnasse ad inviare proprie truppe da combattimento su terraferma europea in caso di conflitto armato franco tedesco.
Cambiando scena: Grandi, ministro degli esteri, riferisce il 21 luglio in consiglio di ministri presieduto da Mussolini, le sue impressioni sulla sua operosità a Losanna dove sono stati rafforzati gli ottimi rapporti tra Roma e Londra. In quella Viola, che a Londra sta sostituendo l’ambasciatore Grandi assente, telefona di aver avuto notizie dal Foreign Office che a Losanna è stato raggiunto un non ancora specificato “gentlemen agreement”: in altri termini: un rafforzamento delle relazioni franco-britanniche dal quale non poteva a meno, nelle previsioni di Mussolini, che derivare un rafforzamento della politica antifascista della Francia: da qui in “vattene a Londra ad intendertela tu col tuo MacDonald”.
Mi scusi l’egregio collega Indro Montanelli se non riesco a dimenticare di essere stato giornalista anch’io. A 18 anni, nel 1909, entrai a far parte, come stenografo, della redazione del quotidiano L’Ora di Palermo. Nel 1910 passai, sempre come stenografo al Secolo di Milano e quindi alla Lombarda giornalisti. Ritengo che esiste ancora alla “Lombarda” un grande registro degli associati nel 1911, unico superstite dei bombardamenti di guerra, in cui il mio nome precede quello di Benito Mussolini, allora all’Avanti. Mi fu mostrato, a titolo di curiosità, parecchi anni or sono (la Lombarda aveva allora la sua sede in Viale di Porta Nuova). La tessera con fotografia che le Ferrovie dello Stato mi assegnarono, quale giornalista professionista, per l’uso dei tagliandi che riducevano al 25% la tariffa ferroviaria, recava il N. 2701, ché tanti eravamo allora i giornalisti in Italia!
* Fonte: Insula Europea, 7 Giugno 2022
L’IMPERO E LA CHIESA (BARI, 1936). Storia, storiografia, e sonno dogmatico.
Una nota a margine di una segnalazione ... *
Il 9 maggio 1936, Mussolini celebra "dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui Colli fatali di Roma". Il "5 settembre 1936", nella Basilica di San Nicola di Bari, è murata su una parete una lapide ben illuminata su cui è scritto:
Per capire le ragioni politico-culturali di questo "documento" del Comune di Bari, collocato "nello storico tempio del santo mediterraneo", nella Chiesa di San Nicola di Bari, forse, è bene ampliare lo sguardo intorno alla data del "5-SETT-MCMXXXVI" (5 SETTEMBRE 1936) e quanto meno ricordare gli accordi sottoscritti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929 (Patti Lateranensi) e al contempo "riascoltare" e rileggere il "Discorso di proclamazione dell’Impero", tenuto da Mussolini dal balcone di piazza Venezia la sera del 9 maggio 1936:
Il 1° marzo 1924, su "L’Ordine Nuovo", Antonio Gramsci aveva già scritto: "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, RomoloAugustolo". Evidentemente gli ideologi imperiali avevano ignorato la lezione di Dante sulla Monarchia e sui "venticinque secoli" (Par. XXXIII, 95), come quella di Goethe sui "tremila anni" ("Libro del malumore", 1819).
* Una "lapide che lascia perplessi!", si cfr. la segnalazione di Nicola Fanizza.
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E ANTROPOLOGIA.
MEMORIA DELLA MONARCHIA DEI #DUESOLI (#DANTE2021) E STORIA DELLA LOTTA "COSMOTEANDRICA" TRA PAPA (guelfi) E IMPERATORE (ghibellini).
RINASCIMENTO E #COSMOLOGIA. Dante all’inferno per Giovanni XXII e Buffalmacco (https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2022/02/professoressa-normale-dante-alighieri-affresco-pisano-trecento/ ) ....
Oggi, si continua a parlare di Sole-Luna ma si ignora non solo la cosmologia della relatività di Galileo Galilei e Albert Einstein, ma anche la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo (1948), la Costituzione della Repubblica italiana (1948), la "Pacem In Terris" dfi Giovanni XXIII (1963), ma anche lo stesso #sorgeredellaTerra (https://it.wikipedia.org/wiki/Sorgere_della_Terra), dell’Earthrise (24 dicembre 1968)!
Federico La Sala
Urbino. Il Danteum e Terragni, architettura come poesia
Uno dei progetti più affascinanti e mai realizzati dall’architetto comasco, doveva essere costruito per l’Eur 1942. È il" testamento" del grande progettista, che mette a soqquadro le idee moderniste
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, venerdì 21 gennaio 2022)
Non esiste nella storia dell’architettura italiana della prima metà del Novecento un progetto più misterioso, fascinoso, antifrastico rispetto all’idea stessa di monumento del Danteum che Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni elaborarono e presentarono nel 1938 e che avrebbe dovuto vedere la luce per l’Eur del 1942. Il Danteum è una di quelle opere per cui si può parafrasare senza tema di sbagliare il detto oraziano: Ut architectura poesis. Architettura come poesia. Di questo si sta parlando, e forse non ci si rende conto di quanto all’epoca potesse essere paradossale per il mondo dell’architettura modernista italiana una considerazione del genere. Perché non c’è dubbio che nel linguaggio moderno, quello di Le Corbusier per esempio, la vena lirica avesse una sua parte, se non altro perché i moduli progettuali spesso si rifacevano alla sezione aurea che era ben presente nei pensieri dell’architetto svizzero fin da quando aveva viaggiato nel mondo mediterraneo, ma poi trovando ulteriori spunti quando nel 1931 uscì il saggio di un grande erudito sul “numero d’oro”, Matila Ghyka, diplomatico e scrittore rumeno che per tutta la vita studiò la questione del ritmo nella creazione poetica (e l’architetto se ne ricordò nel 1948 nel libro sul Modu-lor, l’equivalente corbuseriano del leonardesco uomo vitruviano).
Tuttavia, questa vena lirica doveva applicarsi alle proporzioni e all’armonia cartesiana, razionale, degli spazi e alla loro funzionalità priva di orpelli. Anche Lingeri e Terragni nella relazione che accompagnava il loro progetto scrissero di aver cercato di «ottenere il massimo di espressione con il minimo di retorica, il massimo di commozione col minimo di aggettivazione decorativistica e simbolistica » perché il Danteum doveva essere «una grande sinfonia da realizzare con strumenti primordiali ». Quando si leggono queste affermazioni si può forse ipotizzare perché il progetto non venne realizzato: la motivazione ufficiale, che Federica Rasenti ricorda nel catalogo edito da Marsilio a corredo della mostra Città di Dio. Città degli uomini in corso al Palazzo Ducale di Urbino (fino al 27 marzo), suona infatti alle mie orecchie con quel tono politichese che sempre si accompagna al rifiuto di un’opera geniale (cioè libera) impugnando ragioni di limiti ideologici se non soltanto economici: «Il progetto - scrive la studiosa - si arenerà verso la fine del 1939, pare a causa di difficoltà politiche oltre che per via del crescente impegno bellico dell’Italia» (che non impedì tuttavia di realizzare il cubone pseudometafisico con gli archetti vale a dire il Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur).
Confesso di considerare la mancata costruzione del Danteum come una delle ferite più profonde che l’architettura del Novecento abbia subito: un vulnus di cultura e di civiltà estetica. Terragni a Como ci ha dato due capolavori incommensurabili: la Casa del fascio e l’Asilo infantile Sant’Elia: basterebbero a farne, con Giovanni Michelucci, il più grande architetto italiano del Novecento e uno dei più grandi in Europa. E la sua grandezza sta anche nell’aver svuotato con la poesia ogni pretesa retorica che il regime accampava nella mente degli architetti che volevano costruire, imponendo loro determinati valori monumentali.
Se anche per un decennio il razionalismo italiano, almeno fino al 1932, sperò - con la mediazione di Pietro Maria Bardi - di diventare arte di Stato e Mussolini (per tramite della Sarfatti) si fosse dimostrato sensibile alla pretesa, le cose poi andarono in tutt’altro modo.
Polemicamente, l’anno prima, lo stesso Bardi aveva presentato alla Seconda Esposizione di Architettura Razionale un Tavolo degli orrori con prodotti dagli architet- ti iscritti al sindacato fascista (oggi, nonostante la predilezione per un certo tipo di architettura moderna, non si può però negare che Piacentini & C. si dimostrarono spesso architetti capaci, e alcune loro architetture sono di tutto rispetto, anche se le forme ricalcano un’estetica monumentale).
La mostra di Urbino chiude l’anno dantesco regalandoci un’occasione rara: espone 22 tavole coi disegni originali di progetto di Lingeri e Terragni, planimetrie, alzati, assonometrie. E attorno - col pendant della quattrocentesca Città ideale conservata alla Galleria Nazionale - dissemina in alcune stanze una novantina di disegni- progetti di architetti che immaginano scenografie dantesche nel segno dell’utopia (ma si potrebbe dire che l’utopia è proprio celebrata da Lingeri e Terragni nel far corrispondere all’organizzazione interna dell’edificio quel procedere ascensionale e spiraliforme che governa la struttura della Commedia). Basterebbe il “passaggio” dall’Inferno con le cento colonne marmoree che alludono alla selva oscura - interrotte nella loro ritmica compattezza da un’unica colonna di vetro che rappresenta Virgilio -, alla “stanza” del Purgatorio coi soffitti che si aprono in finestre di varie dimensioni verso il cielo, per giungere al Paradiso con le trentatré colonne in vetro molato, ecco, già questo può far intuire che tasso di genialità poetica seppero esprimere i nostri due architetti.
Il Danteum è una di quelle opere che funzionano da “segno di contraddizione” su un’epoca dibattuta fra classicità ed eresia, custode del classico ma desiderosa di infrangerne la retorica con una sprezzatura moderna che intende unire unire teoria e prassi, materia e spirito, tecnica e armonia. Siamo già oltre il positivismo ottocentesco, ma in qualche modo viene messo in discussione anche il dogma funzionalista: Le Corbusier, dopo esserne stato il guru più influente, compie una svolta radicale col masso erratico che viene a posarsi sulla collina di Ronchamp, la chiesa di Notre-Dame du Haut, che avrà sul dibattito architettonico la potenza d’urto di un meteorite caduto inaspettatamente sulla terra.
Feroce la stroncatura che Argan diede di Ronchamp vedendo nella chiesa il tradimento di tutti gli ideali funzionalisti di cui fino a quel momento Le Corbusier era stato il profeta indiscusso nel mondo. Il grande critico, coerente nell’argomentare una visione progressista e razionale, aveva però già dato prova di cecità proprio discutendo le scelte progettuali di Lingeri e Terragni per il Danteum. «È un errore madornale: l’idea di far coincidere la distribuzione planimetrica di un edificio con la struttura di un poema è quasi comica, ma non più di quella di esprimere architettonicamente la vittoria, la patria, la perennità dell’impero».
Come ha osservato la storica Ada Francesca Marcianò nel 1987, questa comicità-retorica è contraddetta proprio «frammentando intensamente lo spazio, immergendo il visitatore in un continuum temporale arricchito di episodi plastici che trasgrediscono sia la “mistica del vuoto” di regime sia le vacue spianate classiciste». All’epoca probabilmente quelle colonne potevano aver fatto torcere il naso ad alcuni razionalisti più dogmatici, che videro in quel progetto un cedimento alla vena “mediterranea” che emergeva da alcuni architetti del Gruppo 7, di cui anche Terragni fece a suo modo parte, che Edoardo Persico impietosamente paragonò alle “comode alcove” borghesi.
Persico, una mente tra le più lucide nell’intuire le svolte dell’arte e dell’architettura, era morto nel gennaio del 1936. Dobbiamo chiederci come avrebbe trattato il Danteum. Forse l’avrebbe stroncato, se pensiamo alle parole durissime che rivolse a Luciano Baldessarri (un altro gigante da riscoprire) per le cinque colonne senza alcuna funzione portante che aveva posto sulla facciata del Padiglione per la Stampa alla Triennale del 1933. Nel Danteum altro che cinque, cento colonne, la cui funzione era simbolica e figurativa. Cioè frutto di una ispirazione letteraria, quella che veniva dalla Commedia dantesca, a cui Persico poteva certo essere sensibile, visto che aveva cominciato a scrivere proprio di letteratura per Il Baretti. Non lo sapremo mai, ma quel temenos dantesco, con le sue murature massicce che avrebbero dialogato, su via dell’Impero, con la Basilica di Massenzio, resta una delle grandi occasioni perdute e da rimpiangere, che - come scrisse Marcianò - anche oggi incarnerebbe la forza di un «paradosso urbano».
Il caso.
Ironia della storia: i Savoia fanno causa alla Repubblica
I discendenti della dinastia rivogliono i gioielli della Corona custoditi in Banca d’Italia
di Angelo De Mattia (Avvenire, giovedì 27 gennaio 2022)
L’ironia della storia ha colpito. E ha fatto sì che, mentre si sta progettando un "conclave laico" per arrivare a una candidatura condivisa per l’elezione a presidente della Repubblica (nella speranza ovviamente di una durata inferiore a quella del famoso primo conclave di Viterbo dal 1268 per l’elezione del papa Gregorio X), ha fatto irruzione nelle cronache una questione monarchica, la rivendica, cioè, dei gioielli della Corona da parte dei discendenti di Casa Savoia, depositati presso la Banca d’Italia. La carica elettiva per la più alta magistratura della Repubblica, nata dalla cacciata dei Savoia, da un lato; gli eredi della monarchia all’epoca esiliata, dall’altro (mentre, per di più, l’Unione monarchica lancia Aimone di Savoia come possibile «grande presidente»).
Caduto il regime monarchico, Umberto II incaricò il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, di costituire le gioie in un deposito vincolato, da restituire a chi ne abbia diritto. Sono trascorsi da allora 75 anni, ma il deposito è rimasto tale e quale e l’avente diritto non è stato materializzato. In questi anni, frequenti sono state le richieste di chiarimenti sul deposito e la necessità di definire finalmente la proprietà dei gioielli, oggetto di stime che vanno dalle centinaia di milioni a solo qualche milione, come rileva un’indagine di Francesco De Leo.
Sussiste, comunque, un valore, innanzitutto storico, che va oltre quello venale. In questi giorni gli eredi Savoia hanno tentato, ma senza risultato, una mediazione con il governo il quale ritiene, invece, che la proprietà sia dello Stato. A questo punto, come annunciato dal legale dei Savoia, la vicenda si trasferirà nelle aule dei Tribunali. È prevedibile che sarà invocato un complesso di norme, interne e internazionali, per sostenere la proprietà "personale" della Casa reale, non dell’"istituto monarchia", e qui non ci si potrebbe meravigliare che si facesse riferimento pure alla Costituzione, nata dopo la cacciata dei Savoia. Il governo sarebbe fermamente convinto della proprietà delle gioie, divenuta ormai pubblica.
Alle sollecitazioni nel tempo la Banca d’Italia correttamente ha sempre risposto che essa è semplicemente depositaria e che attende la dimostrazione di chi ne ha la proprietà per svincolare il deposito. Lo stesso Draghi, all’epoca governatore a Palazzo Koch, sostenne a suo tempo questa linea scrivendo alla Presidenza del Consiglio perché assumesse una decisione. Sono trascorsi circa 16 anni e stiamo ancora al punto di prima.
Ora, però, a Palazzo Chigi c’è proprio Draghi e, pur non essendo questa la principale questione da affrontare - "a fortiori" ora che della sua posizione si discute, tra aspirazioni, autocandidature e ripiegamenti -, resta pur sempre che, per risolvere il problema, sono sufficienti criteri e indirizzi di normale amministrazione.
E, allora, perché non si smette di temporeggiare? Perché non si dice chiaramente, se tale è il convincimento, che le gioie sono beni della Repubblica e che il deposito va cambiato nella forma tecnico-giuridica propria dei beni dello Stato, senza attendere controversie giudiziarie? O si teme che le posizioni avverse possano avere successo (ma non si capirebbe come...)? Intanto, anche per l’immagine e la dignità della Repubblica, si dovrebbe decidere, abbandonando ogni atteggiamento dilatorio o ipotetici conflitti di competenza tra i ministeri: non vi è bisogno in questa vicenda di un Quinto Fabio Massimo. D’altro canto, pure gli italiani avrebbero diritto di conoscere quali sono i beni depositati da chi è stato costretto, dopo la tragedia della guerra, a lasciare l’Italia. E, magari, di vederli esposti al pubblico.
COSTITUZIONE, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA:
DANTE ALIGHIERI, WILLIAM SHAKESPEARE, E JOHN MAYNARD KEYNES.
La questione dei due soli e "il nostro problema economico"...
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ECONOMIA, E FILOLOGIA: "HOMO HOMINI DEUS EST"!
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): DEUS CHARITAS EST (NON "DEUS CARITAS EST")!
IL "NOSTRO" PROBLEMA DI MAMMONA. Non potete servire a Dio (charitas - amore e giustizia) e a mammona (caritas - denaro e ricchezza):
24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. 25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Federico La Sala
ANCORA
IL #REGIME DELL’#UNO
E
LA #DOTTA IGNORANZA
!"#Dio non gioca a #dadi"
ma, dopo la #lezione di
#Georges de La Tour,
l’#Uno
è ancora
il più sfuggente
e misterioso
tra i #numeri?
#A che gioco giochiamo?!
Scheda editoriale *
GIULIO BUSI
Uno
Il battito invisibile
L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo. Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri.
Giulio Busi è esperto di mistica ebraica e di storia rinascimentale, insegna Giudaistica alla Freie Universität di Berlino. Collabora da molti anni alle pagine culturali del «Sole 24 Ore». Per il Mulino ha pubblicato «Indovinare il mondo. Le cento porte del destino» (2021).
* Fonte: Il Mulino
CRONACHE MARZIANE.
Ma come sono intelligenti (questi esseri umani terrestri d’Italia): non sanno proprio nulla della fattoria né di Platone né di Orwell. Hanno approvato una Legge che dice:tutti i partiti sono uguali, ma un partito è più uguale degli altri! E si apprestano a nominare Presidente della loro Repubblica, il presidente (o chi per lui) di questo partito. Il giogo e il gioco è già in atto da più di un ventennio!
Sono proprio intelligenti e sportivi questi terrestri italiani: con il loro nuovo presidente, tutti e tutte gridano e agitano le bandiere del partito: "forza italia". Tutto il loro mondo è diventato uno stadio e, finalmente, il loro Presidente è l’Arbitro di tutti i partiti e di tutte le partite!!!
Federico La Sala
Augusto figlio di dio
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di...
di Marco Sferini (La Sinistra quotidiana, 22 Settembre 2021)
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di uomo di legge e di procuratore, si interessò di storia - per così dire - “moderna” o “contemporanea“, se lo si vive calato esclusivamente nel suo tempo, astraendosi dal proprio presente. Questa sua passione la mise tutta nella redazione di una narrazione accurata delle Guerre civili: da Mario e Silla fino all’instaurazione del Principato.
In realtà, la sua monumentale opera, ben 24 libri, è arrivata fino a noi più che dimezzata: della “Ῥωμαικά” (“Rhomanikà“) rimangono solo 11 volumi, ma sono sufficienti per riuscire a ritrovare tutta una lunga serie di collegamenti con altri autori e con episodi della storia imperiale dell’Urbe.
Sappiamo che Karl Marx se ne interessò e che, molto probabilmente, soprattutto grazie alla lettura dei testi di Appiano imparò ad apprezzare oltre ogni modo la figura di Spartaco come “der famoseste Kerl“: tradotto dal tedesco, questo giudizio sul generale degli schiavi risulta essere “il tipo più in gamba“. Meglio di Garibaldi, si spinge il Moro nella comparazione con l’attualità che osserva in Europa e nell’Italia dei moti risorgimentali.
Appiano, come bene scrive Luciano Canfora nel suo “Augusto figlio di dio” (Editori Laterza, prima ed. 2015), è uno storico dilettante, ma tremendamente bravo e soprattutto ha accesso ad una vastità di fonti e di informazioni che, ancora oggi, rimangono un enigma per come siano state trovate, scoperte e utilizzate dall’alessandrino. Sembra essere, se non l’unico, almeno uno dei pochi cronachisti dell’antichità a conoscere situazioni così intime, segrete e particolari della corte augustea da mettere in discussione quel poco che sappiamo della sua vita.
La sorpresa di Marx davanti alla bravura di Appiano è nulla in confronto alle tinte di giallo che contornano questo avvocato dei tempi di Traiano, Adriano e Antonino Pio nel momento in cui si accinge a diventare uno scrittore, uno storico e lo fa con a disposizione dettagliatissimi resoconti della vita tanto privata quanto pubblica di Giulio Cesare ma, soprattutto, di Augusto.
L’opera di Canfora sul Princeps, sul rifondatore della Res publica, sul primo imperatore di Roma, è barocca, ricca di pieghe del tempo, di sovrapposizioni e intersezioni tra i personaggi di un passato che si rilegge nel tempo moderno ottocentesco, mentre prende corpo il marxismo, così come nel primo novecento mentre avanza lo spartachismo germanico. Sono pagine di meticolosa disamina della vita di Ottaviano, pur intervallate da viaggi nella quarta dimensione, accanto ad un Virgilio dantescamente ritrovato, seppure un bel po’ di anni dopo la sua morte, che però è - come scrive Marx ad Engels - «un egiziano tutto d’un pezzo».
Chi si dispone alla lettura dell’Augusto di Canfora, sappia fin dall’inizio che non è un libro semplice: necessita una certa conoscenza della romanità, tanto sul piano storico quanto su quello politico. Necessita pure una conoscenza, quanto meno di base, della letteratura latina, di autori come Seneca, Cicerone, Tacito ed anche il più leggero mondo svetoniano dei Cesari.
Non è una biografia né di Augusto e né di Appiano. Paradossalmente, però, riesce ad essere un grande affresco dinamicamente tinteggiato da tante sfumature di un mondo in continua evoluzione, che si riconosce proprio dall’atto fondativo prodotto dalle Guerre civili, dalla dittatura cesariana e dalla pax inaugurata da un Augusto scaltro, cui Appiano riconosce tutti i meriti del grande politico, camaleontico, capace di interpretare simultaneamente il difensore del Senato e della tradizione repubblicana della Roma che aveva cacciato i re ed essere il nuovo sovrano di un impero che viene rinnovato, completamente ristrutturato nella sua amministrazione ed anche nella preservazione della memoria, del sapere, dell’arte e delle lettere.
Augusto, ce lo dice Marco Antonio, ma lo sottolinea pure Canfora, deve un po’ tutto al suo nome: non a quello di nascita (Gaio Ottavio), bensì a quello del suo padre adottivo, il Divus Julius. Ottaviano ne è consapevole e fa di tutto per attribuirselo in ogni occasione, per farsi riconoscere dai Padri coscritti come l’erede di una volontà politica che difende la repubblica dai tentativi di restaurazione oligarchica dei cesaricidi.
In realtà, Luciano Canfora svela tante ambiguità di una storia romana che Appiano tuttavia non cela, non mistifica, non celebra inversamente, revisionisticamente, con quella accondiscendente sudditanza verso il potere, con una piaggeria che ci si aspetterebbe da uno scrittore che, per giunta, è un procuratore imperiale (anche se alcuni storici ritengono che questa carica gli venne assegnata più come titolo onorifico che come investitura vera e propria con pieni poteri).
“Augusto figlio di dio” è molto più di un libro sul primo imperatore di Roma: è un vero e proprio lavoro di ricerca storica, politica, sociale e morale tradotto in una biografia che ha il gusto piacevole del romanzo giallo, la fascinazione del prosa descrittiva di un passato mostrato con le tante similitudini del e nel nostro presente (in particolare, queste fanno riferimento alle caratteristiche più propriamente umane nelle declinazioni politiche, intellettuali e militari). Non ultimo, possiede il disincanto da una esposizione cattedratica che l’autore a volte è tentato di offrire a tutti i lettori nel proporre l’intersezione di tante difficili argomentazioni, ma che riesce sempre a coniugare con la cosciente pragmaticità della fruizione dell’opera da parte di un vasto pubblico dalle conoscenze più varie.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
FLS
Santo del giorno: 21 novembre
Solennità di Cristo Re
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica « Quas primas ». Ne riportiamo i punti principali.
«Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire. In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo. Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo « ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ». Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: « Il mio regno non è di questo mondo ». L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Fonte: Santo del giorno, 21 novembre 2021 (ripresa parziale).
Note:
Martirologio Romano: Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo: a Lui solo il potere, la gloria e la maestà negli infiniti secoli dei secoli:
"[...] Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l’umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo - scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 - “in senso pieno, proprio e assoluto, ... è re”. [...]" (cfr. "Santi e beati": Francesco Patruno).
PIO XI, LETTERA ENCICLICA QUAS PRIMAS, 11 dicembre 1925
FLS
CULTURA E SOCIETÀ - CINEMA E PSICOANALISI...
di G. Jodice.
Recensione di Giorgio Mattei
Il legame tra psicoanalisi e poesia risale agli albori della disciplina che ha per oggetto lo studio dell’inconscio. A più riprese, Freud ha fatto riferimento alle opere di Shakespeare, Goethe e altri poeti per chiarire i concetti che andava scoprendo nella pratica clinica, e ha approfondito in un saggio “quella personalità ben strana che è il poeta” (Freud, 1908).
Pertanto, la visione de “Il cattivo poeta” si impone quasi come una necessità, anche perché narra gli ultimi anni di vita di uno dei massimi poeti italiani, Gabriele D’Annunzio. Si tratta di un film splendido e necessario.
È splendido per molteplici ragioni, che risiedono nell’alchimia che origina dall’intreccio tra sceneggiatura, regia e interpretazione di tutto il cast di attrici e attori (notevole Sergio Castellitto nel ruolo del poeta). Ne risulta una narrazione per immagini avvincente, impreziosita dalle vedute del Lago di Garda, e dalle numerose scene girate dentro alla Prioria del Vittoriale degli Italiani, la monumentale residenza di Gardone in cui il poeta si ritirò a vivere nel 1921.
È un film anche necessario, come tutto ciò che riguarda i poeti e le loro vite, e come tutto quanto affronta quella ferita mai pienamente elaborata che è il fascismo.
L’unico limite è rappresentato da un atteggiamento eccessivamente indulgente nei confronti di D’Annunzio, che sembra mirare alla riabilitazione di una delle figure più controverse della nostra cultura, come se per fare da contrappeso a decenni in cui egli è stato spesso ridicolizzato e sminuito (in primis, per ragioni politiche) ci si dovesse ora sbilanciare nella direzione opposta. Ciò pare in linea con la nostra contemporaneità, pur non rappresentando una necessità storica: tutta la poesia italiana del Novecento testimonia della imprescindibilità di questo grande poeta.
A partire dalla visione del film si delinea un interessante parallelismo. Come ogni poeta non può evitare di confrontarsi (e al limite scontrarsi) con D’Annunzio, così un italiano non può evitare di fare i conti con quella ferita storica che è il fascismo. Un fenomeno sociopolitico tutto nostrano, una forma atroce e antesignana di “made in Italy”, poi esportata nel resto d’Europa. Ricordo che i miei anziani, che vivevano poveri in quella che allora era una piccola città emiliana, non temevano i tedeschi: temevano gli italiani. Forse la mancata elaborazione del fascismo come fatto storico e psicologico rappresenta uno degli aspetti, tra gli altri, che ha reso l’Italia un “paese mancato” (Crainz, 2003).
Tornando al film, il titolo, a prima vista, lascia spiazzati. Chi è “il cattivo poeta”? Forse si tratta di D’Annunzio, “cattivo poeta” nella misura in cui non appoggia l’Asse Roma-Berlino. Oppure di Mussolini, “cattivo poeta” che divora e dilania il linguaggio dannunziano, adulterandolo con la violenza squadrista. Ma anche Giovanni Comini (magistralmente interpretato da Francesco Patanè), appena promosso federale di Brescia e introdotto al Vittoriale come spia, diventerà, dopo l’incontro con D’Annunzio, un “cattivo poeta.”
Ho voluto richiamare l’attenzione solo su alcuni dei molteplici temi che si offrono alla riflessione, anche di tipo psicoanalitico, ma ce ne sono altri, tra i quali la psicologia delle masse e il complesso del padre (Freud, 1921; Zoja, 2000), oppure l’economia psichica alla base delle dipendenze, davvero molteplici nella vita del poeta (McDougall, 1995).
Un ulteriore elemento di fascinazione per il film, che mi preme di ricordare, è rappresentato dalla sua capacità di parlare al presente. In una scena, il camerata Giovanni Comini, rivolto alla donna che ama, afferma: “Mussolini è l’unico che ha il coraggio di dire le cose e la forza per realizzarle.” Più avanti, è il poeta abruzzese ad affermare: “Sono tempi dal cielo chiuso, senza nessun indizio di certezza.” Frasi, queste, che con minimi aggiustamenti potrebbero essere udite anche oggi.
Riferimenti bibliografici
Crainz G. (2003). Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta. Torino, Donzelli.
Freud S. (1907). Il poeta e la fantasia. OSF, 5. Torino, Boringhieri, 1989.
Freud S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. OSF, Torino, Boringhieri, 1989.
McDougall, J. (1995). Eros. Le deviazioni del desiderio. Milano, Raffaello Cortina, 1997.
Zoja E. (2000). Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre. Torino, Boringhieri.
* Società Psicoanalitica Italiana - SPIweb 26/10/21 (ripresa parziale - senza trailer).
NOTA:
PSICOANALISI E "PSICOLOGIA DI MASSA DEL FASCISMO" (Wilhelm Reich, 1933).
STORIA E MEMORIA: "D’Annunzio: The First Duce" (Michel Ledeen, 2001).
RICOMINCIARE A PENSARE DA CAPO!
FORSE è bene ricordare anche LA DEDICA DI FREUD A MUSSOLINI sul volumetto del Carteggio con Einstein, intitolato "Perché la guerra?" (!933) E IL LAVORO DI ELVIO FACHINELLI sulla" FRECCIA FERMA", sul nesso tra una SOCIETA’ ARCAICA, la NEVROSI OSSESSIVA, E il FASCISMO del 1979.
Federico La Sala
Novecento.
L’antifascismo cristiano di Aldo Moro
di Agostino Giovagnoli (Avvenire, mercoledì 29 settembre 2021).
È online il volume dell’Edizione Nazionale degli scritti ’73-’78. La sua opposizione alle destre non era generico antitotalitarismo, ma anzitutto una questione morale
Tra i principali nemici della democrazia in Italia, Moro ha individuato il fascismo, che non solo aveva sconfitto la democrazia nel primo dopoguerra ma che continuava anche a costituire il suo avversario più pericoloso in età repubblicana. È una visione non condivisa da una parte della storiografia, che ha insistito sul carattere particolare e irripetibile del fascismo inteso come fenomeno politico italiano sviluppato tra le due guerre.
A Moro sembrò però che diversi motivi mostrassero la persistenza di un pericolo fascista anche dopo il 1945: molti italiani non avevano mai preso le distanze dal fascismo, anche tra gli elettori della Dc; un importante partito politico, il Movimento sociale italiano, aveva radici nella Repubblica sociale italiana; nel corso degli anni sono sorti numerosi gruppi che si richiamavano al fascismo; c’è stato chi ha progettato colpi di Stato o radicali cambiamenti politici in nome del fascismo; aggressioni, azioni violente, attentati terroristici - come la strage di piazza Fontana, quella di Brescia, l’attentato all’Italicus ecc. - sono stati attuati da soggetti che si richiamavano esplicitamente al neofascismo. Fuori dall’Italia, inoltre, nei suoi anni si sono affermati movimenti politici ispirati al fascismo, dalla Grecia al Sudamerica.
Su tutto ciò Moro ha fondato la convinzione che il fascismo continuasse a essere presente, in forme più o meno sotterranee, e che costituisse ancora il principale pericolo per la democrazia italiana. Ciò non contraddice le ferme convinzione anticomuniste, che si trovano largamente espresse anche in questo volume. Tuttavia, l’ampio schieramento internazionale e interno contro il comunismo allestito durante la Guerra Fredda, rendeva quest’ultimo per l’Italia una minaccia meno immediata.
Nella visione di Moro, l’antifascismo ha occupato un posto rilevante. Com’è noto, egli non è stato un antifascista durante il regime e non ha partecipato alla Resistenza dopo il 1943. Tuttavia, pur partendo da un contesto afascista, fin dai primi giorni dopo l’8 settembre ha espresso posizioni antifasciste e si deve proprio a lui un importante chiarimento sul carattere antifascista della Costituzione repubblicana. Appaiono pretestuose e infondate le interpretazioni che lo negano, facendo leva sulle sue perplessità in tema di epurazione. Divenuto segretario della Democrazia cristiana nel 1959, impresse alla politica del suo partito una forte impronta antifascista.
La vicenda del governo Tambroni fu da lui affrontata con prudenza e abilità ma anche con grande determinazione e a distanza di tempo continuò a considerarla il maggiore pericolo - che egli aveva contribuito a scongiurare - corso dalla democrazia italiana dopo il 1945. Proprio sul terreno dell’antifascismo, Moro ha realizzato non il suo successo più vistoso ma quello di maggiore spessore storico, portando gran parte dell’istituzione ecclesiastica e del mondo cattolico ad abbandonare nostalgie e legami ancora molto forti con l’eredità fascista.
Interagendo con Giovanni XXIII - che simpatizzava con l’iniziativa sua e di Fanfani - con Paolo VI - interlocutore attento, ma spesso preoccupato e prudente - e con molti vescovi italiani, il leader democristiano ha così promosso l’approdo definitivo dei catto- lici alla democrazia e favorito l’isolamento del fascismo. Negli anni Settanta, Moro è tornato più volte sul pericolo fascista. All’inizio del decennio, si era manifestata in Italia una forte spinta a destra e nel 1972 il Movimento sociale aveva raddoppiato i suoi voti rispetto alle elezioni del 1968, mentre si moltiplicavano gli atti di violenza neofascista.
Nell’intervista del giugno 1973 che apre questo volume, il leader democristiano parlò di una «pericolosa componente fascista della destra italiana» che si era fatta «più evidente e più aggressiva ». Moro la interpretava come un «fenomeno [non] occasionale, ma profondo»: «il fascismo è l’altra faccia, quella negativa, del grande moto rinnovatore del mondo». Era dunque un fascismo pericolosamente vitale quello che vedeva davanti a sé. «Nella sensibilità del leader democristiano - osserva Guido Formigoni -, era molto forte il rischio di contraccolpi reazionari della stagione della mobilitazione sociale». Ne scaturiva il dovere di scelte chiare per la Dc e una rinnovata chiusura dell’area di governo alla destra fascista.
Si trattava, come ha notato George Mosse, di «svolgere un’azione di contenimento esterno nei confronti della destra non cercando di inglobarla e di addomesticarla, ma respingendola in un certo modo in un ghetto». Ma per Moro non bastava: «una accorta azione di governo, un atteggiamento responsabile dei partiti, che non offra, per la sua serietà, pretesti al montare della protesta di destra sono, insieme con le nostre convinzioni morali, il migliore (ed urgente) antidoto al fascismo risorgente in Italia e forse incoraggiato altrove».
In particolare, opporsi al fascismo significava «evitare anche il rischio della radicalizzazione della lotta politica, che renderebbe l’influenza reazionaria e fascista determinante»; «significa[ va] evitare un potente coagulo di forze a sinistra intorno al Partito comunista»; «significa[ va] dare articolazione alla vita democratica in raccordo con il Partito Socialista ed in piena intesa con quello socialdemocratico e repubblicano, i quali rappresenta[va]no tradizioni ed ispirazioni importanti e costitui[ va]no una solida garanzia per il Paese».
Era il centro-sinistra, inteso come espressione dell’incontro fra tradizioni politicoideologiche diverse e settori della società differenti, la principale risposta politica alla minaccia fascista. L’antifascismo costituiva per Moro una piattaforma ideale, morale e politica condivisa da partiti diversi, che li avvicinava sulle scelte di fondo malgrado divergenze e contrasti, vincolandoli a posizioni comuni in difesa della democrazia. Seppure collegato all’eredità storica dell’opposizione al fascismo durante il regime e alla stagione resistenziale, il suo antifascismo aveva soprattutto una concreta valenza politica, che emerse incisivamente per esempio nei suoi interventi in occasione del golpe in Cile del 1973, cui la Democrazia cristiana cilena e quelle di altri Paesi risposero in modo ambiguo, evitando una netta condanna che invece Moro pronunciò con chiarezza.
L’antifascismo di Moro era però diverso da varie forme di antifascismo presenti nella cultura politica di sinistra. A differenza di altri cattolici, il suo non si perdeva, per così dire, in un generico antitotalitarismo, ma le sue radici cattoliche gli ispiravano un antifascismo anzitutto morale, prima che propriamente politico, con una particolare accentuazione del rifiuto della violenza.
La sua opposizione al fascismo, inoltre, si basava su un solido fondamento pluralista, che ne rifletteva il carattere democratico, incompatibile con politiche basate sul partito unico, come nel caso comunista. Moro negava anche che si potesse includere la Democrazia cristiana italiana o suoi esponenti in un’interpretazione arbitrariamente estesa del fascismo, come avvenne con la campagna contro il ’fanfascismo’ o altre simili.
Non lo faceva solo per difendere il suo partito, ma anche perché profondamente convinto che tra il centro e l’estrema destra dovesse intercorrere una netta separazione, che non era emersa con chiarezza nel caso cileno ma che invece in Italia era stata decisiva per rendere possibile nel secondo dopoguerra una storia politica tanto differente da quella del primo dopoguerra.
Il libro
Contro la retorica del fascismo buono: il caso di Crollalanza
Nel saggio “Un ministro all’ombra del duce” Nicola Fanizza ricostruisce le vicende dell’ex podestà di Bari e sodale di Mussolini: la sua adesione alla barbarie del regime dall’omicidio di Giuseppe Di Vagno alle leggi razziali fu sempre incondizionata
di Mario Spagnoletti*
Contro la scivolosa retorica secondo la quale “anche il fascismo ha fatto cose buone”. Esemplare, in questo senso, è la vicenda di Araldo di Crollalanza, nella vulgata collettiva della memoria cittadina barese salutato come un eroe. Ma non da tutti come attestano vent’anni fa le polemiche in ordine all’erezione del busto in suo ricordo in piazza Eroi del Mare. Fu proprio su Repubblica Bari, allora, che lo storico Luciano Canfora sgombrò il campo da ogni ipotesi di riabilitazione di questa figura: «Chi è rimasto fascista anche dopo il 1938 della promulgazione delle leggi razziali, e Di Crollalanza fu tra questi, non è degno di essere celebrato. La città potrebbe fare tranquillamente a meno di questo monumento. C’è già una strada a portare il suo nome. Mi sembra che basti e avanzi».
Ora nella collana “Storia e memoria” della casa editrice Progedit è appena uscito un interessante contributo di Nicola Fanizza sulla biografia intellettuale e politica di Araldo di Crollalanza: Araldo di Crollalanza. Un ministro all’ombra del duce. Il volume si segnala, sin dalle prime pagine, per essersi sottratto ad ogni forma di mitografia, ancorandosi al solido terreno di una ricostruzione storica basata su fonti giornalistiche, memorialistiche, emerografiche epistolografiche e soprattutto archivistiche. Un’impresa per nulla agevole, se si pensa che non esistevano biografie complete e storiograficamente fondate sul personaggio, ma per lo più scritti di “laudatores” acritici, impegnati a costruire l’immagine di un “santino fascista” da utilizzare per accreditare la falsa immagine di un fascismo “onesto” e “operoso”.
Fanizza si sforza di ricostruire, invece, con ricchezza documentaria e perizia storiografica, l’ambiente familiare e sociale, le difficoltà economiche insorte dopo la morte del padre, il successivo trasferimento a Mola di Bari - città natale della madre Maria Noya - grazie all’aiuto finanziario generoso e disinteressato di Piero Delfino Pesce, i primi anni della formazione nel liceo-ginnasio Domenico Morea di Conversano.
Nel Convitto conversanese, Araldo ebbe per compagni di studio molti personaggi di grande rilievo nella successiva storia intellettuale politica pugliese, da Tommaso Fiore ad Alfredo Violante, da Giuseppe Di Vagno a Michele Viterbo. Le necessità familiari e il non brillante profitto indussero la madre a spingere il giovane Araldo a inserirsi precocemente nel mondo del lavoro, cosa che egli farà secondando la sua passione giornalistica e pubblicistica, con l’aiuto amicale di Piero Delfino Pesce.
Nel biennio 1911-1912 il ventenne di Crollalanza è repubblicano con accenti mazziniani, come Pier Delfino Pesce, ma altrettanto infiammato dalla prosa e poesia dannunziane e assai sensibile al richiamo delle teorie del sindacalismo rivoluzionario. Coniugando la penna con la spada - come più tardi farà con l’azione parlamentare, amministrativa e governativa - di Crollalanza parteciperà alla Grande guerra come volontario e ne riporterà quell’esperienza indelebile che ne segnerà l’impegno politico del primo dopoguerra nel combattentismo pugliese, accanto a Fiore, Violante e Salvemini esitato, più tardi, nell’adesione convinta al movimento dei mussoliniani Fasci di combattimento.
Nella fase cruciale dell’avvento del fascismo di Crollalanza, negli scritti e nell’azione, mostrerà un’inedita e contraddittoria miscela di tutela di istanze sociali e di intransigente difesa dell’ordine e degli equilibri di classe borghesi, con ogni mezzo, compresa la barbarie della violenza squadrista. Non per caso, nonostante le sue esibite posizioni modernizzatrici, “produttivistiche” e sin quasi “industrialiste”, non si schiererà mai apertamente contro il reazionario e violento “fascismo agrario” di Caradonna, neppure quando nel settembre 1921 si giungerà al feroce assassinio del suo antico compagno di studi Peppino Di Vagno.
Su tali basi si spiega anche la fase di ascesa dell’ancor giovane Araldo, accorto e pragmatico, capace di aver ragione e di imporsi sulle posizioni di una parte del fascismo barese politicamente meno dotato di intelligenza “tattica”, tra la marcia su Roma e le elezioni politiche successive. Inizia a partire di qui la sua inarrestabile ascesa: deputato nel 1924, podestà di Bari nel 1926, sottosegretario ai Lavori Pubblici nel 1928 e infine ministro dello stesso dicastero dal 1930 al 1935.
Fanizza ripercorre l’opera amministrativa e di governo del di Crollalanza, non mancando di registrarne la fattività e l’operosità nella realizzazione di grandi e monumentali opere pubbliche a Bari, in Puglia e nella Penisola: opere, peraltro, sempre tese a raffigurare “nella pietra” il volto imperialista e aggressivo del regime, con una monumentalità retorica che sovrasta e sopprime ogni dimensione di una effettiva socialità. E qui spicca il caso delle architetture del lungomare monumentale di Bari che, di fatto, negano il rapporto fra la città e il mare.
L’azione del ministro pugliese è così analizzata senza mitizzazioni e ricostruendo anche l’insieme delle reti e dei rapporti politici e di potere di un personaggio, fondamentalmente onesto sul piano personale, ma “pervasivo” e non alieno da intensi e talora torbidi rapporti clientelari, come mostra la documentata vicenda dello scandalo truffaldino di Alberotanza a Mola di Bari che, probabilmente, sarà alla base del suo allontanamento dal ministero.
Non meno puntuali e storiograficamente preziose appaiono le analisi sull’attività del di Crollalanza quale presidente dell’Opera nazionale combattenti sino al 1943 - tanto più che su questa importante istituzione del fascismo persiste una grave lacuna storiografica -, nonché sulla sua successiva e ingiustificabile adesione alla Repubblica di Salò, vissuta marginalmente ma sempre “all’ombra del duce” e con un’adesione mai rinnegata all’efferata opera del governo nazifascista.
Attenta e documentata appare anche la ricostruzione del lungo impegno politico, amministrativo e parlamentare nel Movimento sociale italiano per tutto il secondo dopoguerra e sino alla sua morte nel 1986.
Impreziosisce il volume la pubblicazione e l’analisi del carteggio D’Annunzio-di Crollalanza, prevalentemente incentrato utilitaristicamente dal Vate sui problemi della viabilità per Gardone e delle ristrutturazioni del Vittoriano e della sua casa pescarese, al di là delle retoriche affermazioni di amicizia e comunanza spirituale.
Se la storia non può essere mitografia questa biografia di Araldo di Crollalanza merita di essere apprezzata per il suo sforzo di documentata storicizzazione che lascia emergere un personaggio “in carne ed ossa”, decostruendo il “santino fascista” accreditato nell’immaginario collettivo delle forze di destra e talora anche in quello di sin troppo tiepidi antifascisti.
* la Repubblica/ Bari Cultura, 28 settembre 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
L’ORDINE SIMBOLICO DI MAMMASANTISSIMA: LA LUNGA MARCIA DI UNA CATASTROFE ANTROPOLOGICA IN CORSO.
Senza riandare indietro nel tempo, cosa che ha già fatto una grande tradizione critica (e da cui poco è stato appreso), ipnotizzati da concetti-specchio come patriarcato e matriarcato, ancora non è stato capito che cosa significa Edipo (Freud), tragedia (Dante, Nietzsche), e rapporto sociale di produzione (Marx). C’è solo da accogliere il film “L’événement” (Audrey Diwan, Leone d’oro, Venezia 2021) come una buona sollecitazione a ripensare questi problemi legati a mammane, mammona, cucchiai d’oro e moloch vari e riprendere il filo da quanto successo (in Europa) almeno (non solo a Granada nel 1492, ma anche) su "quel ramo del lago di Como" nel 1628 in un altro modo e in un’altra direzione. E così, possibilmente, buttare via l’acqua sporca e salvare la memoria di chi ha lottato da sempre per non restare all’inferno e vuole ri-nascere. O no?
DANTE 2021: LA DOMANDA ANTROPOLOGICA DI KANT (""Che cos’è l’uomo?": "Logica", 1800), IL "FIGLIO DELL’#UOMO": UNA QUESTIONE DI PAROLA (LOGOS, NON LOGO!).
"Ecce #Homo" (gr. «idou ho #anthropos»): "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
MESSAGGIO EVANGELICO E "DUE CRISTIANESIMI": "SEGUITEMI, VI FARO’ #PESCATORI DI UOMINI [piscatores hominun, ἁλιεῖς ἀνθρώπων] come da parola di Gesù (Mt. 4,19) o come da sollecitazione di Paolo di Tarso:"Diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo... sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [lat. vir, gr. ἀνήρ]"(1 Cor. 11, 1-3)?!
11 SETTEMBRE 2011/2021, STORIA, E FILOLOGIA: "ECCE HOMO". Sempre a ripetere le famose parole dell’Ulisse di Dante (Inf. XXVI, 118-120: "Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza"), ma ancora oggi (2021), dopo Dante e dopo Kant, tutta l’Europa e l’intero Pianeta è immerso in un letargo profondissimo! Alla questione antropologica ("Che cos’è l’uomo?": Kant,1800), si continua a rispondere truccando la Parola (il Logos) e a scambiarla (e a esportarla) come un Logo di un’azienda, proprietà di quegli uomini "più uguali degli altri" della orwelliana "Fattoria degli Animali"!
PREISTORIA (DI "VIRTUS" E "VIRUS"). La parola uomo (gr. anthropos, homo) vale solo come uomo-maschio (gr. anér/andròs, lat. vir/viri) e l’antropologia si coniuga solo al maschile, come andrologia: a tutti i livelli, immersi nel regno dell’Homo cosmo-te-andricus - nella "realtà" di una teologia ("Dio"), di una cosmologia ("Mondo") e di una antropologia "andrologica" ("Uomo"), la cosmoteandria del Pianeta Terra...
METANOIA: CAMBIARE MENTE! A che gioco giochiamo? Non è meglio uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dall’inferno (Inf. XXXIV, 90) e riprendere la navigazione nell’oceano celeste (Keplero a Galilei, 1611)?! O che?!
Federico La Sala
Storia /
Dal Milite Ignoto all’altare della Patria
Centenario della traslazione 4 novembre 1921- 4 novembre 2021 per ricordare tutti i caduti in guerra d’Europa.
di Riccardo Radi (FiloDiritto, 08 Luglio 2021)
Il 4 novembre 1921, anniversario della fine della Prima guerra mondiale, la bara del Milite Ignoto, portata a spalla da 12 decorati di Medaglia d’oro al valor militare ed accompagnata dalle bandiere di guerra dei 355 Reggimenti che avevano partecipato al conflitto, venne deposta nella cripta ai piedi della statua della Dea Roma, situata al monumento del Vittoriano di Roma e al caduto ignoto fu conferita la Medaglia d’oro al valor militare.
Il monumento del Milite Ignoto è dedicato ai 651.000 mila caduti italiani del Primo conflitto mondiale, in particolare a coloro dei quali non è stato possibile pervenire all’identificazione, al fine di dedicare loro una degna sepoltura e il riconoscimento di tutti gli onori.
Dei tantissimi giovani che persero la vita in quel conflitto, in un Paese agricolo come era l’Italia nei primi del Novecento, molti provenivano dalle campagne e dal Mezzogiorno, chiamati dalla coscrizione obbligatoria a combattere nel Nord d’Italia e con commilitoni che condividevano la comune cittadinanza italiana ma sovente lingue e idiomi diversi.
La legge 11 agosto 1921, n. 1075, recante “la sepoltura in Roma, sull’Altare della Patria, della salma di un soldato ignoto caduto in Guerra”, all’articolo 1, disponeva, a cura dello Stato, la solenne tumulazione al Vittoriano della salma di un soldato sconosciuto caduto in combattimento nella guerra 1915-1918.
Un secolo dopo, il senso profondo del Milite Ignoto acquista nuovi contenuti ponendosi a monito per le nuove generazioni secondo l’articolo 11 della Costituzione che recita: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali [...] promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Pertanto, anche lo stesso sorgere dell’Unione europea che ha unito i popoli che durante la Prima guerra mondiale si combatterono, rappresenta un lascito importante nel ricordo dei caduti nei due conflitti mondiali del nostro Continente.
La Commissione Difesa della Camera dei deputati ha approvato il 31 marzo 2021 la risoluzione n. 7-00604 che impegna il Governo a organizzare un viaggio della memoria con un treno d’epoca, nella composizione più possibile fedele, che compia un identico percorso con le stesse tappe e gli stessi tempi del treno che portò il Milite Ignoto a Roma.
Il ricordo del Milite Ignoto è un momento che accomuna tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Stati che, alla fine dei due conflitti mondiali che hanno segnato profondamente il Novecento, hanno rinunciato a una parte della loro sovranità a favore dell’Unione e hanno conferito a quest’ultima parte dei propri poteri, al fine di creare un contesto stabile e di pace.
La commemorazione del Milite Ignoto è diffusa tra i Paesi membri dell’Unione europea e Alleati. A partire dal 1920-21, la costruzione di tombe e monumenti per la commemorazione della figura del Milite Ignoto si diffuse anche all’estero. Sarebbe auspicabile un ricordo comune per tutti per i caduti del Primo conflitto mondiale unendo i Militi Ignoti d’Europa in un abbraccio corale che ricordi l’unità raggiunta e i valori costituenti della pace e della fratellanza tra i popoli, e tutti i caduti in guerra.
DANTE (1321-2021): L’ANTROPOLOGIA, L’ANDROLOGIA, E LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" ... *
I 100 anni di Pax Romana.
Quel fertile e globale luogo di dialogo tra chiesa e società
di Stefano Ceccanti (Avvenire, mercoledì 21 luglio 2021)
I cento anni di Pax Romana, associazione internazionale degli universitari cattolici. Caro direttore, una vecchia foto sul sito di Pax Romana ci riporta al luglio 1921, quando nacque l’associazione internazionale degli universitari cattolici. Per la Fuci c’era Giuseppe Spataro, di lì a poco ai vertici del Ppi. In quel primo periodo fu molto attivo anche Pier Giorgio Frassati, che vedeva in questa apertura delle associazioni e delle istituzioni un vaccino importante rispetto ai nazionalismi.
Il nome riecheggiava il verso di Dante che richiamava all’universalità del cristianesimo («quella Roma onde Cristo è Romano») oltre a ricordare i circa duecento anni di pace in cui si collocò anche la nascita di Gesù. Pax Romana svolse un primo congresso a Bologna nel 1925, insieme a quello della Fuci. Un terreno minato: quattro anni prima della Conciliazione la Fuci lo aveva posto sotto il patrocinio del Re per proteggersi dalle minacce fasciste, ma ciò creò un serio problema col Vaticano, che si risolse affidando a Giovanni Battista Montini e a Igino Righetti la guida della Federazione, Per gli anni successivi vi fu una grande prudenza sui rapporti internazionali per non sfidare il regime nazionalista. Però Montini ebbe lo stesso un’influenza chiave, insieme a Maritain. L’impostazione era quella che troviamo nel volumetto del 1930 ’Coscienza Universitaria’.
La Chiesa aveva perso influenza nelle università e nel mondo della cultura; se voleva riacquisirla doveva pensare in termini di rapporto biunivoco, ossia essa aveva certo da dare a questi ambienti, ma aveva anche da ricevere. In particolare ciò richiedeva un attento discernimento dei vari aspetti della modernità e una rilettura positiva della democrazia. «La verità non è folgorazione d’un lampo; è progressivo, graduale, quasi inavvertito albeggiare di luce», scriveva Montini. E per Maritain andava superata «la scissione fra principio democratico e principio cristiano in Europa, dove gli animi sono divisi tra un cristianesimo irriducibilmente formato nella sua struttura e nella sua dottrina, ma per troppi anni isolato dalla vita del popolo, e l’infedeltà aperta e militante o l’odio per la religione». Nel 1947, seguendo lo stesso schema italiano che aveva fatto sorgere dalla Fuci il Movimento Laureati, Pax Romana si arricchì di un secondo ramo.
Nelle giornate fondative, Étienne Gilson pose come obiettivo quello di «organizzare nel mondo intero la fraternità degli spiriti che pongono l’intelligenza al servizio di Dio», ribadendo il collegamento tra fede e ragione e l’apertura internazionalista. Non fu quindi per caso se persone con questa impostazione e che si erano abituate ad assemblee internazionali, utilizzando più lingue e con complesse procedure democratiche, si siano trovate al centro dei lavori conciliari: sia gran parte degli uditori laici (lo spagnolo Ruiz-Giménez, l’esule catalano Sugranyes de Franch, l’australiana Goldie) sia molti teologi che erano stati assistenti (Guano, Murray) o comunque vicini (Chenu, Congar, il neo-cardinale Journet). Lo stesso per l’impegno politico nelle nuove democrazie: per limitarci solo alla guida dei Governi europei sia in Portogallo (Pintasilgo e poi Antonio Guterres, attualmente segretario Onu) sia in Polonia (Mazowiecky) erano stati esponenti di primo piano di Pax Romana. Anche nella Chiesa del postconcilio il contributo è stato ampio e universale: basti solo pensare al Perù, dove sono stati assistenti nazionali Gutierrez e l’attuale arcivescovo di Lima, Castillo. Questi sono alcuni dei nomi più noti, ma molti sono stati coloro che si sono posti come nani sulle spalle dei giganti, tra Chiesa e società, in tutto il mondo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!!
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo
gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPE FLAVIO
("Egli era il #Cristo")
Lo storico.
Addio Del Boca, svelò gli orrori del colonialismo
Decise di diventare storico dopo aver constatato che in Italia le vicende coloniali erano dimenticate o avvolte in un alone romantico che copriva le atrocità
di Paolo Lambruschi (Avvenire, mercoledì 7 luglio 2021)
Ha svelato per primo il lato oscuro del colonialismo italiano, documentando con i suoi studi le violenze e le atrocità commesse in Africa dagli italiani. Che, per citare uno dei suoi libri più noti, non erano brava gente e il nostro non era certo un colonialismo diverso. Angelo Del Boca, morto ieri nella sua casa torinese, è stato un grande storico, un pioniere, ma anche un grande giornalista che dal giornalismo vero ha mutuato il metodo nella ricerca storica. Quindi ha perseguito costantemente la ricerca della verità, spesso occultata, ha scelto temi nuovi con una grande attenzione ai particolari e alla verifica accurata dei fatti setacciando archivi dimenticati. E ha usato per primo un linguaggio poco accademico, curato, asciutto, con il ritmo del reportage.
Nato a Novara nel maggio del 1925, dirigeva la rivista di storia contemporanea “I sentieri della ricerca” e fu inviato speciale e caporedattore prima della “Gazzetta del Popolo” e poi del “Giorno”, che lasciò nel 1981 per dedicarsi all’università. Decise di diventare storico dopo aver constatato che in Italia le vicende coloniali erano state totalmente dimenticate e restavano avvolte in un alone romantico e nostalgico che copriva pericolosamente gli orrori. Un primo, fortunato volume sulla guerra d’Abissinia, pubblicato nel 1965 da Feltrinelli, lo convinse a insistere e, dopo un decennio di lunghe ricerche in archivio e sul campo, a dare alle stampe per Laterza i quattro monumentali volumi dedicati alle vicende de Gli italiani in Africa Orientale che lo impegnarono fino al 1984 e furono accolti con grande interesse. Anche con molte polemiche da parte degli ex coloni e dei reduci fascisti, che arrivarono a minacciarlo per aver leso l’onore patrio. Gli fu ostile anche la stampa conservatrice. Ma fu quell’opera fondamentale e nuova di storia coloniale ad aprire sentieri mai percorsi dalla ricerca storiografica nazionale creando, nell’università italiana, il concetto di critica dell’Oltremare italico e incrinando nell’opinione pubblica la convinzione degli “italiani brava gente”.
Negli archivi scovò ad esempio le prove segrete oppure occultate delle stragi compiute dalle forze armate italiane in Etiopia durante la guerra di conquista e l’occupazione. Trovò i telegrammi inviati da Mussolini a Graziani e Badoglio in cui il Duce autorizzava l’impiego dei gas, proibiti dalla Convenzione di Ginevra, contro gli etiopi, civili compresi. E rivelò le stragi compiute dopo la conquista di Addis Abeba, nel febbraio 1937, su ordine del vicerè Rodolfo Graziani. Il quale voleva vendicarsi e reprimere la ribellione dopo che un attentato lo aveva ferito. Scrisse Del Boca: «Alcune migliaia d’italiani, civili e militari, davano inizio alla più furiosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto». Massacrarono e violentarono in tre giorni di violenza brutale e impunita 30.000 etiopi.
Celebre nel 1995 al riguardo la polemica con Indro Montanelli il quale, arruolatosi come sottufficiale in Eritrea, era il principale sostenitore della mitezza del colonialismo italiano e negava l’impiego di armi chimiche da parte della regia aviazione italiana in Etiopia. Ma nel 1996 Montanelli dovette scusarsi con Del Boca quando questi provò l’uso delle armi proibite. Lo storico piemontese dimostrò anche che Montanelli non era attendibile perché, durante i primi episodi di impiego delle armi chimiche, era stato ricoverato all’Asmara e, una volta dimesso, non tornò al fronte.
Tra le altre opere di Del Boca, quella sugli Italiani in Libia, ancora attuale, che contribuì a svelare le deportazioni subite dai libici nei campi di concentramento e la spietata repressione dei ribelli. Celebri anche le biografie del negus Hailé Selassié e del rais libico Muhammar Gheddafi, incontrati durante una ricerca lunga quasi un secolo.
Addio a Del Boca, lo storico che raccontò il colonialismo italiano per davvero
di David Bidussa ("gli Stati generali", 6 Luglio 2021)
Di Angelo Del Boca, morto poche ore fa a Torino, ci sarà tempo per provare a riflettere su come la storia del colonialismo italiano, tema estremamente marginale nella storiografia italiana, sia oggi ineludibile, senza passare per le pagine dei suoi libri.
Tuttavia prima di ricostruire complessivamente una riflessione sulla sua dimensione di storico, si devono ricordare almeno tre temi intorno a cui torna un tratto strutturale della generazione degli storici italiani nati negli anni ’20 e vissuto così a lungo da poter misurare intorno alla loro dimensione culturale pubblica non solo e non tanto una storia della storiografia italiana, ma soprattutto una dimensione pubblica e civile di chi tra anni ’50 e anni ’60 intraprende il percorso di storico, spesso a partire da una pratica di giornalista.
Primo tema: la resa dei conti con le proprie scelte.
Quando nel 1963 Feltrinelli pubblica La scelta (oggi riproposto da Neri Pozza) autobiografia dei mesi della guerra civile tra 1943 e 1945, il tema è come raccontare la propria doppia esperienza. Angelo Del Boca è un giornalista eppure la storia della sua milizia nella Repubblica sociale italiana e poi del suo abbandono e del passaggio dall’altra parte per finire nelle fila di “Giustizia e Libertà” inaugura una pratica di resa dei conti che non è una consuetudine nella storia italiana. L’episodio più clamoroso, almeno sul piano della discussione pubblica, quello delle memorie dello storico Roberto Vivarelli e del suo fare e non fare in pubblico il resoconto della sua milizia repubblichina, dicono che la pratica della resa dei conti non sia parte del costume strutturato degli intellettuali pubblici in Italia.
Secondo tema: la storia della presenza italiana in Africa, soprattutto in Africa orientale.
Del Boca inizia una ricostruzione sistematica a metà degli anni ’70, ma poi sono soprattutto le tecniche della guerra sporca, ovvero l’uso dei gas a segnare definitivamente la sua dimensione pubblica. Non è il tema di partenza della sua ricostruzione. È l’esito di un percorso durato venti anni a cui Del Boca è portato anche perché l’immagine nostalgica del colonialismo buono, a cui molti sono attaccati lo costringe a non mettere veli al alla sua ricostruzione critica. La storia del confronto con Indro Montanelli convinto sostenitore di un colonialismo buono e costretto poi ad ammettere l’uso dei gas provato dai documenti ministeriali italiani che Del Boca trova e su cui costruisce il suo I gas di Mussolini nel 1996 definiscono un prima e un dopo nella discussione pubblica.
Terzo tema: la riflessione sull’autorappresentazione di noi italiani come «bravi». Italiani brava gente è una conseguenza dei due percorsi precedenti.
In quel libro Del Boca ricostruisce gli episodi di crudeltà compiuti da noi italiani nel tempo compreso tra l’unità e la fine della seconda guerra mondiale. Ma soprattutto si sofferma su un punto con cui non riusciamo a confrontarci e a tollerare: le stragi che Del Boca ricostruisce sono state compiute da «uomini comuni», non particolarmente fanatici, non addestrati alle liquidazioni in massa. Uomini che hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione o perché persuasi di essere nel giusto eliminando coloro che ritenevano «barbari» o «subumani».
È un percorso che nella riflessione storica in Italia inaugura un tema estremamente sensibile e su cui in anni recenti hanno scritto David Forgacs e Gabriella Gribaudi, non senza misurarsi costantemente con la diffidenza, l’irrigidimento, il fastidio di una parte consistente dell’opinione pubblica che della storia raccontata accetta la dimensione vittimaria ma si rifiuta di affrontare i punti oscuri o controversi.
Se c’è una lezione da trattenere nella dimensione pubblica di Angelo Del Boca, che dovremo conservare e fare di tutto per non smarrire o dimenticare credo sia proprio qui: l’impegno dello storico a non demordere la dimensione civile del racconto della storia.
Il caso.
Quando Hitler "rubò Dante" e venne beffato
Nel 1944 Hitler aveva affidato a Speer la costruzione di un Pantheon che avrebbe dovuto accogliere le ossa di grandi personaggi e fra questi Dante. Ma don Mesini le salvò nascondendole in casa
di Franco Gàbici (Avvenire, domenica 4 luglio 2021)
Da sette secoli Ravenna conserva gelosamente le ossa di Dante e per proteggere questo prezioso tesoro ha fatto di tutto, disubbidendo perfino a papa Leone X che nel 1519 aveva autorizzato l’Accademia medicea a recarsi a Ravenna per prelevare le ossa e portarle a Firenze. Tutti sanno come andò a finire la storia. Prima dell’arrivo a Ravenna della delegazione fiorentina i frati Francescani, che si sono sempre considerati custodi delle spoglie del poeta, a notte fonda praticarono un buco nella tomba e nascosero le ossa nell’attiguo convento. Nel 1810, a seguito delle soppressioni napoleoniche degli ordini religiosi, dovettero abbandonare il convento e prima di lasciare la città nascosero la cassetta delle ossa nella cavità di un muro. Qui vennero ritrovate per caso da un muratore alla fine di maggio del 1865 durante i lavori di restauro della zona in occasione del sesto centenario della nascita del poeta. Ci fu grande festa in città per questo ritrovamento, definito l’evento del secolo, e le ossa ritornarono nella tomba.
Ora, secondo un articolo del ravennate Sergio Roncucci pubblicato il 1° luglio sulla rivista ’Pen Italia’ la vicenda delle ossa di Dante si arricchisce di un nuovo capitolo che si discosta dalle versioni ufficiali a suo tempo fornite. Nel 1944 Hitler aveva affidato all’architetto del regime Albert Speer la costruzione di un Pantheon che avrebbe dovuto accogliere le ossa di grandi personaggi e fra questi Dante. L’Oss, il servizio segreto statunitense precursore della Cia, viene a conoscenza del progetto e informa l’Organizzazione per la Resistenza italiana che faceva capo a Raimondo Craveri, genero di Benedetto Croce. Essendo in ballo le ossa di Dante, Croce mette al corrente l’illustre grecista Manara Valgimigli e quest’ultimo, che alcuni anni dopo sarebbe stato chiamato a dirigere la Biblioteca Classense di Ravenna, informa don Giovanni Mesini che subito prende le contromisure.
Don Mesini, conosciuto come ’il prete di Dante’, insieme a Bruno e a Giorgio Roncucci, padre e fratello di Sergio, e del custode della tomba Antonio Fusconi, si reca al cimitero di Ravenna, preleva le ossa da una tomba abbandonata e nella notte fra il 23 e il 24 marzo del 1944 le sistema al posto di quelle del Poeta.
Sergio Roncucci, che all’epoca aveva dieci anni, ricorda che don Mesini si era recato a casa sua portando la cassetta con le ossa del Poeta e alle domande legittime dei familiari aveva risposto col dito indice sulle labbra. «Zitti tutti!». Nel frattempo, sempre secondo Roncucci, le Ss trafugano le ossa di Dante e le portano a Berlino. Quando si accorgono della beffa è tardi, la guerra è ormai alla fine e hanno altro a cui pensare. La storia, dunque, si ripete. E come all’inizio del Cinquecento i Francescani, disobbedendo a papa Leone X, trafugarono le ossa del poeta, allo stesso modo don Mesini e i suoi amici beffarono Hitler.
Intervista. E a Mosca anche la Commedia divenne sovietica
A colloquio con Kristina Landa: «Stalin ne promosse una lettura ideologica facendone un classico di riferimento»
di Roberto Carnero (Avvenire, domenica 4 luglio 2021)
Celebrazioni di rito a parte, la ricorrenza dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri ha il merito di aver determinato una vivace fioritura di studi e di approfondimenti critici. Kristina Landa, giovane ricercatrice presso il Dipartimento di Interpretazione e traduzione dell’Università di Bologna, ha messo in cantiere un’indagine ad ampio raggio della ricezione dell’opera dantesca nel Novecento in Russia: il che significa, sostanzialmente, in Unione Sovietica. La studiosa ha anticipato alcuni risultati del suo lavoro (di prossima pubblicazione su una rivista russa) in una tavola rotonda su ’Dante e le sue traduzioni’ coordinata da Raffaella Baccolini il 21 maggio nell’ambito della rassegna forlivese ’Nel nome di Dante’, promossa dall’Adi (Associazione degli Italianisti). Il titolo dell’intervento di Kristina Landa era molto curioso: Dante e Stalin.
Professoressa Landa, che tipo di ricezione ha incontrato Dante in Unione Sovietica?
Dopo che nel XIX secolo, e soprattutto nella sua seconda metà, la Divina Commedia era stata tradotta integralmente in Russia, con la rivoluzione bolscevica del 1917 la diffusione di Dante subì inizialmente una battuta d’arresto. Per tutti gli anni ’20 faceva problema la dimensione religiosa dell’opera dantesca.
E dopo che cosa succede?
Negli anni ’30 le cose cambiano. Una casa editrice, Academia, prova con maggiore convinzione a favorire la pubblicazione dell’opera dantesca. Si trova finalmente una giustificazione ideologica: di Dante viene sottolineato il profondo valore sociale e l’atteggiamento ’anticlericale’ con riferimento alla sua lotta contro il potere temporale della Chiesa. Dante viene letto come un autore ’progressista’. L’endorsement, per così dire, viene niente meno che da uno dei padri nobili del comunismo, Friedrich Engels, di cui si cita, a mo’ di giustificazione, il seguente giudizio: ’Dante è una figura colossale, è l’ultimo poeta del Medio Evo e il primo del Rinascimento’. E se lo dice Engels, nessuno può contestarlo.
Neppure Stalin, è così?
No, neppure lui. Non abbiamo dichiarazioni di Stalin su Dante o sulla sua opera, ma abbiamo pronunciamenti molto positivi di diversi letterati del suo entourage: segno che lui era d’accordo. È un dato di fatto che una nuova traduzione della Divina Commedia viene realizzata, dalla casa editrice Goslitizdat, proprio dopo l’ascesa al potere di Stalin, negli anni ’30. E che il traduttore, Michail Lozinskij, riceve nel 1946 il prestigiosissimo ’Premio Stalin’. Possiamo dire perciò che Dante è uno dei grandi classici dell’olimpo della cultura staliniana.
Come possiamo spiegare le ragioni di questo cambiamento?
Negli anni ’30 Stalin lavora alla nascita della nuova società sovietica, e vuole costruirla su basi non solo economiche ma anche culturali. A tal fine servono dei modelli, delle auctoritates, e alcuni grandi classici che possano costituire una sorta di costellazione ideale in grado di nobilitare dal punto di vista letterario e filosofico lo Stato sovietico. I russi, certo: Puškin, Lermontov, Tosltoj, lo stesso Gor’kij. Ma anche gli europei: Shakespeare, Voltaire e Dante, appunto.
Ma al di là delle edizioni realizzate dell’opera di Dante, la Divina Commedia era realmente letta dai russi?
Assolutamente sì. Era un’opera apprezzata e amata. Anche perché l’opera di ’educazione’ culturale del proletariato messa in atto dallo Stato sovietico attraverso le sue varie iniziative, dai circoli operai alle biblioteche popolari, stava dando i suoi frutti; e la domanda di libri, compresi i classici, era cresciuta notevolmente.
E oggi? Qual è la presenza di Dante in Russia?
Gli studi accademici danteschi sono praticamente fermi da più di un cinquantennio. Tuttavia a un livello più generale Dante viene ancora letto, forse non come in passato, ma c’è un pubblico di persone colte molto interessate alla Commedia.
Che cosa si apprezza dell’opera dantesca?
Direi soprattutto tre cose, di cui evidentemente si sente il bisogno: il percorso di ricerca spirituale, la tensione etica, la passione per la giustizia
#BIBBIA CIVILE
E
#MAGISTERO ANTROPOLOGICO:
#COME NASCONO I BAMBINI?
#Divina Commedia:
#Dante2021.
se #Maria è #madre e #maestra.. #Giuseppe non è #padre e #maestro?!
Per un’altra #fenomenologiadellospirito:
IO, dall’#AMORE di #Due IO.
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza (Mc 12,29-30)
#Questione Antropologica.
La cit. di Mc 12, 29-30 ha un senso andrologico (e cosmo-te-andrico) o antropologico,
come il #Padre di ogni essere umano (#PonzioPilato: #Ecce homo),
quell’#Amore (di #Dante Alighieri),
che muove il #sole e le altre #stelle -
e anche la #Terra?!
(BEATO ANGELICO, 1437-1446).
#PONZIO PILATO
(«#Ecce #homo»: gr. «idou ho #anthropos»),
#PAOLO DI TARSO
("di ogni uomo il capo è Cristo, e
#capo della donna è l’uomo [«uomo»: gr. ἀνήρ, ἀνδρός], e
capo di Cristo è Dio" - 1Cor. 11, 1-3),
e
(LEONARDO DA VINCI).
Il Vaticano, il ddl Zan e il Concordato da abolire
L’entrata a gamba tesa del Vaticano nella discussione sul ddl Zan non sorprende e mostra come lo statuto privilegiato che lo Stato italiano accorda alla Chiesa può seriamente minarne l’indipendenza e la laicità.
di Cinzia Sciuto (MicroMega, 23 Giugno 2021)
Lo stracciarsi di vesti in seguito alla nota verbale del Vaticano sul Ddl Zan è francamente incomprensibile. Dal 1929 (pieno regime fascista), grazie ai Patti lateranensi, la Chiesa cattolica - una sorta di monstrum metà Stato (con tanto di governo, ministri, ambasciatori, leggi, giudici ecc.) e metà ente religioso (con tanto di testo sacro, dogmi, riti e una rete di parrocchie e diocesi e preti e suore estesa su tutto il globo terracqueo) - gode di uno statuto privilegiato nei rapporti con lo Stato italiano, che francamente non si capisce perché non dovrebbe sfruttare (se non per suo opportunismo).
La Repubblica nata nel 1946 ha confermato in tutto e per tutto questo statuto privilegiato, parzialmente modificato solo con la revisione del Concordato del 1984 che ha fatto un passo importante, senza però tirarne le dovute e logiche conseguenze: dal momento in cui infatti, la religione cattolica non è più religione di Stato (come invece stabiliva il Concordato in vigore fino a quel momento), viene meno il fondamento su cui questo statuto privilegiato si fondava. -Uno Stato laico non può infatti per definizione avere rapporti privilegiati con una religione (tanto più che questa si presenta come quel monstrum metà Stato e metà ente religioso di cui sopra). (Per inciso: uno Stato davvero laico non può avere rapporti privilegiati con le religioni in generale, ma questo è un altro tema).
Antonio Gramsci osservava che il Concordato rappresenta di fatto una limitazione unilaterale della sovranità dello Stato italiano nel proprio stesso territorio: “Mentre il concordato limita l’autorità statale di una parte contraente, nel suo proprio territorio, e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna limitazione è accennata per il territorio dall’altra parte. [...] Il concordato è dunque il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale”[1]. Altro che libera Chiesa in libero Stato.
Prendiamo per esempio l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica italiana. Come stabilisce il protocollo addizionale all’accordo di modifica del Concordato del 1984, questo insegnamento ha per legge carattere confessionale, in quanto impartito da insegnanti indicati dall’autorità religiosa e con contenuti non storico-critici ma dogmatici: “L’insegnamento della religione cattolica [...] è impartito - in conformità alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni - da insegnanti che siano riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati, d’intesa con essa, dall’autorità scolastica” (corsivi miei).
Se le cose stanno così, dunque, è del tutto inutile, e anche francamente un po’ penoso, frignare e implorare la Chiesa di essere un po’ meno invadente. La Chiesa fa la Chiesa, e a seconda delle contingenze storico-politiche sceglie gli strumenti che più le sono utili per raggiungere i suoi scopi, apparendo talvolta più conciliante ma sapendo tirar fuori gli artigli quando si sente seriamente minacciata. Artigli che però le abbiamo affilato noi.
Purtroppo non possiamo neanche lontanamente sperare che questa occasione venga colta per recidere finalmente l’unico legame della nostra Repubblica con il regime fascista e completare il percorso per rendere questo Paese compiutamente laico. Stando alle anticipazioni della stampa Draghi oggi dirà che «dovranno essere valutati gli aspetti segnalati da uno Stato con cui abbiamo rapporti diplomatici», mentre Letta - il segretario di quello che dovrebbe essere il partito erede di Gramsci - si è già messo sull’attenti, dichiarando di essere “pronto al dialogo sui nodi giuridici”. Nodi giuridici che sono stati sollevati già da diverse realtà non reazionarie e non cattoliche, le quali però non hanno goduto dell’attenzione invece riservata al Vaticano.
Il ddl Zan è, come tutte le proposte di legge in un Paese laico e democratico, aperto alla discussione e agli apporti critici di tutta la cittadinanza. Solo che ci sono cittadini che a disposizione hanno solo gli strumenti della libera discussione politica, attraverso i partiti e la società civile. E poi ci sono cittadini più uguali degli altri che possono contare su quell’animale mitologico metà Stato e metà ente religioso che, quando la lotta si fa dura, tira fuori l’asso nella manica sparigliando le carte.
[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere [1932-1935], edizione critica a cura di V. Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 2007, vol. III, quaderno 16 (XXII), p. 1866.
Inedito.
Patria, sovranismo, fascismo e comunismo: in Rete il Moro che non ti aspetti
Con una cerimonia in diretta dal Quirinale da domani vengono resi disponibili online gli scritti dello statista. Si parte dal periodo giovanile degli studi e dell’Azione cattolica
di Angelo Picariello (Avvenire, domenica 23 maggio 2021)
Si sente parlare molto in questi tempi di epurazione della vita pubblica italiana dagli elementi compromessi con il fascismo. In modo pressoché unanime si invocano provvedimenti in questo senso; provvedimenti immediati, rigorosi, senza discriminazione alcuna. Non si può non notare, almeno avendo riguardo alle espressioni verbali, che il nostro popolo con questa pressante richiesta assume una posizione di intransigenza, senza rendersi perfettamente conto che essa, così assunta senza discriminazione, rischia di conservare ed approfondire il solco fatale che ha diviso per tanti anni il popolo italiano, distinguendo coloro che sono al centro da quelli che sono ristretti ai margini della vita nazionale. [...]
Non può certo meravigliare che il popolo italiano, pur condotto per natura a perdonare e dimenticare ed alieno da ogni ferocia, sia giunto a questo punto di esasperazione e di intransigenza. Troppi e troppo grandi sono i nostri dolori di ieri e di oggi; troppe sono le previste dure conseguenze della dittatura per noi stessi e per i nostri figli; troppo grande l’offesa arrecata alla nostra libertà e dignità di uomini; troppe ingiustizie furono perpetrate in nome di un falso particolaristico ideale di Patria, perché non sorga naturale in tanti il desiderio di giustizia. [...] Non si può, ancora, non tener presente che quest’opera di epurazione sembra condizione preliminare per un realmente nuovo indirizzo della nostra vita politica ed a garanzia dell’efficacia della nostra stessa azione armata contro l’oppressore tedesco, per conseguire in definitiva la nostra libertà. Si osservi pure che proprio l’eliminazione totale e definitiva degli elementi fascisti dalla vita pubblica italiana sembra la sola forma idonea ad assicurare il nostro popolo contro il ritorno in forza, sempre possibile, dei negatori della libertà e della vita altrui, i quali verrebbero così ancora a tradire la libertà, avvalendosi delle possibilità che quest’ultima generosamente ad essi consente. Sicché l’epurazione appare non solo come giusta reazione per quello che fu fatto soffrire a noi, ma come la sola idonea misura di sicurezza per un leale e costante rispetto della nostra libertà per l’avvenire.
Tutto quello che si è detto sin qui è certo esatto, ma non si tiene abbastanza conto di altri meno chiari ed imbarazzanti aspetti della situazione, i quali invitano ogni persona assennata a considerare con maggiore spirito di prudenza queste cose ed i progettati drastici provvedimenti. Innanzi tutto intanto bisognerebbe definire il "fascista". È troppo nota, perché occorra riprenderla qui, la distinzione tra fascista di tessera e fascista di fede. [...] Si consideri ancora che il giustissimo desiderio di rendere sicura l’Italia da un ritorno della vecchia dittatura, la quale già una volta tradì la libertà, se si concreti soltanto in una reazione feroce e piena di odio, se sia tutta realizzata cioè con metodo e spirito fascista, finirebbe per dare ai signorotti di ieri una pericolosa aureola di martiri, giustificando la loro accusa che altri prosegua in fondo per la stessa strada, sostituendo alla richiesta tessera fascista una tessera antifascista e - perché no? - magari fissando dei privilegi di anzianità per coloro che parteciparono all’opera di epurazione. Ciò, s’intende, per nulla esclude che siano adottati provvedimenti di giustizia e di sicurezza a carico di tutti i responsabili e i pericolosi. Ma intanto li vuole misurati, giusti, realizzati soprattutto con la forza e con i limiti della legalità e cioè con mente serena e senza spirito di parte o di vendetta.
Quello che sembra in definitiva giusto e necessario è una misura di garanzia e non una vendetta volgare; cioè una misura di garanzia che sia irrogata, la parola non sembri strana, perché è semplicemente cristiana ed italiana, con spirito di comprensione e di amore, nell’intento cioè di persuadere e di rieducare alla vita civile ed al rispetto della libertà, anziché porre soltanto impedimenti fisici o giuridici a nuovi possibili attentati al nostro vivere umano e civile. Qui è veramente il nucleo dell’assillante problema. Che l’epurazione si debba fare prima o poi è una cosa secondaria. Quello che conta è vedere quel che debba intendersi per epurazione e se si debba essere attenti ad una umana e cristiana voce di comprensione o se si debba fascisticamente tirare diritto. E qui soccorre la comune considerazione che l’etica è veramente cosa economica, che anzi un agire sistematicamente contro di essa è umanamente e socialmente impossibile, che un perdono generoso, e tuttavia sempre vigile, (salvi s’intende i casi più gravi) non è solo un omaggio reso ai supremi valori di fraternità e di umanità della vita, ma pure un calcolo accorto, almeno per chi guardi lontano, per ricostruire una società che ebbe troppo a soffrire di alcune divisioni, perché non abbia ora bisogno urgente di unità.
Aldo Moro
LETTERATURA, STORIA, E IMMAGINARIO. DALL’INNO «A SATANA» (1863) DI CARDUCCI AL RITORNO DEL «SOFFIO DI SATANA» DI D’ANNUNZIO AL VITTORIALE DI GARDONE RIVIERA (2019) ... *
L’Alfa «Soffio di Satana» appartenuta a d’Annunzio, torna al Vittoriale
L’Alfa Romeo 6C 2300 Turismo Touring era amatissima dal Vate, dopo anni di oblio è stata sequestrata al suo proprietario
di Savina Confaloni (Corriere della sera, nov 28, 2019) *
Torna al Vittoriale degli Italiani, l’Alfa Romeo 6C 2300 Turismo Touring «Soffio di Satana» di Gabriele d’Annunzio: dopo anni di oblio e la messa all’asta della vettura due anni fa a Firenze, un’azione della magistratura ne ha disposto il sequestro all’attuale «misterioso» proprietario e il rientro a Gardone Riviera come bene inalienabile del Vittoriale.
La vettura costruita in soli due esemplari, carrozzata da Touring e soprannominata «Soffio di Satana» per la sua linea leggerissima - era stata conservata per più di cinquant’anni dal suo ultimo proprietario, mai restaurata e in condizioni originali.
Storici e collezionisti la ritenevano scomparsa perché mai esibita in occasioni pubbliche finché nel settembre del 2017 non aveva debuttato a sorpresa come regina della prima asta automotive della Casa d’aste Pandolfini di Firenze, stimata tra i 500.000 e i 700.000 euro e aggiudicata da un collezionista al telefono per circa 450mila euro.
«Comandante Gabriele d’Annunzio, Principe di Montenevoso» è il proprietario trascritto nei documenti di circolazione originali che accompagnavano la vettura.
Le cronache del tempo fanno risalire la passione del Vate per le Alfa Romeo al 28 aprile del 1932, data dell’incontro fra Tazio Nuvolari e Gabriele d’Annunzio a Gardone Riviera con una loro conversazione sul predellino di un’Alfa Berlina 6C 1750.
A questa sarebbero seguite in poco più di due anni una 6C 1750 GT quinta serie e una 6 cilindri 2300 T carrozzeria berlina Touring 4 posti, targa BS 10764, soprannominata appunto «Soffio di Satana».
La vettura venne usata da d’Annunzio negli ultimi tre anni della sua vita al Vittoriale per ricevere gli ospiti alla stazione di Desenzano e per viaggi personali verso Verona per incontrare Arnoldo Mondadori.
Ed è su questa auto che d’Annunzio faceva arrivare da Milano la sua ultima amante, la giovane contessina Evelina Scapinelli Morasso.
Dopo la morte del Poeta la proprietà dell’Alfa Romeo venne trasferita alla «Fondazione del Vittoriale degli Italiani» e venduta il 5 agosto ’46, dall’allora Commissario Straordinario della Fondazione, alla Società Autotrasporti Industriali di Busto Arsizio per appianare parte dei debiti del periodo di guerra, perdendo la sua originale targa, BS 10764, per quella che porta ancora oggi, VA 18580.
In seguito, nell’aprile del ‘63 la 6C 2300 venne acquistata da due fratelli di Castellanza e iniziò una «vita privata» lontana dai radar di commercianti e collezionisti finché non è stata messa all’asta.
Dopo oltre settant’anni dunque l’Alfa Romeo 6C 2300 T torna a casa, esposta nel museo «L’automobile è Femmina» del Vittoriale.
*Fonte: Corriere della Sera, 28 novembre 2019 (ripresa parziale - senza immagini).
* Sul tema, Iin rete e nel sito, si cfr.:
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
FLS
#DANTE2021, #STORIOGRAFIA. -#MEMORIA DI UNA #FENOMENOLOGIADELLOSPIRITO ITALICO-ROMANO (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5889#forum3161063).
Il fascismo e la #storia, oggi
INTERVISTA. “Il fascismo e la storia” a cura di Paola S. Salvatori *
Dott.ssa Paola S. Salvatori, Lei ha curato l’edizione degli Atti del Convegno dal titolo Il fascismo e la storia, pubblicati dalla Scuola Normale Superiore: quale considerazione ebbe delle discipline storiche il regime fascista?
A Pisa, presso la Scuola Normale Superiore, il 16 e il 17 febbraio del 2017 è stato organizzato il convegno intitolato Il fascismo e la storia i cui risultati vengono pubblicati nel volume che stiamo presentando: è stata l’occasione per riflettere - con colleghi esperti di diverse epoche - sulla complessità di un fenomeno non solo culturale ma anche politico e identitario i cui lasciti sono giunti fino a noi.
Durante il Ventennio, l’utopia della costruzione dell’uomo nuovo - con la sua proiezione anche nella dimensione del futuro - funzionò da pungolo per una storicizzazione estrema di tutti i campi della vita quotidiana e intellettuale del Paese: la storia fu utilizzata e manipolata nella sua prospettiva più diacronica, conducendo a un’interpretazione del passato onnicomprensiva. L’uso politico dell’analogia storica fu dunque uno dei principali strumenti utilizzati dal regime per fabbricare e alimentare il consenso: attraverso una propaganda capillare, la storia contribuì a dimostrare la necessità teleologica dell’avvento del fascismo. Con la rappresentazione della sostanziale unitarietà dell’intera vicenda italica - dai tempi più remoti a quelli presenti - si legittimò l’irruzione di Benito Mussolini nell’attualità, come fosse uno svelamento che perfezionava e portava a maturazione un processo altrimenti incompiuto. Lo stesso duce utilizzò con disinvoltura i riferimenti al passato nell’ambito di discorsi pubblici e di interventi scritti.
Va ricordato che già nei due decenni precedenti la Marcia su Roma, Mussolini nella sua attività giornalistica e politica aveva spesso rievocato personaggi ed eventi della Roma antica, della Rivoluzione francese o del Risorgimento, riflettendo sui conflitti politici e sociali a lui contemporanei con modalità e intenzioni ovviamente molto differenti rispetto a quanto sarebbe accaduto dopo il 28 ottobre del 1922: su questi aspetti ho ragionato negli anni passati, lavorando specificamente sull’uso della storia nella retorica del giovane Mussolini.
Con la presa del potere, il ricorso al passato seguì alcune traiettorie evolutive che avrebbero condotto alla predilezione di specifici temi e di particolari personaggi: così, si pianificarono liturgie pubbliche e politiche in occasione di date e di ricorrenze significative, si celebrarono figure assurte al rango di «precursori» del fascismo stesso, si isolarono specifici aspetti della storia italiana che più di altri si prestavano a una rilettura politica.
Quale approccio alla storia greca, antica e moderna, caratterizzò l’età fascista?
Dopo gli studi fondamentali di Andrea Giardina, negli ultimi vent’anni la centralità del mito di Roma nella propaganda del Ventennio è stata riconosciuta e analizzata nei suoi molteplici aspetti: è ormai indubbio che l’ideologia fascista trovò nella romanità il principale esempio a cui richiamarsi. Recentemente, la storiografia ha iniziato a occuparsi anche dell’uso di quelle che possiamo definire «altre antichità»: si può quindi confermare che nel vagheggiamento fascista di un passato archetipico nel quale riconoscere la propria origine e il proprio riferimento proiettivo, anche la storia greca e quella etrusca si scioglievano in un continuo confronto con l’antica Roma, che è sempre rimasta il vero modello interpretativo.
Quando il 28 ottobre del 1940 l’Italia iniziò la campagna bellica in Grecia, gli intellettuali - archeologi, antichisti, filologi - dovettero assumere in una nuova ricostruzione il debito culturale e filosofico che la civiltà romana aveva contratto secoli prima con quella greca: si ricorse così a un parziale ripensamento della storia della Grecia antica che sfumava naturalmente in una nuova valutazione di quella contemporanea, legittimando politicamente e teoricamente l’aggressione a un popolo civile in nome della difesa dell’antica romanitas.
In che modo il fascismo affrontò il problema degli etruschi?
Il rapporto con gli etruschi costituisce una vicenda più problematica rispetto a quanto accaduto con la Grecia antica: si è parlato di «imbarazzo» creato dalla storia etrusca nella cultura italiana, poiché a essa già prima del Ventennio si legavano riflessioni di medici e antropologi sull’origine mediterranea o ariana di quel popolo. Sul finire degli anni Trenta, quando la questione della razza esplose con le drammatiche conseguenze a tutti note, la presenza degli antichi etruschi nella propaganda e nella cultura si intrecciò ai tentativi di trovare una combinazione di elementi scientifici e culturali che giustificassero un «razzismo italiano» autonomo rispetto a quello nazista.
Che rapporto intercorreva, nella concezione fascista, tra romanità e modernità?
La visione fascista della storia nazionale era di lunghissimo periodo, più che bimillenaria, come gli anniversari delle nascite di illustri poeti ed eroi dell’antichità romana che, per una casualità convenientemente sfruttata dalla propaganda, caddero negli anni Trenta.
Nel 1930 fu infatti celebrato il bimillenario della nascita di Virgilio, nel 1935-’36 di Orazio, nel 1937-’38 di Augusto, con una moltiplicazione di occasioni utili e preziose per sovrapporre la rappresentazione del passato imperiale romano al presente fascista. L’antica Roma offriva il più straordinario accumulo di precedenti storici che si potesse avere: proponendo un modello concreto e astratto al tempo stesso poiché fondeva caratteristiche politiche, etiche e culturali prelevate dalla fase repubblicana e da quella imperiale, elaborava un idealtipo di passato nel quale l’eternità di Roma assumeva una dimensione mistica. Roma era infatti il bacino dal quale estrarre continuamente esempi di virtù guerriere e morali, di comportamenti patriottici, di eroi a cui ispirarsi e a cui aspirare. In questa visione, si appiattivano ovviamente le tante fasi della storia romana per far emergere il predominio di Roma anche sulle antiche provincie in una visione di lunghissimo periodo, funzionale a rimarcare il suo primato spirituale e politico su tutta la storia passata e presente.
Quale interpretazione prevalse nell’Italia fascista di Comune e Signoria?
Della storia medievale, nella propaganda popolare furono esaltati soprattutto aspetti che da tempo sono concordemente analizzati con categorie che richiamano una dimensione folklorica: furono organizzati - e a volte inventati - pali cittadini e giochi ambiziosamente medievali, che rivendicavano specifiche identità municipali; restaurati e ricostruiti edifici, palazzi e piazze secondo stili che riecheggiavano quelli tipici del medioevo; riesumati presunti valori che fondevano insieme la combattività romana con la spiritualità cristiana. -Nel dibattito storiografico, i temi attorno ai quali gli storici medievisti si confrontarono riguardavano principalmente problemi relativi all’assetto statuale. Si trattava di questioni di primaria importanza che evocavano la genesi dell’idea di Italianità, la controversia sulla delega del potere, il rapporto tra la monarchia sabauda e il popolo italiano, la contrapposizione del concetto di comune e di quello di signoria. Nello specifico, l’esperienza del comune fu valutata per i suoi lasciti culturali come vicenda fondativa della nazione italiana; la signoria fu invece apprezzata fortemente per aver anticipato la realizzazione di uno Stato inteso in senso moderno, oltre che per il conferimento dei poteri da parte del popolo.
Quale giudizio espresse il fascismo sulla Rivoluzione francese?
L’ideologia fascista era il risultato della convivenza di componenti politiche differenti e che tali rimasero per l’intero Ventennio: non fu una ideologia monolitica, così come non fu monolitica l’interpretazione di una vicenda storica complessa come quella della Rivoluzione francese. Si può schematicamente riassumere che, accanto a posizioni di ascendenza sindacalista-rivoluzionaria proposte per esempio da Roberto Farinacci che vedevano nella rivoluzione mussoliniana del 1922 il superamento dell’impasse scatenata dalla rivoluzione del 1789, ve ne furono altre di più spiccata matrice cattolico-reazionaria profondamente avverse all’esperienza rivoluzionaria francese, altre ancora di stampo nazionalista, e infine di impronta liberal-nazionale.
Certamente, durante il Ventennio la storia francese fu pure valorizzata nei suoi sbocchi più grandiosi e imperiali, cioè prevalentemente attraverso la mitizzazione della figura di Napoleone, in un implicito (non sappiamo quanto lucido) tentativo di risolvere l’annoso intreccio tra l’originaria cultura rivoluzionaria mussoliniana, l’evoluzione nazionalista e antisocialista espressa nei tanti rivoli del regime, e l’incancellabile eredità della Rivoluzione francese presente anche nella politica italiana ottocentesca.
Quale lettura diede del Risorgimento il fascismo?
Il fascismo sperimentò un duplice atteggiamento nei confronti della più recente storia nazionale, riconoscendo al Risorgimento da un lato il ruolo fondante di genesi della rivoluzione italiana, dall’altro una sostanziale incapacità di completare il processo di unificazione territoriale e politica, con una adesione particolarmente stringente alla figura di Giuseppe Mazzini. Egli non fu di certo l’unico protagonista dell’Unità d’Italia a essere esaltato e celebrato durante il Ventennio (è sufficiente solo accennare alle celebrazioni per il cinquantenario della morte di Giuseppe Garibaldi, nel 1932, con - tra l’altro - l’emissione di una corposa serie di francobolli, la pubblicazione dell’edizione nazionale dei suoi scritti, l’allestimento di una mostra storico-documentaria a Roma); ma in Mazzini si fondevano il tema nazionale e quello sociale, permettendo una adesione al suo pensiero pressoché unanime, pur con inevitabili distinzioni.
Come si pose il regime fascista nei confronti degli studi storico-religiosi?
La sacralizzazione della politica compiuta dal fascismo esigeva una inevitabile collaborazione anche con quelle discipline che si occupavano proprio delle dimensioni del sacro e del religioso: fu il regime fascista a istituire a Roma la prima cattedra universitaria di Storia delle religioni già nel 1923. Subito dopo la presa del potere, si volle di fatto ordinare gli insegnamenti universitari in campo storico attraverso una politica di assegnamento delle cattedre e di concorsi che proseguì ancora negli anni Trenta. Si raggiunse comunque un relativo equilibrio tra quelle strategie chiaramente politiche che furono alla base di assunzioni e nomine di commissioni, e le ragioni intellettuali che le comunità scientifiche seppero far affermare sul piano professionale.
Quale approccio caratterizzava i manuali di storia nella scuola fascista?
La proposta pedagogica del fascismo fu impostata già nella scuola, attraverso scelte editoriali e didattiche nelle quali si evocava una presupposta continuità storica assicurata dal valore al richiamo generazionale: la storia era presentata come un valore affettivo familiare, e in esso il legame tra Risorgimento e Prima guerra mondiale creava il terreno più fertile per la nuova educazione nazionale.
Quale rappresentazione dei soggetti storici si riscontra nelle opere artistiche dell’epoca?
Il ruolo educativo che lo Stato assunse con l’obiettivo di costruire un uomo nuovo trovò uno strumento indispensabile nei mezzi di comunicazione di massa. La storia e la politica erano messe alla prova della divulgazione moderna, e il regime fascista superò tale prova. Grazie al cinema, alle arti, al teatro e alla fotografia (ampiamente utilizzata nelle tante mostre storico-espositive organizzate negli anni Venti e Trenta) il fascismo indirizzava le masse facendole sentire al centro di un grandioso progetto collettivo: l’estetizzazione della politica attuata attraverso manifestazioni nazionali, parate, esposizioni e documentari apologetici costituiva non solo un mezzo propagandistico, ma anche l’unica possibilità di incanalare e controllare le ansie rivoluzionarie del popolo.
Il regime si trovò così a far convivere antichi linguaggi culturali e nuovi codici di rappresentazione estetica in una coesistenza di mezzi espressivi, riuscendo a superare il rischio di una inevitabile competizione tra di essi: è quanto accadde col teatro e col cinema, ai quali furono affidati momenti diversi del progetto educativo fascista. Nel primo confluirono aspettative legate a quel gusto del melodramma che il popolo italiano esprimeva ormai da secoli nella predilezione per specifici tipi di letteratura, di poesia, di arte.
Persino il duce fu co-autore di tre copioni teatrali insieme al celebre drammaturgo Giovacchino Forzano: si trattava di soggetti legati a tre illustri personaggi della storia passata (Giulio Cesare, Cavour e Napoleone), nei quali Mussolini e Forzano vollero impersonare quelle individualità storico-eroiche che parevano essere antesignane del duce stesso, oltre che esplicitare la cruciale questione del rapporto tra individuo e masse. Ma il teatro avrebbe potuto subire la rivalità della grande innovazione che il fascismo impose nel racconto degli avvenimenti passati e presenti, cioè del cinema di finzione e narrativo. Al contrario, la convivenza portò a esiti per vari aspetti significativi, in alcuni casi fondendo le due anime e i due linguaggi: proprio Forzano, per esempio, fu anche autore e regista cinematografico, tra i principali protagonisti dell’industria del cinema del Ventennio. La storia diventò soggetto privilegiato di questo mezzo espressivo, ancora una volta con funzione pedagogica: il ricorso all’aneddoto e a episodi specifici trasformava il racconto filmico quasi in un racconto scolastico, poiché il passato, nel regime fascista, legittimò sempre il presente.
Paola S. Salvatori, storica contemporaneista, è contrattista di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e docente a contratto presso l’Università degli Studi Roma Tre. Studiosa delle politiche culturali e propagandistiche del fascismo e delle retoriche celebrative dell’Italia repubblicana, ha scritto saggi sul mito fascista della romanità, sull’uso della storia nella retorica nazionalista e fascista, sul rapporto tra razzismo, propaganda e politica, e sul ruolo degli intellettuali nel Ventennio. Ha pubblicato inoltre la monografia Mussolini e la storia. Dal socialismo al fascismo. 1900-1922, Viella, Roma 2016, e ha curato i volumi Nazione e antinazione. Il movimento nazionalista dalla guerra di Libia al fascismo (1911-1923), Viella, Roma 2016, e Il fascismo e la storia, Edizioni della Normale, Pisa 2020.
Ricordiamo i nostri #Padri e le nostre #Madri #Costituenti:
"Una vera #paritàdigenere non significa un farisaico rispetto di #quoterosa richieste dalla #legge"
(#MarioDraghi).
e
dall’#immaginario
di una zoppa e cieca #antropologia.
A #ContursiTerme (#Salerno), almeno del 1989 è ripreso
il dibattito sulla #paritadigenere
grazie alla #memoria
di #Michelangelo e di #TeresadAvila
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DI "PERICLE IL POPULISTA" E DI PLATONE...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI "PERICLE", E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL PROGETTO POLITICO DI ATENE, forse, è opportuno - ricordando la messa al bando di Omero e dei "poeti" dalla "Repubblica" di Platone - riprendere e rivedere (non solo i lavori di Eric A. Havelock, ma anche) la brillante analisi del cosiddetto "Elogio di Atene" da parte di Umberto Eco nella sua nota sul "Pericle il populista" di ieri e di oggi (la Repubblica, 14 gennaio 2012):
e, al contempo, volendo, rimeditare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e riflettere sulla sua proposta di una "Scienza Nuova", al di là dell’imbalsamazione crociana.
Federico La Sala
UNA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" ITALICO-ROMANO. L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma: *
A) Mussolini, Discorso dell’anno IX - Roma, 27 ottobre 1930: "Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, è universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. -Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, unì Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo.
Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. Per questo noi sorridiamo quando dei profeti funerei contano i nostri giorni. Di questi profeti non si troverà più non solo la polvere, ma nemmeno il ricordo, e il Fascismo sarà vivo ancora. Del resto ci occorre del tempo, moltissimo tempo, per compiere l’opera nostra. Non parlo di quella materiale, ma di quella morale. Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. È una fatica grandiosa.
Il Risorgimento non è stato che l’inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno per giorno, in questa opera di rifacimento del carattere degli italiani [...]"(Messaggio per l’Anno Nono - Roma, 27 ottobre 1930, in B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIV, p. 283).
B) Mussolini - Milano, Piazza Duomo, 25 ottobre 1932: "Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che questo secolo decimoventesimo darà il secolo del Fascismo. Sarà il secolo della potenza italiana. Sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere direttrice della civiltà umana. Perché fuori dai nostri principi, e soprattutto in tempi di crisi, non c’è salvezza né per gli individui e tanto meno per i popoli.
Fra dieci anni - lo si può dire. Senza fare i profeti - l’Europa sarà cambiata. Non da ora si sono commesse delle ingiustizie, anche contro di noi, soprattutto contro di noi. E niente di più triste il compito che vi spetta di dover difendere quello che è stato il sacrificio magnifico di sangue di tutto il popolo italiano. [...] Tra un decennio l’Europa sarà fascista o fascistizzata!
L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma [...]" (B. Mussolini, Opera Omnia, XXV, pp. 147-148).
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAFIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924). IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO : MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
“M”: (DANTE, D’ANNUNZIO, E) MUSSOLINI. SULL’UTILITA’ E IL DANNO DELL’ARALDICA PER LA VITA...*
LA BONIFICA DELL’AGRO PONTINO E LO STEMMA DELLA CITTA’ DI APRILIA (25 aprile 1936). A BEN RIFLETTERE, SE SI CONSIDERA che “Il primo bozzetto acquerellato dello stemma del nuovo centro dell’Agro Pontino fu predisposto da Araldo di Crollalanza, presidente dell’O.N.C. (Opera Nazionale Combattenti), e erede di una famiglia di insigni araldisti che contribuirono tra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX a un aggiornamento in Italia della scienza del blasone” e, ancora, che “un velato riferimento al nome del fondatore della Città sembra non mancare nello stemma. Esso è dato dalla disposizione delle rondini che non sembra affatto casuale. Infatti le rondini tracciano idealmente una lettera M maiuscola considerate insieme all’andamento perpendicolare dei fianchi dello scudo [...] Tale stratagemma del richiamo al nome di Mussolini era più esplicito nella prima versione dello stemma di Pontinia [...]. Un richiamo del genere si trovava anche nell’originario stemma di Sabaudia, nel quale campeggiava un’aquila caricata da uno scudo sabaudo e posata su tre monti che, per numero e disposizione, accennavano ad una lettera M” (cfr. don Antonio Pompili, “Lo stemma”, Comune di Aprilia, NON E’ IMPENSABILE CHE nel “gioco” dell’immagine elaborata da Araldo di Crollalanza sia presente una volontà di alludere a Dante (alla “M”, all’Aquila, del canto XVIII del Paradiso) e al contempo di inviare un “messaggio” al “primo duce”, a D’Annunzio (e al suo “Dantes Adriacus”).
* Nota a margine dell’articolo di Aurelio Musi, "Un caso letterario: M, l’uomo della Provvidenza", "L’identità di Clio", 5 Ottobre 2020.
Federico La Sala
P. S. IMMAGINARIO E STORIOGRAFIA. I "FATTORI" DEL RISORGIMENTO ITALIANO: DA DANTE A D’ANNUNZIO E A MUSSOLINI ("M") ...
A) Una "Cartolina illustrata:I Fattori del Risorgimento Italiano 1848 -1916"
"La didascalia recita: «XXX. I. a. I. Cartolina illustrata di cm 9 x 13,8. Milano, 18 giugno 1917.
Ritratti di Dante, Camillo Cavour, Giuseppe Mazzini, Antonio Salandra, Giosuè Carducci, Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Verdi, Sidney Sonnino, Gabriele D’Annunzio.
Al centro i ritratti di Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III e del generale Cadorna, con gli stemmi dell’Italia e delle tre capitali.»
cfr. Borgia, C., a cura di, Cartoline dantesche: la collezione Baldassarri, Firenze, Edizioni del Galluzzo, per la Fondazione Ezio Franceschini, 2009, p. 205 (sul CD-Rom allegato al volume la cartolina è segnata n. 244). -Dante rimase il principale simbolo nazionale almeno fino alla prima guerra mondiale con la quale l’Italia riacquistò le terre che erano rimaste sotto il dominio austriaco e che non avevano visto riconosciute le loro aspirazioni di italianità.
Le cartoline dantesche rispecchiano, da questo punto di vista, un filone specifico tra le cartoline di propaganda, quello del nazionalismo e dell’interventismo istigato soprattutto dal sentimento italiano dei territori ancora irredenti; testimonianze di un’aspirazione libertaria che, a partire dai primi moti indipendentisti del 1820-21, si protrasse fino almeno all’impresa di Fiume, annessa al Regno d’Italia il 12 settembre 1919, con la quale D’Annunzio volle portare al suo estremo compimento il processo di unificazione.
Sulla cartolina come strumento di propaganda introdotto a partire da metà Ottocento si rimanda all’appena citato Cartoline dantesche: la collezione Baldassarrialle pp. 3-5" (cfr. Andrea Simone, "Dante in scena. Percorsi di una ricezione: dalla fine dell’Ancien Régime al Grande Attore": file:///C:/Users/Asus/AppData/Local/Temp/Tesi%20di%20dottorato_Andrea%20Simone_XXX%20ciclo-1.pdf).
B) STORIA D’ITALIA E MOSTRA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA: "[...]Nel 1932, per il decimo anniversario del suo arrivo al potere, il regime commemorò se stesso attraverso una enorme esposizione dedicata alla Marcia su Roma. Il Palazzo delle Esposizioni a Roma venne suddiviso in diverse stanze, ognuna delle quali dedicata a uno specifico momento storico: dall’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, alla presa del potere da parte del fascismo nell’ottobre del 1922. Si trattò di un’auto-celebrazione del fascismo non solo come momento capitale del passato recente dell’Italia ma anche come chiave concettuale per reinterpretare la storia nella nazione. Il fascismo ne emerse come il momento iniziale di una nuova era.
La grandiosa struttura scenografica della mostra derivava dalla volontà di trasmettere nella maniera più efficiente possibile il messaggio ideologico dell’iniziativa. Come indicato dalla guida ufficiale, il fine della mostra era di costruire un’«atmosfera», per veicolare una comprensio-ne intima del messaggio ideologico, basata sui sentimenti e non necessariamente sulla ragione. Un passaggio della guida riporta infatti: «Ed è perciò che questa Mostra non ha l’aspetto arido, neutro, estraneo che hanno di solito i musei. Essa invece si rivolge alla fantasia, eccita l’immaginazione, ricrea lo spirito, il visitatore re ne resterà conquistato e preso fin dentro l’anima».
In questo processo di spettacolarizzazione della politica, giocavano un ruolo centrale numerose citazioni tratte dai discorsi di Mussolini. Ingigantite in dimensioni monumentali, la parole si imponevano in un dialogo diretto e personale con il visitatore: costituivano l’elemento di transizione visivo - ma anche concettuale - fra la immagini disposte sui muri e la documentazione in gran parte scritta (lettere, note autografe di reduci, ritagli di giornale) esposta nelle bacheche. La sala Q della mostra, ad esempio, progettata da Mario Sironi (ill. 1), accoglieva i visitatori con le parole, in caratteri giganteschi, pronunciate da Mussolini di fronte al re in occasione della Marcia su Roma: «Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto». [...]
Nel 1932, rivolgendosi al re all’inaugurazione del monumento a Anita Garibaldi sul Gianicolo, ritornò sulla questione e rese ancor più esplicita l’associazione dichiarando: «Gli italiani del XX secolo hanno ripreso tra il ’14 ed il ’18, sotto il comando Vostro, o sire, la marcia che Garibaldi nel 1866 interruppe a Bezzecca, col suo laconico e drammatico «Obbedisco» e l’hanno continuata sino al Brennero, sino a Trieste, a Fiume, a Zara, sul culmine del Nevoso; sull’altra sponda dell’Adriatico» [...] Nella mostra del 1932, le citazioni di Mussolini facevano parte dello stesso ambito concettuale dei fatti storici, come tutti gli altri documenti incorniciati sui muri ed esposti nelle vetrinette. In termini più espliciti, queste parole funzionavano come una ricapitolazione coesa, che rende comprensibili le prove docu-mentarie esposte nella sala (oggetti, pagine di giornale, lettere, telegrammi). Ma l’uso di citazione per incapsulare una moltitudine di prove era sostanzialmente un espediente fittizio, nel quale la dimensione storica e quella storiografica venivano a sovrapporsi (cfr. Maria Elena Versari, "Parole (Iscrizioni)", in AA.VV., Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave,a cura di Carlo De Maria, Bologna (BraDypUS) 2016 pp. 281-296: https://books.bradypus.net/sites/default/images/free_downloads/fascismo_societa_italiana_no_images.pdf).
C) LA "BONIFICA INTEGRALE" DELLA STORIA D’ITALIA: "[...] Con l’avvento del fascismo la bonifica si trasformò in una delle principali azioni sociali del regime. Essa divenne una delle leve attraverso cui la politica del fascismo tentò di trasmettere al paese quel sentimento di «rigenerazione» del corpo «vitale e pulsante» della nazione all’interno di una visione prettamente organicista. In continuità amministrativa e finanziaria con il primo decennio del XX secolo, l’impegno politico nelle opere di bonifica fu declinato, questa volta, in un’enfasi crescente di rappresentazioni simboliche e di finalità sociali a forte impronta ideologica.
Il fascismo volle intendere la bonifica non solo un fatto materiale, che ricoprì comunque un posto di primo piano nella programmazione centralizzata del regime, ma soprattutto spirituale, che mirava a costruire l’uomo nuovo, e una rinnovata adesione alla nazione purificata dagli agenti infetti del vecchio regime incapace di risollevarne le sorti. Pertanto, termini come «bonifica spirituale» o «umana» evocarono metafore palingenetiche che entravano prepotentemente nella cultura politica del tempo [...]
Tra il 1928 e il 1938, con la bonifica integrale si pianificò la completa utilizzazione agraria dei terreni e il riassetto globale idrogeologico, estendendo, inoltre, l’ambito territoriale (Meridione e isole) e strutturale (irrigazione, dighe e acquedotti, costruzione di borgate e fabbricati rurali, strade). La spesa globale Fascismo e società italiana ammontò ad oltre sette miliardi di lire, un finanziamento davvero imponente in rapporto a quell’epoca. L’azione bonificatrice fu guidata dall’Opera nazionale combattenti che, all’inizio, si concentrò nel Settentrione (pianure padana e veneta) in Italia centrale (Toscana e alto Lazio) e in Italia meridionale e insulare. [...]
L’obiettivo però si rivelava molto arduo da realizzare e, nonostante la propaganda del regime, molte opere furono lasciate a metà a causa di una riduzione dal 1931 del flusso di spesa pubblica che scoraggiò ulteriormente i proprietari a sottostare all’applicazione delle leggi sugli adempimenti di bonifica. [...].
La più riuscita opera di bonifica contro i vincoli ambientali e di propaganda del regime fu quella delle Paludi pontine nel Lazio meridionale, cominciata nel 1930 e condotta dall’Opera nazionale combattenti. Si trattava di una superficie delimitata dalle catene dei monti Lepini e Ausoni, da Terracina, dal Circeo, da Cisterna e da Nettuno, costituita da duemila anni, lungo il litorale che si estendeva tra Roma e Gaeta, in una landa boschiva, melmosa, paludosa e pestilenziale, ove si svolgeva una vita primitiva da mandriani, largamente falciati dalla malaria [...]" (cfr. Francesco Di Bartolo, "Bonifica", in AA.VV., Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave, cit., pp. 83-95).
Federico La Sala
LO STEMMA DELLA CITTA’ DI APRILIA *
Un approfondimento
di don Antonio Pompili, Socio Ordinario dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano
Lo stemma di una città riflette le peculiarità, le tradizioni del suo territorio, della sua storia, rappresentando, attraverso figure e colori scelti per il loro significato simbolico, i valori sui quali la città è stata concepita e nei quali una intera comunità si riconosce, perché assimilatati nel corso delle generazioni e degli eventi che ne hanno caratterizzato il passato. Aprilia, come gli altri comuni di fondazione dell’Agro Pontino è il risultato di un intervento massiccio e invasivo dell’uomo che, attraverso la bonifica tentata per più volte nel corso della storia ma realizzata solo nel secolo passato, ha modificato sostanzialmente un ambiente ostile all’uomo e al suo insediamento, convertendolo alle sue esigenze economiche, politiche e strategiche. Si tratta di uno scenario completamente nuovo rispetto ad origini molto più antiche vantate da moltissimi altri comuni italiani che, nati a partire dal Medioevo, trovarono la base vitale per la genesi dei relativi stemmi civici nelle insegne dei signori che dominavano i loro territori, o in miti legati alla loro fondazione, o ancora negli stilemi architettonici di torri, castelli, abbazie e altri monumenti che ne tratteggiarono i connotati e tutt’oggi ne costituiscono il fascino.
Il processo di composizione delle insegne araldiche di Aprilia è stato fortemente condizionato dall’assenza di una storia civica o di miti fondatori cui appellarsi, prevalendo dunque inevitabilmente l’aspetto politico e ideologico, insieme al nome stesso imposto alla Città, scelto per il suo valore simbolico.
Lo stemma della Città di Aprilia si caratterizza come un’arma «parlante», più specificamente diremmo «alludente», in quanto le figure che lo caratterizzano, le 5 rondini che si stagliano su un campo di cielo, richiamano in maniera allusiva il nome stesso della Città, che è legato alla fondazione nel mese di Aprile (del 1936).
Quarta città dell’Agro Pontino bonificato (dopo Littoria, oggi Latina, quindi Sabaudia e Pontinia), il nome che le fu imposto suona come fortemente augurale poiché allude all’«aprirsi» del luogo ad una nuova vita. Presso l’Archivio Centrale dello Stato si trova un documento a firma dell’Architetto Oriolo Frezzotti, autore del piano regolatore di Latina e degli edifici pubblici di Pontinia e anche di alcuni a Sabaudia.
In una cartella presente nel fondo relativo al Comune di Pontinia si trova un appunto manoscritto dello stesso Frezzotti che descrive l’origine del nome dei centri dell’Agro Pontino. Secondo tale documento la descrizione dell’origine del nome di Aprilia, sulla quale si basa l’iconografia simbolica dello stemma della Città, è da individuarsi - similmente agli altri comuni pontini di nuova fondazione - come aggettivo del sostantivo civitas, per cui Aprilia civitas è «la città dell’Aprile o della Primavera».
Il primo bozzetto acquerellato dello stemma del nuovo centro dell’Agro Pontino fu predisposto da Araldo di Crollalanza, presidente dell’O.N.C. (Opera Nazionale Combattenti), e erede di una famiglia di insigni araldisti che contribuirono tra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX a un aggiornamento in Italia della scienza del blasone. -Il Crollalanza spedì il bozzetto, realizzato su un cartoncino di tipo bristol di dimensioni 24 per 32 centimetri, il 2 ottobre del 1937: esso consisteva in uno scudo azzurro su cui erano presenti cinque rondini nere sormontate dal Capo del Littorio, che in base alle leggi allora in vigore (R.D. n. 1440 del 12 ottobre 1933) doveva completare gli stemmi civici e che era di rosso con fascio littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e d’alloro annodati da un nastro dei colori nazionali. Tra il capo e il campo principale vi era un «filetto d’argento». Tale presenza si giustificava probabilmente ai fini di una corretta sintassi araldica, per evitare quello che in termine tecnico si direbbe un «cucito», vale a dire l’accostamento diretto tra di loro di due dei cinque «colori» (rosso, azzurro, verde, porpora, nero) o dei due «metalli» (oro e argento) contemplati come «smalti» propri dall’araldica. In questo caso per evitare l’accostamento tra il rosso del capo littorio e l’azzurro del campo principale.
Simile accortezza non è riscontrabile negli originali stemmi degli altri comuni pontini che pure furono costituiti nelle loro versioni al tempo del regime fascista da uno scudo d’azzurro. Lo scudo del bozzetto per lo stemma di Aprilia era infine sormontato da una corona color giallo-oro e ornato ai fianchi e in punta da un listello bicolore giallo e verde.
Nell’istanza di richiesta indirizzata dal Commissario prefettizio (che ad Aprilia assolveva alle funzioni del Podestà) al Re Vittorio Emanuele III, oltre al disegno a colore dello stemma, furono indicati i criteri seguiti per la composizione simbolico-raffigurativa dello stemma comunale. Ne emergeva da una parte come lo stemma volesse illustrare il nome di Aprilia, e dall’altra come per tale composizione mancava una simbologia precedente a cui appellarsi, anche in relazione dell’origine artificiale del territorio su cui sorgeva il nuovo Comune, ultimo dei quattro di fondazione dell’Agro Pontino bonificato.
Si legge infatti nella deliberazione n. 4 datata 28 gennaio 1938:
Non manca nella motivazione della simbologia adottata l’esaltazione del regime fascista, sebbene gli elementi della composizione araldica non siano direttamente evocativi dell’ideologia fascista (al contrario di quanto era osservabile invece negli stemmi delle altre città dell’Agro Pontino, almeno nella loro originaria versione, poi modificata con l’avvento della Repubblica).
Più fortemente connesso con la realizzazione dello stemma risulta il nome della città, quel nome che ne doveva rappresentare la vocazione, l’indole e la natura.
Anche se un velato riferimento al nome del fondatore della Città sembra non mancare nello stemma. Esso è dato dalla disposizione delle rondini che non sembra affatto casuale. Infatti le rondini tracciano idealmente una lettera M maiuscola considerate insieme all’andamento perpendicolare dei fianchi dello scudo (soprattutto se visto nella forma che questo aveva nel bozzetto originale).
Tale stratagemma del richiamo al nome di Mussolini era più esplicito nella prima versione dello stemma di Pontinia, nel campo del quale si innalzava un melo attraversato alla base da una pala e accostato da due fasci littori, essi e il melo uniti da un nastro rosso chiaramente posto a formare una M (non più osservabile nella versione attuale dello stemma che conserva solo il melo e la pala). Un richiamo del genere si trovava anche nell’originario stemma di Sabaudia, nel quale campeggiava un’aquila caricata da uno scudo sabaudo e posata su tre monti che, per numero e disposizione, accennavano ad una lettera M.
Merita attenzione anche l’aspetto grafico del bozzetto. Questo rispecchiava lo stile e le espressioni grafiche dell’epoca, ricordando canoni estetici propri dell’architettura razionalista - secondo i nuovi ed inediti criteri della quale era stata concepita l’urbanistica di Aprilia - e mostrando l’influsso del movimento artistico-culturale futurista. Infatti l’impianto grafico del disegno era caratterizzato da un aspetto stilizzato e di gusto dinamico, soprattutto a motivo della forma arcuata dello scudo, evidenziata dal movimento del nastro decorativo, oltre che dalla corona turrita, che non corrispondeva alla grafica propria della corona araldica codificata per gli stemmi civici ma ne era una libera più moderna interpretazione, pur conservandone indubbiamente la funzione di contrassegno.
Di fatto, il bozzetto non era corrispondente alle regole stabilite in materia araldica. Lo scudo doveva essere di forma sannitica, mentre troviamo una libera interpretazione della sua foggia, per quanto interessante potesse essere il suo stile; il nastro decorativo era un vezzo che non poteva avere spazio dovendo gli elementi esterni allo scudo avere solo il ruolo identificativo del rango dell’ente territoriale; la corona turrita manteneva solo un vago aspetto della corona muraria che era prescritta per gli stemmi civici.
Anche se non conforme alle regole araldiche, lo stemma civico campeggiava, in una versione scultorea realizzata secondo le fattezze del bozzetto originario e con tanto di nastro decorativo, all’ingresso dell’arengario, andato distrutto insieme alla torre civica con i bombardamenti che hanno duramente provato la Città. La stessa raffigurazione proposta per la concessione, in stile più contemporaneo e non rispondente alla foggia poi effettivamente concessa, si trova sulla medaglia commemorativa coniata per Aprilia, raffigurante da un lato il profilo del Duce, dall’altra lo stemma civico.
Ma tornando all’iter per la concessione dello stemma, si comprende bene come la relazione a Benito Mussolini svolta dal Commissario del Re presso la Consulta Araldica il 16 dicembre del 1938 in merito alle istanze presentate dal Podestà di Aprilia nel precedente mese di aprile, riporti un blasone nel quale non si parla del nastro ornamentale ma si richiamano le ornamentazioni caratteristiche degli stemmi civici: «Lo stemma proposto può così descriversi; campo di cielo, a cinque rondini di nero al volo spiegato, in formazione di cuneo rovesciato. Capo del Littorio: di rosso (porpora) al fascio Littorio d’oro circondato da due rami di quercia e d’alloro annodati da un nastro dei colori nazionali, sostenuto da una fascia d’argento. Ornamenti esteriori di Comune».
Notiamo che nel blasone descritto nel testo nella concessione regia dello stemma e del gonfalone comunale, non si nominerà la «fascia d’argento» (in realtà, secondo una più precisa terminologia, considerata la ridottissima altezza di questo elemento, dovremmo dire il «filetto d’argento»), che pure era presente nel bozzetto originario, come nel testo della deliberazione del Commissario Prefettizio del gennaio 1938. Notiamo inoltre che il campo principale non è di azzurro, ma «di cielo». Si tratta di una variante dell’azzurro caratteristica dell’araldica italiana, che riproduce il cielo nel suo aspetto naturalistico, anche comprensivo di formazioni nuvolose indistinte. Di fatto non corrisponde dunque ad un campo ripieno di un piatto celeste (come poteva ad esempio essere inteso dalla suddetta deliberazione, in cui si parlava di un «campo celeste chiaro», non essendo necessariamente note agli amministratori comunali le regole per una corretta blasonatura). -Esattamente il campo di cielo sarà quello descritto nella concessione di Re Vittorio Emanuele III con R.D. dell’8 aprile 1939: Campo di cielo, a cinque rondini di nero al volo spiegato, in formazione di cuneo rovesciato. Capo del Littorio, di rosso (porpora) al Fascio Littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e d’alloro, annodato da un nastro dei colori nazionali. Ornamenti esterni da Comune.
LO STEMMA DELLA CITTA’ DI APRILIA *
Un approfondimento
di don Antonio Pompili, Socio Ordinario dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano
Il Gonfalone concesso viene così descritto: drappo di colore nero, riccamente ornato di ricami d’argento e caricato dello stemma sopra descritto con l’iscrizione centrata in argento “COMUNE DI APRILIA”. Le parti di metallo ed i nastri saranno argentati. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto nero con bullette argentate poste a spirale. Nella freccia sarà rappresentato lo stemma.
Il gonfalone, donato dal Comune di Capannori in provincia di Lucca (uno dei comuni rurali più grandi d’Italia) fu benedetto dal cardinale Granito Pignatelli di Belmonte e consegnato ad Angela Vacchi Curzola, colona di Aprilia e madre di dodici figli, scelta come madrina della Città appena inaugurata, il 29 ottobre dello stesso anno.
Lo stemma fu ufficializzato con la concessione dopo la fine della seconda guerra mondiale. Eliminata la «pezza» araldica innalzante l’emblema fascista, lo stemma sarà fissato nella sua forma attuale con decreto del 10 aprile del 1954 a firma del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Dall’originario stemma era stato correttamente rimosso solo il capo del littorio, in quanto le altre figure non evocavano la tramontata ideologia del deposto regime, ma si trattava di simboli universali e condivisibili anche nell’accezione originaria: la rondine, sul campo di cielo, è evocativa della primavera, dell’avvento di una nuova stagione che prelude al lavoro nei campi e al raccolto. Questo a differenza di quanto era accaduto con gli stemmi degli altri comuni di fondazione pontina, i quali hanno conosciuto nel dopoguerra una modifica molto più marcata o sostanziale. Possiamo forse pensare che lo stile con cui erano state rappresentate le rondini nello stemma di Aprilia potesse richiamare il glifo che era innalzato nell’emblema dell’Ala Littoria, la prima compagnia aerea di linea italiana di proprietà statale, data la forte somiglianza raffigurativa.
D’altra parte le rondini dello stemma comunale nella formazione a cuneo rovesciato ricordavano proprio degli aeroplani, il che accentuava quel dinamismo già presente nella particolare forma dello scudo secondo il bozzetto originario dello stemma, foggia che, ben lontana dai canoni relativi alle armi civiche, era in perfetta linea con i canoni stilistici dell’epoca in cui irrompevano le suggestioni del futurismo e del razionalismo.
Il connubio tra la vocazione bucolica di Aprilia e il mito del volo e della velocità caro al movimento futurista non è privo di fascino. Una cosa è certa: applicata la normativa che prevedeva la soppressione del capo littorio, il resto dell’impianto iconografico dello stemma civico il quale non prevedeva altri simboli utilizzati dal fascismo, poteva rimanere tranquillamente inalterato. Evidentemente, eliminato il capo littorio, era ancor meno necessaria la fascia (il filetto) d’argento che separava la pezza dal campo principale dello scudo.
Nel documento presidenziale veniva concesso al Comune di Aprilia anche il gonfalone attualmente in uso, che invece aveva subito una modifica più sostanziale, essendo cambiato il colore del drappo; da nero, colore utilizzato per tutti i comuni di fondazione fascista ed evocativo dell’ideologia del regime, è stato cambiato in azzurro, che peraltro corrispondeva al colore originario richiesto a suo tempo dal Podestà di Aprilia perché meglio riflettesse la natura del neo costituito Comune.
Lo stemma nuovamente concesso è così blasonato: Campo di cielo a cinque rondini di nero al volo spiegato, in formazione di cuneo rovesciato.
Il gonfalone ufficiale si presenta come un: “Drappo di colore azzurro, riccamente ornato di ricami di argento e caricato dello stemma sopradescritto con l’iscrizione centrata in argento “Comune di Aprilia”. Le parti in metallo e i cordoni sono argentati. L’asta verticale è ricoperta di velluto azzurro con bullette argentate poste a spirale. Nella freccia è rappresentato lo stemma del Comune e sul gambo inciso il nome. La cravatta e nastri tricolorati dei colori nazionali e frangiati di argento”.
Lo stemma del Comune, oltre alla descrizione già citata, si compone di uno scudo di aspetto «sannitico moderno», che secondo il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28 gennaio 2011 circa le «Competenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di onorificenze pontificie e araldica pubblica e semplificazione del linguaggio normativo» deve mantenere una proporzione di 7 moduli di larghezza per 9 moduli di altezza. Lo scudo siffatto è timbrato da una corona «formata da un cerchio aperto da quattro pusterle (tre visibili), con due cordonature a muro sui margini, sostenente una cinta aperta da sedici porte (nove visibili), ciascuna sormontata da una merlatura a coda di rondine, ed il tutto d’argento murato di nero». Terzo elemento dello stemma è l’elemento decorativo: «consiste in due rami: uno di quercia con ghiande e uno di alloro con bacche, tra loro incrociati sotto la punta dello scudo e annodati da un nastro dai colori nazionali».
Il gonfalone consiste in un drappo quadrangolare di un metro per due del colore di uno degli smalti dello stemma del Comune, sospeso mediante un bilico mobile ad un’asta, ricoperta di velluto dello stesso colore con bullette poste a spirale, e terminante in punta con una freccia sulla quale è riprodotto lo stemma, e sul gambo il nome del comune. Il drappo riccamente ornato e frangiato, è caricato nel centro dello stemma del Comune, sormontato dall’iscrizione centrata: «Comune di Aprilia». La cravatta frangiata consiste in nastri tricolore. Le parti metalliche, i ricami, i cordoni, l’iscrizione e le bullette sono d’argento.
Nel 2012, a seguito del decreto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che conferisce ad Aprilia il titolo di Città, cambiano diversi dettagli dello stemma e del gonfalone. Oltre all’iscrizione «Città» invece che «Comune» al di sopra dello stemma, i comuni insigniti del titolo di «Città» utilizzano una corona turrita formata da un cerchio d’oro aperto da otto pusterle (cinque visibili) con due cordonature a muro sui margini, sostenente otto torri (cinque visibili), riunite da cortine di muro, il tutto d’oro e murato di nero. Le parti metalliche, così come i ricami, i cordoni, l’iscrizione e le bullette a spirale del gonfalone, da argentate, passano ad essere dorate.
A conclusione di questo breve percorso può essere utile una riflessione finale sulla attualità della simbologia dello stemma di Aprilia, radicato nel nome della Città e nelle sue origini. Infatti, pur essendo scampato ai bombardamenti e alla damnatio memoriae seguita alla caduta del regime fascista, il contenuto dello stemma è stato in qualche modo superato dalla trasformazione della società civile e dell’economia, che ha fatto di Aprilia dal dopoguerra in poi un sito industriale.
La Città ha visto una trasformazione del territorio che la circonda e uno sviluppo demografico ed edilizio che, insieme allo sviluppo industriale, rendono impossibile allo stemma così come concepito al momento della sua fondazione di essere pienamente espressivo della sua radicale trasformazione, della sua storia più recente e della sua contemporanea missione civica.
E tuttavia, la composizione araldica, legata nella sua origine al significato bucolico del nome che intendeva celebrare il fiorire di una nuova vita nei territori prima inospitali e malsani delle paludi pontine, mantiene inalterata l’attualità di un messaggio: quello dell’aprirsi al futuro, al mutamento sociale e alle peregrinazioni in terra straniera, come quelle dei coloni chiamati a popolare i nuovi insediamenti.
Lo stormo delle cinque rondini che si stagliano sul campo di cielo sembra un felice intramontabile simbolo della speranza di una sempre nuova primavera che può fiorire grazie al senso civico e al lavoro serio e generoso del singolo cittadino come della collettività di cui egli fa parte.
Approfondimento a cura di don Antonio Pompili, Socio Ordinario dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano
Bibliografia:
Aa.Vv. Dizionario di Toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani, Torino 1997.
Giacomo Bascapè - Marcello Del Piazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata medievale e moderna, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Sussidi 11, Roma 1983.
Luigi Borgia, «Introduzione allo studio dell’araldica civica italiana con particolare riferimento alla Toscana», in Gli stemmi dei Comuni toscani al 1860, a cura di Pagnini G.P, Firenze 1991, pp. 81-117.
Corrado Lampe (ed.), Regione Lazio - Stemmi e sigilli, Roma 1988.
Giovanni Papi, Aprilia città della terra. Arte, architettura, urbanistica, Roma 2005.
Antonio Rossi, Agraldica. L’araldica civica nelle città di fondazione dell’Agro Pontino, 20172.
Alberto Paolo Torri, Gli stemmi e i gonfaloni delle province e dei comuni italiani, Firenze 1963.
Massimiliano Vittori - Carlo Fabrizio Carli - Roberta Sciarretta (ed.), Futurismo e Agro Pontino, Latina 2000.
* Fonte: Città di Aprilia
NOTA:
A BEN RIFLETTERE, SE SI CONSIDERA che "Il primo bozzetto acquerellato dello stemma del nuovo centro dell’Agro Pontino fu predisposto da Araldo di Crollalanza, presidente dell’O.N.C. (Opera Nazionale Combattenti), e erede di una famiglia di insigni araldisti che contribuirono tra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX a un aggiornamento in Italia della scienza del blasone" e, ancora, che "un velato riferimento al nome del fondatore della Città sembra non mancare nello stemma. Esso è dato dalla disposizione delle rondini che non sembra affatto casuale. Infatti le rondini tracciano idealmente una lettera M maiuscola considerate insieme all’andamento perpendicolare dei fianchi dello scudo" (cit. - vedi, sopra), NON E’ IMPENSABILE CHE nel "gioco" dell’immagine elaborata da Araldo di Crollalanza sia presente una volontà di alludere a Dante (alla "M", all’Aquila, del canto XVIII del Paradiso) e, al contempo, di inviare un "messaggio" al "primo duce", D’Annunzio (e al suo "Dantes Adriacus")!
Federico La Sala
DANTE 2021: DUE SOLI. "Sogno un’Europa sanamente laica" (papa Francesco, Lettera all’Europa) *
Laicismo.
Crocifisso nelle aule scolastiche senza pace, questa volta va in Cassazione
Rimessa alla decisione delle Sezioni unite la questione sollevata dalla battaglia legale di un insegnante di lettere toscano che chiede di rimuovere il simbolo cristiano durante le sue lezioni
di Marcello Palmieri (Avvenire, sabato 31 ottobre 2020)
Crocifisso sì o crocifisso no? Il simbolo cristiano divenuto nei secoli anche immagine di "laicissimi" e condivisi valori universali, torna di nuovo nelle aule giudiziarie. Ma non sul muro: sul banco degli imputati.
A portarcelo, stavolta, è un insegnante di lettere toscano, che ha ingaggiato da anni una battaglia legale contro il proprio dirigente scolastico - e pure contro l’assemblea dei suoi studenti - per vedersi riconoscere il diritto di staccare dal muro delle aule il crocifisso durante le ore delle proprie lezioni.
La vicenda, ora, è arrivata in Cassazione. Dove la Sezione lavoro, ritenendo la causa di particolare importanza, ha deciso di rimetterla al primo presidente della Corte, perché la devolva alle Sezioni unite. Così facendo, la pronuncia avrà un grande valore: difficilmente, infatti, i giudici territoriali potranno decidere in modo difforme eventuali casi analoghi che dovessero presentarsi successivamente in Italia.
Ma, già ora, sorge una perplessità di fondo: solitamente la Cassazione decide a Sezioni unite le questioni sulle quali si era formato un contrasto giurisprudenziale. Spesso, infatti, situazioni quasi uguali vengono risolte dai giudici in modo diverso, e lo stesso accade anche tra le diverse sezioni della medesima Cassazione.
Sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, però, sembrava non esserci più alcun dubbio. Il Consiglio di Stato nel 2006 aveva stabilito che «è un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, etc...)», che hanno sì un’origine religiosa, ma che pure «delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato». Da qui, dunque, l’idea che «il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte laico, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica, altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni».
E che il crocifisso potesse rimanere nelle scuole l’ha detto più di recente, nel 2011, anche la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, massima istanza della Cedu: «È un simbolo essenzialmente passivo - hanno scritto i giudici di Strasburgo, decidendo la causa intentata da Soile Lautsi, un’italiana di origini finlandesi, contro il nostro Pese - che non contrasta né con il diritto dei genitori alla libera educazione dei figli né con la libertà di pensiero, coscienza e religione. E se è vero che questa icona «dà alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico», è pur sempre una discrezionalità dello Stato - insindacabile dalla Corte europea - quello di decidere dove esporlo.
Ma ecco che l’ordinanza di remissione alle Sezioni unite della Cassazione mette in dubbio proprio questa "passività" riconosciuta dalla Cedu: «Si potrebbe dubitare dell’asserito ruolo passivo - hanno scritto i giudici della Sezione lavoro - qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama».
Ma per Angelo Salvi, giurista del Centro Studi Livatino, questa perplessità «non sembra valorizzare l’eredità più importante del causo Lautsi, che consiste nell’individuazione del perimetro nel quale va delimitato il concetto di neutralità religiosa».
In parole povere: secondo la Cedu, lo Stato non deve astenersi da qualsiasi richiamo religioso. Semplicemente, gli viene chiesto di non offendere i diritti di ognuno in relazione al proprio credo. Cosa che, ovviamente, un crocifisso appeso al muro non può fare. Ma attenzione: diversamente - è sempre Salvi a notarlo - si rischierebbe di «virare verso un modello di laicità "rigida" alla francese, che si declina in termini di incompatibilità con la religione».
L’Italia e il crocifisso, una controversia infinita
Dall’Europa l’ultimo sì, ’la sua esposizione non lede la libertà religiosa’
di Redazione ANSA 01 ottobre 2019
ROMA L’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici - in particolare nelle scuole, nelle aule di giustizia e nei seggi elettorali - è legittima o è in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini, di libertà di religione e di laicità dello Stato? La controversa questione - che contrappone da decenni cattolici e laici - si ripropone periodicamente e torna ora di nuovo di attualità alla luce delle ultime affermazioni del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti, il quale ha detto di ritenere l’esposizione della croce nelle aule scolastiche "una questione divisiva" e di preferire una "scuola laica", suscitando reazioni di disapprovazione da parte del mondo cattolico, favorevoli da parte degli atei e degli agnostici.
Sull’argomento, l’ultima pronuncia giurisdizionale di rilievo si è avuta nel 2011 ed è stata della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo, che, accogliendo un ricorso dell’Italia, ha definitivamente ritenuto legittima l’esposizione del crocifisso, ribaltando una sentenza di segno opposto della stessa Corte europea.
La vicenda giudiziaria, durata quasi nove anni, ebbe origine in una scuola di Abano Terme e seguì un iter complesso: IL FATTO - Il 27 maggio 2002 il Consiglio di Istituto della scuola Vittorino da Feltre di Abano Terme (Padova) respinge il ricorso della famiglia di due alunne e decide che possono essere lasciati esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi, ed in particolare il crocifisso, unico simbolo esposto.
IL RICORSO - La decisione del Consiglio di Istituto viene impugnata dalla madre delle due alunne davanti al Tar del Veneto. Nel ricorso si sostiene che la decisione del Consiglio di Istituto sarebbe in violazione del principio supremo di laicità dello Stato, che impedirebbe l’esposizione del crocifisso e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, perche’ violerebbe la "parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose".
LA POSIZIONE DEL MINISTERO - Il Ministero dell’Istruzione, costituitosi nel giudizio, sottolinea che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista da disposizioni regolamentari contenute in due regi decreti: uno del 1924, n. 965; l’altro del 1928, n. 1297 Tali norme, per quanto lontane nel tempo, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere reso dal Consiglio di Stato n.63 del 1988.
LA PRIMA DECISIONE DEL TAR, ATTI ALLA CONSULTA - Il Tar compie un esame delle norme regolamentari sull’esposizione del crocifisso a scuola e conclude che esse sono tuttora in vigore. Rimette, tuttavia, gli atti alla Corte costituzionale. La norma che prescrive l’obbligo di esposizione del crocifisso - scrivono i giudici - sembra delineare "una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio", che apparirebbe in contrasto con il principio di laicità dello Stato.
LA CORTE COSTITUZIONALE, RICORSO INAMMISSIBILE - La Consulta dichiara inammissibile il ricorso: le norme sull’esposizione del crocifisso a scuola sono "norme regolamentari", prive "di forza di legge" e su di esse "non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale". Gli atti tornano al Tar.
SECONDA DECISIONE TAR, CROCE NON CONTRASTA CON LAICITA’ - Il crocifisso, "inteso come simbolo di una particolare storia, cultura ed identità nazionale (...), oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità (...), può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato". Si conclude con queste parole la sentenza del 2005 con la quale il Tar rigetta il ricorso della madre della due alunne di Abano.
IL CONSIGLIO DI STATO, CROCIFISSO HA FUNZIONE EDUCATIVA - Il Consiglio di Stato chiude la parte italiana della vicenda, con il rigetto definitivo del ricorso della madre delle due alunne.
Il crocifisso - scrivono i giudici - non va rimosso dalle aule scolastiche perché ha "una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni"; non è né solo "un oggetto di culto", ma un simbolo "idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili" - tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, riguardo alla sua liberta’, solidarietà umana, rifiuto di ogni discriminazione - che hanno un’origine religiosa, ma "che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato".
CORTE EUROPEA BOCCIA ITALIA, POI RIMETTE A GRANDE CAMERA - Il 3 novembre 2009 la Corte europea per i diritti dell’uomo boccia l’Italia: il crocifisso appeso nelle aule scolastiche - rileva la Corte - è violazione della liberta’ dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni. Il governo italiano ricorre e la Corte europea decide di affidare la soluzione del caso alla Grande Camera.
GRANDE CAMERA STRASBURGO ASSOLVE L’ITALIA. Con la sentenza del 18 marzo 2011 la Grande Camera ribalta il verdetto della Corte e dice definitivamente sì all’Italia, ritenendo che l’ esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e negli altri luoghi pubblici non possa essere considerato un elemento di "indottrinamento" e dunque non comporta una violazione dei diritti umani. "Le autorità - dice la Grande Camera - hanno agito nei limiti della discrezionalità di cui dispone l’Italia nel quadro dei suoi obblighi di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che assume nell’ambito dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire l’istruzione conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche".
FLS
Sabaudia diventa Città: il Consiglio straordinario per la presa d’atto del titolo
Conferito dal presidente della Repubblica Mattarella in accoglimento della proposta del Ministro dell’Interno Lamorgese. La cerimonia in piazza del Comune
di Redazione (Latina Today, 05 agosto 2020)
“Sabaudia, una comunità che cresce e diventa città”: così si racchiude tutto il senso della cerimonia di oggi, 5 agosto, alle 19 in piazza del Comune con la seduta straordinaria del Consiglio comunale per la presa d’atto del titolo di Città, conferito dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella in accoglimento della proposta del Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese.
Una data storica quella di oggi, e “un’assegnazione importante sotto il profilo istituzionale - commentano dall’Amministrazione - attraverso il quale la massima carica dello Stato riconosce l’importanza storica, architettonica, culturale e artistica di Sabaudia, emblema di un territorio che ha saputo riscattarsi nel tempo, spodestando il contesto malarico e paludoso per iniziare, nei primi anni Trenta, un percorso virtuoso di insediamento demografico e di urbanizzazione, arrivando a definire al contempo un assetto sociale, economico e culturale degno di nota”.
Il Consiglio Comunale verrà aperto dall’Inno d’Italia e l’Inno alla Gioia, eseguiti dalla Banda Musicale del Comando Artiglieria Controaerei di Sabaudia diretta dal Maresciallo Pasquale Casertano. A conclusione dell’Assise si terrà invece il cambio del Gonfalone, della Bandiera della Città di Sabaudia e della fascia tricolore del sindaco. Il Gonfalone e la Bandiera utilizzati prima del riconoscimento del titolo di Città, entreranno a far parte dell’archivio storico di Sabaudia e verranno esposti presso il centro di documentazione “A.Mazzoni”.
A seguire, in considerazione dell’alto momento istituzionale e in virtù del senso di comunità che vedrà la città riunita, l’Amministrazione comunale conferirà un riconoscimento simbolico a quanti hanno offerto il proprio contributo e supporto nella gestione del problema che ha coinvolto le scuole del territorio in gran parte dell’anno scolastico 2019/2020. Il momento, all’insegna della coesione e di spiccata solidarietà sarà introdotto da altri due brani eseguiti sempre dalla Banda dell’Artiglieria: Ischia Marcia Brillante del Maestro Michele Lufrano e Otto e mezzo, dall’omonimo film di Federico Fellini, del Maestro Nino Rota.“
Sabaudia, il presidente della Repubblica Mattarella assegna il titolo di Città
Accolta la proposta del Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Un titolo che riconosce l’importanza storica, architettonica, culturale e artistica di Sabaudia. Il sindaco: “Siamo orgogliosi”
di Redazione (LatinaToday, 26 giugno 2020)
Sabaudia diventa Città. La notizia diffusa dall’Amministrazione dopo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con apposito decreto, ha conferito il titolo onorifico al Comune pontino, accogliendo la proposta del Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese.
“Un riconoscimento che inorgoglisce e che arriva - quasi inaspettatamente considerato il delicato momento che l’Italia sta vivendo - al termine di un iter procedurale iniziato con la deliberazione di Consiglio comunale (n. 56 del 28 novembre 2019) e proseguito con il parere favorevole della Prefettura di Latina” commentano dall’Amministrazione.
“Con l’assegnazione del titolo di Città è stata ufficialmente riconosciuta l’importanza storica, architettonica, culturale e artistica di Sabaudia, emblema di un territorio che ha saputo riscattarsi nel tempo, spodestando il contesto malarico e paludoso per iniziare, nei primi anni Trenta, un percorso virtuoso di insediamento demografico e di urbanizzazione, arrivando a definire al contempo un assetto sociale, economico e culturale degno di nota.
La relazione del Ministro dell’Interno - proseguono dal Comune - traccia un quadro ben chiaro di tutto ciò, evidenziando non solo la rinomata architettura razionalista, ancora oggi oggetto di studio per studenti e ricercatori, ma anche la sua vocazione turistico-culturale e quel suo essere punto di riferimento per la storia e l’archeologica. Particolare valore è stato dato alla sua essenza ‘green’ e alla sua permanenza all’interno del Parco Nazionale del Circeo, uno dei cinque parchi ‘storici’ italiani, senza dimenticare il rapporto privilegiato con il comparto agricolo e con il mondo del cinema e dello sport. Infine la posizione strategica, il lungomare e i tre bacini lacustri, l’aspetto demografico, il welfare, la cultura e l’attenzione al fenomeno immigratorio, elemento importante per una città accogliente per antonomasia”.
“Il titolo di Città ci inorgoglisce e rende felici perché dà ancora più valore alla nostra Sabaudia, alle sue peculiarità e alle tante bellezze ed eccellenze di cui si fregia. Ma ancor di più, rafforza la nostra visione strategica del territorio, che inizia con la tutela e valorizzazione del passato e che prosegue proiettandosi al futuro, in un continuo percorso di sviluppo che sappia rispondere alle esigenze dei cittadini, inglobandoli in un rapporto di crescita e reciproco scambio - commenta il sindaco Giada Gervasi - A nome di tutta l’Amministrazione e della comunità che rappresento, vorrei ringraziare il Presidente Mattarella e il Ministro Lamorgese per questo importante riconoscimento conferito, senza tralasciare Sua Eccellenza il Prefetto di Latina Trio, per il sostegno dato alla causa e per la sua instancabile presenza a tutela di un territorio secondo a nessuno. Mi sia consentito un ringraziamento al Consiglio Comunale, alla Giunta, al Settore Affari Generali e in particolare all’Assessore Gianpiero Macale, che ha fortemente voluto consegnare a Sabaudia il titolo onorifico impegnandosi in prima persona per tutto quanto necessario. Infine, e non per ultimo, rivolgo un pensiero ai miei concittadini, affinché possano tutti, indistintamente, gioire di questo conferimento e festeggiare simbolicamente la nostra Sabaudia che cresce e diventa Città”.“
VITTORIO FOA, GIAMBATTISTA VICO, E I PRINCIPI DELLA "SCIENZA NUOVA" E DELLA NUOVA ITALIA ....
— ***VITTORIO FOA. "Caduto il regime fascista, Vittorio Foa lasciando il carcere donava al suo compagno di cella la Scienza nuova di Vico, con una dedica tratta dal testo: «Per varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità». L’eterogenesi dei fini è una regola della scienza sociale moderna, un invito a far leva sui limiti della ragione per cogliere risvolti positivi da ogni evento, anche il più negativo [...]" (Nadia Urbinati, cit. - qui, allegato).
Vittorio Foa: ricordiamo la lezione dei costituenti
Vittorio Foa, l’anticonformista militante
di Ilaria Romeo (Collettiva, 18/09/2020)
Centodieci anni fa, il 18 settembre 1910, nasceva a Torino un politico, un sindacalista, un giornalista e uno scrittore indimenticato. Un uomo che dagli esordi in Giustizia e libertà, passando per la Resistenza, la Costituente, la militanza nella Cgil ha attraversato l’intera storia della sinistra italiana
Amico di Leone Ginzburg, nel 1933 Vittorio Foa si avvicina al gruppo antifascista di Giustizia e Libertà, collaborando con lo pseudonimo di ‘Emiliano’ agli omonimi quaderni pubblicati a Parigi. Arrestato a Torino il 15 maggio 1935 su delazione dell’informatore dell’Ovra Pitigrilli resta in carcere fino al 23 agosto 1943. Padre costituente, deputato socialista per tre legislature, nel 1955 diventa segretario nazionale della Fiom per passare, alla morte di Giuseppe Di Vittorio, alla segreteria della Cgil.
Nel 1970 decide di lasciare gli incarichi sindacali per dedicarsi agli studi (dal 1987 al 1992 è senatore, eletto nelle liste del Pci e poi del Pds, come indipendente). Dirà nel suo discorso di addio alla confederazione: “Voi sapete che questo distacco è difficile. Mi consentirete di non vestire di parole dei sentimenti che sono agitati e profondi. Vi prego caldamente, in ragione di una antica stima reciproca, di dispensarvi da parole di commemorazione o gratificazione. Voglio solo ringraziarvi tutti, e con voi mille e mille compagni noti o sconosciuti, per quel che in tanti anni avete fatto di me”.
“Età e ragioni di salute - affermava nell’occasione - mi hanno indotto a dimettermi da segretario della Cgil. Si è amichevolmente osservato che l’età non si misura col numero degli anni. Resta il fatto che, l’attenzione dovuta al merito che uno ha acquisito con molti anni di lavoro, contraddice la cruda necessità di congedare chi è logorato. Solo rimedio utile per attenuare quella contraddizione è la fissazione di un limite di età oggettivo, impersonale, oltre il quale si deve partire non per incapacità soggettiva, ma per una norma. E in questo caso la norma vale se non vi sono eccezioni. Si è anche osservato che uno deve, per la Causa, sopportare i malanni dell’età e una salute deteriorata. Ma se la salute ha poca importanza per i singoli, essa ne ha molta per l’organizzazione, soprattutto quando si tratta di quel logoramento tipico del lavoro sindacale che coinvolge il modo di lavorare, la calma e la necessaria capacità di percezione dei particolari del movimento, fuori degli schemi generici”.
“La Cgil è stata la sua casa”, diceva il giorno dei funerali l’allora segretario generale Guglielmo Epifani. “Se ne va uno dei grandi uomini del nostro sindacato. Dobbiamo ringraziarlo per tutto quello che ci ha dato e per il senso di libertà che ci ha lasciato. A volte la sua poteva sembrare una speranza disarmata, ma Vittorio ha sempre visto nel fare e nell’agire il legame tra la speranza e il cambiamento (...) Si considerava un operatore sindacale, e la sua più grande preoccupazione è sempre stata quella di avere un sindacato autonomo. Fino agli ultimi giorni aveva chiesto di vederci, di parlarci: non si considerava uno messo di lato, si considerava, ed era, uno di noi”.
A dare notizia della morte di Vittorio Foa sarà, per desiderio della famiglia, l’allora segretario del Pd Walter Veltroni: “È un immenso dolore per noi - dirà - per il popolo italiano, è un immenso dolore per gli italiani che credono nei valori di democrazia e libertà, per l’Italia che lavora, per il sindacato a cui Vittorio Foa ha dedicato la parte più importante della sua vita (...) È un dolore per me personalmente perché Vittorio Foa incarnava ai miei occhi il modello del militante della democrazia, un uomo con una meravigliosa storia di sofferenza, di lotta e di speranza, un uomo della sinistra e della democrazia, mosso da un ottimismo contagioso e da un elevatissimo disinteresse personale (...) Penso che tutto il paese senta Vittorio Foa come uno dei suoi figli migliori”.
Autore di numerosi libri (fra gli altri, Il cavallo e la torre, Questo Novecento, Lettere della giovinezza), Foa aveva pubblicato poco prima della morte Le parole della politica. “Forse - sosteneva nel saggio - il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell’agire pensando di essere soli e nel pensare solo a se stessi [...] Io non credo che si possa insegnare a pensare al resto del mondo, ma pensare se stessi insieme agli altri è l’unico modo per ricostruire i cosiddetti valori”.
È il principio che sta alla base della confederalità della nostra organizzazione, quel principio del quale Guglielmo Epifani diceva in occasione del centenario della Cgil: “L’identità confederale richiede inevitabilmente una ricerca permanente di valori e politiche di unità, partendo dalle differenze; e un’idea alta di autonomia comunque espressa nelle alterne fasi che hanno segnato la storia dei rapporti fra partiti e sindacati. Solo un sindacato confederale - quello di ieri e quello di oggi - può tenere unite dentro di sé le ragioni dei lavoratori della terra a quelli dell’industria, quelli pubblici e quelli privati, quelli del Sud e quelli del Nord, gli emigranti e gli immigrati, i giovani che studiano, i disoccupati, gli anziani e i pensionati. Tutto, proprio tutto, della vita centenaria del sindacato italiano sta qui, in quell’atto, in quella scelta, in quell’inizio. In quell’idea - come ci ricorda Vittorio Foa - per la quale battendosi per i propri diritti si pensa insieme sempre ai diritti degli altri”.
Un uomo particolare Vittorio, fedele ai suoi ideali ma indisciplinato, dal sorriso sornione e l’intelligenza acuta, la mente brillantissima. Affermava lui stesso all’interno del volume Cent’anni dopo. Il sindacato dopo il sindacato: “Nel lavoro della formazione e soprattutto in quella che il dirigente dà agli altri dirigenti, nella continuità del suo lavoro, vi è un elemento molto importante, e non si tratta della disciplina, ma è la lotta contro il conformismo. Non bisogna accusare l’indisciplina. Non c’è niente di male a essere indisciplinati, se nell’indisciplina c’è una volontà. La cosa peggiore è quando la volontà non c’è più, quando si sceglie sempre di dare retta ad altri. L’insegnamento da dare ai compagni è che pensino con la loro testa. Possono anche pensare male, ma l’importante è che pensino con la loro testa. Questa è la vita che io credo di avere vissuto nella Cgil e credo di aver amato nella Cgil più di ogni altra cosa”.
Parole che tratteggiano una personalità straordinaria, fresca, incredibile, originale, di una grande curiosità intellettuale.
Una personalità ben riassunta dalla frase - notissima - rivolta a Pisanò durante un dibattito televisivo: “Se avesse vinto lei - affermava Vittorio - io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me”.
IL SENSO DEL SUD PER LA SINISTRA
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 23 marzo 2018)
Caduto il regime fascista, Vittorio Foa lasciando il carcere donava al suo compagno di cella la Scienza nuova di Vico, con una dedica tratta dal testo: « Per varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità». L’eterogenesi dei fini è una regola della scienza sociale moderna, un invito a far leva sui limiti della ragione per cogliere risvolti positivi da ogni evento, anche il più negativo. Con le dovute proporzioni, la sinistra del dopo 4 marzo dovrebbe saper vedere nella caduta un’opportunità. Altre volte in passato, la riflessione su "che cosa è andato storto" è stata fondamentale. È evidente che saper leggere implica avere dei criteri di giudizio come antenne; solo così la sconfitta si può fare opportunità.
La questione della rappresentanza sociale - dello schierarsi con chi - è una di queste antenne: la sinistra ha la missione di partire dalla condizione di chi sta peggio per poter correggere in positivo i rapporti sociali. In Italia, questa condizione è propria di alcune fasce (giovani e vecchi) e aree geografiche (il Sud). Ma non basta censire la mancanza cronica di lavoro e una vita di espedienti ( non sempre legittimi) come fanno gli scienziati sociali. Occorre sentire quei problemi e le loro implicazioni, poiché la politica è vicina alle emozioni che guidano le azioni. E un partito deve saper progettare le azioni, non solo dei pochi che lo dirigono, ma soprattutto dei molti che lo seguono o lo votano.
Pensiamo alla " questione meridionale" che molta parte della dirigenza della sinistra sembra aver lasciato cadere, consolandosi col dire "basta ai piagnistei", ci si " rimbocchi le maniche", " l’Italia è ripartita". Pochi anni fa, Roberto Saviano obiettò su questo giornale che quello del Sud «è un urlo di dolore, non un piagnisteo che sembra invece somigliare di più alla cantilena del va tutto bene » . Il Sud come " palla al piede" che deturpa l’immagine di un’Italia che riparte: in anni recenti, questo è stato il sentire della sinistra. E l’abbandono del Sud è stato reciproco, un divorzio. La quasi scomparsa della sinistra era una sconfitta annunciata. Che lo si sia visto dopo, questo è il problema.
Alle origini del fascismo, Antonio Gramsci scriveva che la classe politica era fatta di "dilettanti" che si preoccupavano di eliminare dalla vista ciò che ostacolava il cammino, preferendo magari usare il piglio autoritario: « Non hanno alcuna simpatia per gli uomini [ che soffrono]... Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio e di volontà del cittadino italiano » . E intanto, le forme di illegalità, le periodiche rivolte fanno del Sud un’incognita. Una storia eterna.
La "questione meridionale" non è così misteriosa e neppure una " palla al piede": mostra come con una lente di ingrandimento la disgregazione sociale, lo sfarinamento delle forze associative, che sole possono attivare protagonismo, e opporre una politica di programmi a una di promesse assistenziali. La condizione del disagio deve poter stimolare il sentire per meglio orientare il comprendere.
Ritornare a riflettere sulle politiche sociali, per abbandonare i piccoli stratagemmi elettorali della monetarizzazione del bisogno, per riprendere la via del rilancio di politiche per l’occupazione. E collegarsi con le altre forze della sinistra europea per riportare al centro la condizione di chi è penalizzato dalla globalizzazione. E intanto, aprire le sezioni e ogni luogo di incontro per dare voce a chi è restato ai margini, e rimettere in funzione i radar; tornare a leggere un Paese del quale si sono perse le tracce. Non può essere il premio David di Donatello a farci capire che il Sud c’è e non è una "palla al piede".
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO, LA « SCUOLA » DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi.
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
Federico La Sala
La Chiesa di Pio XII e i totalitarismi *
di Anna Foa, storica *
Torna ad accendersi il dibattito sulle responsabilità della Chiesa di Pio XII nei confronti della Shoah, in concomitanza dell’apertura dell’Archivio Apostolico Vaticano (già Archivio Segreto) per gli anni del suo pontificato. E non manca chi, pur fra gli storici, avanza scoop azzardati, data la brevità del tempo concesso dall’epidemia di coronavirus ai ricercatori, una settimana appena, e il fatto che molte delle nuove scoperte non modificano che in minima parte realtà note da decenni alla storiografia (come ad esempio, a proposito della conoscenza da parte del Vaticano di quanto stava accadendo in Polonia, sappiamo già dal libro di Walter Laqueur del 1980).
Di tutt’altro tenore è il libro di David Bidussa La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi tra il 1932 e il 1948, che esce in questi giorni per le edizioni Solferino. Un libro intelligente, innovativo e carico di suggestioni e di stimoli. Un libro inoltre che ha il grandissimo merito di ricollocare in un contesto assai più ampio, quello dell’atteggiamento della Chiesa di fronte ai totalitarismi e ai fascismi, il problema dello specifico ruolo di Pio XII di fronte allo sterminio nazista, con un approccio che consente di liberarsi finalmente dal confronto tra leggenda nera e leggenda rosa, diventate entrambe, più che uno stimolo, un vero e proprio ostacolo alla conoscenza. Il libro è, come dicevo, molto ricco e tocca temi di vasto respiro. Più che una recensione, queste mie note vogliono essere quindi soprattutto un invito alla discussione, un’apertura di dibattito, in cui mi soffermerò soprattutto sull’impianto generale del libro.
Al centro dello studio di Bidussa sono gli anni fra il 1932 e il 1948: sedici anni che vedono l’affermarsi dei fascismi e dei totalitarismi, le leggi razziste e l’antisemitismo razziale, la guerra di Spagna, la guerra, la Shoah, il dopoguerra e la nascita di Israele. Per la Chiesa, sono gli anni dei Concordati con fascismo e nazismo, del pontificato di due pontefici spesso contrapposti l’uno all’altro, dell’emergere di un razzismo basato sul sangue difficile da conciliare con la dottrina cattolica, della neutralità nel corso della guerra, del controverso atteggiamento di fronte alla Shoah, degli aiuti dati agli ebrei perseguitati, del ritorno ad un antigiudaismo che non avrà tuttavia vita lunga dato il peso della frattura che la guerra e la Shoah hanno avuto sull’Occidente e l’avvicinarsi della svolta conciliare.
Merito grande del libro di Bidussa è quello di aver sempre tenuto presente il nesso tra le vicende storiche più generali e le scelte del papato. In questa prospettiva, assume particolare rilievo l’importanza attribuita alla guerra di Spagna, una guerra in cui tutti coloro che avrebbero combattuto il nazismo videro i prodromi della guerra, la sua anticamera (“Oggi in Spagna, domani in Italia”, affermava Carlo Rosselli) e in cui la Chiesa vide uno scontro di civiltà, una crociata da appoggiare senza tentennamenti. In quel contesto la difesa dell’identità nazionale cristiana era affidata alle armi di Mussolini e di Hitler. Un tema su cui poco si è riflettuto nel contesto più generale del rapporto tra Chiesa e totalitarismi e la cui analisi può aggiungere tasselli significativi di conoscenza a questi controversi problemi.
Oltre ad allargare il quadro storico complessivo, Bidussa si propone di estendere anche il quadro cronologico: ad essere analizzati non sono solo gli anni della guerra, ma anche quelli che li precedono e li seguono, che egli considera altrettanto importanti. Quelli cioè in cui la Chiesa elabora giudizi e politiche sui totalitarismi, come anche sui fascismi, e quelli che seguono, quelli della ripresa della tradizione antigiudaica, dello schierarsi della Chiesa in funzione anticomunista, della sua posizione rispetto alla nascita di Israele. Molto attento è inoltre l’autore a distinguere non solo fra le diversi posizioni all’interno della Chiesa ma anche sui mutamenti delle politiche della Chiesa nei confronti della guerra e quindi anche nei confronti della politica nazista di sterminio degli ebrei.
La svolta tra una politica di neutralità ed una di avvicinamento alle potenze alleate è, analizza Bidussa, collocabile fra il 1942 e il 1943, accompagnata da un aumento della sensibilità, non solo della Chiesa ma in genere dell’episcopato sia in Italia che negli altri paesi occupati, nei confronti dello sterminio degli ebrei. Sono i mesi in cui, ad esempio, dopo la Rafle du Vel d’Hiv, molti vescovi francesi denunciano dai pulpiti le deportazioni, senza che i nazisti e i collaborazionisti di Vichy reagiscano ed anzi riuscendo ad impedire o a rallentare le deportazioni (contrariamente a quanto succede invece, com’è noto, in Olanda).
Parlare di atteggiamento della Chiesa verso i totalitarismi e non di Chiesa e Shoah, allargare quindi la prospettiva, contestualizzando la politica della Chiesa entro una storia più ampia che non riguarda solo gli ebrei e l’antisemitismo, offre alla ricerca e alla riflessione storica dei notevoli vantaggi. Il primo dei quali è quello di uscire da un’ottica giudeocentrica, quella legata per intenderci ad una concezione dogmatica della Shoah, che la vedeva come un capitolo assolutamente unico rispetto alla storia del mondo, un momento tragicamente glorioso dell’eterna storia ebraica. Un conseguenza che Bidussa non esplicita apertamente, ma che emerge con chiarezza dall’intero impianto del libro e che la frase di Claudio Pavone sulla storia come nemica di ogni fondamentalismo, posta come esergo al libro, non fa che confermare.
In sostanza, un libro che spero farà discutere, dal momento che si muove fuori dagli schemi precostituiti e dalle banalità del senso comune storiografico. Un libro di storia e di riflessione, un libro di cui c’era davvero bisogno.
*Anna Foa, storica
Moked/מוקד il portale dell’ebraismo italiano - 15/05/2020 - 21 אייר 5780
RICOMINCIARE DA “CAPO”! PER LA CRITICA DEL “SOGNO D’AMORE” ... *
” Degli scritti che, quasi contemporaneamente al mio, si occuparono dello stessa argomento , solo due sono, degni di nota : Napoléon le Petit di Victor Hugo e il Coup d’Etat di Proudhon.
Victor Hugò si limita a un’invettiva amara e piena di sarcasmo, contro l’autore responsabile del colpo di stato. -L’avvenimento in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno. Egli non vede in esso altro che l’atto di violenza di un individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli attribuisce una potenza di iniziativa personale che non avrebbe esempi nella storia del mondo.
Proudhon, dal canto suo, cerca di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una precedente evoluzione storica ; ma la ricostruzione storica dei colpo di stato si trasforma in lui in una apologia storica dell’eroe del colpo di stato. Egli cade nell’errore dei nostri cosiddetti storici oggettivi. Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe.”
(K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Prefazione dell’autore alla seconda edizione, [1869] ).
“Non basta dire come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l’enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una nazione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza”
(K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852).
SIMONE WEIL: “L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo : nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi ; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognuno di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo.
L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo : ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura” (Simone Weil, 1942.)
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LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE : LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
KANT, GRAMSCI, E SIMONE WEIL. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
CON LA "NAVE" (1905) DI D’ANNUNZIO, DA GENOVA (1915), L’ITALIA PARTE PER LA PRIMA GUERRA MONDIALE. Il "primo duce" traccia la strada... *
Gabriele D’Annunzio e il delirio della propaganda interventista
di Vanessa Lucarini (InLibertà, 4 Luglio 2020)
È il 5 maggio del 1915, la guerra insanguina l’Europa e in un’Italia che ha appena firmato il Patto di Londra, si celebra l’inaugurazione del Monumento ai Mille. È una scultura in bronzo che raffigura Garibaldi incoronato dalle braccia della dea Vittoria, dietro di lui un gruppo di uomini addossati gli uni agli altri che sembrano emergere dal sottosuolo. L’opera è di Baroni, ma l’ispirazione viene dai primi versi dell’Inno di Garibaldi di Luigi Mercatini: «Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti».
L’idea della trionfale risurrezione dei martiri della patria offre a Gabriele D’Annunzio la base perfetta per costruire un discorso retorico e infiammato che sia al contempo glorificazione dell’impresa dei Mille e efficace atto di propaganda interventista. Parole che lette a distanza di un secolo suonano come un delirio d’onnipotenza, ma che declamate da un coltissimo istrione davanti a un gigantesco Garibaldi di bronzo fanno l’effetto di una marcia trionfale.
L’elogio a Garibaldi e alla sua stirpe
Durante l’inaugurazione, D’Annunzio non si limita a elogiare l’impresa dei Mille. La trasforma nel simbolo sacro dell’amor di patria che dovrebbe spingere l’uomo contemporaneo a inforcare le armi per affermare l’identità della grande Italia e riconquistare le cosiddette terre irredente. Come spesso avviene in letteratura, si parla di ieri per riferirsi a oggi e nell’oggi il nome di Garibaldi risuona come quello di una divinità: «Braccia d’artiere terribili son le sue braccia. Voi lo vedete. E le sue mani possiedono l’atto come le mani di Dio stringono la folgore. Non si sa se le gonfi di sì grandi vene la possa dell’opera compiuta o di quella ch’è da compiere».
Da un uomo tanto grande non può che venire fuori una stirpe di eroi. D’Annunzio infatti non può certo mancare di esaltare l’esperienza di Peppino Garibaldi, nipote dell’Eroe dei due mondi, che nel 1914 creò con i sei fratelli una Legione Garibaldina che scendesse in guerra a fianco della Francia. La legione combatté valorosamente sul fronte delle Argonne ma due dei fratelli morirono in battaglia. In loro D’Annunzio non vede due giovani da piangere, ma due martiri da assommare a quelli di Belfiore e a molti altri caduti per la patria che in cambio del loro sacrificio hanno ottenuto la gloria della risurrezione.
Il fuoco e la memoria della Roma antica
Nell’ottica dannunziana, se gli eroi del risorgimento tornassero sulla terra vedendo l’Italia scendere in guerra contro gli Imperi Centrali direbbero: «Lode a Dio! Gli italiani hanno riacceso il fuoco su l’ara d’Italia!». Il fuoco è elemento ricorrente nel discorso. È quello che alimenta la grande fornace dell’Italia e che per essere mantenuto sempre acceso non deve mai smettere di forgiare soldati modellati sull’esempio garibaldino: «Accesa è tuttavia l’immensa chiusa fornace, o gente nostra, o fratelli, e che accesa resti vuole il nostro Genio, e che il fuoco fatichi finché tutto il metallo si strugga, finché colata sia pronta, finché l’urto del ferro apra il varco al sangue rovente della resurrezione».
In queste parole riconosciamo una mentalità che (seppur portata all’estremo) affonda le radici nell’antica Roma, dove l’uomo era prima di tutto un cives al servizio dello stato. I Romani hanno conquistato mezzo mondo e creato il più grande impero dell’antichità. D’Annunzio - come poi farà Mussolini - non può che rievocare anche la loro memoria per smuovere l’animo dei presenti. Si pensi al riferimento all’Aventino, ai Dioscuri, alla Lupa e al Toro sannitico. Si pensi alla stessa dea Vittoria che - rispetto alla Nike greca - oltre a rappresentare la vittoria in battaglia simboleggia anche quella contro la morte.
Un finale d’effetto
Ma il Vate va oltre, e pur di rendere la sua propaganda convincente sale fino in cielo, a scomodare il Messia. Il corpo centrale del discorso è disseminato di termini cristiani come comandamento, martiri, preghiera, passione e resurrezione. E che dire del volto di Garibaldi impresso nell’anima della gente che viene paragonato a quello di Cristo impresso sul sudario? Ma la blasfemia di questo delirio nazional-patriottico raggiunge l’apice sul finale che, come afferma Alberto Mario Banti nel manuale L’età contemporanea. Dalla grande guerra a oggi è «estatico, allucinato, baroccamente sacrale, di grande e lugubre suggestione».
Il rovesciamento del messaggio messianico
Rifacendosi al Sermone della Montagna (Matteo 5,1-12), D’Annunzio fa di Garibaldi un novello Messia e ribalta completamente il messaggio d’amore di Cristo. Lo trasforma in un incitamento al sacrificio da compiersi in una nuova guerra all’insegna della gloria e della bellezza. E allora Beati i poveri in spirito diventa Beati quelli che più hanno perché più potranno dare; Beati gli afflitti diventa Beati quelli che hanno vent’anni, una mente casta e un corpo sano; Beati i miti diventa Beati quelli che custodirono la loro forza nella disciplina della guerra.
Nemmeno i misericordiosi saranno più beati perché troveranno misericordia, ma perché «avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore». Mentre il premio per i puri di cuore non sarà più la contemplazione del volto di Dio, ma di quello novello di Roma, della testa di nuovo incoronata di Dante e della bellezza dell’Italia trionfante.
Con il suo discorso D’Annunzio ricorre sapientemente a ogni meccanismo psicologico per veicolare il desiderio di cambiamento dei giovani italiani. Promette loro che liberandosi dall’opprimente «cappa senile» di posizione neutralista potranno finalmente dimostrare il loro valore e sfolgorare sulla scena europea. Forse non si aspetta che poco più tardi quegli stessi giovani verranno mandati a combattere una sfibrante guerra di trincea. Un inferno in terra che darà in cambio solo una vittoria che il Vate stesso definirà mutilata.
CON LA "NAVE" (1905) DI D’ANNUNZIO, DA GENOVA (1915), L’ITALIA PARTE PER LA PRIMA GUERRA MONDIALE. Il "primo duce" traccia la strada... *
SE SI TIENE PRESENTE CHE "La partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale ebbe inizio il 24 maggio 1915, circa dieci mesi dopo l’avvio del conflitto [...]", E ANCORA CHE "Il Patto di Londra (conosciuto anche come "Trattato di Londra") fu un accordo segreto firmato il 26 aprile 1915, stipulato tra il governo italiano e i rappresentanti della Triplice Intesa, con i quali l’Italia si impegnò a scendere in guerra contro gli Imperi Centrali, (...), entro un mese dalla stipula in cambio di cospicui compensi territoriali [...]", L’INAUGURAZIONE DEL MONUMENTO AI MILLE - avvenuta a Genova il 5 MAGGIO 1915 - appare immediatamente non essere affatto un "delirio della propaganda interventista", come niente affatto l’”Orazione per la Sagra dei Mille” di Gabriele D’Annunzio è un discorso improvvisato e d’occasione!
SE è VERO, COME è VERO CHE, "Con il suo discorso D’Annunzio ricorre sapientemente a ogni meccanismo psicologico per veicolare il desiderio di cambiamento dei giovani italiani" (cfr. Vanessa Lucarini, "Gabriele D’Annunzio e il delirio della propaganda interventista", "InLibertà", 04.luglio 2020)), articolando il discorso che ha fatto come ha fatto (1."L’elogio a Garibaldi e alla sua stirpe", 2."Il fuoco e la memoria della Roma antica", 3."Un finale d’effetto": Garibaldi come Cristo, 4."Il rovesciamento del messaggio messianico") , è DA DIRE CHE EGLI è ARRIVATO BEN PREPARATO al suo appuntamento!
Chi sta per partire non sono i Mille di Giuseppe Garibaldi, ma la sua "giovane" Italia che s’imbarca ("La patria è su la Nave!") su "La nave" (1905) di Gabriele D’Annunzio e parte per l’avventura. Il primo Duce (cfr. Michael A. Leeden, "The First Duce. D’Annunzio at Fiume", 1977), con la "tragedia adriatica" ("tragoedia adriaca"), segna già la sua via e il suo orizzonte, fino all’approdo - dopo la "vittoria mutilata" e l’impresa di Fiume - a Gardone Riviera, al Vittoriale, sul lago di Garda!
Federico La Sala
Le tre morti di Gabriele D’Annunzio
Il saggio. Una serie di morti annunciate accompagnano la vita del poeta, dal parto, al duello, a Fiume, al volo dal balcone della Sala della musica
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, Alias, 05.10.2013)
«Sono in una notte di tregua, disceso dalla mia officina, più scorato che stanco; perché quando in un’ora di grazia io sento di aver discoperto per pochi attimi il volto della bellezza e di averle rapito alcun lineamento e trasposto per pochi attimi o per i volubili secoli, perché ho sempre il desiderio di annientarmi, di dissolvermi?».
Così Gabriele D’Annunzio si confessa nel suo Libro Segreto. Ma il cupio dissolvi della morte non poteva essere per il Vate, uomo d’armi e di amori - erotica heroíca - semplice fatto letterario o moto dell’anima. E infatti, «disprezzando di morire tra due lenzuola, tento la mia ultima invenzione»: niente meno di questo annuncia egli stesso in un sibillino messaggio del 1937, pochi mesi prima della sua «morte eterna», avvenuta il 1 marzo del 1938. Curiosamente la stampa dell’epoca, abituata agli annunci iperbolici del Poeta, interpreta la frase con queste parole: «Il Poeta ha deciso, quando sentirà l’ora del trapasso, di immergersi in un bagno che provocherà immediatamente la morte e contemporaneamente distruggerà i tessuti del suo corpo. È il Poeta stesso che ha scoperto la formula del liquido».
Gli annunci di morte
Questa fantasia di dissoluzione, questo vagheggiare una scomparsa del corpo fisico, anche se non servì fattualmente al Vate, aggiunse certamente un ulteriore capitolo a quella sequela di «morti annunciate» che aveva costellato tutta la sua vita.
Il rapporto di D’Annunzio con la previsione della «morte eterna», e con le «morti intermedie» che egli soggettivamente visse, segnano la sua biografia sin dalla gioventù. Nel novembre del 1880, a soli diciassette anni, scrive alla Gazzetta della domenica di Firenze una cartolina a firma G. Rutini dove annuncia che «il giovane poeta, già noto nella repubblica delle lettere, di cui si è parlato spesso su questo giornale, è morto, cadendo da cavallo sulla strada di Francavilla». Naturalmente fu lo stesso poeta, dopo che i suoi si erano meravigliati per le condoglianze che andavano ricevendo, a smentire la falsa notizia.
Qualche decennio dopo, all’inizio del secolo, costretto a letto e con un occhi bendato - circostanza che tornerà altre volte nella sua vita - a causa di una palla di neve tiratagli dalla bella nipote di Lady Hamilton, dichiarò solennemente di sapere che sarebbe morto tra il 1905 ed il 1906. Passato anche questo anno fatidico, il 28 agosto 1907 il Mattino di Napoli, in occasione della Coppa Florio organizzata a Brescia scriveva: «Gabriele D’Annunzio corre a 120 all’ora perché una fattucchiera gli ha predetto con certezza che non morirà prima del 1909, per colpa di una pugnalata al cuore. Il poeta conosce il giorno e l’ora esatti del suo decesso». E ancora, nel 1908, mentre viveva nella villa «La Versiliana», annunciò ai parenti la sua morte per il 17 aprile di quello stesso anno: lo aveva detto una maga fiorentina.
Un’altra volta la data fu fissata per il 17 luglio 1910, addirittura profetizzata da Madame de Thèbes (1845-1916), pseudonimo di Anne Victorine Savigny, notissima veggente e chiromante francese che esercitava presso il suo studio a Parigi nell’avenue de Wagram. Ogni anno, a Natale, la Madame pubblicava le sue profezie e, tra queste, D’Annunzio dichiarò di aver letto anche quella della sua morte. Evidentemente uno dei due si sbagliava.
Gli annunci si susseguirono numerosi in tutta la sua vita, ne troviamo diverse tracce nel Libro Segreto, sino agli ultimissimi, pochi mesi prima di morire realmente, come quando scrive all’amico Maroni nel luglio del 1937: «Tu sai, tu indovini, che io sono in punto di morte», o ancora, nel febbraio 1938 a Tom Antongini: «Credo che sono morto come il cavalier Baiardo all’assedio di Brescia... L’anniversario cadrà poco prima del mio marzo funebre».
Il «marzo funebre» e il lunario Barbanera
Ed è allora, in quel fatidico 1938, che le spacconate sulla sua morte, le previsioni fallaci o inventate per attirare, ancora una volta, l’attenzione su di sé, sembrano condensarsi sino a precipitare addosso al Vate come il filo di una falce fatale. In effetto, come sappiamo, il «marzo funebre» arriverà: il 1 marzo di quello stesso anno una emorragia celebrale stroncherà il Vate. Curiosa coincidenza, tra le altre che vedremo, in una lettera del 1935 a Mussolini, il Poeta dichiara: «il mio cranio di lucido cristallo può incrinarsi facilmente». Tutti questi annunci preconizzatori, i numerosi accenni alla morte che cospargono le sue memorie, così come il richiamo a questa nelle sue opere - pensiamo solo al Trionfo della morte, alla Contemplazione della morte, per non citare che i testi più noti - ci dicono allora non solo di qualcosa di letterario, estetizzante, decadente, come era nello stile del Poeta, ma forse di una profezia che egli vuole si avveri, in altre parole di una morte non solo «annunciata», allusiva, ma anche cercata ed infine, ottenuta.
Come si spiega, infatti, la inquietante circostanza che vuole il Vate morire proprio nel marzo previsto nella sua ultima missiva, col capo chino sul suo scrittoio nella Zambracca, la stanza che usava al Vittoriale per comporre i suoi poemi, e con il dito ad indicare la data esatta, cerchiata di rosso, del lunario Barbanera che vaticinava per quel giorno «la morte di un italiano illustre»?
D’Annunzio non fece mai mistero di consultare il famoso lunario che, anzi, era per lui «il fiore dei tempi e la saggezza delle nazioni». Il Barbanera era il suo livre de chevet, come confessa al parroco di Gardone Riviera quando gli scrive: «la gente comune pensa che al mio capezzale io abbia l’Iliade o l’Odissea, o la Bibbia o Virgilio, o Flacco o Dante, invece...». E allora, date le circostanze, si potrebbe avanzare l’ipotesi di un suicidio? La morte per emorragia cerebrale risulta dal certificato medico stilato dal dottor Alberto Cesari, primario dell’ospedale di Salò, e dal dottor Antonio Duse, medico curante del Poeta. -Ma di fronte alla ragion di Stato, specie in epoca fascista e considerando la figura pubblica e politica di D’Annunzio, ogni ipotesi è plausibile. La segretezza mantenuta sul suicidio può essere variamente giustificata, non ultimo dal fatto che, se fosse stata resa pubblica la morte volontaria, non si sarebbe potuto celebrare il solenne funerale religioso, con l’immaginabile imbarazzo per il Duce, a nemmeno dieci anni di distanza dai Patti Leteranensi.
Sospettosa circostanza, in aggiunta alla misteriosa profezia del Barbanera e della location della morte, i funerali furono organizzati con estrema rapidità. D’Annunzio morì il martedì sera verso le 20 e Mussolini partì da Roma per Gardone Riviera la mattina dopo, il tempo strettamente necessario per disdire gli appuntamenti di Stato e organizzare il treno presidenziale che lo portò a Desenzano con i ministri Ciano, Starace, Alfieri, Benni e il segretario particolare Sebastiani. Le esequie vennero poi celebrate la mattina di giovedì 3 marzo, attorno alle 8,30. Gli onori estremi furono resi, quindi, al Vate della Patria in tempi assai stretti e, soprattutto, evenienza strana in quei casi, senza essere preceduti o seguiti da autopsia e accertamenti che approfondissero le cause del decesso. La morte, infatti, venne certificata come emorragia celebrale solo in base a reperti esterni, clinici, non supportati da esami autoptici.
D’Annunzio aveva 75 anni e da tempo era fisicamente decadente e sessualmente impotente. Scrisse, infatti, all’amante Luisa Baccara, in una lettera del 1 novembre 1934, che era giunto il momento del «Basta», poiché la sua virilità era ormai «caduta». Seguendo questa ipotesi si può citare la testimonianza dell’ex segretario dello scrittore abruzzese, Tom Antongini, che validò l’abitudine di D’Annunzio d’ingerire piccolissime dosi di stricnina e quindi la sua familiarità con i veleni.
Le morti vissute
Certo la morte ha sfiorato il Poeta diverse volte. Nel 1885, in duello, venne colpito alla testa; in guerra sul Carso o nell’impresa di Fiume dove perse un occhio. Durante la grande Guerra, come ricordò l’amico Marcel Boulenger «un obice quasi cadde ai suoi piedi».
Eppure, in tutte queste occasioni «oggettive», il Poeta non sente la morte come sua. Quante volte, allora, sente di essere morto Gabriele D’Annunzio? Tre sono le morti «soggettive» evocate dal Vate prima di quella «eterna».
La prima ce la descrive nell’incipit de Il libro segreto, cento e cento pagine del poeta tentato di morire: «nel nascere io fui come imbavagliato dalla morte; sicché non diedi grido, né avrei potuto trarre il primo respiro a vivere, se mani esperte e pronte non avessero rotto i nodi e lacerata quella specie di tonaca spegnitrice. Dipoi, nei primi anni dell’infanzia portai al collo, chiusa entro un breve, quella ligatura insolita che l’antichissima superstizione della mia gente reputava propizia». La «prima morte» di D’Annunzio, in effetto, venne evitata attraverso una pratica di magia tradizionale che consisteva nel «corazzare», come disse il Poeta stesso, con ben quattrocento monete di argento il suo corpicino e di appendergli al collo un «abitino» (sorta di contenitore fatto di pelle animale: il breve, di cui parla D’Annunzio) che conteneva pezzi del legamento del suo cordone ombelicale.
Anche il passaggio dalla giovinezza alla maturità è vissuto da D’Annunzio come una «seconda morte». In Esequie della giovinezza così dice. «da che lotto e soffro non mi sono mai sentito morire come oggi. Mi sembra di avere alla punta del cuore quel piccolo varco onde gemono le gocciole eguali della clessidra funebre. Tutto, pensieri sogni ricordi rimpianti, propositi desideri passioni glorie miserie, tutto vi passa; e non è niente. Bisogna che io imbalsami infine il cadavere della giovinezza, che fasciato di bende io lo chiuda tra quattro assi e che io la faccia passare per quella porta, ove lo spettro della vecchiaia è apparso tra i battenti socchiusi e con un accenno quasi familiare mi ha augurato il buon giorno».
Questa è la «seconda morte» del Vate, seguita dopo pochi anni dalla terza: il Volo dell’Arcangelo. Nel 1922, il 13 di agosto, D’Annunzio cadde da una finestra della sua Stanza della musica al Vittoriale, battendo il capo su una pietra sottostante e rimanendo in coma, tra la vita e la morte, per dodici giorni. La dinamica della caduta è piuttosto oscura, essendo legata ad un corteggiamento «ardito» che il Poeta pare ponesse in atto nei confronti di Jole, violinista stimata, ma soprattutto sorella di Luisa Baccara, sua amante del momento: sembra ad un certo punto che Jole, nella foga di svincolarsi dall’abbraccio del Vate, lo abbia inavvertitamente spinto di sotto.
Questo il bollettino dei medici Antonio Duse, Francesco d’Agostino, Davide Giordano, Mario Donati, Raffaele Bastianelli, Augusto Murri: «segni manifesti di frattura della base del cranio estesa all’orbita destra. Commozione cerebrale. stato d’incoscienza. segni di compressione cerebrale dubbi. Disturbi di motilità e di sensibilità non manifesti. ferite lievi escoriate all’arto inferiore destro. leggera contusione a destra del torace. Ambe le mani sono incolumi. non v’è indicazione urgente di atto chirurgico. polso regolare 67. respiro regolare 25. temperatura 37,8. prognosi tuttavia riservata».
Risvegliatosi dal coma scrive immediatamente e di getto questi versi visionari: «io sono Gabriele che mi presento agli dei, fra alati fratelli il più veggente alunno di Postvorta, sacerdote dell’arcano e del divino, interprete dell’umana demenza, volatore caduto dall’alto, principe ed indovino». Il «volatore caduto» si confessa alunno di Postvorta, la divinità romana del passato: la «terza morte» ha chiuso per sempre un altro trancio di vita alle sue spalle.
Anche questo episodio assurge così al rango di «morte vissuta» non solo per la sensibilità irenica del Vate, ma anche per la comparsa del fantasma della sempre amata madre. Poco prima del Volo dell’Arcangelo, infatti, un fotografo aveva ritratto D’Annunzio al tavolo di lavoro. Uscito dal coma il Poeta fece notare che nella fotografia era visibile come una mano che gli sorreggesse il volto. Nell’ombra volle riconoscere la mano della madre che lo aveva salvato dalla sua «terza morte».
La vecchiaia mise infine il Piccolo Nume di fronte alla irrimediabilità del momento supremo e lo costrinse, forse, a porre in atto disperatamente ciò che non poteva più essere solo annunciato per essere in realtà rinviato: in una lettera alla sorella del 1938 D’Annunzio scrive Io resto con il nulla che mi sono creato. Torna qui lo spettro del suicidio del Vate come punto finale e coerente della sua eterna schermaglia con la Grande Signora. Un mistero ultimo, insondabile, che Gabriele D’Annunzio sembra chiaramente evocare ed al tempo stesso nascondere nella sibillina frase che troviamo nel Libro Segreto: «ma chi era presente? chi vide? chi mai potrà ridire?».
Scaffale
L’ipotesi del suicidio di D’Annunzio è trattata nel libro di Attilio Mazza e Antonio Bortolotti Le medicine di D’Annunzio, edizioni Ianieri. Attilio Mazza, si sofferma sull’enigma della morte del Poeta, mentre Antonio Bortolotti, a sua volta, cataloga accuratamente i medicinali e i prodotti affini rinvenuti nello scaffale della Zambracca: anche questo, un utile strumento di conoscenze sulle sue consuetudini di vita e, di riflesso, sul suo profilo di uomo e di scrittore.
Il Libro segreto di D’Annunzio è l’ultima fatica del Poeta, attraversato da un addensamento continuo di memorie, simboli, intuizioni poetiche, immagini letterarie, deliri mistici, proiettati verso l’interpretazione dei ricordi impregnati in una prefigurazione della morte.
ANTROPOLOGIA E POLITICA: STORIA DEL FASCISMO E STORIA DELLE DONNE... *
Erano innamorate di Mussolini: le ausiliarie di Salò
di Annalisa Di Nuzzo *
Il tema delle donne in armi, che è insieme antropologico e politico, e consente forse di guardare da angolazioni nuove non solo la storia delle donne, ma l’intera storia civile, dovrebbe essere esteso proficuamente - si spera che ci siano altre occasioni per farlo, oltre la felice partenza rappresentata da questo numero della rivista - alle Ausiliarie della Repubblica di Salò: un fenomeno in larga misura indotto dalla propaganda di regime, ma anche - questo soprattutto sembra renderlo interessante - frutto, come l’altro fenomeno parallelo ed opposto delle donne della Resistenza, del nuovo sentimento femminile di autosufficienza e di autostima, legato alle supplenze esercitate dalle donne durante quattro anni di guerra e perfino alle loro precedenti esperienze nel Ventennio.
La scarsa letteratura che le concerne si polarizza su due prospettive interpretative: quello della agiografia nostalgica e celebrativa e quello della decisa condanna, che è, alla fine, una condanna politica. È rimasto fuori dal coro il discorso alla Camera dei deputati tenuto da Luciano Violante, che “da sinistra” rivendicò la dignità delle tensioni ideali che avrebbero mosso le giovani fasciste di Salò a cercare forme di eroismo e sacrificio verso “una patria”. Bollato con l’accusa di revisionismo e di superficialità storica, il discorso fu relegato, nel dibattito che ne seguì, nella pura dimensione accademica.
Istituito da Mussolini nell’aprile del 1944, il Servizio Ausiliario Femminile riscosse un grande successo, che sarebbe interessante cominciare a spiegare: presentarono domanda di arruolamento oltre seimila donne appartenenti ad ogni ceto sociale e provenienti da ogni parte dell’Italia, alcune minorenni, parecchie madri e mogli. Le ausiliarie normalmente non erano armate, ma durante i corsi erano addestrate all’uso delle armi e sia nella X Flottiglia Mas che nelle brigate nere parteciparono attivamente ad azioni militari, infiltrandosi perfino come spie nelle zone del paese liberate dagli Alleati. Resta da chiarire perché Mussolini istituì un corpo del genere e perché tante donne, prevalentemente giovali e giovanissime, vi aderirono.
Già prima della guerra lo stesso Mussolini aveva creato un singolare legame donna-fascismo; la sua politica verso le donne aveva mirato alla formazione di una “nuova italiana”, la donna fascista, attraverso un cambiamento della sua dimensione quotidiana, che coinvolgeva sia gli aspetti intimi e personali, quali la gestione del corpo, sia la formazione e l’inserimento sociale.
Il dittatore aveva tentato di staccarsi dalla tradizione del primo fascismo, che accentuava solo la prolificità delle madri, a favore del rifiuto della riservatezza, il silenzio, la timidezza, il sentimentalismo e, pur restando la maternità e la famiglia il perno della vita della donna fascista, tutto lo stile di vita doveva essere impregnato di energia, coraggio, fierezza, decisioni rapide, voce alta ed espressione schietta di sé (cfr. Franca Poli, Fidanzate con la morte. Storia delle ragazze di Salò, 2013).
Le giovani donne aderirono per fedeltà ad un regime che consideravano immutabile e per un amore viscerale nei confronti di Mussolini, che il culto della personalità aveva trasformato in una specie di idolo, un padre-amante insostituibile. Si pensi allo sguardo innamorato di una ragazza di Salò, che così racconta il suo incontro con Mussolini:
Spesso appena adolescenti, le donne fasciste si lasciarono travolgere dalla tentazione di una nuova emancipazione ed abbracciarono la causa con una passione a volte estrema. Rimasero affascinate dal fascismo e dal dittatore, ma anche dalla novità assoluta dell’esperienza, essendo le prime in Italia ad essere inquadrate in un corpo militare che dava loro l’opportunità di uscire da quel ruolo tipicamente femminile che avevano sempre avuto. In altre parole, esse mettevano in pratica quella voglia di emancipazione che già altre generazioni avevano cominciato a vivere e che in altri paesi si era già concretamente avviata.
L’ educazione e la propaganda del regime avevano poi fatto il loro corso; una propaganda ed una pedagogia che già nei primi anni del Ventennio inculcava alle ragazze che il bene della Patria faceva parte della sacra missione della donna e che la Madre era insignita della gloria di educare la prole a questo ideale.
Teresa Labriola, una della più note intellettuali del tempo, aveva abbracciato il programma dell’Associazione nazionalista, nonostante la sua formazione familiare. Per certi aspetti la sua svolta politica dalla sinistra alla destra richiamava quella dello stesso Mussolini e di altri esponenti della “generazione del fronte”. Il socialismo marxista era quasi una seconda natura per la Labriola, figlia del filosofo e attivista politico napoletano.
Teresa, il cui ingegno volubile e salottiero aveva ben poco assimilato della filosofia marxista, aveva al pari di Mussolini una mentalità élitaria, imbevuta del volontarismo comune a un’intera generazione di intellettuali. Ammirava l’idealismo di Giovanni Gentile, col quale aveva studiato, e preferiva l’iconoclastia di George Sorel e Friedrich Nietzsche ai principi inesorabili del marxismo della Seconda Internazionale.
Secondo Teresa solo nuove, fresche avanguardie, abbandonando l’inetto riformismo del movimento socialista italiano, avrebbero costruito una nuova Italia, ripudiando I’agnosticismo liberale per infondere nel popolo italiano una nuova “eticità”. Questa élite per la Labriola era soprattutto al femminile: fin dal 1908 parlava della “capacità di sacrificio, peculiare della donna”, che la rendeva l’unico soggetto capace di ricomporre il “contrasto tra le esigenze dell’individuo e quelle della specie”.
La sua visione delle donne italiane come campionesse di un nuovo ordine sociale fondato sulla revisione dei concetti di razza, nazione e Stato, risultò accattivante. La stessa figlia prediletta del duce, Edda Ciano Mussolini, continuerà a sostenere negli ultimi anni della sua vita che il fascismo aveva dato modo che si realizzasse un femminismo di destra. In una situazione in cui le donne quasi mai disponevano di informazioni diverse e alternative, era stato facile al fascismo costruire una nuova identità femminile mediante un sistema formativo autoritario ed eterodiretto; le voci delle ausiliarie, affidate a scritture autobiografiche che da non molto cominciano ad essere note, risentono del lessico e della propaganda del tempo, che poneva come principio fondante del riconoscimento del femminile il valore del sacrificio, e faceva leva su un sentimento di maternità mediterranea e su un desiderio di emancipazione e di partecipazione pubblica.
La dilatazione del sentimento materno oltre i confini familiari ispirò una cura corale dei soldati sbandati, dei prigionieri fuggiti, dei bambini, che conviveva con una volontà forte di protagonismo personale, di cittadinanza da vivere accanto e analogamente a quella maschile. L’addestramento era duro: “niente rossetti, niente donne fatali, niente amori conturbanti”, quindi controllo affettivo e sessuale, spirito di sacrificio, sorretti da una retorica che ripeteva gli stilemi e i temi della retorica fascista. Basta leggere giornalini come “Sveglia” del 1944 per rendersene conto.
Questo clima spirituale era arroventato dal riflesso delle passioni, che dividevano il paese. Le lettere di alcune condannate a morte mostrano drammaticamente la complessità di una formazione, in cui l’indottrinamento fascista era riuscito a mettere radici nei vissuti delle persone, perché aveva saputo subdolamente catturare i valori profondi, le domande di autenticità e di intransigenza di donne giovani che, chiamate per la prima volta ad assumere un ruolo da protagoniste, accettarono pienamente il sacrificio per la “patria tradita”. È quanto emerge da una lettera che una condannata a morte scrive a sua madre:
Pur nel rispetto per la dignità di chi è capace di scrivere lettere di questo tenore, la nostra consapevolezza che non c’era una patria tradita, e che si trattava di un motivo della propaganda fascista, specchio della falsa coscienza del regime, frena in parte l’intensità della nostra umana partecipazione. Anche perché le vittime causarono anch’esse altre vittime, e alcune, oltre a combattere dalla parte sbagliata, uccisero e torturarono.
Questi documenti vanno comunque sottratti all’oscurità cui li condanna una parte politica, non tanto per una generica volontà di restituire voce e dignità ai vinti, e comprendere, pur in assenza di condivisione, l’entità della tragedia della guerra civile, quanto per rappresentare le contraddizioni interne alla storia dell’emancipazione delle donne, liberando questa storia dai facili schematismi e dalle costruzioni ideologiche.
Certamente le adunate fasciste permisero alle donne di uscire dai luoghi privati e di essere protagoniste di spazi pubblici, di conquistare la piazza, di essere come i loro fratelli (“non eravamo libere di uscire da sole, di incontrare amici, di andare a cinema, ma la divisa e le adunate ce ne davano l’opportunità. Si percepiva di essere prese in considerazione, di essere parte di un tutto, forse per la maggioranza era la patria, non il fascismo, anche se nessuna, o quasi, aveva l’idea di che cosa fosse esattamente”), ma questo avveniva senza la minima consapevolezza di quello che il fascismo realmente era ed a costo di una militarizzazione autoritaria che non era certo la forma ideale dell’emancipazione femminile.
La retorica funeraria di un regime che aveva ormai i giorni contati provò a cavalcare fino in fondo il motivo epico della “bella morte”, inondando le canzoni delle giovani donne votate al sacrificio: “O giovane ragazza / Che parti volontaria / Per fare l’ausiliaria / Ricorda che la vita / Non sempre sarà bella ....”. E ancora: “Cara Mamma, parto volontaria / Dammi un bacio senza lacrimar..../ ...a noi la morte non ci fa paura, / ci si fidanza e ci si fa l’amor”.
Quando si studieranno accuratamente questi testi, riuscirà facile forse far emergere temi cari ad un languido e stucchevole romanticismo tipico di una letteratura femminile da romanzi d’appendice, che si declina nelle forme del nuovo eroismo. E si potrà anche mostrare come il vento di questa modernizzazione autoritaria dei ruoli e dei compiti delle donne aveva investito anche il rapporto con la famiglia, in particolare con i padri, che si opposero spesso alle decisioni dell’arruolamento, mentre le figlie si sentivano sacerdotesse e garanti del nuovo ordine.
Si era realizzata con successo una sorta di militarizzazione della mente di ragazze molto giovani insieme all’elaborazione di una sacralità laica e pubblica, che sarà ricorrente in molti regimi totalitari del secondo Novecento, per esempio quelli del Vietnam o della Cambogia. Questo fa pensare che questa militarizzazione della mente femminile non fosse soltanto il prodotto di un regime disperato che avverte la sua fine, ma sembra porsi come un modello attraverso il quale si procede alla ricostruzione di un tessuto sociale e si elabora un rito collettivo, che, comunque, passa attraverso la soppressione di libertà, atrocità, esposizione dei cadaveri.
In ogni caso è interessante osservare che le donne soldato di questo periodo, ausiliare o partigiane, per motivi opposti sparirono dalla visibilità pubblica: le prime, perché traditrici e da rinnegare, le seconde perché probabilmente ingombranti e possibili concorrenti nel gestire lo spazio politico della ricostruzione di un paese.
* QUADERNI di antropologia e scienze umane. Quadrimestrale del Laboratorio Antropologico del Dipartimento di Scienze umane, filosofiche e della formazione dell’Università di Salerno, DONNE IN ARMI. ANTROPOLOGIA E STORIA/1, numero 3, pp. 120-123, NOVEMBRE 2014, Paolo Loffredo - Iniziative Editoriali.
Sul tema, in rete e nel sito, cfr.:
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA.
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
FLS
PSICOANALISI, POLITICA, E SOCIETA’. "PADRI", "FIGLI", E QUESTIONE ANTROPOLOGICA - "EDIPICA"...*
I giovani infelici
di Pier Paolo Pasolini ("primi giorni del 1975")*
Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri.
Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti.
È il coro - un coro democratico - che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale.
Confesso che questo tema del teatro greco io l’ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto «altrove» e in un «altro tempo». Non senza una certa ingenuità scolastica, ho sempre considerato tale tema come assurdo e, a sua volta, ingenuo, «antropologicamente» ingenuo.
Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri. Senza scampo, perché i figli non solo sono nati, non solo sono cresciuti, ma sono giunti all’età della ragione e il loro destino, quindi, comincia a essere ineluttabilmente quello che deve essere, rendendoli adulti.
Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio, per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato molto di capire, di fingere di non capire, di contare sulle eccezioni, di sperare in qualche cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento è di condanna. I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Alla fine - cioè oggi, primi giorni del ’75 - il mio sentimento è, ripeto, di condanna. Ma poiché, forse, condanna è una parola sbagliata (dettata, forse, dal riferimento iniziale al contesto linguistico del teatro greco), dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è una «cessazione di amore»: cessazione di amore, che, appunto, non da luogo a «odio» ma a «condanna».
Io ho qualcosa di generale, di immenso, di oscuro da rimproverare ai figli. Qualcosa che resta al di qua del verbale: manifestandosi irrazionalmente, nell’esistere, nel «provare sentimenti». Ora, poiché io - padre ideale - padre storico - condanno i figli, è naturale che, di conseguenza, accetti, in qualche modo l’idea della loro punizione.
Per la prima volta in vita mia, riesco così a liberare nella mia coscienza, attraverso un meccanismo intimo e personale, quella terribile, astratta fatalità del coro ateniese che ribadisce come naturale la «punizione dei figli».
Solo che il coro, dotato di tanta immemore, e profonda saggezza, aggiungeva che ciò di cui i figli erano puniti era la «colpa dei padri».
Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo; ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine.
La colpa dei padri che i figli devono pagare è dunque il «fascismo», sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove - nuove senza equivalenti possibili nel passato?
Mi è difficile ammettere che la «colpa» sia questa. Forse anche per ragioni private e soggettive. Io, personalmente, sono sempre stato antifascista, e non ho accettato mai neanche il nuovo potere di cui in realtà parlava Marx, profeticamente, nel Manifesto, credendo di parlare del capitalismo del suo tempo. Mi sembra che ci sia qualcosa di conformistico e troppo logico - cioè di non-storico - nell’identificare in questo la colpa.
Sento ormai intorno a me lo «scandalo dei pedanti» - seguito dal loro ricatto - a quanto sto per dire. Sento già i loro argomenti: è retrivo, reazionario, nemico del popolo chi non sa capire gli elementi sia pur drammatici di novità che ci sono nei figli, chi non sa capire che essi comunque sono vita. Ebbene, io penso, intanto, che anch’io ho diritto alla vita - perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. Inoltre per me la vita si può manifestare egregiamente, per esempio, nel coraggio di svelare ai nuovi figli, ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.
I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.
Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti, che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, ne forse capacità di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto al loro coetanei di dieci o vent’anni prima, ma non abbastanza. L’integrazione non è un problema morale, la rivolta si e codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamente contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti - sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita - a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio - dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare. In questa enorme massa (tipica, soprattutto, ancora una volta!, dell’inerme Centro-Sud) ci sono delle nobili élites, a cui naturalmente appartengono i figli dei miei lettori. Ma questi miei lettori non vorranno sostenere che i loro figli sono dei ragazzi felici (disinibiti o indipendenti, come credono e ripetono certi giornalisti imbecilli, comportandosi come inviati fascisti in un lager). La falsa tolleranza ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce con l’essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse, naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione.
Certo: i gruppi di giovani colti (del resto assai più numerosi di un tempo) sono adorabili perché strazianti. Essi, a causa di circostanze che per le grandi masse sono finora solo negative, e atrocemente negative, sono più avanzati, sottili, informati, dei gruppi analoghi di dieci o vent’anni fa. Ma che cosa possono farsene della loro finezza e della loro cultura?
Dunque, i figli che noi vediamo intorno a noi sono figli «puniti»: «puniti», intanto, dalla loro infelicità, e poi, in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi (questo è il nostro sentimento, insopprimibile).
Ma sono figli «puniti» per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. È giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda, senza risposta, del motivo dominante del teatro greco.
Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione - che pareva cosi ciecamente irrazionale e crudele - del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati - in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano - dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi.
Resta sempre tuttavia il problema di quale sia in realtà, tale «colpa» dei padri.
È questo che sostanzialmente, alla fine, qui importa. E tanto più importa in quanto, avendo provocato una cosi atroce condizione nei figli, e una conseguente così atroce punizione, si deve trattare di una colpa gravissima. Forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana. E questi padri siamo noi. Cosa che ci sembra incredibile.
Come ho già accennato, intanto, dobbiamo liberarci dall’idea che tale colpa si identifichi col fascismo vecchio e nuovo, cioè coll’effettivo potere capitalistico. I figli che vengono oggi cosi crudelmente puniti dal loro modo di essere (e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile), sono anche figli di antifascisti e di comunisti.
Dunque fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari, hanno una colpa in comune. Tutti quanti noi, infatti, fino oggi, con inconscio razzismo, quando abbiamo parlato specificamente di padri e di figli, abbiamo sempre inteso parlare di padri e di figli borghesi.
La storia era la loro storia.
Il popolo, secondo noi, aveva una sua storia a parte, arcaica, in cui i figli, semplicemente, come insegna l’antropologia delle vecchie culture, reincarnavano e ripetevano i padri.
Oggi tutto è cambiato: quando parliamo di padri e di figli, se per padri continuiamo sempre a intendere i padri borghesi, per figli intendiamo sia i figli borghesi che i figli proletari. Il quadro apocalittico, che io ho abbozzato qui sopra, dei figli, comprende borghesia e popolo.
Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo.
Tale unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello «sviluppo». Non si può dire che gli antifascisti in genere e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario - per la prima volta veramente totalitario - anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività).
La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di non antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberarti della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti «i nostri fratelli cretini», come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l’accettazione - tanto più colpevole quanto più inconsapevole - della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo.
Perché tale complicità col vecchio fascismo e perché tale accettazione del nuovo fascismo?
Perché c’è - ed eccoci al punto - un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.
In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
* Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane. Roma 1991, 5-12.
*SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FACHINELLI, PASOLINI E IL LORO DIALOGO IN-INTERROTTO ... (Alfabeta 2, 28.06.2018)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA STORIA DEL FASDCISMO ... *
Il massacro del 1937. Guerini: «Andrò in Etiopia a chiedere perdono per Debre Libanos»
Anche dal cardinale Bassetti è arrivata una richiesta analoga per quei cattolici che sostennero le mire colonialistiche del regime fascista
di Gianni Santamaria (Avvenire, mercoledì 26 febbraio 2020)
«Debre Libanos è il crimine di guerra più grave che l’Italia ha commesso e oggi deve assumersi tutte le conseguenze che esso comporta». Con queste parole il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha annunciato che si recherà in Etiopia sul luogo dell’eccidio a «rendere omaggio alle vittime e alla verità».
Guerini ha espresso questa intenzione dell’Italia di assumere «le sue responsabilità, di fronte alla storia, con tutto quello che ciò comporta» in occasione della presentazione del libro di Paolo Borruso "Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia", nella sede della Comunità di Sant’Egidio, a Roma.
Una richiesta di perdono per quei cattolici che sostennero le mire colonialistiche del regime fascista è arrivata dal presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti. «Mi dispiace la mancanza di spirito fraterno da parte di tanti cattolici degli anni Trenta. Oggi, come vescovo, chiedo scusa ai fratelli dell’Etiopia per la mancanza di rispetto che si ebbe nei confronti dei loro padri», ha detto il porporato.
Non fu la Chiesa, ma il regime fascista a compiere l’eccidio di monaci copti, ragazzi e intere famiglie, ha ricordato lo storico Andrea Riccardi, fondatore della comunità trasteverina e autore della prefazione al volume. Per la strage, «su cui non è mai stata fatta luce», c’è un dovere di riconoscimento da parte dello Stato e delle Forze armate, «ma anche la Chiesa deve assumersi la responsabilità di una cultura del disprezzo verso i cristiani etiopici e una santificazione della guerra».
L’eccidio è stato il culmine di una campagna di propaganda razzista del regime. C’è, dunque, un dovere di portare avanti la verità storica, anche se gli etiopi - ha concluso lo storico - con «nobiltà d’animo», non hanno mai preteso le scuse dall’Italia.
Nella cittadella-monastero di Debre Libanos, totalmente distrutta, su ordine del maresciallo Graziani le truppe italiane misero in atto il più grande massacro di cristiani mai perpetrato in Africa: secondo gli storici tra le 1.800 e le 2.200 persone.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
Ripensare i Patti Lateranensi
di Vincenzo Pacillo (Il Mulino, 12 febbraio 2020)
L’ 11 febbraio 1929 venivano sottoscritti presso il Palazzo del Laterano i tre atti giuridici (Trattato, Concordato e Convenzione finanziaria) che posero fine alla «questione romana». I «Patti Lateranensi», termine con il quale si indicano contestualmente gli atti suddetti, furono firmati per la Santa Sede dal cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri e per il Regno d’Italia dal capo del governo Benito Mussolini: tali patti, a norma dell’articolo 7 della Costituzione italiana, rappresentano ancor oggi (seppur con le modificazioni avvenute nel 1984, le quali hanno riguardato esclusivamente il Concordato) lo strumento giuridico fondamentale diretto a regolamentare i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica (entro i limiti, ovviamente, posti dalla Carta fondamentale e attraverso un apparato di leggi di esecuzione che, nel sistema delle fonti, occupano lo stesso rango della Costituzione).
Il modello della regolamentazione pattizia dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica è stato esteso, a norma dell’articolo 8 della Costituzione, alle relazioni tra lo Stato e tutte le confessioni religiose: la Carta fondamentale ha infatti previsto le intese, atti di diritto pubblico interno bilateralmente convenuti e negoziati tra i rappresentanti della confessione religiosa interessata e i soggetti costituzionalmente competenti per parte dello Stato (il governo, per quanto riguarda l’avvio delle trattative, il sottosegretario-segretario del consiglio dei Ministri e una apposita commissione per la redazione della bozza, il consiglio dei Ministri per l’autorizzazione alla firma dell’intesa da parte del presidente del Consiglio), quale presupposto necessario di ogni legge diretta a regolamentare i rapporti tra Stato e confessioni religiose diverse dalla cattolica. Le confessioni prive di intesa continuano a vedere i loro rapporti con lo Stato disciplinati dalla legge n.1159 del 24 giugno 1929.
A novantuno anni dalla stipulazione dei Patti Lateranensi, il modello bilaterale nato l’11 febbraio 1929, e successivamente confermato e ampliato dal legislatore costituente, sembra piuttosto invecchiato. Il Paese mostra una geografia religiosa profondamente diversa da quella dell’anno VII dell’era fascista, e non solo perché la percentuale di residenti che si dichiarano cattolici è scesa dal 99 al 71%, e solo il 25% della popolazione può essere inclusa nel novero dei «cattolici praticanti». Più in generale, secondo le scienze sociologiche, la secolarizzazione ha condotto i gruppi religiosi istituzionali - di cui l’espressione «confessioni religiose» utilizzata dal Costituente vuole essere sinonimo - a essere socialmente meno determinanti rispetto al passato per ciò che riguarda la costruzione dell’identità spirituale degli individui. Soprattutto i residenti under 30 tendono a coltivare una spiritualità sempre più spesso svincolata da un’appartenenza totale e stabile, preferendo la costruzione di un vissuto in cui vi è una sorta di «bricolage spirituale», un soggettivismo non istituzionalizzato in cui dogmi e pratiche (talora appartenenti a culti diversi) si uniscono a ideologie forti e stili di vita, come il veganismo, l’animalismo, l’antispecismo.
Di fronte a questa «de-istituzionalizzazione» della spiritualità, ci si chiede come sia possibile che solo alcuni gruppi istituzionalizzati siano titolari del diritto (e del potere) di vedere i propri rapporti con lo Stato regolamentati da una legislazione negoziata, tanto più che la recente sentenza n.52/2016 della Corte costituzionale ha - di fatto - ristretto la responsabilità del governo in caso di rifiuto di avviare le trattative con una confessione interessata all’intesa a una dimensione meramente politica (avallando, di fatto, un’ampia discrezionalità dell’esecutivo nel misurare il grado di «religiosità percepita e accettata» di fronte a una controparte).
L’impressione è che oggi gli individui esercitino la propria libertà di coscienza e di religione entro gruppi intermedi diversi dalle «confessioni religiose» così come le intendeva il Costituente; si hanno - in generale - fenomeni aggregativi socialmente e costituzionalmente rilevanti in gruppi diversi da quelli presi in considerazione dagli artt. 7 e 8, per i quali non è però previsto alcuno status giuridico peculiare.
A ciò si aggiunga il fatto che il concetto giuridico di «religione» diventa sempre più liquido: per cui, nelle scorse settimane, corti inglesi e statunitensi hanno stabilito una vera e propria equiparazione giuridica tra religione da una parte e veganesimo (la corte inglese) e satanismo (la corte statunitense) dall’altro. La frammentazione del concetto giuridico di religione, che si somma allo straordinario panorama di gruppi più o meno numerosi e diffusi che si autoqualificano come «religiosi», conduce inevitabilmente a un’incertezza pressoché totale sull’effettiva identità dei soggetti ammissibili alla stipulazione dell’intesa, e di conseguenza alla dimensione (privilegiata) della legislazione contrattata.
Nell’ordinamento costituzionale italiano la bilateralità tra Stato e confessioni è uno strumento ragionevole di governance del fatto religioso solo se essa viene attuata nel rispetto dei principi di laicità, di uguaglianza senza distinzione di religione e di uguale libertà dei culti. Da questo punto di vista, il quadro cui assistiamo nel presente è a dir poco sconfortante.
Due tra i gruppi di minoranza più numericamente significativi nel Paese - ossia musulmani e testimoni di Geova - vedono i rapporti della loro confessione di appartenenza con lo Stato regolati ancor oggi dalla legge 1159/1929: e questo vuoi per questioni endogene o esogene rispetto alla situazione politica generale, vuoi per un vuoto normativo che ancor oggi non riesce a puntellare in modo soddisfacente diritti e doveri delle parti contraenti, affidandoli a una prassi giocoforza piuttosto duttile (se non addirittura «liquida»).
Ma dietro questo fallimento se ne staglia subito un altro, strettamente connesso all’insopprimibile diversificazione e al relativo aumento dei gruppi religiosi presenti in Italia: per cui a oggi l’ipotesi di stipulare intese anche con soltanto la metà di questi ultimi è sospesa in un mondo lontanissimo, senza né tempo né spazio, e consente all’interprete di decretare la fine del progetto di politica ecclesiastica descritto dal terzo comma dell’art. 8 Cost. per impossibilità sopravvenuta. Se non si pensa a una soluzione alternativa, la stanca riproposizione delle dinamiche di politica ecclesiastica dell’ultimo trentennio è destinata soltanto a ridefinire ed aumentare le disuguaglianze, la discrezionalità non laica, il ruolo discriminatorio delle intese.
Senza contare che la stessa definizione giuridica di religione, tanto pericolosa e complessa quanto in fondo richiamata dalla stessa idea che i rapporti tra Stato e confessioni siano regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze, è oggi profondamente in questione da parte di numerosi autori, i quali evidenziano la necessità che essa si svincoli dai parametri della tradizione degli almanacchi statistici per aprirsi a quelle nuove forme di sacralità (anche provocatoria, come il Pastafarianesimo) introdotte nell’era della globalizzazione digitale.
E infine, ancora più vicina, la questione dell’ateismo organizzato. È possibile che la parificazione tra Chiese e «organizzazioni filosofiche e non confessionali» operata dall’art. 17 Tfue sia destinata a continuare a essere giudicata priva di effetti da parte della giurisprudenza amministrativa italiana? Il fatto che la secolarizzazione - quantomeno in Europa - tenda a far crescere in modo rilevante chi non si riconosce in una fede non metterà in crisi il modello che vuole escludere i gruppi che ne rappresentano gli interessi da quei diritti (di concorrere alla ripartizione del finanziamento pubblico o di rispondere - nella scuola pubblica - a eventuali richieste in ordine allo studio del fatto religioso) che spettano alle confessioni in cui rapporti con lo Stato siano regolati per legge sulla base di intese?
Forse l’intero sistema sarebbe da ripensare: ma una certa retorica sulla «Costituzione più bella del mondo» rischia oggi di far apparire assai impervio un percorso di modifica degli articoli 7 e 8 della Carta fondamentale (in quale direzione, poi?): con la conseguenza, che - al netto di moltissimi e pregevolissimi studi teorici sul principio supremo di laicità dello Stato - l’11 febbraio continua a essere ricordato come la «festa dello status quo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Storia.
Debre Libanos, il vero volto dell’Italia fascista
La strage compiuta nel ’37 dagli uomini del generale Graziani è un’eredità con la quale risulta difficile fare i conti. Un libro indaga i fatti e i decenni di tentativi di occultare tanta ferocia
di Andrea Riccardi (Avvenire, giovedì 23 gennaio 2020)
Debre Libanos è il più importante monastero d’Etiopia: è il cuore della Chiesa etiopica, la più antica Chiesa africana con caratteri veramente originali, maturati lungo i secoli. Il cristianesimo etiopico è stato l’asse portante del secolare impero che il negus neghesti Haile Selassie incarnava. Il negus rappresentava il legame con la tradizione nazionale, era il protettore della Chiesa, formalmente dipendente dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, ma in realtà sotto il controllo dei sovrani. [...] -A Debre Libanos avvenne una tremenda strage di monaci, diaconi, sacerdoti, fedeli, giovani, studenti, addirittura vicini della stessa area geografica, compiuta dagli italiani nel 1937, specie tra il 20 e il 29 maggio, come risposta all’attentato al viceré, maresciallo Graziani. Questo è il più grave crimine di guerra commesso dall’Italia. Ma, in Italia, non si è parlato di Debre Libanos. L’ha fatto solo qualche studioso coraggioso, come Angelo Del Boca, che ha ricostruito gli aspetti oscuri della guerra d’Etiopia.
In questo libro (Debre Libanos 1937) lo storico Paolo Borruso ripercorre non solo la vicenda della strage, ma anche il tempo in cui viene dimenticata e accantonata, per la resistenza degli ambienti e delle istituzioni italiane del secondo dopoguerra, per la volontà radicata di non ridiscutere il mito degli italiani «brava gente» e di dare un’immagine edulcorata del fascismo. In realtà, la politica coloniale del fascismo è rivelatrice del volto oscuro del regime e della logica di violenza e di odio che lo pervadeva.
Debre Libanos ha rappresentato il culmine e il simbolo della disumanizzazione degli italiani nel conflitto etiopico e nella successiva repressione. [...] Quello che avvenne a Debre Libanos nel 1937 è una sequenza drammatica, degna dei più gravi episodi della seconda guerra mondiale. Fu una strage voluta e non casuale. I comandi italiani ebbero coscienza che si trattava di un atto veramente grave, che poteva scuotere la sensibilità delle truppe. Tanto che utilizzarono anche le truppe coloniali (musulmane) nella strage dei monaci e nella distruzione della chiesa e delle residenze monastiche, per evitare di urtare i cristiani (italiani o coloniali) con l’assassinio dei religiosi innocenti. Successivamente alla strage, senza deflettere da una logica di crudeltà continuata con altre uccisioni e con le deportazioni nei campi di concentramento, le autorità italiane provarono a nascondere l’accaduto o almeno a minimizzarlo: operazione impossibile, perché la realtà parlava. Del resto erano eloquenti di per sé le rovine della chiesa e degli insediamenti monastici.
Lo studio della vicenda di Debre Libanos non può esimersi dal chiedersi perché fosse necessaria tanta ferocia. Tale spietatezza ha avuto come risultato politico lo spingere gli etiopici su posizioni di resistenza, com’è avvenuto durante il governo coloniale del maresciallo Graziani.
Perfino Mussolini, che aveva appoggiato le crudeltà del maresciallo, si accorse che si trattava di una politica sbagliata e si vide costretto a cambiare la linea del governo coloniale, promuovendo viceré il duca d’Aosta. Questi, in controtendenza, s’im- pegnò invece in una politica di valorizzazione delle strutture sociali locali e di pacificazione con la Chiesa etiopica. Tuttavia la crudeltà era, in qualche modo, «necessaria », per come la conquista etiopica era avvenuta e per l’impronta totalitaria del regime, rivelatasi chiaramente nell’impresa coloniale. Potrà sembrare un’affermazione paradossale: la crudeltà era necessaria, perché il fascismo con questa guerra agiva in modo totalitario e mostrava il suo volto totalitario.
Si doveva sradicare la società etiopica, che aveva una struttura elaborata, connessa a uno Stato indipendente, membro della Società delle Nazioni, fondata su stratificazioni storico-religiose. Ma come farla tornare indietro a essere solamente una terra di colonia, senza identità e storia? Per questo era necessario distruggere e sradicare. Si doveva fare del mondo etiopico quasi una «tabula rasa», incapace di resistere alla dura dominazione coloniale italiana.
Così anche il governo del duca d’Aosta (che pure rappresentò una pausa di respiro dopo le repressioni di Graziani) era destinato al fallimento. Il consueto sguardo bonario e autoassolutorio sulle storie italiche, magari abituato a indulgere sull’inefficienza italiana, nasconde la strategia che presiede alla conquista fascista dell’Etiopia: distruggere un mondo che aveva una dignità (con tutti i suoi limiti, la sua instabilità tradizionale e le sue arretratezze).
Questo mondo aveva il suo punto di forza nella connessione tra una monarchia consacrata religiosamente e la Chiesa etiopica: il monastero di Debre Libanos rappresentava questa connessione «sacra» con la sua storia e la sua presenza. [...]
La strage dei cristiani di Debre Libanos colpisce anche perché gli ufficiali e i soldati italiani venivano da un paese cattolico, che nel 1929 aveva riaffermato la sua cattolicità con i Patti del Laterano. E, proprio durante l’impresa etiopica, era emerso il consenso cattolico attorno al regime.
Tanto che Mussolini si disse soddisfatto per l’atteggiamento del clero e dell’episcopato nella guerra d’Etiopia: «altamente commendevole dal punto di vista patriottico et morale», scriveva ai prefetti nel 1935. Il consenso cattolico, come il cattolicesimo delle truppe e dell’ufficialità, non frena gli atti anticristiani sugli etiopi e i loro luoghi santi.
È un altro interrogativo interessante: come fu possibile tutto questo? C’è un capitolo della propaganda di guerra che riguarda specificamente il cristianesimo degli etiopi e che venne alimentato dai cattolici italiani, vescovi, religiosi e missionari. -La Chiesa etiope, la cosiddetta Chiesa täwahedo - ne ha scritto la storia in modo tanto documentato e ampio Alberto Elli -, dipendeva dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, nonostante la sua autonomia; ma era considerata scismatica dalla Chiesa cattolica. Ci fu una propaganda del disprezzo nei confronti dei cristiani etiopi e delle loro istituzioni ecclesiastiche, condotta dai religiosi cattolici. Fu un modo di legittimare dal punto di vista religioso la conquista italiana dell’Etiopia, ma anche di screditare agli occhi degli italiani la Chiesa etiopica, il suo personale, la sua liturgia e i suoi ambienti. [...] credo che la Chiesa italiana abbia aspettato troppo tempo a prendere coscienza di questa storia, che l’ha vista - certo non attivamente, ma convintamente - sullo scenario di una guerra e di operazioni repressive, solidale con il regime nell’opera di discredito dell’altro etiopico, a cui si negava persino la qualità di cristiano. In realtà, scrivendo del martirio cristiano nel XX secolo, ho sentito anni fa la responsabilità di parlare dei caduti di Debre Libanos come di «nuovi martiri» del Novecento. Tali infatti mi sembrano essere.
Naturalmente la responsabilità prioritaria delle stragi fu del governo, delle istituzioni e delle forze armate d’Italia. Dopo la guerra, furono bloccati i processi contro i principali responsabili, Graziani prima di tutto, ma anche il generale Pietro Ma-letti, che fu l’esecutore dei crimini a Debre Libanos.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha reso omaggio agli ex combattenti etiopici contro l’Italia fascista ad Addis Abeba, proprio nel luogo dove avvenne l’attentato a Graziani nel 1937. Ma stiamo ancora aspettando dalle istituzioni e dalle forze armate una presa di coscienza ufficiale sulla strage di Debre Libanos e le complessive repressioni del 1937. Quella strage rappresentò il culmine dell’assurdo in un processo di «imbarbarimento» dei soldati, necessario a condurre una lotta a oltranza per la distruzione delle strutture tradizionali e nazionali dell’Etiopia. [...]
La guerra italiana agli etiopici, all’impero cristiano e alla sua Chiesa, mostra con tutta evidenza il volto brutale del fascismo. Mette in luce anche la miopia di tanta parte del cattolicesimo, irretito nel nazionalismo (seppure Pio XI fosse critico sulla guerra fascista). In quegli anni, l’impasto di violenza coloniale, totalitarismo, razzismo (e poi di antisemitismo) rivela la realtà di quello che il fascismo è veramente stato e di come andava diventando col passare degli anni di dittatura.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Ex - "Impero"... ISTITUIRE LA GIORNATA DELLA MEMORIA per 500mila Africani uccisi dalla presenza coloniale italiana in LIBIA, ETIOPIA, E SOMALIA. UNA PROPOSTA DELLO STORICO ANGELO DEL BOCA
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
Centinaia di sindaci in marcia per Liliana Segre a Milano: "Cancelliamo le parole odio e indifferenza"
Corteo da piazza Mercanti a piazza Scala passando per la Galleria. Unico intervento quello della senatrice sotto scorta. In Galleria la gente canta "Bella Ciao" e grida "Liliana, Liliana". I sindaci le consegnano la fascia tricolore, la piazza canta l’Inno d’Italia
"C’è una grande musica in questa piazza, il tempio della musica oggi è all’aperto. Siamo qui per parlare di amore e non di odio. Lasciamo l’odio agli anonimi della tastiera. Basta odio, stasera non c’è indifferenza, ma c’è un’atmosfera di festa": Liliana Segre parla dal palco di piazza della Scala tra gli applausi, poi tutta la piazza si ferma per un minuto di silenzio, prima che il presidente di Anci consegni alla senatrice a vita una fascia tricolore e tutti cantino l’Inno d’italia. Seicento sindaci e loro rappresentanti, tutti con la fascia tricolore, ma senza simboli di partito, in prima fila i sindaci Beppe Sala, Leoluca Orlando, Giorgio Gori, Antonio Decaro. E tanta gente comune, a formare quella "scorta civile" per la senatrice a vita Liliana Segre e per dire che "l’odio non ha futuro". E’ stata la marcia dei sindaci, organizzata dal Comune di Milano,assieme all’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI), Autonomie Locali Italiane (ALI) e Unione Province Italiane (UPI), per testimoniare la vicinanza di piccoli, medi e grandi comuni alla senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta al campo di sterminio nazista di Auschwitz, oggi sotto scorta a causa di ripetute minacce antisemite.
Liliana Segre ai sindaci in piazza: "Lasciamo l’odio agli anonimi da tastiera"
"Tutti i sindaci indipendentemente dal colore politico sono arrivati da tutta Italia per dimostrare l’affetto nei confronti di Liliana Segre. Con la fascia tricolore che tiene insieme le nostre comunità ma anche il Paese". Così il presidente di Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro, ha parlato ai giornalisti del senso della marcia. Decaro ha spiegato che sono state circa 1000 le adesioni e che a Milano sono arrivati circa 600 sindaci. "Vogliamo dire con forza a tutti che non accettiamo nessun tipo di fanatismo, l’unico fanatismo che i sindaci accettano in questo Paese è quello per la libertà, la democrazia e il rispetto degli altri. - ha aggiunto -. Per questo oggi con le nostre fasce tricolori vogliamo fare da scorta civica a Liliana Segre. Oggi siamo tanti di tutti gli schieramenti politici". "Ci sono questioni sulle quali non ci si può dividere e i sindaci su questi temi non si dividono mai. Noi siamo qui oggi per condannare le parole di violenza che sono arrivate a Liliana Segre", ha concluso.
"Non siamo organizzatissimi in termini di ordine ma di idee sì, siamo tutti molto felici di essere qua e io spero che lo sarà soprattutto la Segre e il paese per questa nostra testimonianza di cui c’è bisogno": così il sindaco di Milano Beppe Sala alla partenza della marcia da piazza Mercanti, con qualche problema logistico per far partire il corteo tra la folla dello shopping di Natale. "Oggi è veramente la giornata per la Segre, della Segre, per l’Italia e infatti abbiamo deciso che nessuno dei sindaci parlerà dal palco, solo la senatrice - ha aggiunto -. A noi il gesto, a lei le parole e le parole di Liliana sono sempre le parole giuste".
Milano abbraccia Liliana Segre: centinaia di sindaci alla marcia contro l’odio
"Voi avete una missione difficile e apprezzo tantissimo che per qualche ora abbiate voluto lasciare i vostri compiti per questa occasione. Il vostro impegno può essere decisivo per la trasmissione delle memoria". Lo ha detto la senatrice a vita Liliana Segre rivolgendosi dal palco di piazza Scala a Milano, ai 600 sindaci in fascia tricolore. "Nell’Italia degli 8 mila Comuni c’è un giacimento straordinario di storia che può essere tramandata alla comunità. Una storia che resta relegata a musei, istituti, vie, pietre di inciampo. Sta alla sensibilità delle amministrazioni comunali fare in modo che questo giacimento non venga abbandonato" ha esortato la senatrice a vita. "Fare sì che quelle fredde lastre di pietra dei trasformino in occasioni antiretoriche per rinnovare un patto tra generazioni" ha concluso.
Il corteo attraversa per la prima volta la Galleria Vittorio Emanuele II e fermarsi in piazza della Scala, davanti a Palazzo Marino. Qui un solo intervento: quello della senatrice Segre, che si unisce alla marcia dall’Ottagono della Galleria. "Penso sia giusto che prenda la parola solo lei a conclusione della marcia perché la politica porterà la sua testimonianza e la voglia di essere la scorta della senatrice, aspettiamo le sue parole", ha detto il sindaco Sala.
"È importante essere qui dal punto di vista istituzionale sia dei cittadini perché è evidente che va contrastato un clima anche lessicale di odio e di intolleranza". Lo ha detto il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, in fascia tricolore in piazza Mercanti a Milano. "Il fatto di manifestare in prima persona è cercare di essere rappresentanti autorevoli, un modo diverso di fare politica e società civile. "Ha fatto benissimo Sala a non schierarsi dal punto di vista degli inviti politici, dobbiamo essere compatti".
Siamo qui "per dimostrare ancora una volta, al di là delle strumentalizzazioni politiche, che i sindaci della Lega sono contro ogni tipo di odio, di violenza e di razzismo e sono vicini alla senatrice Segre e tutte le persone che come lei hanno vissuto gli anni bui dello scorso secolo". Lo ha detto il sindaco di Chiuduno (Bergamo) Stefano Locatelli, responsabile enti locali della Lega, presente alla marcia.
"Non si può restare indifferenti di fronte al dilagare di intolleranza e odio, sentimenti che in alcuni casi possono tramutarsi in atti di violenza. La risposta di questa sera è straordinaria. Non c’è solo Milano in piazza, ma tutta l’Italia". Così il vice Ministro dell’Interno, Matteo Mauri, arrivando a Milano alla manifestazione "L’odio non ha futuro". "Qui c’è un Paese vivo - aggiunge il Vice Ministro - che scende in piazza per testimoniare vicinanza alla senatrice Liliana Segre, oggi purtroppo sotto scorta per le minacce antisemite ricevute, e per difendere i propri valori di tolleranza e di libertà contro ogni deriva estremista, contro il linguaggio dell’odio e delle paura che alcune forze politiche continuano a diffondere in modo meschino e irresponsabile. Grazie al sindaco di Milano Beppe Sala per aver pensato a questa bella iniziativa di solidarietà. Difendere la memoria storica è fondamentale perché rappresenta la base su cui si poggia la nostra convivenza civile". C’è anche l’eurodeputato del Pd Pierfrancesco Majorino.
Le adesioni arrivate sono, appunto, già più di seicento: la marcia lanciata da Beppe Sala e da Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, ha poi raccolto l’adesione della sindaca di Roma, Virginia Raggi: "L’odio non ha futuro Roma aderisce alla manifestazione che si terrà a Milano in favore di Liliana Segre, dopo gli insulti e le minacce intollerabili che ha ricevuto. Tutti insieme contro odio e razzismo", ha scritto Raggi su Facebook. Ci sono anche il sindaco di Bari e presidente di Anci Antonio Decaro e Chiara Appendino, sindaca di Torino Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, Giorgio Gori da Bergamo, Dario Nardella da Firenze, Virginio Merola da Bologna, Valeria Mancinelli da Ancona. Ci sono - dopo le polemiche con Matteo Salvini - anche sindaci del centrodestra, come quello di Cagliari Paolo Truzzu, Claudio Scajola da Imperia o come il leghista Mario Conte, primo cittadino di Treviso, il responsabile degli enti locali del Carroccio Stefano Locatelli. E c’è anche Roberto Di Stefano, il sindaco di Sesto San Giovanni che ha rifiutato la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, assieme all’assessore leghista Stefano Bolognini.
* Fonte: la Repubblica/Milano, 10.12.2019 (ripresa parziale - senza immagini).
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
La Tangentopoli del Duce
di Mario Avagliano (Nuovo Monitore napoletano, 02 settembre 2019)
È una sera qualsiasi del 1975, a Genova. Sul palco si esibisce l’attore Walter Chiari e all’improvviso lancia una provocazione al pubblico.
«Quando Mussolini fu appeso per i piedi a Piazzale Loreto - afferma -, dalle sue tasche non cadde nemmeno una monetina. Se i nuovi reggitori d’Italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle tasche di lor signori!»
La cronaca non ci dice se la sua battuta venne accolta dagli applausi, ma non c’è dubbio che l’attore, che aveva trascorsi giovanili nella Repubblica Sociale, esprimeva un luogo comune sulla presunta onestà del duce e del regime fascista che è ancora diffuso in Italia.
Una “fake-news”, si direbbe oggi, che viene fatta a pezzi dal prezioso lavoro di ricerca di Mauro Canali e Clemente Volpini in «Mussolini e i ladri di regime. Gli arricchimenti illeciti del fascismo» (Mondadori).
Un saggio che, attraverso documenti inediti provenienti dal Ministero delle Finanze, versati all’Archivio Centrale dello Stato e messi solo da poco a disposizione degli studiosi, ci fornisce un’impietosa radiografia del malaffare in camicia nera, facendo i «conti in tasca» ai gerarchi.
A partire dal capo assoluto del fascismo, che nel 1919 aveva fondato il suo movimento anche per combattere i profittatori di guerra (i cosiddetti “pescicani”), e che invece quando il 25 luglio 1943 perde il potere, è un uomo ricco, proprietario di numerosi terreni e immobili di pregio, molti dei quali prudentemente intestati alla moglie Rachele, e di un imponente complesso tipografico. Beni che saranno valutati, nel 1950, circa 2 miliardi. I vent’anni di potere assoluto hanno reso il «povero maestrino» e la «contadina sempliciona e rozza» di Predappio due ricchi borghesi.
La ricerca storica di Canali e Volpini prende le mosse all’indomani della caduta di Mussolini. È il 5 agosto e da pochi giorni il maresciallo Pietro Badoglio si è insediato al Viminale col suo governo tecnico-militare che ha spodestato il duce dopo un ventennio di regime, mettendolo agli arresti anche se, pudicamente, i giornali hanno parlato di "dimissioni".
Quel giorno, però, bando alla prudenza: quasi tutti i quotidiani riportano una notizia sensazionale. Il governo Badoglio ha istituito una commissione con il compito d’indagare sulle fortune accumulate dai gerarchi: i cosiddetti illeciti arricchimenti del fascismo.
Una vera e propria Tangentopoli ante litteram. Il duce e i ras del regime, un tempo intoccabili, temuti e riveriti da stampa e opinione pubblica, vengono sbattuti in prima pagina con l’accusa di corruzione e concussione.
Quello che il libro scoperchia è un autentico verminaio. Una storia di tangenti e appalti, di capitali che trovano riparo all’estero, di raccomandazioni, di festini e di sesso, di cricche e di prestanome; un intreccio perverso tra politica e affari, alla faccia del rigore e dell’onestà tanto proclamati dalla propaganda fascista.
Vicende a tratti grottesche, con fughe rocambolesche, rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni del water, tesori sepolti in giardino. Verbali di sequestro dettagliati e scrupolosi che testimoniano gli illeciti arricchimenti del fascismo: ville favolose, palazzi, pellicce, arazzi, gioielli scintillanti, fino al numero di posate in argento, all’ultima pantofola, calza e mutanda dei gerarchi inquisiti. Solo in piccola parte questi patrimoni torneranno nei bilanci dello Stato.
Alla ribalta salgono nomi eccellenti. Si scopre ad esempio che Alessandro Pavolini, il Robespierre nero, ministro del Minculpop, boss del cinema di regime, è pronto a tutto, anche a cambiare le leggi, pur di far felice l’amante, l’attrice e icona sexy Doris Duranti (la prima, assieme a Clara Calamai, ad apparire sullo schermo con il seno nudo).
L’integerrimo Roberto Farinacci, l’ideologo della purezza fascista, ha accumulato un patrimonio di centinaia di milioni: niente male per un ex ferroviere diventato avvocato copiando la tesi di laurea. Edmondo Rossoni, ex leader sindacale, considerato «la migliore forchetta del regime» e non solo perché usa pasteggiare con posate d’oro, si è invece costruito nel Ferrarese un vero e proprio impero immobiliare.
Il mercimonio e la corruzione non risparmiano neppure le pratiche per ottenere l’arianizzazione: diversi ebrei per sfuggire in questo modo alle leggi razziste sono costretti a versare ai gerarchi fascisti pesanti tangenti. C’è poi Mussolini e i suoi «affari di famiglia», con gli intrallazzi di Galeazzo e Edda Ciano, l’avidità di donna Rachele e la rapacità del clan della famiglia della sua amante Claretta Petacci.
Un libro necessario quello di Canali e di Volpini, che smitizza una volta di più le presunte virtù del fascismo italiano, che fu un regime dittatoriale, guerrafondaio e razzista e non brillò neppure per integrità morale, lasciando all’Italia repubblicana una triste e penosa eredità di corruzione della politica e della burocrazia.
È tornato il fascismo! Il fascismo come fantasma psichico
di Paolo Gervasi *
È tornato il fascismo. No, non parlo del governo in carica: mi piacerebbe si trovasse un nome diverso per le aspirazioni totalitarie della banda gialloverde (e del suo elettorato). Per il momento, il fascismo è tornato in libreria. Sugli scaffali delle librerie italiane proliferano titoli recentissimi che evocano il ventennio. Dalle Istruzioni per diventare fascisti di Michela Murgia a M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati. Da Il romanzo di Benito di Pasquale Chessa a Mussolini, il primo fascista di Hans Woller, passando per la riproposizione di Il fascismo eterno di Umberto Eco e degli scritti di Pasolini sul fascismo della società dei consumi, col titolo Il fascismo degli antifascisti.
Ero appena stato a Londra, per una conferenza tenuta al Warburg Institute intitolata Mnemonic Waves, “ondate mnemoniche”, quando in una libreria italiana ho registrato questa ondata di memoria del fascismo.
Il Warburg Institute nasce a Londra nel 1933 per sottrarre l’eredità di Aby Warburg alla Germania nazista, e diventa un punto di approdo per la diaspora degli studiosi tedeschi e austriaci in fuga dalla fascistizzazione dell’Europa continentale. È un centro di ricerca sulla memoria culturale, ma anche in sé un luogo che reifica la memoria di cosa è successo nel cuore del Novecento. Ce n’era abbastanza perché la mia mente facesse cortocircuito, e fosse assalita dal sovrapporsi di tre ondate mnemoniche.
Prima ondata: Roma, 11 febbraio 1929
Nel febbraio 1929, mentre Mussolini e Papa Pio XI firmano i Patti Lateranensi, Aby Warburg si trova a Roma. Warburg è uno storico dell’arte eterodosso, ed è convinto che le immagini siano forze viventi, che non solo rappresentano ma contengono e muovono energie psichiche ed emotive. Incorporati nelle immagini, una serie di archetipi dell’esperienza umana trasmigrano attraverso la storia e rivivono ogni volta che le loro formule espressive vengono riutilizzate. La simbologia del sontuoso cerimoniale che sancisce il patto tra Stato e Chiesa, e in particolare la processione eucaristica culminante a San Pietro, evoca in Warburg le immagini antiche dei rituali sacrificali, dalle quali emanano forze arcaiche, e la riattivazione di antiche superstizioni, non ultima quella antisemita. L’intuizione di Warburg sembra confermata: le immagini contengono fantasmi psichici, e ogni volta che un’immagine ricompare quei fantasmi si riversano sulla realtà. Agli occhi dello studioso il fascismo si manifesta come la reincarnazione di una violenza arcaica che le immagini sembravano aver bloccato. E che invece sta per rimettersi in moto.
Seconda ondata: Vienna, 1936
Ernst H. Gombrich è uno degli studiosi che a partire dalle idee di Warburg ha rivoluzionato il nostro modo di guardare le immagini. Nel 1938 lascia l’Austria e si rifugia a Londra, ma nel 1936 si trova ancora a Vienna e assiste sgomento all’infiltrazione nazista. Insieme allo psicologo freudiano Ernst Kris, decide di organizzare una mostra dell’artista francese Honoré Daumier, il Michelangelo della caricatura. Nella Francia dell’Ottocento Daumier ha contrastato con la sua satira visiva la restaurazione monarchica di Napoleone III e la reazione borghese alle spinte di rinnovamento sociale. Metterlo in mostra a Vienna è un modo per contrastare i filonazisti e schierarsi dalla parte della libertà “repubblicana”. La caricatura è assunta come uno strumento di lotta politica progressista. Ma qualcosa va storto: i due studiosi sono sopraffatti dall’inquietante sovrapporsi e confondersi delle caricature democratiche di Daumier e delle caricature della propaganda nazista, a cominciare da quelle antisemite.
La caricatura non è lo strumento di critica e razionale smascheramento del potere che avevano immaginato: sollecita risposte emotive e irrazionali, e può servire altrettanto efficacemente scopi opposti. Con la sua promessa di rivelare una verità nascosta, può mistificare e ingannare. Come se non bastasse, le immagini deformate che volevano evocare il negativo per esorcizzarlo sembrano prendere vita e invadere la realtà. Daumier aveva inventato un personaggio, Ratapoil, per satirizzare il tipico propagandista monarchico che si aggirava per le strade di Parigi. Ora Ratapoil si aggira per le strade di Vienna; la sua fisionomia è riconoscibile ovunque, ed ha le sembianze del propagandista nazista, del fiancheggiatore filotedesco. Warburg aveva ragione: le immagini contengono fantasmi. E i fantasmi influenzano la realtà in modi non sempre gestibili e controllabili razionalmente.
Terza ondata: Roma, estate 2017
Il sepolcro di Mussolini piove dal cielo al centro di Roma, in una mattinata afosa, non lontano da un gruppo di bambini che giocano a pallone. Il Duce ne esce illeso e redivivo, convinto di potersi riprendere l’Italia. Non si sbaglia di molto: vezzeggiato dal sistema dei media drogato di audience, favorito dalla memoria corta degli italiani e dal loro bisogno di idee chiare nell’età dell’incertezza, Mussolini torna a dominare la scena pubblica dell’Italia contemporanea. Chi lo manda in onda lo presenta come un comico, ma chi lo ascolta lo prende sul serio, e le idee portanti del fascismo tornano a sembrare non solo plausibili, ma auspicabili.
È quanto accade nel film Sono tornato, diretto da Luca Miniero e scritto da Nicola Guaglianone, interpretato da Massimo Popolizio, nel ruolo di Mussolini, e da Frank Matano, suo ingenuo scudiero. Nella sala cinematografica in cui io ho visto il film, un gruppo di giovanissimi adolescenti, tra i 12 e i 15 anni, inneggiava rumorosamente al Duce, rideva e approvava le sue affermazioni politicamente scorrette, completamente immune all’intento critico e satirico del film. La caricatura di Mussolini, pensata per ridicolizzare il fascismo e forse alludere alla attuale confusione tra comici e leader politici autoritari, torna a vivere, così fuori come dentro il film, innescando una reazione opposta a quella prevista dai suoi creatori. Il fantasma ancora una volta si incarna e irradia energie divergenti rispetto a quelle razionali di chi lo ha evocato.
È proprio questo inquietante meccanismo a tenere insieme le tre ondate mnemoniche: le immagini del passato contengono energie che eccedono il loro impiego intenzionale. I significati culturali e le risposte emotive e psichiche contenute nelle immagini si ribellano all’uso che si vuole farne, irrompono nella realtà e sembrano quasi sopraffarla con effetti imprevisti e incontrollabili. Come in una seduta spiritica impazzita, il passato si installa nel presente dicendo qualcosa di diverso da ciò che vorremmo fargli dire.
E il fenomeno diventa particolarmente evidente quando le rievocazioni riguardano il fascismo, cadavere insepolto continuamente rianimato nel contesto culturale e politico dell’Italia repubblicana per praticare una sorta di ventriloquio. Come conferma l’ultima ondata editoriale, si parla di attualità attraverso il fascismo. Seppure in modi e con metodi diversi, al cadavere viene chiesto di misurare il presente, o di metterlo in prospettiva.
Lo studio di Hans Woller è un’opera storiografica che riconduce la diffrazione e diffusione mondiale del fascismo alla figura del suo fondatore. È un tentativo di risituare storicamente un termine che ha perso la sua connotazione storica. E quindi è un’operazione opposta a quella, celebre, di Eco, che afferma l’esistenza di un ur-fascismo, un insieme di posture psicologiche “eterne” che costituiscono le linee-guida di ogni politica reazionaria. Ma anche quello di Pasolini è un fascismo a-storico: per Pasolini, anzi, il fascismo implicito della società dei consumi è perfino più pervasivo e totalitario del fascismo mussoliniano.
Murgia e Scurati fanno un passo ulteriore sulla strada del ventriloquio, in quanto assumono il punto di vista del fascismo. Lo fanno parlare direttamente, gli danno la parola. Alzando così la temperatura emotiva della seduta spiritica. Le Istruzioni per diventare fascisti sono un paradossale trattatello per la formazione dell’aspirante fascista. Un manuale di auto-aiuto che suggerisce come scrollarsi di dosso le ideologie democratiche e liberare il fascista interiore che è in ognuno di noi. Con tanto di fascistometro in appendice, un test che misura, a seconda del grado di adesione a una serie di affermazioni, il livello di fascismo raggiunto. Da questa lista di postulati, così come dal resto del pamphlet, si capisce che il fascismo di Murgia è attuale, le sue sembianze sono quelle delle politiche populiste dell’Italia di oggi: il passato parla per il presente.
M. Il figlio del secolo, invece, è un romanzo ambizioso e fluviale, che ricostruisce l’ascesa del fascismo e del suo fondatore, Mussolini, dalle origini rivoluzionarie alla presa definitiva del potere (con la promessa di esaurire l’intera parabola del fascismo in due altri volumi di prossima pubblicazione). Scurati ricostruisce minuziosamente (anche se la sua precisione storica e filologica è stata aspramente criticata) la cronaca quasi quotidiana della edificazione del regime, seguendo passo dopo passo il montare della frustrazione nel dopoguerra, l’esasperarsi dei conflitti sociali, il dilagare della violenza e la capacità fascista di alimentare il caos per poi dominarlo. Lo fa in un romanzo che è stato ingegnosamente definito “balzachiano”, in quanto il prisma attraverso il quale guardiamo gli eventi è la sfrenata, cinica e superomistica ambizione di Mussolini. In questo senso, il fascismo è raccontato dall’interno, giocando con il fascino torbido del punto di vista scorretto. Da questo libro scritto con la rapidità sincopata di un filmato d’epoca, a volte (involontariamente?) scattante come una comica cinematografica delle origini, esce il groviglio di emozioni che ha reso possibile l’affermarsi del fascismo, le energie psichiche morbose e contraddittorie alle quali Mussolini ha dato una forma. Naturalmente, anche qui il passato gioca di sponda col presente: la storia è anche quella di un popolo che, insofferente dello status quo, ha distrutto con ebbra irresponsabilità le proprie istituzioni democratiche e si è dato in ostaggio a un “movimento” che prometteva di cambiare tutto, guidato da uno scaltro e mediaticamente efficace “capitano”.
È tornato il fascismo! Il fascismo come fantasma psichico
di Paolo Gervasi *
Murgia e Scurati pensano il ventriloquio come critica e come esorcismo. Per entrambi, però, le immagini evocate sembrano eccedere l’intenzione critica, scavalcarla ed eluderla. Il fascismo davvero torna a parlare in questi due libri, e a riversare sulla realtà la sua forza emotiva. Non perché qualcuno possa fraintendere il contenuto intenzionale: il libretto di Murgia è un compiaciuto gioco intellettuale che parla a un gruppo di sodali consapevoli, in grado di leggere il paradosso, e non rischia nemmeno di sfiorare le convinzioni dei “nuovi fascisti”.
E il romanzo di Scurati non è certo un elogio del fascismo, per quanto cammini sul crinale della fascinazione del “male”, e sia reso a volte ambiguo dalle citate forzature storiche e da una gestione stilistica non sempre salda, in cui la scrittura a tratti kitsch sembra quasi contagiata dalla truculenza dei fatti narrati.
Eppure, proprio come nelle ondate mnemoniche descritte precedentemente, nelle immagini evocate da questi testi sembra avvenire quello che avviene nelle immagini studiate da Warburg secondo l’interpretazione di Didi-Huberman: una inversione dinamica. Ovvero, il manifestarsi simultaneo di tensioni e risposte emotive divergenti e perfino opposte. Alcuni moduli espressivi, riemergendo in contesti culturali e visivi diversi, possono rappresentare emozioni in conflitto con quelle originarie.
Ma nella sua stratificazione, l’immagine contiene la memoria di tutte le sue incarnazioni. Allo stesso modo, l’evocazione del fascismo in questi libri contiene, insieme all’antifascismo, anche il fascismo stesso: l’elemento critico e decostruttivo convive con un elemento che amplifica il senso della minaccia, ne conferma e trasmette la presenza. La metafora fascista descrive il presente convocando forze psichiche che non restano confinate nell’intenzione critica. L’esorcismo funziona a metà, e qualcosa del fantasma resta a infestare la realtà.
Questo accade non tanto perché i testi possano alimentare la propaganda “fascista”, ma perché mostrano quanto la cornice interpretativa del fascismo sia inadeguata. Come nel caso delle caricature di Daumier, utilizzano categorie politiche del passato per alludere a una situazione presente che si rivela però esorbitante. Il fantasma del fascismo diventa un termine di paragone ingombrante che finisce col nascondere più di quanto rivela.
Entrambi i testi - ma particolarmente quello di Murgia - pagano la loro impostazione “pasoliniana”: l’utilizzo cioè trans-storico di una categoria storica, e la costruzione di un “fascismo immaginario”, come lo ha definito la storica Alessandra Tarquini, che appiattisce differenze e distinzioni. Perché se è vero che esistono preoccupanti rigurgiti neofascisti, con una loro precisa fisionomia ideologica e storica che richiede accurate distinzioni concettuali, è altrettanto evidente la palese insufficienza analitica del fascismo come categoria interpretativa del presente, delle sue tensioni, delle sue contraddizioni, dei suoi slittamenti paradigmatici.
Del fascismo si vedono ricomparire semmai gli ingredienti di base, assemblati però in modi inediti e nebulosi, fatti agire in un contesto storico e politico in vertiginosa trasformazione, contaminati con elementi di innovazione delle tecnologie del controllo che hanno portato a parlare di biofascismo.
Sembra davvero poco utile continuare a chiamare fascismo tutto ciò che non riusciamo a comprendere e a mettere fuoco, riducendo così al noto il ribellarsi della realtà alle categorie intellettuali novecentesche: e non è un caso che nel testo di Murgia affiori spesso la colpevolizzazione dei media digitali e dei social network come strutturalmente predisposti a veicolare messaggi e mentalità fascisti. Al di là della provocazione, il fascistometro resta una grave banalizzazione, una sociologia del luogo comune (subito contrastata da una banalizzazione uguale e contraria). E a poco vale difenderlo evocando un analogo esperimento di Adorno, concepito con ben altri strumenti concettuali e soprattutto quando la ferita della barbarie nazifascista era ancora sanguinante.
Nel contesto democratico, la periodica esposizione del cadavere insepolto del fascismo non solo perde progressivamente la sua effettiva presa critica sul presente, ma assume un significato sempre più ambiguo e controverso. Come dimostra il lavoro di un esperto di resurrezioni del fascismo, Pasquale Chessa, che nel suo Romanzo di Benito analizza proprio il significato sociologico del continuo, inesausto ritornare della figura di Mussolini nella storia e nella cronaca dell’Italia repubblicana. Chessa analizza la riemersione periodica di diari e carteggi inediti, di memoriali e confessioni del Duce, che determinano il proliferare di storie segrete, ricostruzioni alternative dei suoi ultimi giorni, contro-verità sulla sua morte. Tutto rigorosamente falso, e proprio per questo tutto verosimile nell’immaginario collettivo: come accade per la moneta, la narrazione cattiva scaccia la buona, e le versioni contrastanti sovrascrivono la versione ufficiale contribuendo alla costruzione di un mito postumo che tende ad addolcire e a familiarizzare la figura di Mussolini.
In questo sorprendente e sterminato corpus di “mussolinerie”, Mussolini generalmente prende la parola: parla in prima persona dai suoi falsi diari, o nel falso carteggio con Churchill, o nel clamoroso pseudo-testamento scritto da Montanelli e intitolato Il buonuomo Mussolini, pubblicato semiclandestinamente nel 1947 ma riproposto in una sede editoriale prestigiosa e con grande successo di pubblico nel 1975. Il titolo parla da solo di un programma di umanizzazione, di un’apologia subliminale che mentre scagiona Mussolini dalle sue colpe più gravi, solleva un’intera popolazione dal peso della responsabilità che le deriva dalla memoria del consenso e dell’adesione. Non solo siamo stati tutti fascisti, ma, come Mussolini, siamo tutti brave persone, vittime delle circostanze, dei corrotti, degli stranieri, degli altri.
In ultima analisi, la riapparizione del fantasma del fascismo va interpretata sicuramente come un sintomo: segnala l’esistenza di tensioni psichiche, l’emergenza di pulsioni regressive che trovano una sempre più immediata traduzione nelle politiche attuali. Il romanzo di Scurati ha il merito di mostrare che l’Italia che si preparava ad accogliere il fascismo era un caotico crogiolo di emozioni violente col quale molti incauti apprendisti stregoni, non solo fascisti, hanno giocato fino a farlo esplodere.
Il paragone trans-storico rende evidente che siamo in un momento in cui un groviglio di emozioni analoghe preme sulla scena pubblica, e trova a gestirlo apprendisti stregoni non meno spregiudicati di quelli “storici”. Per questo l’inquietudine aumenta di fronte al sospetto che, vittime della compulsione al rincaro sensazionalistico necessaria a ottenere visibilità mediatica, anche gli e le intellettuali apparentemente più intransigenti e radicali finiscano col confondersi nella schiera degli apprendisti stregoni.
Quando Murgia spoglia l’individuo “civile” delle sue ipocrisie buoniste, della sua fragile armatura democratica, per lasciarlo nudo con i suoi impulsi bestiali, sembra quasi affermare l’assoluta naturalezza del fascismo: e la tensione della denuncia sembra dissolversi nella pura enunciazione di una potenza incontrastabile. Un brivido simile a quello provato da Warburg a Roma nel 1929 corre lungo la schiena quando leggiamo le ultime righe del libro:
«Sarà però anche la nostra vittoria: avremo riportato sulla bocca di tutti una parola che pochi decenni prima era associata ai morti e al passato, a una realtà creduta già scomparsa. Noi non scompariamo. Noi stiamo. E alla fine, nella storia come nella geografia, vince chi resta».
* Fonte: https://www.che-fare.com/fascismo-ritorno-biofascismo/ (17 Dicembre 2018).
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Lo scontro in atto tra la Weltdemokratie e il neofascismo
di Stefano Jorio (Alfabeta-2, 16 Giugno 2019)
Al Deutsches Historisches Museum di Berlino è aperta fino al 22 settembre la mostra «Weimar: l’essenza e il valore della democrazia». Con l’intento dichiarato di celebrare valori democratici oggi nuovamente in pericolo, la mostra racconta la storia della Repubblica di Weimar dalla sua nascita al successo elettorale del Partito Nazionalsocialista nel 1930: la storia di una Repubblica parlamentare progressista, democratica e tollerante, insidiata e poi abbattuta dalla destra autoritaria hitleriana. Questo quadro storico, assai semplificato, sembra indicare un doppio obiettivo di politica culturale da parte del museo.
«La democrazia liberale oggi non è più scontata ed è anzi in pericolo,» viene spiegato all’inizio del percorso. «Partiti autoritari vanno rafforzandosi anche in paesi di lunga tradizione democratica. Anche in Germania la fiducia nella democrazia liberale sembra diminuire.» Dopo avere diviso in due metà la storia della Repubblica di Weimar (prima e dopo il 1931, la fase progressista e la fase del collasso) i curatori annunciano che al pubblico verrà raccontata solo la prima parte: «i suoi inizi, le basi che pose nella politica e nella società, le idee e le azioni di chi costruì la prima democrazia tedesca. Con grande passione vennero allora negoziati compromessi, fu elaborato il diritto alla libertà e all’uguaglianza, furono avverate visioni sociali.» Foto e testi raccontano le campagne elettorali, le alleanze tra partiti, la disoccupazione e il riconoscimento sociopolitico delle donne; ricordano che la Repubblica istituì con faticosi compromessi l’assicurazione per i disoccupati ed emanò nel 1922 la Legge per la protezione della Repubblica che proibiva organizzazioni «ostili alla costituzione» e istituiva un tribunale speciale. La mostra spiega che giudici antirepubblicani usarono la legge con clemenza verso la destra eversiva e con severità verso i comunisti; menziona il grande successo nazionalsocialista alle elezioni del 1930 e ricorda Carl Von Ossietzky, caporedattore della «Weltbühne», condannato nel 1931 a diciotto mesi di prigione per aver denunciato il riarmo in corso (verrà arrestato nel 1933 dai nazisti e morirà dopo la detenzione in diversi campi di concentramento). A questo punto, conformemente a quanto annunciato, la cronaca degli eventi politici si interrompe; nelle sale finali viene illustrato il cosiddetto fermento culturale dell’epoca weimariana. La mostra ha evocato l’immagine di una democrazia viva ed entusiasta che soccombe alla violenza nazionalsocialista, ha raccontato la storia di una Repubblica inizialmente progressista, poi conservatrice e infine travolta dal successo della destra mistico-nazionalista e antidemocratica. È quanto potremmo l’obiettivo esplicito di politica culturale: evocare la Repubblica di Weimar per sensibilizzare il pubblico sul pericolo della situazione attuale e sul valore della democrazia.
Si tratta però di un’immagine parziale, perché nella Germania del primo dopoguerra anche i governi socialdemocratici sperimentarono soluzioni autoritarie. Fin dai suoi primi anni la Repubblica di Weimar - pur nell’entusiasmo progressista che diede voce alle donne e varò importanti misure sociali - vide l’antisemitismo rappresentato in parlamento, ebbe ministri antisemiti e si avvalse più volte dell’articolo 48 che sospendendo i diritti civili conferiva poteri eccezionali al Presidente. Nel 1919 il governo socialdemocratico di Scheidemann represse nel sangue la Lega di Spartaco facendosi aiutare dalle formazioni paramilitari dei Freikorps (Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg vennero uccisi dai sicari del ministro Noske).
«È bene non dimenticare,» ha scritto Giorgio Agamben, «che i primi campi di concentramento in Germania non furono opera del regime nazista, bensì dei governi socialdemocratici, che non soltanto nel 1923, dopo la proclamazione dello stato di eccezione, internarono sulla base della Schutzhaft migliaia di militanti comunisti, ma crearono anche a Cottbus-Sielow un Konzentrationslager für Ausländer che ospitava soprattutto profughi ebrei orientali.» La mostra sottace che l’autoritarismo hitleriano attecchì in un’epoca autoritaria, e che la classe dirigente della Repubblica di Weimar esprimeva già, nel suo insieme, un diffuso desiderio di governo forte. Il parlamento era stato sciolto tre anni prima che il presidente Hindenburg - uomo della destra conservatrice non nazionalsocialista - incaricasse Hitler di formare il governo; quella che venne chiamata “dittatura costituzionale”, apparentemente intesa a proteggere la Repubblica, fu in realtà la premessa del suo tramonto («nessuna costituzione della terra come quella di Weimar aveva così facilmente legalizzato un colpo di stato», poté scrivere Carl Schmitt).
Il Deutsches Historisches Museum di Berlino, nato nel 1987 per volere di Helmut Kohl, è il museo di storia nazionale della Germania. Viene attualmente amministrato e sovvenzionato con cinquanta milioni annui dalla Staatsministerin für Kultur und Medien, Monika Grütters, che risponde direttamente alla Cancelliera Merkel.
Le iniziative del museo sono dunque espressione immediata della politica culturale del governo tedesco che nel caso specifico di questa mostra evoca - grazie al parallelo storico - l’idea di una conflittuale ma autentica democrazia odierna che difende i diritti, vive del dibattito tra le parti, tutela i deboli e viene minacciata dalla nuova destra autoritaria come la democrazia liberale di Weimar fu minacciata (e poi distrutta) dal nazionalsocialismo. È l’obiettivo culturale implicito: opporre alla minaccia del neofascismo europeo il sistema aperto, tollerante e democratico della Weltdemokratie sorta a partire dagli anni Ottanta sull’alleanza tra il nuovo blocco industriale e i partiti di centro, i partiti conservatori e la socialdemocrazia. Questa rappresentazione lascia in ombra che anche l’odierna democrazia neoliberale, come la Repubblica di Weimar negli anni Venti, esprime dirette e genuine tendenze autoritarie.
Restiamo alla sola Germania. Nel luglio 2017 la legge bavarese sulla Gewahrsam Haft ha istituito - in una configurazione giuridica simile a quella realizzata dagli Stati Uniti a Guantanamo - una custodia cautelare prorogabile ad infinitum per ragioni di «pericolo incombente»; la riforma della polizia approvata nella stessa Baviera nel maggio 2018 consente di intercettare telefonate e aprire lettere senza autorizzazione della magistratura. Altri Länder tedeschi - tra i quali la Renania Settentrionale, la Bassa Sassonia e la Sassonia - intendono conformarsi alla normativa bavarese; la Sassonia-Anhalt e il Mecklenburg-Vorpommern hanno introdotto l’uso di cavigliere elettroniche per sorvegliare soggetti ritenuti «pericolosi» senza contestazione di reato né condanna. Dall’agosto 2018 sono attivi in Germania nove centri di «Arrivo, Distribuzione, Decisione ed Espulsione» definiti da più parti come campi di concentramento intesi a isolare i profughi dalla popolazione tedesca; alla società civile non è permesso entrare, i giornalisti in visita non possono restare soli con gli internati, tutto - anche le consulenze giuridiche - avviene sotto la regia delle autorità.
Nel luglio 2017 l’Oberlandesgericht di Amburgo ha tenuto in custodia cautelare per oltre quattro mesi un cittadino italiano accusato di «concorso psichico» al reato di disturbo della quiete pubblica (era puramente presente a una manifestazione di protesta durante la quale erano state lanciate pietre contro la polizia); il tribunale ha motivato la custodia cautelare con «lacune nell’educazione che in assenza di un percorso educativo lasciano sussistere il pericolo fondato di ulteriori reati».
Questa lista di cose tedesche rispecchia un processo globale. Al termine della sua fase progressiva, durata dal dopoguerra agli anni Settanta, la democrazia occidentale si è gradualmente evoluta in una forma politico-spettacolare in cui le funzioni storiche dello Stato nazionale, gradualmente dismesse, diventano funzioni di polizia interna e internazionale, e le tendenze autoritarie vengono giustificate con l’appello all’emergenza economica e alla sicurezza. Giorgio Agamben ha osservato e descritto in più libri questa configurazione politica nuova e ambigua, già legiferante, che in una crescente inerenza reciproca tra democrazia e totalitarismo moltiplica i campi di concentramento e sussume in toto la società civile sottoponendola alla sorveglianza economica, poliziesca e militare. All’estero conduce una guerra neo-imperialista globale permanente; all’interno prende le impronte digitali di tutti i cittadini, ha da tempo affidato al governo anche il potere legislativo, fa pattugliare le piazze dall’esercito (in Italia l’operazione «Strade sicure» è stata autorizzata dalla legge 125 del 24 luglio 2008) e si avvale del condizionamento subliminale nel quadro di un neo-consumismo di massa («La pubblicità è una droga, non per metafora, e gli spacciatori sono i media,» ha scritto Walter Siti).
Se da un lato la mostra al Deutsches Historisches Museum palesa lo scontro in atto tra la Weltdemokratie e i movimenti neofascisti, dall’altro indica che la democrazia neoliberale è cieca rispetto alle tendenze autoritarie diffuse ma anche a quelle tradottesi in legge nel corso degli ultimi decenni, tendenze che in Italia hanno reso possibile, ad esempio, il passaggio disinvolto di tanti elettori del Partito Democratico prima al “populismo” antiparlamentare del M5S, apertamente insofferente verso la funzione critica della stampa, e oggi a quello esplicitamente neofascista della Lega. Se i nuovi fascismi dovessero vincere lo scontro, procederanno sulla strada della militarizzazione, della sicurezza, dei campi di concentramento e del controllo totale. Rispetto a questo scontro, rispetto al pericolo di un regime autoritario esplicito, il governo centrista e socialdemocratico tedesco (di nuovo una Große Koalition, come negli anni Venti i due governi Stresemann e il secondo governo Müller) reagisce come reagirono i governi della Repubblica di Weimar e come sta reagendo l’ordine neoliberale europeo: senza la capacità o la volontà di ricondurre la marea montante della ribellione neofascista di massa a un clima politico già autoritario, e a un’attività legislativa che da decenni sospende i diritti fondamentali e smantella lo stato sociale riclassificando autoritariamente da vittima a parassita chi appartiene alle fasce più deboli della popolazione.
L’establishment tedesco guarda spaventato l’ascesa di un autoritarismo nazionalista sostenuto dagli strati più involuti della plebe e del ceto medio, ma non riesce a raccontare per intero la Repubblica di Weimar né il suo trapasso graduale, senza scosse, dalle misure di emergenza alla sospensione dei diritti, dall’autonomia decisionale del presidente al fascismo.
Federico La Sala
Scheda editoriale
Me ne frego
di Benito Mussolini
Discorsi, articoli e interventi pubblici di Benito Mussolini, pronunciati e scritti tra il 1904 e il 1927. Le parole che hanno costruito l’immaginario fascista. Un linguaggio che continua a segnare il nostro presente.
“Quelle parole, con il loro carico di immaginario, sono tornate a circolare nella nostra mente e spesso nel nostro linguaggio parlato. Sono tornate a essere ’parole gridate՝ e non più solo ’parole sussurrate՝. E la forza del grido, se senza contrasto, le rende ’parole ammesse՝. Ovvero ’legittime՝.”
David Bidussa
“Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalitari e illegalitari a seconda delle circostanze di tempo, di luogo, di ambiente, in una parola ’di storia՝ nelle quali siamo costretti a vivere e ad agire. [Non siamo] una chiesa; piuttosto una palestra. Non siamo un partito; piuttosto un movimento."
Benito Mussolini, 1921
Tre motivi per leggerlo:
Perché le parole pesano e vanno riconosciute. “Me ne frego”, “tiro dritto”, “prima gli italiani”, “chi si ferma è perduto” sono espressioni fasciste, e ora di nuovo nel linguaggio diffuso, cui il governo gialloverde strizza l’occhio e che ci riportano a una certa idea di società, dove la politica è solo un mezzo per affermarsi e zittire l’avversario.
Perché leggere Mussolini è scioccante ma rivelatore. È lui l’inventore dell’antipolitica, della critica sprezzante dello Stato, dello sberleffo delle istituzioni. Le sue parole ci riportano al tempo in cui il fascismo ha occupato il posto lasciato libero dai partiti di allora, così come sta succedendo oggi in Italia.
Perché anche negli anni Venti l’opinione pubblica credeva di poter cambiare le cose, convinta che le parole di Mussolini fossero finalmente il segno che l’Italia non era più nelle mani dello straniero, dei “professionisti della politica, della classe dirigente corrotta, servile, prigioniera dei poteri forti (soprattutto stranieri)”.
David Bidussa (Livorno, 1955) è uno scrittore, giornalista, saggista, storico italiano. Ha insegnato nei licei, è stato lecturer presso la Hebrew University di Gerusalemme tra il 1982 e il 1984. Dal 1988 ha collaborato con Radio Popolare e con “l’Unità”, “il manifesto”, “Linus”, “Diario”, “il Secolo XIX”, “il Riformista”, “Reset”, il domenicale del “Sole 24 Ore”. Ha scritto saggi sull’ebraismo, sul sionismo, sul movimento socialista francese e sulla Repubblica di Vichy. Per Chiarelettere ha curato le antologie Siamo italiani. La questione morale (con scritti di Berlinguer, Capitani, Einaudi, Malaparte, Moro, Prezzolini, Salvemini...), Odio gli indifferenti, con gli scritti di Antonio Gramsci, The time is now, sul Sessantotto in Italia e nel mondo, La vita è bella, con gli scritti di Leon Trotzky, e Lettera sul fanatismo di Shaftesbury.
La marcia su Roma si poteva fermare
di Dino Messina (Corriere della Sera, 21 maggi0 2019)
La marcia su Roma era stata messa a punto alla metà di ottobre 1922 dai quadrumviri Emilio De Bono, Italo Balbo, Michele Bianchi e Cesare Maria De Vecchi. L’Italia era stata divisa in dodici zone ciascuna sotto il controllo di un ispettore fascista, mentre l’avvicinamento alla capitale sarebbe avvenuto da tre punti di raccolta: Santa Marinella, Monte Rotondo e Tivoli. L’azione cominciò con il congresso di Napoli del 24 ottobre, che richiamò 40 mila fascisti. Benito Mussolini, davanti a quella platea di militanti in camicia nera tuonò: «Io vi dico, con tutta la solennità che il momento impone: o ci danno il potere o noi ce lo prenderemo piombando su Roma». L’attacco a Roma era stabilito per il 28, ma prudenzialmente il capo del fascismo rientrò a Milano per dare una parvenza di legalità alle sue manovre parlamentari e nello stesso tempo perché da Milano, dove l’avventura fascista era cominciata poco più di tre anni prima, era più facile raggiungere la Svizzera, se le cose si fossero messe al peggio.
La narrazione di Pierre Milza e Serge Berstein, due dei maggiori storici francesi dell’età contemporanea, nella corposa Storia del fascismo da oggi in edicola con il «Corriere della Sera» è allo stesso tempo rigorosa e accattivante. Ripercorre tutte le fasi dell’età mussoliniana - dallo scoppio della Grande Guerra all’esecuzione del Duce - in una cavalcata storica di cinquecento pagine che lascia senza respiro e risponde alle maggiori domande su uno dei fenomeni centrali del Novecento italiano ed europeo.
Chi erano innanzitutto i militanti che diedero vita al movimento prima e al Partito fascista poi? Erano espressione delle classi deboli di una società piegata dalle difficoltà del dopoguerra o costituivano l’avanguardia di ceti emergenti che volevano sostituirsi alla vecchia classe dirigente? Secondo un’inchiesta del 1921 su 151 mila aderenti, cioè la metà degli iscritti, scrivono Milza e Berstein, «si contavano 18.000 proprietari agrari e 4.000 industriali, (una proporzione inferiore a quella di tali categorie nell’intera società), 14.000 piccoli commercianti, 15.000 impiegati, 7.000 funzionari, diecimila professionisti, in una proporzione che superava di gran lunga tali categoria nel corpo sociale». Il resto era rappresentato da operai agricoli (circa 37 mila) e da operai disoccupati (23 mila). Queste categorie, osservano gli autori, rappresentavano la manovalanza nelle azioni squadristiche che terrorizzarono le città e sovvertirono gli equilibri anche nelle campagne, dando man forte ai proprietari terrieri che non intendevano rispettare gli accordi faticosamente raggiunti con le leghe dei braccianti. Milza e Berstein sottolineano tuttavia che nell’ascesa del fascismo giocarono un ruolo fondamentale quelle che Renzo De Felice aveva definito le «classi medie emergenti».
Tornando alla marcia su Roma, le cose non si svolsero nel più lineare dei modi. Mentre nel resto del Paese, dal 27 ottobre gli squadristi si presentavano alle prefetture e ai comandi di polizia, alle centrali telefoniche e alle stazioni per prendere il controllo del situazione senza incontrare resistenza, sulla capitale confluirono soltanto 26 mila uomini, male armati e peggio organizzati. A Roma era presente un presidio militare di 28 mila uomini, molto ben equipaggiati e addestrati al comando del generale Emanuele Pugliese. Sarebbe bastato un ordine preciso dall’alto per ribaltare la situazione. Ma il re Vittorio Emanuele III, rassicurato anche dal cambiamento filomonarchico di Mussolini, si rifiutò di decretare lo stato d’assedio.
Quattro anni dopo la fine della Grande guerra, conclusasi secondo la mitologia dannunziana con una «vittoria mutilata» e dopo due anni di scontri sanguinosi, la classe dirigente dell’età liberale assisteva all’ascesa legale del sovvertitore Mussolini. Molti, anche convinti democratici, tirarono un sospiro di sollievo pensando che l’incarico di presidente del Consiglio al capo delle camicie nere, che il 30 ottobre si era presentato al Quirinale in divisa fascista, fosse il prezzo minore e provvisorio da pagare per lo scampato pericolo della rivoluzione bolscevica. Invece non andò così, come ben raccontano Milza e Berstein.
Fascismo, le tangenti del Littorio.
È un falso l’onestà delle camicie nere
Un libro di Mauro Canali e Clemente Volpini (Mondadori) passa in rassegna gli arricchimenti illeciti di noti personaggi del regime, Mussolini compreso
di PAOLO MIELI (Corriere della Sera, 03.03.2019)
Nel 1975, durante uno spettacolo a Genova, Walter Chiari (che in gioventù aveva aderito alla Repubblica sociale italiana) lanciò una provocazione: «Quando fu appeso per i piedi a piazzale Loreto, dalle tasche di Mussolini non cadde nemmeno una monetina... Se i nuovi reggitori d’Italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle loro tasche!». La battuta provocò un grande applauso, a dispetto del fatto che la città fosse medaglia d’oro della Resistenza e di lì nell’estate del 1960, per protesta contro la convocazione di un congresso del Msi, fosse partita la rivolta che aveva provocato la caduta del governo Tambroni. Da allora la battuta di Walter Chiari divenne un luogo comune della destra e, più in generale, dei settori qualunquisti e conservatori dell’opinione pubblica italiana. Anche quelli non nostalgici.
Mauro Canali e Clemente Volpini sono andati a verificare se le cose andarono veramente nei modi di cui alle parole di Walter Chiari. Se cioè corrisponde alla realtà che i fascisti, ancorché politicamente nefasti, siano stati sostanzialmente onesti. E sono giunti alle conclusioni - esposte in un libro, Mussolini e i ladri di regime. Gli arricchimenti illeciti del fascismo, in procinto di essere pubblicato da Mondadori - che le cose non stanno così.
Mussolini, ricordano Canali e Volpini, aveva fondato nel 1919 il movimento fascista (che diventerà Partito nazionale fascista nel 1921) «per combattere i profittatori di guerra, i “pescecani”, i politicanti, gli egoisti, i corrotti e poi i parassiti dello Stato». Il programma dei Fasci di combattimento proponeva il sequestro dei profitti di guerra o una vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze attraverso un’imposta sul capitale. Poi, dopo che Mussolini giunse al potere (1922), non se n’era più fatto niente. Ma nella retorica del regime l’attacco alla plutocrazia, al potere della ricchezza resisterà per tutto il Ventennio. Fisiologico perciò che, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943), il governo di Pietro Badoglio avviasse immediatamente un’indagine per verificare se sotto il regime fossero state commesse delle ruberie. Il 5 agosto del 1943, la notizia dell’avvio dell’inchiesta sugli illeciti arricchimenti dei maggiorenti mussoliniani - con un’apposita commissione presieduta dal presidente della Corte suprema di Cassazione Ettore Casati - fu data da tutti i giornali e nel giro di pochi giorni i gerarchi finirono sulle prime pagine - scrivono Canali e Volpini - «gettati in pasto a un’opinione pubblica che fino a poco tempo prima li aveva temuti odiati, riveriti, spesso invidiati». Con quei racconti, aggiungono gli autori, la fine tragica del Ventennio assunse «tratti da commedia, da spettacolo del malaffare ridicolo e ricco di colpi di scena». Con «fughe rocambolesche, rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni, arresti eccellenti, favolosi patrimoni in ville, tenute, palazzi e castelli». Per arrivare infine «ai sequestri dei beni mobili, con verbali e inventari redatti con una pignoleria da non credersi»: dalle pellicce agli arazzi, dai cavalli purosangue ai posacenere, «passando per i corredi, tovaglie, lenzuola, asciugamani, fino al numero di posate in argento e all’ultima pantofola, calza e mutanda del gerarca inquisito». Il tutto «immerso in un fiume di denaro e in un cerchio fatto di amici, amici degli amici, amanti, mogli, figli, parenti lontani, ricattatori, ruffiani e segretarie compiacenti». Per un ammontare di 118 miliardi di lire dell’epoca di cui l’Erario riuscirà a recuperare solo 19.
In seguito di quel genere di storie che avevano tenuto banco sui giornali nell’estate del 1943 si parlò sempre meno; finché, poco più di trent’anni dopo, fu possibile fare quella battuta a Genova senza che nessuno (o quasi) trovasse alcunché da ridire. Adesso i due storici, sulla base di una nuova, ampia documentazione inedita, sono giunti a un punto definitivo: gran parte dei fascisti di primo piano, a partire dallo stesso Mussolini e dai familiari della sua amante Claretta Petacci, si arricchirono in modo davvero considerevole. Conclusione a cui giunge anche un altro pregevole volume testé edito da Laterza, Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, che raccoglie saggi di autori diversi, raccolti e curati da Paolo Giovannini e Marco Palla.
Il più grande arricchito del regime risulta essere Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, che sarà ministro degli Esteri nonché marito di Edda, la figlia di Mussolini. Alla morte di Costanzo Ciano, raccontano Canali e Volpini, Vittorio Emanuele III aveva confidato a Mussolini, «facendogli strabuzzare gli occhi e lasciandolo senza fiato», che l’uomo aveva accumulato un patrimonio di circa 900 milioni. Ma c’è stato anche di peggio.
I più sorprendenti risultano essere il prefetto Antonio Le Pera e il sottosegretario (futuro ministro dell’Interno nella Rsi) Guido Buffarini Guidi, che lucrano sulle politiche razziali del regime. «La banda che era mossa dal prefetto Lepera in realtà faceva capo a Buffarini che mangiava a quattro ganasce», annotava Galeazzo Ciano sul suo diario. Voci si addensano anche su uno dei principali esponenti dell’antisemitismo italiano, Telesio Interlandi, direttore de «Il Tevere». Alla fine degli anni Trenta, Francesco Peruzzi, questore e alto funzionario dell’Ovra, sostiene che Interlandi avrebbe ricattato per «varie decine di migliaia di lire» l’ebreo Gino Coen, un «facoltoso industriale romano». Il questore riferisce al capo della polizia Arturo Bocchini, il quale a sua volta informa Mussolini. Il Duce, ricostruiscono Canali e Volpini, «vuole certezze e affida al ministro della cultura popolare Dino Alfieri il compito di far luce sul caso Interlandi». Peruzzi raccoglie le prove, le consegna ad Alfieri e poi riferisce anche a Bocchini, che lo liquida con una battuta: «Hai fatto una fatica inutile perché purtroppo Interlandi non sarà mai toccato in quanto nella faccenda degli ebrei troppe personalità sono coinvolte, non esclusi gli stessi familiari di Mussolini».
Interessante è la storia di Roberto Farinacci, il ras di Cremona, squadrista, antisemita, filonazista, al fianco di Mussolini anche durante l’avventura di Salò e per questo fucilato dai partigiani il 28 aprile 1945. L’immagine che tenne a dare di sé fu quella del «paladino della rivoluzione fascista, duro e puro», «integerrimo e votato alla causa», impegnato in una «personalissima battaglia contro gli affaristi, i corrotti, e i profittatori di regime, contro chi sfruttava il partito per arricchirsi». L’inchiesta sui suoi arricchimenti durerà dal 1943 al 1956 e il suo patrimonio sarà valutato, nel 1949, in una cifra astronomica: 614 milioni e 627 mila lire. Tanto per dare un’idea delle proporzioni, precisano Canali e Volpini, nel 1938 un senatore del Regno guadagnava annualmente tra le 20 e le 25 mila lire, un maestro tra le 9 e le 13.500 lire, un operaio 4.238 lire. Farinacci non poté godere del patrimonio accumulato perché fu giustiziato come si è detto nel 1945, ma aveva sistemato le cose in modo che ne potessero usufruire i suoi familiari. Alla fine, dopo undici anni di battaglie legali, i suoi eredi riusciranno a «salvare» una somma di oltre 600 milioni, «pagando una cifra irrisoria in comode rate e cedendo appena poco più di due ettari di terreno e una società in gravissime condizioni economiche, che nessuno più voleva, dopo averla comunque depredata di una bella fetta del suo patrimonio immobiliare».
Più «fortunato» di tutti è il sindacalista Edmondo Rossoni, nato nel 1884 a Tresigallo in provincia di Ferrara. Sindacalista rivoluzionario all’inizio del Novecento, fu denunciato la prima volta nel 1903 quando aveva solo diciannove anni e in seguito fu costretto a fuggire in Francia, negli Stati Uniti, in Brasile. Al momento della marcia su Roma, Rossoni ha già trentott’anni. Non è uno dei più giovani tra i seguaci di Mussolini. Poi però diviene capo dei sindacati fascisti, deputato per tre legislature, consigliere nazionale alla Camera dei fasci e delle corporazioni, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ministro dell’Agricoltura e Foreste e membro del Gran Consiglio dal 1930 fino all’ultima seduta del 25 luglio 1943, quando con il suo voto favorevole all’ordine del giorno di Dino Grandi è tra i gerarchi che provocheranno la caduta del fascismo. È uno dei protagonisti di Canale Mussolini di Antonio Pennacchi (Mondadori). Tra il 1922 e il 1925, registrano Canali e Volpini, «i contratti conclusi dalle corporazioni fasciste furono peggiori di quelli stipulati dalle associazioni “rosse” negli anni precedenti, sia in termini di paghe che di condizioni di lavoro». E Rossoni divenne improvvisamente agiato. Nel 1924 comprò a Roma un sontuoso appartamento ai Parioli e un podere di cinque ettari a Tresigallo. Ma fu solo l’antipasto.
Nell’ottobre 1925, con il patto di Palazzo Vidoni tra la Confindustria e la Confederazione delle corporazioni fasciste, il gerarca ottenne il monopolio della rappresentanza operaia e nel 1926 il riconoscimento giuridico di un solo sindacato nazionale per categoria. Così Rossoni diviene «uno degli uomini più potenti d’Italia». Nel novembre 1927, lascia i Parioli e si trasferisce in via Veneto «che non è ancora il cuore della “dolce vita” ma è già il grande boulevard degli hotel esclusivi» L’Ovra raccoglie le confidenze di un ufficiale della milizia che racconta di «un appartamento addirittura principesco, con salotti numerati, servi in livrea, camerieri e governanti».
Nel dicembre del 1928, Mussolini - alle cui orecchie sono giunti i mormorii sulla vita da satrapo del «sindacalista» (Curzio Malaparte lo definì «la miglior forchetta del Regime») - prova ad esautorarlo disponendo il cosiddetto «sbloccamento», attraverso il quale l’organizzazione dei lavoratori guidata da Rossoni viene smembrata in sei confederazioni nazionali. La risposta di Rossoni è un dossier su Mussolini che contiene notizie su illeciti del Duce che risalgono addirittura alla stagione che precedette la nascita del fascismo.
Circola anche la voce che Rossoni sia fuggito all’estero «ben foderato di milioni». Ma il ras del sindacalismo fascista resta invece a Roma e nel 1929 compra una lussuosa villa ad Anzio. Magione che incuriosisce il capo del fascismo. Quinto Navarra, il cameriere di Mussolini, racconta nelle sue memorie: «Un giorno il Duce mi passò una lettera anonima nella quale si diceva che Edmondo Rossoni nella sua villa di Anzio possedeva un bagno con acqua di colonia corrente... Mussolini andò su tutte le furie e diede l’incarico a un funzionario della segreteria di assumere informazioni... Si riuscì a sapere, poi, che nel bagno di Rossoni esisteva un rubinetto per il profumo, ma era un rubinetto applicato a un grosso vaso di vetro contenente acqua di colonia».
La villa viene intestata all’amante di Rossoni, Anna Piovani, da cui l’uomo politico ha avuto una figlia, Itala. L’Ovra si accanisce contro la Piovani e scopre che è una prostituta e ha a sua volta un amore: «Batteva il marciapiede di Via Condotti per sovvenzionare l’amante del cuore, un certo Oscar». Secondo un informatore la Piovani è anche comparsa nuda in un film di Augusto Genina. Alla sua sarta di fiducia avrebbe confidato che Rossoni «ha piazzato al sicuro diversi milioni nelle banche d’America». Le piace giocare a poker, balla «in modo un po’ sguaiato» e ha nuovi spasimanti tra i quali «un noto baro, certo Mario Ventunni» definito nella relazione «cocainomane». Ma Rossoni continua ad intestarle i beni.
Giuseppe Bottai nel suo diario riporta una lettera anonima del 1935 che definisce Rossoni «imboscato, poligamo, cornuto, ladro». Bottai e Augusto Turati allertano Mussolini sulle trame di Rossoni; il Duce però lo riabilita e il «sindacalista» riprende la marcia trionfale. Nel dopoguerra Piero Calamandrei troverà il dossier sulle ruberie di Rossoni e le prove che Mussolini sapeva tutto di lui. Ne trarrà questa conclusione: «Gli uomini per governare devono essere corrotti, o meglio devono essere corrotti per poterli ricattare... Quel dossier doveva servire a Mussolini per tenerlo schiavo». Schiavo sì ma fino al 25 luglio del 1943, quando Rossoni lo tradirà. Per riparare subito dopo in Vaticano, in un monastero sull’Appennino, a Dublino e in Canada. E poi tornare in Italia amnistiato nel dopoguerra, concordare un relativamente modesto risarcimento all’erario, tenere per sé qualche decina di milioni e trovare la morte nel 1965, a 81 anni, dopo un’ultima stagione vissuta in un’agiata tranquillità. Grande libro quello di Canali e Volpini.
Ritorno al futuro
Marcia su Roma e dintorni, di Emilio Lussu
di Marco Belpoliti (Doppiozero, 25 febbraio 2019)
Sembra scritto oggi Marcia su Roma e dintorni, terminato poche ore fa, eppure ha già la veneranda età di ottantotto anni. Quando Emilio Lussu si mise a scriverlo, ne aveva appena quarantuno, ed era nato alla fine dell’Ottocento. Il libro uscì in francese e in inglese, e solo due anni dopo in italiano. Era il 1931 e il fascismo aveva vinto: il potere di Mussolini in Italia non sembrava scalfibile. Di lì a poco Adolf Hitler, suo ammiratore, sarebbe salito a sua volta al potere.
Lo scopo del libro, non bisogna dimenticarlo, era di raccontare fuori dall’Italia cos’era il Fascismo, come fosse nato, come s’era diffuso, e come aveva conquistato il potere. All’epoca un oggetto ancora misterioso per gran parte dell’Europa.
All’inizio del libro è posta una citazione di Machiavelli tratta dal Principe: “Tutti e profeti armati vinsono e li disarmati ruinorno”. In questa frase del segretario fiorentino sta quello che, all’altezza del 1931, è il messaggio dell’uomo politico sardo: Mussolini conquistò il posto di Primo Ministro perché nessuno gli si oppose con decisione. Primo di tutti Facta, che non dichiarò lo stato d’assedio e non fece abbastanza pressione sul Re, Vittorio Emanuele III, per impedire alle squadre fasciste di inscenare la loro Marcia sulla capitale. Il Fascismo era già dilagato nel paese, ma non era maggioranza, ci ricorda Lussu. Le violenze e gli omicidi politici erano all’ordine del giorno, tuttavia la conquista del potere da parte di Mussolini era ancora da venire. In una serie di elezioni successive, come racconta in modo succinto ed efficace, il bacino elettorale del fascismo andava via via allargandosi, dal primo battesimo elettorale, sostanzialmente fallimentare, sino a quello del 1921, quando un piccolo drappello di deputati fascisti entra in parlamento: 32 deputati su 500.
Il libro comincia con l’armistizio e la fine della guerra. Lussu scrive: “L’esercito era democratico”. Il problema comincia a manifestarsi con il ritorno alla vita civile degli arditi di guerra e dei comandanti militari di grado intermedio. Lussu è stato un eroe di guerra, un uomo che non ha avuto paura di partecipare ai combattimenti, uno tutto d’un pezzo. Nel corso del libro ci racconta come buona parte dei fascisti sardi siano persone di sua conoscenza, ex comandanti, o sottoposti, gente con lui in trincea durante la guerra. Nonostante le minacce e gli attacchi che subisce dagli squadristi, Lussu è ancora un “collega”, uno che ha combattuto e comandato soldati, e da loro, dai fascisti, ancora stimato.
Il tema più interessante del libro è proprio quello del passaggio dalle file antifasciste e democratiche a quelle del movimento di Mussolini. Sin dai primi capitoli Lussu ci presenta uomini che diventano di colpo fascisti. Ha un modo ironico di descrivere queste figure. Prima presenta i colleghi e amici antifascisti, poi dichiara secco: diventò fascista. Sono i “voltagabbana”, coloro che hanno mutato casacca. È un’intera processione di personaggi simili, che culmina con il collega di Lussu, l’onorevole Pietro Lissia, diventato membro del primo governo Mussolini, e con l’onorevole Rossini, gran antifascista, sottosegretario alle pensioni di guerra, diventato anche lui fascista.
Il titolo del libro è ironico con quella parola “dintorni”, che vuole dirci quanto poco preciso fosse il progetto rivoluzionario di Mussolini. Non quello della conquista del potere, che era perfettamente delineato in cuor suo e in quello dei suoi accoliti, ma i modi per raggiungere questo obiettivo non erano ancora definiti, come accade in ogni impresa politica di conquista del potere. “La ‘marcia su Roma’ - scrive Lussu - è uno degli avvenimenti più interessanti della storia politica dei tempi moderni”. Così esordisce nel sesto capitolo dove rende conto della improvvisazione delle squadre fasciste e dell’incertezza di Mussolini nel compiere quello che dovrebbe essere un atto di forza, e che tale, almeno nel suo insieme, non è. O meglio, lo diventa per l’arrendevolezza dei suoi avversari.
Lussu non si sofferma sulla divisione delle forze di sinistra, sulla indecisione dei socialisti, sulle azioni dei comunisti, e neppure dei cattolici del Partito popolare. Le racconta di scorcio, perché la cosa che lo colpisce di più è il passaggio di persone insospettabili dalle file democratiche a quelle di Mussolini. Nomina con nome e cognome tutti questi personaggi, che nella storia maggiore, quella che ricorda i nomi dei grandi protagonisti, sono scomparsi, e che tuttavia costituiscono altrettante caselle decisive della trasformazione del paese nella transizione dalla democrazia parlamentare alla dittatura fascista.
Il primo discorso in Parlamento del futuro Duce, quando ha ricevuto dal re, dopo le dimissioni di Facta, l’incarico di formare il nuovo governo, fa accapponare la pelle per la miscela di minacce e blandizie di cui si mostra capace. Un oratore abile, ma che contiene il seme della futura violenza che tuttavia i contemporanei non riescono a riconoscere con chiarezza. C’è una frase di Lussu che vale anche per l’oggi, scritta nel capitolo dedicato a quel primo discorso da Capo del Governo: “E si attenne alle norme della tattica classica per cui è indispensabile lasciare l’avversario sotto l’impressione della inferiorità e del terrore”. Mussolini alterna a questo lo scherno e l’ironia. Piccoli colpi di buon senso: “Non gettate, signori, altre chiacchiere vane alla nazione: cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni sono troppi...”, dice il nuovo capo del governo concludendo. Annota Lussu: “Effettivamente erano troppi. Era il colpo di grazia”.
Le figure degli oppositori appaiono patetiche, il che unito ai transfughi dai partiti antifascisti al Fascismo, rende il tutto angoscioso. Cedimento morale, opportunismo, trasformismo: sono tutte forme che abbiamo conosciuto in democrazia, ma che tendono ad aumentare nei momenti di crisi politica. Icastico nelle definizioni, Lussu descrive l’on. D’Aragona: “Come un marinaio che, durante il naufragio, pensi di salvare il lucido delle sue scarpe”.
Lussu appare come un uomo d’azione, ma anche come un uomo riflessivo, che ragiona, che sa sorprendersi, che non si perde d’animo. Un uomo tutto di un pezzo com’era stato nelle trincee della guerra. Non sembra aver paura, non gli appartiene il timore, come racconta in un paio di episodi, che costituiscono i passaggi narrativi più coinvolgenti del libro. Ed è anche un uomo saggio.
A dimostrarlo bastano le battute finali del libro, dove racconta la sua fuga dal confino di Lipari, dove è stato relegato dal Fascismo, in motoscafo verso Tunisi: “Il mondo va a destra!”, dice uno di quelli a bordo. “Il mondo non va né a destra né a sinistra. Il mondo continua a girare intorno a se stesso, con regolari eclissi di luna e di sole”, risponde.
Un messaggio ottimistico? Sì e no. Un messaggio di saggezza verso le vicende umane di cui lui stesso è protagonista. Ci sono cose che vanno oltre noi stessi, su cui, come le eclissi, abbiamo ben poca influenza, e tuttavia tutto il suo libro racconta la resistenza attiva a un movimento politico che era resistibile e poteva anche non vincere, risparmiandoci lutti e disgrazie collettive da cui abbiamo faticato a sollevarci e da cui non ci siamo ancora distanziati una volta per tutte, come mostra il risorgente fascismo del lungo dopoguerra. Bisogna fare tutto il possibile sempre. Oggi più che mai.
A novant’anni dal Concordato firmato da Mussolini e Pio XI
Stato-Chiesa, i nodi irrisolti
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 11 febbraio 2019)
Sono trascorsi novant’anni da quando, l’11 febbraio 1929, i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono stati regolati da un concordato. Un tempo sufficientemente lungo per consentire un bilancio e per verificare se non sia opportuna una nuova revisione, dopo quella operata nel febbraio 1984 sotto il governo Craxi, con la duplice parziale correzione sia dei Patti lateranensi sia del concordato vero e proprio. Una revisione e una correzione, peraltro, dagli esiti ambigui.
In primo luogo, ancora oggi rimane in vigore la norma secondo la quale - nel matrimonio concordatario - in caso di annullamento la norma canonica prevale su quella civile, nonostante i criteri (oltre che i giudici) che presiedono all’annullamento religioso siano difformi da quelli che presiedono all’annullamento civile.
Inoltre, l’eliminazione della clausola che riconosceva alla religione cattolica la condizione di religione di Stato non ha eliminato affatto l’obbligo per lo Stato di garantire l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e, anzi, lo estendeva alle scuole materne, escludendo solo l’università. Il costo finanziario per lo Stato di tale obbligo - sotto forma di stipendi pagati a insegnanti reclutati non dallo Stato bensì dalla Chiesa cattolica - è stato stimato in 1,25 miliardi di euro l’anno. Per mantenere una schiera numerosa di insegnanti di religione a fronte di una crescente diminuzione di coloro che ne frequentano l’insegnamento, raramente viene utilizzata la possibilità, pure prevista dalle modifiche del 1984, di accorpare le classi.
Peraltro, anche la modifica da una condizione di obbligatorietà per gli studenti a partecipare alle lezioni di religione, salva una richiesta di esenzione, alla facoltà di decidere se avvalersene o meno è rimasta in condizione di ambiguità.
L’insegnamento di religione, infatti, fa parte a pieno titolo dell’orario scolastico e può essere collocato in qualsiasi posizione, a prescindere dal numero di studenti per classe che se ne avvale. L’insegnante di religione partecipa a pieno titolo al collegio dei docenti e il suo voto "fa media". Quanto agli studenti che scelgono di non frequentare religione, inclusi i bambini della scuola materna, sono loro a dover uscire di classe per partecipare ad attività alternative più o meno fasulle, lasciate alla discrezione e alla buona volontà dell’insegnante loro assegnato. Ma senza avere l’alternativa di un’ora di scuola in meno, salvo che casualmente l’ora di religione sia messa alla prima o all’ultima ora. Una situazione apparentemente migliore rispetto a quando gli "esonerati" passavano l’ora di religione in corridoio.
Di fatto, tuttavia, chi "non si avvale" dell’insegnamento della religione cattolica continua ad avere meno diritti, in termini di risorse dedicate, di chi "si avvale". Mentre i loro genitori - tramite le imposte - finanziano l’insegnamento della religione cattolica.
Del tutto in contrasto con l’obiettivo del finanziamento da parte dei fedeli si è rivelato il meccanismo dell’8 per mille. In linea di principio, il passaggio dalla congrua - ovvero dal sostentamento del clero direttamente a carico dello Stato, appunto al finanziamento da parte dei fedeli tramite la devoluzione di una quota delle imposte dovute - è stato molto positivo.
Tuttavia, la formulazione di questa norma si è prestata nel tempo e tuttora si presta a un enorme imbroglio a carico dei contribuenti.
In base alla legge 222/85, infatti, ogni cittadino che presenta la dichiarazione dei redditi può scegliere la destinazione dell’8 per mille del proprio gettito Irpef a un’istituzione religiosa che con lo Stato ha stipulato vuoi, come nel caso della Chiesa cattolica, un concordato, vuoi un’intesa, oppure scegliere di destinarlo allo Stato. Mentre all’inizio l’opzione era ristretta a quella tra Stato e Chiesa cattolica, oggi si può scegliere tra tredici alternative: Stato (per scopi sociali e assistenziali), Chiesa cattolica, Unione chiese cristiane avventiste del 7° giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle chiese metodiste e valdesi, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione comunità ebraiche Italiane, Unione buddhista, Unione induista, Chiesa apostolica, Sacra diocesi ortodossa d’Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia e infine, dal 2017, l’istituto buddista italiano Soka gakkai.
Il problema è che non viene attribuita a ciascuna istituzione solo la quota dell’8 per mille per la quale i contribuenti hanno effettuato una scelta precisa - come avviene per il 5 per mille destinato a associazioni non profit - ma anche la quota non specificamente attribuita viene suddivisa in base alle percentuali delle scelte effettuate. Chi non sceglie, ritenendo ingenuamente che il suo 8 per mille rimanga allo Stato, di fatto subisce le preferenze di chi invece lo ha fatto. Stante che negli anni il numero di coloro che effettuano una scelta è progressivamente diminuito ma la priorità delle scelte è rimasta per la Chiesa Cattolica, questa si prende anche il grosso della quota di chi non ha inteso designarla come beneficiaria.
In base agli ultimi dati disponibili - riferiti alle dichiarazioni dei redditi effettuate nel 2015 - solo il 44% degli oltre quaranta milioni di contribuenti aveva espresso una scelta e solo il 35% per la Chiesa cattolica, la quale, tuttavia, in base a una distribuzione proporzionale dell’intero ammontare dell’8 per mille ne ha ricevuto l’81,21% , pari a 1.005.390.045 euro. Anche le altre Chiese ricevono beneficio da questo meccanismo a dir poco ambiguo, anche se si tratta di briciole. Si aggiunga che, a differenza di quanto fanno molte Chiese, lo Stato non pubblicizza neppure l’opzione a proprio favore, e tantomeno esplicita a che cosa destinerebbe l’eventuale gettito, contribuendo all’opacità del tutto e generando sfiducia.
Non vi è, inoltre, l’opzione di destinare il proprio 8 per mille ad associazioni che si battono per la laicità dello stato o che sostengono l’ateismo, mettendo, di nuovo, i cittadini in condizioni di disuguaglianza rispetto alla possibilità di sostenere finanziariamente il proprio orientamento rispetto al fenomeno religioso. Possono farlo solo destinando il 5 per mille, che è normato diversamente.
Alla luce di questi e altri aspetti altamente problematici per la laicità dello Stato, l’uguaglianza dei cittadini (anche minorenni), la trasparenza nei rapporti tra Stato e cittadini, in questi giorni un gruppo di 150 esponenti del mondo della cultura e difensori dei diritti civili ha firmato un appello al Parlamento, al governo, alle forze politiche, affinché - in attesa di tempi più favorevoli a una radicale revisione, se non al superamento, del Concordato - si intervenga per dare almeno piena attuazione alle finalità degli accordi del 1984, con l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica e la revisione degli attuali criteri di ripartizione della quota "non destinata" dell’8 per mille. A queste due richieste si aggiunge quella di un’azione determinata per dare attuazione alla recente sentenza della Corte europea, recuperando nella misura del possibile l’Ici non pagata in passato, 4-5 miliardi di euro. Si tratta, a me pare, di proposte civili e rispettose della reciproca autonomia tra Stato e Chiese. Ma sono sicura che - se non sepolte dal silenzio imbarazzato dei media "laici" - saranno oggetto di anatemi di vario tipo.
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... * _______________________________________________
Il caso italiano
Il sacro dovere e la sua torsione populista
di Francesco Palermo (Il Mulino, 31 gennaio 2019)
La Costituzione è il perimetro entro il quale la politica si muove, o meglio, si dovrebbe muovere, con le proprie scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee si svolge, o si dovrebbe svolgere, secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata ad arbitri, a organismi super partes, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il presidente della Repubblica. È, pertanto, non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la Costituzione può svolgersi la politica.
La Costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: "non avrai altro Dio all’infuori di me". E non può esserci politica al di fuori della Costituzione. Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati a interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’Interno ha invocato l’articolo 52 della Costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due vicende, seppur diverse tra loro, della nave Diciotti da un lato (per la quale pende una richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti) e della nave Sea watch dall’altro (la cui vertenza, di fatto, è ancora aperta), il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul "sacro dovere" di ciascun cittadino alla "difesa della patria", previsto appunto dall’articolo 52.
Tale disposizione non ha, naturalmente, nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della Carta. Non a caso, il testo che uscì come definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della Costituente. Tutti erano d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’Interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo.
Il richiamo al "sacro dovere" della "difesa della patria" ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la Costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione ("sacro dovere"), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti.
Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’articolo 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo rimette in tale contesto, facendo intuire che "l’invasione" dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla Costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della Costituzione, di eroderne il ruolo di perimetro dell’attività politica, di limite e parametro della stessa. Un’erosione di cui questo caso è solo il più recente di una lunga serie di esempi, che porta a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della Carta costituzionale.
Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale (o almeno non dovrebbe sfuggire, ma evidentemente per alcuni non è così). E infatti l’operazione politica che distorce il significato della Carta funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della Costituzione sfugge.
Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che in questo caso non è quella dei migranti, ma quella della Carta su cui si fonda il nostro stesso ordinamento in quanto democrazia. Una nave su cui siamo imbarcati tutti.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
1927- Il Discorso dell’Ascensione di Benito Mussolini
di Luigi Benevelli (Psychiatry on line Italia, 1 febbraio, 2019)
Il 26 maggio 1927, festa religiosa dell’Ascensione, il Duce Benito Mussolini tenne alla Camera dei Deputati un discorso poi detto “dell’Ascensione” nel quale esaltò il "numero come potenza", esaminò la situazione del popolo italiano dal punto di vista “della salute fisica e della razza” e passò in rassegna il nuovo assetto amministrativo dando, infine, “le direttive politiche generali attuali e future dello Stato”. Il discorso fu importante perché declinò i tratti delle politiche razziali del Regime.
Il Fascismo adottò una eugenetica quantitativa di stampo pronatalista. Le politiche per la salute della razza italiana erano state formalmente inaugurate con l’Istituzione dell’Opera nazionale Maternità e Infanzia (O.N.M.I.) - legge 10 dicembre 1925, n. 2277- vero e proprio asse portante dell’eugenetica del Regime[1].
L’O,N.M.I. rispondeva all’esigenza del Fascismo di affermare la propria concezione della donna-madre (per la "modernizzazione della maternità") e seguire l’educazione delle giovani generazioni fin dalla prima infanzia: all’istituzione dell’ONMI seguirà quella dell’Opera Nazionale Balilla (1926), che confluirà nel 1937 nella Gioventù Italiana del Littorio. I 5.700 istituti che in Italia si occupavano di maternità e infanzia soffrivano di scarsità di risorse: per ovviare a tale situazione si era stata decisa la tassa sul celibato “alla quale forse in un non lontano domani potrebbe far seguito la tassa sui matrimoni infecondi”.
Nel 1926 fu messo fuori legge l’aborto, in quanto “crimine contro lo Stato”, e venne vietata qualsiasi propaganda in favore di metodi anticoncezionali.
Grande era la preoccupazione per la denatalità, se si escludeva la Basilicata, alla quale Mussolini tributava il suo “plauso sincero perché essa dimostra la sua virilità e la sua forza, [...] evidentemente non ancora sufficientemente infettata da tutte le correnti perniciose della civiltà contemporanea”, in primis l’urbanesimo industriale che porta alla sterilità delle popolazioni e la piccola proprietà rurale. Per non parlare della “infinita vigliaccheria morale delle classi cosiddette superiori della società. Se si diminuisce, signori, non si fa l’Impero, si diventa una colonia!!”.
Mussolini riportò i dati fornitigli dalla Direzione Generale di Sanità del Ministero dell’Interno, diretta dal prof. Alessandro Messea[2], per i quali le malattie sociali erano in preoccupante sviluppo. Per contrastarne la recrudescenza annunciò che era stata intensificata la “difesa sanitaria alle frontiere marittime e terrestri della Nazione”[3], ci si era occupati “dell’igiene scolastica, dei servizi antitubercolari, della lotta contro i tumori maligni, della vigilanza sugli alimenti e le bevande, delle opere igieniche”. Erano comunque da registrare alcuni successi, fra cui rilevante era la scomparsa della pellagra a causa della quale si erano registrati 198 morti ancora nel 1922. Rilevanti invece rimanevano le cause di morte per tubercolosi (59.000 nel 1925). Forte preoccupazione causava l’alcoolismo: al riguardo erano già state chiuse 25.000 delle ben 187.000 osterie aperte in Italia, mentre “Anche la mortalità per pazzia è in aumento e in aumento il numero dei suicidi”.
[1] L’ONMI, amministrata da un consiglio centrale con sede a Roma, dirigeva e coordinava le attività delle proprie istituzioni locali, diffuse in modo capillare sul territorio nazionale. L’organizzazione era piramidale: al Consiglio Centrale rispondevano le Federazioni provinciali, le quali a loro volta controllavano l’operato dei Patronati comunali, alla base. Le cariche erano quadriennali.
A livello comunale, oltre ai medici specialisti nello staff dell’ONMI entravano di diritto l’ufficiale sanitario, il direttore didattico o un maestro e un sacerdote. I ’"patroni" e le "patronesse" (che comparivano nella titolatura di "patronato comunale") erano generalmente scelti tra esponenti della vita locale, di solito indicate dal Sindaco, che avessero fatto esperienze nelle attività assistenziali.
Con l’istituzione dell’ONMI le politiche per l’infanzia e la famiglia passarono dalla beneficenza, per gran parte a gestione privata, all’assistenza pubblica controllata dallo Stato. Si affermò la sanitarizzazione di tutto il personale, costituito da specialisti in pediatria (professione ufficializzata nel 1932), ostetricia (nel 1937 il termine ostetrica prende il posto di levatrice), otorinolaringoiatria, dermosifilopatia e, in seguito, neuropsichiatria infantile.
[2] Alessandro Messea (1862-1949), medico , allievo di Bizzozzero a Torino, si dedicò allo studio della microbiologia e della parassitologia. Operò nella Sanità Pubblica della cui Direzione generale fu responsabile dal 1924 al 1930.
[3] Erano stati “derattizzati novemila bastimenti, cioè si sono uccisi quei roditori che portano dall’Oriente malattie contagiose; quell’Oriente donde ci vengono molte cose gentili, febbre gialla e bolscevismo...”.
Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche... *
Un saggio di De Bernardi
Il fantasma perpetuo del fascismo
di Alessandra Tarquini (Corriere della Sera, 15.01.2019)
Perché nel dibattito pubblico ricorre la percezione di un riapparire del fascismo? Alla domanda risponde Alberto De Bernardi nel libro Fascismo e antifascismo (Donzelli, pagine 176, e 17), che offre una grande lezione di storia contemporanea. De Bernardi ricorda che di pericolo risorgente parliamo da tempo: era «ritorno del fascismo» il centrismo di De Gasperi e di Scelba, così come il tintinnar di sciabole del centrosinistra o anche il «fanfascismo» nei primi anni Settanta; furono definiti fascisti Bettino Craxi e Silvio Berlusconi.
Non si è trattato solo di polemiche politiche: sin dalla fine della guerra, intellettuali di diversa provenienza hanno individuato un fascismo persistente contrapposto all’antifascismo. Di fatto, fascismo e antifascismo sono diventate categorie generiche: «due archetipi metastorici del lessico politico». Così queste parole hanno perso il loro senso, come mostrano la discussioni di oggi.
De Bernardi ricorda che il recente sovranismo ha ben pochi punti di contatto con l’idea di nazione della prima metà del Novecento. Lo stesso ritorno della xenofobia è espressione di un’autodifesa identitaria e non certo di teorie sulla superiorità della razza ariana. Il razzismo italiano degli anni Trenta fu il prodotto della volontà di creare un uomo nuovo, non certo del tentativo di difendersi dalle ondate migratorie o da trasformazioni dell’economia.
Ma soprattutto, mentre la crisi degli anni Venti derivò dall’incapacità dello Stato liberale di integrare le classi subalterne, quella attuale sembra il prodotto della sconfitta della politica. Il regime totalitario fascista ha affermato il primato della politica sulle altre espressioni dell’esistenza, producendo una nuova modernità rivoluzionaria, alternativa a quella emersa dalla Rivoluzione francese. Oggi assistiamo alla diffusione di una concezione non mediata dei rapporti tra masse e Stato. In una società aperta e multiculturale che ha eroso i loro redditi, le classi medie mostrano una sfiducia radicale nella possibilità di cambiare il mondo.
La storia non si ripete. Ecco la lezione di questo libro che richiama uno degli storici più importanti del Novecento: l’antifascista Marc Bloch scrisse che la storia è irreversibile. Un invito a capire la specificità del tempo.
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO.
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Un Patto scellerato in nome della Scienza
Il manifesto trasversale. Con preoccupanti finalità interdittive, il patto firmato da Grillo e Renzi, quando annuncia che non saranno tollerate forme di pseudoscienza e pseudomedicina, brandisce la Scienza come una clava con cui colpire i “reprobi” che non ne riconoscono la sacralità
di Giorgio Ferrari, Angelo Baracca (il manifesto, 12.01.2019)
Non è la prima volta che nel nostro paese il mondo della scienza si rivolge alla politica affinché questa si faccia carico di questioni riguardanti il benessere della popolazione. È successo per il clima, per le scelte energetiche e per questioni etiche: ora, sembra, è la volta della salute. Tale infatti l’ambito privilegiato, ma non esclusivo, del Patto Trasversale per la Scienza che tanti consensi ha suscitato sia nei mezzi di informazione che nella stessa politica, al punto da mettere d’accordo persino due noti avversari come Beppe Grillo e Matteo Renzi. Fuori dal coro dei consensi a noi pare che questa iniziativa abbia qualcosa di inquietante nella forma e nella sostanza del suo testo. Intanto non è un appello, ma un “patto” che le forze politiche tutte sono chiamate a sottoscrivere per finalità non solamente propositive (l’informazione, la ricerca) ma decisamente interdittive. E questa è una spiacevole novità. Di appelli fortemente connaturati alla sacralità della Scienza, ne avevamo già visti in passato e sempre in occasione di forti tensioni culturali e sociali come quelle dei referendum antinucleari. Così fu per gli scienziati filonucleari che si rivolsero al presidente della repubblica all’indomani dell’incidente di Chernobyl, poi nel 2010 quelli che si rivolsero a Bersani affinché il Pd non chiudesse la porta al nucleare e infine nel 2011 quelli che ritenevano senza fondamento l’imminente referendum post Fukushima. Il tratto comune di questi appelli era l’accusa, esplicita o implicita, di antiscientificità nei confronti degli antinucleari: «Caro Segretario, occorre evitare il rischio che nel Pd prenda piede uno spirito antiscientifico, un atteggiamento elitario e snobistico che isolerebbe l’Italia, non solo in questo campo, dalle frontiere dell’innovazione. Noi ti chiediamo di prendere atto che il nucleare non è né di sinistra, né di destra e che, anzi, al mondo molti leader di governi di sinistra e progressisti puntano su di esso per sviluppare un sistema economico e modelli di vita e di società eco-compatibili» questo nell’appello del 2010, mentre in quello del 2011 si diceva: «Nell’appellarci alla ragione, noi richiamiamo l’attenzione sul fatto che la legittima prudenza e la giusta richiesta di corretta informazione non siano oscurate da furori emotivi fuori luogo o da ossessionanti atteggiamenti di contrapposizione che rischiano di sfociare in anacronistiche “cacce alle streghe” invocate da guru o santoni d’occasione nonché da contingenti interessi elettorali».
Considerazioni queste, in linea con quella presunta neutralità della scienza che anche il testo del presente “Patto” vuole accreditare, quando sostiene che la Scienza (e il progresso che ne consegue) «non ha alcun colore politico». Non siamo d’accordo; e ce ne sarebbero di esempi per dimostrare che la “Scienza”- non altrimenti definita - si è macchiata più volte di crimini contro l’umanità, sia in tempo di pace che di guerra. Ma questo, se vogliamo, è ancora un ambito dialettico sull’operato della scienza stessa che fu, ed è ancora, largamente di parte. Diverso invece (e più inquietante) è quando nel “Patto”si annuncia che non saranno tollerate forme di pseudoscienza e pseudomedicina fino al punto di auspicare leggi contro l’operato di chi sarà ritenuto, conseguentemente, uno pseudoscienziato.
E chi lo stabilirà? Con quali criteri? Se tutto questo non è una boutade elettoralistica che ammicca ad un asse tra Pd e 5S, allora i tempi bui di cui scriveva Brecht sono più vicini di quanto pensiamo e magari c’è già chi sogna di ripristinare le regole del Sant’Uffizio:
«Diciamo, pronuntiamo, sententiamo e dichiariamo che tu, Galileo sudetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Offizio vehementemente sospetto d’heresia, cioè d’haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e Divine Scritture».
Del resto sono già due i medici italiani radiati dall’ordine per aver assunto posizioni critiche sul decreto vaccini. E tanto per restare in tema, come dimenticare il falso allarme pandemia del 2010 che costò solo in Europa miliardi di euro di spesa in vaccini inutilizzati, o la denuncia di appena un anno fa dell’Istituto Negri, sulla immane inutilità dei farmaci in commercio e sulle cure prescritte senza alcuna evidenza scientifica?
Attenzione dunque a brandire la Scienza come una clava con cui colpire i “reprobi” che non ne riconoscono la sacralità. Così facendo avalleremmo l’idea che la Scienza debba essere separata dalla realtà sociale e dallo stesso scienziato che, al pari di un sacerdote, non esprime più un suo punto di vista in quanto, per definizione, esso è già contenuto nella Scienza-religione, ormai basata solo su se stessa e sulla sua infallibilità.
MAZZINI E L’ITALIA DEL 1826, DEL 1926, E DI OGGI. Una nota...
“[...] FORTUNA ED EREDITÀ DI MAZZINI FRA OTTOCENTO E NOVECENTO. Le complicate vicende della fortuna di Mazzini tra Ottocento e Novecento sono in effetti simbolicamente riassunte dall’episodio dell’adozione nelle scuole da parte del ministero della Pubblica istruzione, nel 1902, di un’edizione dei “Doveri dell’uomo” privata dei suoi elementi repubblicani, ritenuti poco consoni al contesto del giovane regno italiano. Spesso il riferimento alla figura e all’opera di Mazzini poteva infatti avvenire, nel discorso pubblico e politico, soltanto attraverso un preventivo svuotamento del suo messaggio politico originarioIl pensiero di Mazzini venne, sempre più con il trascorrere del tempo, riletto e appropriato in forme diverse nei decenni successivi alla sua scomparsa: prima dagli eredi diretti e dai difensori dell’ortodossia del movimento repubblicano; poi dai seguaci di un tempo che avevano aderito alla monarchia ed erano talora giunti a posizioni di governo nel Regno d’Italia: innanzitutto Crispi.
Dal principio del 20° sec., il pensiero di Mazzini fu poi analizzato, sezionato e ricostruito da autorevoli e influenti interpreti, specie di area democratica: primeggiano tra questi ancora oggi, per penetrazione e acutezza, lo storico Salvemini e il filosofo del diritto Alessandro Levi. Tuttavia, da un punto di vista teorico e politico fu innanzitutto la parte conservatrice a richiamarsi a Mazzini, seppure attraverso reinterpretazioni e revisioni ideologiche: fino all’appropriazione - per molti aspetti strumentale e deformante - che ne fece il fascismo, indicando in Mazzini uno dei propri precursori. Se Salvemini, Piero Gobetti, Benedetto Croce, Antonio Gramsci criticarono duramente Mazzini sul piano teorico, Giovanni Gentile ne fece, in modo influente, uno dei «profeti» del fascismo (a partire da I profeti del Risorgimento italiano, 1923). L’antifascismo, in primo luogo l’area di Giustizia e Libertà, celebrò invece Mazzini come eroe democratico e suscitatore di ideali, criticandone e in sostanza rifiutandone i principi politici teorici (Levis Sullam 2010; Mazzini e il Novecento, 2010).
Ma anche la memoria di Mazzini come simbolo suscitò complicate e tortuose rielaborazioni, se l’erezione di un monumento a lui dedicato nella capitale - la «terza Roma» da lui celebrata e agognata - dovette attendere oltre mezzo secolo e, quindi, la nascita della Repubblica per vedere la sua realizzazione (P. Lescure, Les enjeux du souvenir. Le monument national à Giuseppe Mazzini, «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 1993, 2, pp. 177-201, ma anche S. Luzzatto, La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato, 20112).
Le principali forze politiche italiane della seconda metà del 20° sec. faticarono a riconoscersi in Mazzini se non quale austero, ma politicamente svuotato, fondatore della patria e solo remoto ispiratore del suo ordinamento repubblicano. L’influenza di Mazzini avrebbe conosciuto piuttosto una funzione liberatrice in luoghi molto lontani e assai diversi dall’Italia (ma attraverso una evidente decontestualizzazione) come l’India e l’America Meridionale e i rispettivi movimenti nazionalisti e indipendentisti: garantendo in tal modo a Mazzini la fama, che oggi potremmo definire globale - anch’essa inevitabilmente frutto di proiezioni e rivisitazioni attualizzanti -, di padre dei «nazionalismi democratici» (Giuseppe Mazzini and the globalisation of democratic nationalism, 1830-1920, 2008).
* CFR.: “Mazzini, Giuseppe" - di Simon Levis Sullam - Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Filosofia (2012)- RIPRESA PARZIALE.
EUROPA 1918 - EUROPA 2018. Noi pregustiamo la dolcezza di quel giorno, non più lontano, in cui la carità tornerà a regnare ....
EPISTOLA
DOPO GLI ULTIMI
DEL PAPA BENEDETTO XV
AL CARDINALE DI SANTA ROMANA CHIESA
PIETRO GASPARRI,
SEGRETARIO DI STATO,
IN OCCASIONE DELLA FIRMA DELL’ARMISTIZIO
FRA ITALIA E AUSTRIA *
Signor Cardinale, dopo gli ultimi fortunati successi delle armi italiane, i nemici di questa Sede Apostolica, fermi nel loro proposito di sfruttare a suo danno tanto i tristi quanto i lieti avvenimenti, hanno procurato e procurano di eccitare contro di essa l’opinione pubblica italiana esultante per la ottenuta vittoria, quasi che il Sommo Pontefice ne fosse invece in cuor suo dispiacente.
Ella, signor Cardinale, ben conosce per quotidiana consuetudine i Nostri sentimenti, come altresì quale sia la prassi e la dottrina della Chiesa in simili circostanze. Nella lettera del 1° agosto 1917 ai Capi delle diverse Potenze belligeranti Noi facemmo voti, ripetuti poi anche in altre occasioni, perché le questioni territoriali fra l’Austria e l’Italia ricevessero soluzione conforme alle giuste aspirazioni dei popoli; e recentemente abbiamo dato istruzione al Nostro Nunzio in Vienna di porsi in amichevoli rapporti colle diverse nazionalità dell’Impero Austro-Ungarico che ora si sono costituite in Stati indipendenti. Egli è che la Chiesa, società perfetta, che ha per unico fine la santificazione degli uomini di ogni tempo e di ogni paese, come si adatta alle diverse forme di Governo, così accetta senza veruna difficoltà le legittime variazioni territoriali e politiche dei popoli.
Crediamo che se questi Nostri giudizi ed apprezzamenti fossero più generalmente conosciuti, nessuna persona assennata vorrebbe insistere nell’attribuirci un rammarico che non ha fondamento.
Non possiamo peraltro negare che una nube turba ancora la serenità nell’animo Nostro, perché non sono cessate dovunque le ostilità, ed il fragore delle armi cagiona ancora in più luoghi e preoccupazioni e timori. Ma, sperando che la lieta aurora di pace, spuntata anche sul Nostro diletto paese, non tardi ormai a rallegrare gli altri popoli belligeranti, Noi pregustiamo la dolcezza di quel giorno, non più lontano, in cui la carità tornerà a regnare fra gli uomini e la universale concordia stringerà le Nazioni in lega feconda di bene.
Ci è caro intanto di confermare a lei, signor Cardinale, la Nostra particolare benevolenza, e vogliamo che di questa Le sia nuovo pegno la Benedizione Apostolica che le impartiamo con effusione di specialissimo affetto.
*
Dal Vaticano, 8 novembre 1918.
BENEDICTUS PP. XV
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
«Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12 Bollettino di guerra n. 1268 *
La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d’Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.»
(Armando Diaz, comandante supremo del Regio Esercito)
*
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Bollettino_della_Vittoria
La marcia su Roma: il colpo di stato di Vittorio Emanuele
di ANGELO D’ORSI *
Il 28 ottobre non è soltanto il giorno in cui ebbe inizio, nel 1922, la “Marcia su Roma” delle camicie nere, che si concluse con il colpo di Stato di Vittorio Emanuele III, che rifiutando di firmare il decreto di stato d’assedio emanato dal Governo Facta, e chiamando Benito Mussolini a Roma, con l’incarico di formare un nuovo Esecutivo pose fine alle libertà italiane, con una sorta di suicidio politico-istituzionale dello Stato liberale e di Casa Savoia.
Il 28 ottobre di sedici anni più tardi, nel 1938, su pressione delle potenze occidentali, “democratiche”, un decreto del governo (guidato da Juan Negrín), della Spagna repubblicana, ormai in procinto di cadere, sopraffatta dall’aggressione interna, da parte delle truppe infedeli di Francisco Franco, e dall’attacco esterno di Italia fascista e Germania nazista, liquidava le Brigate Internazionali, con la ormai grottesca motivazione di non dare adito a sospetti e polemiche sui combattenti stranieri, e facilitare una “distensione” degli animi in Spagna. 130.000 combattenti provenienti da oltre 50 nazioni furono obbligati a lasciare il territorio spagnolo, quello ancora controllato dalla Repubblica. Quegli uomini e quelle donne sfilarono, quel giorno fatale, per le vie di Barcellona, salutati da una folla immensa, si dice di 300.000 persone. Aerei sorvolarono quel corteo, spargendo volantini con un sonetto del grande poeta Miguel Hernández, una commossa ode al soldato morto per la libertà della Spagna, che cominciava con questi versi: “Se ci sono uomini che contengono un’anima senza confini, / una fronte sparsa di capelli mondiali, / coperta di orizzonti, navi e catene montuose, / con sabbia e neve, tu sei uno di loro”.
Fu la fine di un sogno internazionalista di eccezionale valore morale e politico, anche se di limitato peso militare. Le Brigate Internazionali nacquero per un moto spontaneo, anche se poi vennero, successivamente, inquadrate e organizzate per volontà del Comintern, e purtroppo videro scontri interni gravissimi, con gli emissari di Mosca, spesso più pronti a combattere anarchici, trotzkisti, socialisti, e comunisti irregolari, che i fascisti. Quelle divisioni intestine furono una delle concause della sconfitta repubblicana. La sinistra divisa perde sempre. La sinistra che si combatte da sola, che considera più importante fare piazza pulita dei compagni giudicati, per ragioni spesso discutibili e non di rado assurde, poco affidabili, invece che concentrarsi sugli avversari, e lottare contro di essi, è destinata, alla lunga, a estinguersi. E’ follia sperar che una volta o l’altra si possano imparare le (terribili) lezioni della storia?
Angelo d’Orsi
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NELL’ORIZZONTE DELL’IMMAGINARIO DI COSTANTINO (“IN HOC SIGNO VINCES”). Lorenzo Scupoli, Francesco di Sales, e Maria Gaetana Agnesi ....
PER COMPRENDERE come e perché il libro di Lorenzo Scupoli (nato intorno al 1530 a Otranto, l’antica Hydruntum, che cinquant’anni prima era stata teatro del tragico martirio di ottocento suoi concittadini, decapitati dai turchi sul colle della Minerva), sia diventato un “bestseller senza tempo” (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/01/lorenzo-scupoli-1530-1610-di-otranto-e-il-suo-best-seller-senza-tempo/), non è male RICORDARE CHE
A) [...] il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli va collocato all’interno di una ricca e articolata produzione centrata sulla nozione di ‘milizia cristiana’, che poteva esibire un precedente di assoluto rilievo come Le armi necessarie alla battaglia spirituale di Caterina da Bologna e visse la sua stagione più feconda nei convulsi anni del Concilio di Trento e nei decenni successivi [...]” (cfr.: http://www.ereticopedia.org/lorenzo-scupoli).
B) “Francesco di Sales considerava un bene prezioso il Combattimento spirituale, che portava sempre con sé da ben diciotto anni, come ricorda in una lettera del 1607”, E CHE “Discutendone con l’amico e corrispondente epistolare Jean-Pierre Camus, il Sales espresse l’opinione che il Combattimento dello Scupoli costituiva per i teatini, mutatis mutandis, ciò che gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio avevano rappresentato per i gesuiti” (op.cit.),
C) “[...] Il Combattimento spirituale fu una delle letture preferite di Maria Gaetana Agnesi, newtoniana e matematica di respiro europeo, il cui Cielo mistico - rimasto a lungo inedito - attinge soprattutto alla spiritualità teatina dei primordi, a sant’Andrea Avellino e a Lorenzo Scupoli, che con l’ascetica dell’imitatio Christi e la devozione della Croce offrivano immagini e suggestioni di straordinaria efficacia psicologica e visiva. Agnesi possedeva il Combattimento in un’edizione padovana del 1724 e di certo doveva ritrovarvi molte idee proprie, che sul piano spirituale riflettono una fede di matrice teatina, attenta alle deliberazioni del Tridentino ma sensibile alle istanze riformatrici di stampo muratoriano, in dialogo continuo con le esigenze della ragione e la sensibilità tipica dei Lumières. In tale contesto iniziò a diffondersi a metà Settecento il mito che Agnesi, da precoce adolescente qual era, aveva tradotto in greco il Combattimento spirituale di Scupoli [...] (op.cit.).
Federico La Sala
NOTA
SULL’immaginario del cattolicesimo romano e sull’ "istanze riformatrici di stampo muratoriano", nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
FLS
Dibattito
Una pagina di storia spesso ignorata poichè dimostrava l’adesione del popolo italiano al fascismo. Ecco perché a ottant’anni di distanza sono ancora diversi i nodi da sciogliere
Ancora aperta è la questione dell’effettiva presa che il razzismo introdotto dalle leggi ha avuto sulla mentalità degli italiani Quale fu la diffusione dell’antisemitismo negli anni di propaganda antiebraica
LEGGI RAZZIALI. La memoria negata
di ANNA FOA (Avvenire, 23.10.2018)
Ottant’anni fa, il regime fascista emanava quelle che sono passate alla storia con il nome di leggi razziali, anche se sarebbe preferibile definirle “leggi razziste”.
L’annuncio ufficiale fu dato dal duce stesso a Trieste il 18 settembre 1938, nella piazza dell’Unità d’Italia, affollatissima e plaudente. Il 5 agosto di quell’anno era uscito il primo numero de La difesa della razza, la rivista razzista ad amplissima diffusione diretta da Telesio Interlandi, con un giovane Giorgio Almirante come segretario di redazione. La rivista scriveva in apertura: «È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. [...] La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofi che o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano nordico».
Nel luglio, il Manifesto della Razza, firmato da un certo numero di scienziati ma opera in gran parte dello stesso Mussolini, aveva gettato le basi teorichedi questa svolta.Cominciava l’emanazione delle leggi di discriminazione contro gli ebrei. Il primo settore a essere colpito fu quello della scuola, già all’inizio di settembre, con l’espulsione di studenti e docenti dalle scuole di ogni ordine e grado. Seguirono i provvedimenti contro gli ebrei stranieri: la perdita della cittadinanza italiana per chi l’avesse acquisita dopo il 1919, l’espulsione. Nel 1940, con l’entrata in guerra, gli ebrei stranieri sarebbero stati rinchiusi in campi di internamento appositamente creati. In un susseguirsi di leggi, norme e disposizioni successive, la perdita da parte degli ebrei dei diritti conquistati con l’Emancipazione era sancita per legge. Altre disposizioni non avevano riscontro nel periodo pre-emancipatorio, come il divieto di matrimonio tra “ariani” ed ebrei, sia pur convertiti. Ottant’anni fa, quindi. Oggi ce ne ricordiamo e celebriamo questo anniversario non solo come l’inizio delle sciagure del mondo ebraico italiano, ma come la distruzione definitiva da parte del fascismo dell’Italia nata dal Risorgimento e fondata sull’uguaglianza dei suoi cittadini. Un problema dell’Italia tutta, quindi, e non degli ebrei soltanto.
Ma quanto e come ce ne siamo ricordati in questi ottant’anni? In realtà, la memoria delle leggi del 1938 non ha seguito lo stesso percorso di quella della Shoah. Se quest’ultima ha avuto anch’essa delle difficoltà a costruirsi e ad affermarsi, almeno per i primi quindici anni dopo il 1945, quella delle leggi del 1938 è ancora più tarda. Solo dopo cinquant’anni, nel 1988, si moltiplicano gli studi sulle leggi razziali, sul loro contenuto, sul contesto in cui sono state emanate, sulla loro messa in atto. -Le ragioni di questo ritardo sono diverse. Innanzitutto, il confronto con la Shoah: è evidente che la persecuzione dei diritti, così è stato chiamato il periodo tra il 1938 e il 1943, e quella delle vite, con l’arresto, la deportazione e i campi di sterminio, sono entità incommensurabili. Auschwitz non è paragonabile alla perdita del posto di lavoro e nemmeno, per quanto traumatica sia stata, alla cacciata dei bambini ebrei dalle scuole. Solo più tardi si è arrivati achiarire il ruolo fondamentale che avrà il censimento degli ebrei del 1938, deciso dal regime contemporaneamente al varo delle leggi, per l’avvio dell’individuazione degli ebrei, del loro arresto, della loro deportazione.
Le liste create nel 1938 e periodicamente aggiornate, presenti in questure e prefetture, sono servite dopo il settembre 1943 ai nazisti per rintracciare e arrestare gli ebrei. Durante l’intermezzo del governo Badoglio, nessuno ha ordinato agli uffici di distruggerle o almeno di nasconderle. Solo alcuni funzionari lo hanno fatto, spontaneamente e a loro rischio e pericolo. La persecuzione dei diritti, tanto meno grave di quella delle vite, poteva quindi, nel dopoguerra, anche essere considerata di secondaria importanza.
Inoltre, il ricordo delle leggi del 1938 metteva in discussione l’immagine prevalente nel dopoguerra e oltre di un’Italia ligia al fascismo per paura o conformismo, non per convinzione, in cui i delitti di sangue, gli stermini e i massacri erano stati opera non dei fascisti ma dei nazisti. Dare troppa enfasi alle leggi del 1938 voleva dire introdurre l’idea del consenso al fascismo, un’idea che per essere pienamente accettata nell’Italia repubblicana ha dovuto passare attraverso vie strette e affrontare numerose contraddizioni. Non ultima quella del primo sostenitore dell’ampio consenso italiano al fascismo, Renzo De Felice, che ha minimizzato invece le leggi razziali e soprattutto la loro esecuzione, mentre eraquello un nodo che se affrontato avrebbe potuto consolidare l’immagine del consenso italiano al fascismo. Un consenso, certo, gravido di responsabilità e di colpe.
Poi, il problema di spiegare una svolta effettivamente poco comprensibile, il passaggio del fascismo all’antisemitismo. In un primo momento, uno dei temi affrontati è stato proprio questo: perché Mussolini ha emanato le leggi del 1938? Provata l’inesistenza di una richiesta di Hitler al suo alleato italiano, non si poteva che ricorrere a spiegazioni più generali: il razzismo portato dalla guerra d’Etiopia, la convinzione di Mussolini che il razzismo hitleriano e l’esaltazione della razza ariana rappresentassero l’accesso alla modernità, al nuovo mondo vittorioso prospettato da Hitler. Molto si è discusso anche del ruolo giocato dal dittatore: era personalmente antisemita? Questioni marginali, credo, di fronte alla firma del duce, accanto a quella del re in fondo al decreto di istituzione delle leggi razziste.
Di qui, il dibattito, tuttora vivo, sulla data d’inizio della politica razziale del fascismo: il 1938? Il 1937 o il 1936? O addirittura il 1929, con il Concordato con la Chiesa? Credo sia necessario mantenere il fuoco dell’attenzione non su sporadici casi di antisemitismo ma sulla preparazione e la messa a punto della legislazione antisemita vera e propria, cioè sul 1937. Un altro dei temi maggiormente all’attenzione tanto della storiografia che del pubblico è stato quello della reazione della Chiesa all’emanazione della legislazione razziale. Una reazione che fu concentrata soprattutto sulla questione dei matrimoni misti, senza che nemmeno su questo punto la Chiesa riuscisse però a ottenere alcun risultato rilevante. Nonostante compromessi e ambiguità, il conflitto tra razzismo e Chiesa fu radicale. Fra l’altro, fra il 1938 e il 1943, in seguito al prevalere dell’ideologia della razza, la tradizionale politica cattolica volta a favorire le conversioni finì per essere attaccata dall’ala più estrema del fascismo come un tentativo ebraico di minare dall’interno la compattezza della razza italica (..).
Quella che ancora resta aperta è la questione dell’effettiva presa che il razzismo introdotto dalle leggi ha avuto sulla mentalità degli italiani. Quale fu la diffusione dell’antisemitismo nei sette anni di martellante propaganda antiebraica lanciata dallo Stato fascista? Si è parlato di indifferenza, e poi, nel 1943, di trasformazione, in molti casi, dell’indifferenza in pietà e sostegno. Ma quanti invece accolsero le leggi non con indifferenza ma con convinzione e fervore e passarono senza contraddizioni dal razzismo indotto dalla propaganda alla caccia concreta all’ebreo lanciata dalla Rsi? Non abbiamo molte fonti a documentare questa questione, anche perché nel dopoguerra razzismo e antisemitismo sono divenuti e restati a lungo tabù. Ora questo tabù si è assai indebolito, e il razzismo non è più un’ideologia da nascondere e viene proclamato da molti a voce sempre più alta, anche se, per ora, non ancora contro gli ebrei. Sarebbe forse il caso che noi storici ci occupassimo di analizzare più a fondo il modo in cui il veleno delle leggi del 1938 si è diffuso nell’animo degli italiani e i suoi guasti di lungo periodo. Non solo per illuminare il passato, ma anche per capire il presente.
Via le pensioni agli ebrei vittime delle leggi razziali e ai perseguitati dal fascismo per motivi politici
di Andrea Carugati (La Stampa, 29.10.2018)
Il decreto fiscale spazza via il sostegno dello Stato per perseguitati politici e razziali, oltre che per i pensionati di guerra. Un taglio da 50 milioni al Fondo istituito al ministero dell’Economia, con effetto immediato.
E così, a ottant’anni esatti dalle leggi razziali, la maggioranza giallo-verde taglia gli assegni previsti fin dal 1955 per chi aveva subito la persecuzione fascista perché di religione ebraica o per le idee politiche. Assegni di modesta entità, circa 500 euro al mese, destinati a persone nate prima del 1945, dunque sopra i 70 anni. Si tratta di alcune migliaia di cittadini, che rischiano di non vedere già gli assegni di novembre e dicembre. Persone che hanno avuto diritto a questo vitalizio come «gesto riparatore» per aver perso il lavoro o il diritto di andare a scuola dopo il 1938, o perché costretti a fuggire all’estero.
La decisione è contenuta in un allegato al decreto fiscale, insieme ad altri tagli che riguardano il sostegno alle famiglie e alle imprese. Una sforbiciata che rientra nella spending review che il governo ha attuato per fare cassa e trovare le coperture per la manovra. Ma che colpisce per il suo valore simbolico. Anche perché - questo il fondato timore dell’Unione delle comunità ebraiche italiane - non si tratterebbe di una riduzione dell’assegno, ma di una vera e propria cancellazione. La legge varata nel 1955 porta il nome del senatore comunista Umberto Terracini, e per circa trent’anni ha riguardato prevalentemente i perseguitati politici. Poi, dal 1986, grazie a un intervento della Corte costituzionale, nella commissione governativa che eroga gli assegni è stato inserito anche un rappresentante delle Comunità ebraiche. Da allora l’accesso a questo istituto si è diffuso anche tra gli ebrei italiani, sia quelli che hanno vissuto gli anni delle persecuzioni sia -in via indiretta- i coniugi e gli orfani con un reddito annuo sotto i 17 mila euro.
Una procedura non semplice. Gli aventi diritto devono fare domanda alla commissione e documentare gli atti persecutori che li hanno colpiti, come ad esempio le lettere delle scuole che li hanno esclusi dopo il 1938. Documenti vecchi di decenni e difficili da reperire.
Tra gli ebrei italiani la notizia ha suscitato un forte sconcerto. La presidente dell’Ucei Noemi Di Segni ha scritto al premier Giuseppe Conte, al ministro dell’Economia Giovanni Tria e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, che ha la delega per i rapporti con le confessioni religiose e per le attività dedicate alla memoria. Di Segni ha anche chiesto di poter essere sentita dalla commissione Finanze del Senato che da oggi esaminerà il decreto fiscale.
L’obiettivo di questo «appello morale» è arrivare a un ripensamento da parte della maggioranza, almeno in fase di esame parlamentare del decreto. C’è tempo infatti fino a Natale prima della definitiva conversione in legge. E per evitare che partano le raccomandate in cui lo Stato informa i perseguitati che, dal 2018, non si sente più in dovere di riparare l’immenso danno che hanno subito. Neppure con un piccolo assegno.
Vergogna firmata a San Rossore
Le leggi razziali fasciste sono un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi applicati a partire dal 1938, con l’obiettivo di colpire soprattutto la minoranza ebraica residente in Italia. Benito Mussolini le annunciò il 18 settembre di quell’anno durante un comizio a Trieste; il 5 settembre, il re Vittorio Emanuele III aveva firmato la prima legge in difesa della razza nella tenuta regia di San Rossore, a Pisa.
Con queste norme la popolazione ebraica fu gradualmente estromessa dai diritti sociali e civili: insegnanti, impiegati e dirigenti della pubblica amministrazione furono licenziati; gli studenti vennero esclusi dalle scuole e si stabilì il divieto, per tutti gli ebrei, di sposare persone “di razza italiana”. Le leggi impedivano anche agli imprenditori discriminati di possedere aziende con più di 100 dipendenti, oltre che di avere la proprietà di terreni e fabbricati che superavano certe dimensioni. Le leggi razziali, precedute, come contesto culturale, dal Manifesto della Razza, restarono in vigore fino al 1944.
* Il Fatto, 29.10.2018
Gli studenti di Pisa ricostruiscono le vite dei prof ebrei nel ’38
La Sant’Anna e la Normale si sono messe alla ricerca della memoria perduta: i venti docenti cacciati da Mussolini per la difesa della “razza ariana” nei lavori degli allievi di oggi
di Giorgio Meletti (Il Fatto, 29.10.2018)
Giulio Racah è un genio della fisica. Nel 1937, a 28 anni, va in cattedra all’Università di Pisa. Scrive al rettore Giovanni D’Achiardi: “Di famiglia toscana, e attaccato alle glorie della tradizione toscana, mi sento particolarmente fiero della nomina”. Pochi mesi dopo D’Achiardi lo sospende dall’insegnamento “ai sensi” del Regio Decreto 5 settembre 1938, n. 1390 “sulla difesa della razza”. Racah si crede fiorentino ma il fascismo lo classifica ebreo. Se ne va alla Hebrew University di Gerusalemme con quattro lettere di raccomandazione firmate da (in ordine alfabetico): Niels Bohr, Albert Einstein, Enrico Fermi e Wolfgang Pauli.
Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Bottai festeggia la bonifica degli atenei: “Da questa improvvisa amputazione né la scienza, né l’insegnamento soffriranno; rapidamente i vuoti saranno colmati, forze tenute lontane fino ad oggi avanzeranno finalmente sulla strada sgomberata”.
Prima gli ariani? Sì, ma dura poco. Dopo la guerra il nuovo rettore Augusto Mancini chiede a Racah di tornare. Riceve un fermo no: “Il mio posto di lavoro è oggi qui, per cooperare alla ricostruzione del Paese che mi accoglieva a braccia aperte nel 1939”.
La memoria è spietata e necessaria. La storia di Racah è stata ricostruita da Simona Grazioli, studentessa di biotecnologie alla Scuola Superiore Sant’Anna. Michele Emdin, docente di cardiologia, ha proposto agli studenti della Sant’Anna e della Normale di studiare la storia dei venti professori ebrei che nel 1938 furono cacciati da Pisa: “I protagonisti ormai vengono a mancare e dobbiamo trasferire il testimone del ricordo ai giovani, in particolare agli allievi delle due scuole di eccellenza”. Sotto la guida degli storici professionisti Michele Battini, Barbara Henry e Ilaria Pavan, gli studenti si sono sottoposti a una terapia maieutica, scoprendo il senso spaventoso del razzismo dalle proprie indagini anziché da un professore. E riproponendo - in una intensa giornata di studio voluta dalle tre Università pisane - il variopinto mosaico di una storia vergognosa.
Purtroppo è tornato di attualità il bisogno di rimarcare che gli ebrei, come gli immigrati, non sono alieni. Michele Pajero, studente di scienze politiche, ricorda che Piero Sraffa (l’amico di Antonio Gramsci a cui si deve il salvataggio dei Quaderni del carcere), già nel 1932 cominciava a sentire una brutta aria: “Oggi, o si è ebrei, o non lo si è - non c’è via di mezzo”. Primo Levi ha consolidato il concetto: “Se non ci fossero state le leggi razziali e il lager, io probabilmente non sarei più ebreo, salvo che per il cognome. Invece questa doppia esperienza, le leggi razziali e il lager, mi hanno stampato come si stampa una lamiera”.
Naftoli Emdin, nonno di Michele, allontanato nel 1938 dal suo insegnamento di medicina legale, se l’è studiato Vincenzo Castiglione. Originario di Gomel (nell’attuale Bielorussia), si forma a San Pietroburgo, si ammala di tubercolosi, cerca di spostarsi a Mosca ma gli viene vietato perché è ebreo, finisce al sanatorio di Nervi e poi a Pisa dove si laurea in medicina, si sposa con una ragazza toscana e insegna all’Università. Il 5 settembre 1938 Vittorio Emanuele III firma la prima delle leggi razziali nella tenuta di San Rossore, appena fuori Pisa. Emdin deve spiegarle a Ruben di 15 anni e Rafael di 13, due ragazzi pisani e però ebrei. Scrive ai figli una lettera sulla paura, sulla dignità e sulla loro patria, l’Italia:
Le leggi razziali non sono state solo una questione di cattedre universitarie tolte alla razza inferiore e date a professori ariani che non le restituiranno neppure dopo la caduta del fascismo. La squadra del cardiologo Emdin (tra loro anche Silvia Barbiero, Chiara Borrelli, Lorenzo Mangone e Giorgio Motisi, con Davide Guadagni dell’Università di Pisa in regia) ha fatto i conti con la storia di Bruno Paggi, grande chirurgo originario di Scansano (Grosseto), che lascia a Pisa moglie e sette figli e vive per dieci anni in Venezuela commerciando carburanti.
Lo studente Alberto Aimo ha ricostruito la tragica parabola di Ciro Ravenna. Le leggi razziali lo abbattono alla vigilia del cinquantesimo compleanno. Originario di Ferrara, come molti ebrei è anche un buon fascista. Ha partecipato da volontario alla Grande Guerra. Dal 1924 è professore ordinario e direttore della prestigiosa Scuola agraria pisana, dal 1932 è iscritto al Partito nazionale fascista. È anche abbonato sostenitore del giornale pisano Idea fascista. Chiede di limitargli le restrizioni delle leggi razziali per i suoi meriti di guerra e di buon fascista oltre che per le indubbie benemerenze scientifiche. Ma la contabilità fascista gli mette in conto l’essere celibe e senza prole. Torna a Ferrara dove campa con lezioni private e insegnando nelle scuole ebraiche. Il 15 novembre 1943 viene arrestato dalla polizia di Salò.
All’inaugurazione dell’anno accademico 1945-46 il rettore Mancini dedica a Racah, Kristeller, Ravenna e gli altri il pensiero imbarazzato di un corpo docente pavido, compattamente pavido sulla scia del suo guru accademico, Gentile: “Un ricordo particolare, poiché di essi, quasi vitandi, non era lecito parlare, è dovuto a quei colleghi che furono allontanati dall’insegnamento per motivi razziali”. Furono materialmente allontanati dai colleghi. Comunque Mancini cerca notizie di Ravenna e in pochi mesi le ottiene. Il sindaco di Ferrara gli scrive che “il Prof. Ciro Ravenna e familiari sono stati deportati in Germania e del Professore non si hanno avuto più notizie”. Pisa ha dedicato a Ciro Ravenna una stradina periferica. Sotto il suo nome, su un targa arrugginita, c’è scritto “agronomo”. Sulla memoria c’è molto da fare. Siamo solo all’inizio.
Gentile: il pavido tentativo di salvare Paul Kristeller
Alle preoccupazioni del 28enne tedesco già fuggito dal nazismo il professore replicava: “Vi esorto a non pensarci troppo”. Ma gli dispiaceva
di G. Me. (Il Fatto, 29.10.2018)
“Carissimo, ho parlato giorni addietro a Gabetti di un valentissimo giovane, il Dott. Cristaller [sic] che accetterebbe volentieri un lettorato tedesco in Italia. (...) È ebreo, ma appoggiatissimo da Heidegger, di cui è allievo”. È il 2 ottobre 1933, mancano cinque anni alle leggi razziali ma - con buona pace del partito “non volevano ma Hitler...” - essere ebreo in Italia è già un dannato problema.
Paul Oskar Kristeller ha 28 anni e ha lasciato la Germania: uno dei primi atti del nazismo è cacciare gli ebrei dall’Università. È un raffinatissimo studioso di filosofia. È ebreo ma bravo. Cinque anni dopo sarà bravo ma ebreo. Il professor Ernesto Codignola segnala il giovane al suo maestro Giovanni Gentile che se lo prende alla Scuola Normale di Pisa, di cui è direttore. Gentile è un fascista della prima ora, ministro dell’Istruzione e artefice della riforma della scuola. Un grande intellettuale che naviga nella dura realtà politica. Non condivide le teorie razziste ma tace. Aderirà alla repubblica di Salò e nel 1944 sarà ucciso da partigiani comunisti.
Kristeller, secchione patologico, a Pisa sembra felice. “Posso constatare, non senza commozione, che il suo paese mi dà un’ospitalità e un aiuto amichevole che mi ha rifiutato la mia propria patria”, scrive a Gentile, ma forse è solo diplomazia. Un collega della Normale, Luigi Baccolo, lo intuisce: “Tutti vedevamo nascere l’alba di una nova epoca, ma solo Kristeller vedeva il sangue di quell’alba”. Si prepara per Kristeller un nuovo esilio, e Laura Grazioli, studentessa di chimica alla Normale, ricostruisce la sequenza drammatica di paura e vigliaccheria.
Gentile incita Kristeller a ottenere la cittadinanza italiana, va a Roma per intercedere presso il Duce che gli dice no. Il 14 luglio 1938, viene pubblicato il Manifesto della razza. Kristeller è angosciato: “Sono parecchio preoccupato per ciò che leggo adesso sui giornali, Vi sarei grato di sentire il vostro parere in proposito”. Il filosofo dell’attualismo minimizza: “Vi esorto a non pensarci troppo”. Ma al vicedirettore della Normale Gaetano Chiavacci scrive: “Vedi come cresce la marea antisemita? Mi dispiace pel povero Kristeller”.
Ad agosto l’editore Sansoni respinge la monografia di Kristeller su Marsilio Ficino perché è arrivato il divieto di pubblicare autori ebrei. Chiavacci pone a Gentile la questione delle teorie razziali: “Dovremo assistervi passivi?”. Gentile risponde con l’attualismo. Il 29 agosto ottiene udienza da Mussolini, gli chiede di chiudere un occhio sul filologo ebreo. Si illude. Scrive trionfante: “Per intanto Kristeller non si tocca. Ho parlato anche con Mussolini”.
Ma arrivano le leggi razziali. L’8 settembre Gentile scrive al Duce: “Eccellenza, nel colloquio che lunedì scorso Vi compiaceste di accordarmi, mi diceste di non toccare a Pisa il Kristeller. Questi invece mi pare ricada sotto il decreto di ieri, che espelle dal Regno tutti gli stranieri di razza ebraica (...). Vi prego vivamente, per mia norma, di farmi sapere se posso o no trattenere, e nel caso positivo in che modo, questo povero diavolo come lettore di lingua tedesca nella Scuola Normale Superiore. Vogliate scusarmi. Vostro Giovanni Gentile”.
Gli risponde il sottosegretario all’Interno Guido Buffarini Guidi, pisano: “In relazione alla lettera da Voi diretta al DUCE in data 8 settembre u.s., Vi comunico che, giusta Superiori disposizioni, è stato consentito al Prof. Kristeller, israelita straniero, di risiedere in Italia fino alla scadenza del termine massimo stabilito dal R.D.L. 7.9.1938, n° 1381. Il DUCE, inoltre, ha disposto che al medesimo venga elargita la somma di L. 5000 per metterlo in condizione di sostenere più agevolmente le spese di trasferimento”.
Kristeller va in America. Gentile pensa alla Normale e cerca un docente che lo sostituisca. Scrive a Codignola: “Spero bene che non sia né israelita, né antinazista. Mi premerebbe avere un altro Kristeller, ma senza il punto nero che mi diede sempre tanto da fare”.
Kristeller se ne va col suo punto nero a insegnare alla Yale e alla Columbia. Morirà a 94 anni lasciandoci una negazione quasi beffarda dell’attualismo gentiliano: “Il passato resta reale anche dopo che è scomparso dalla scena. È compito dello storico tenerlo vivo e dare giustizia anche a sconfitti e dimenticati”.
1938, lo Stato italiano contro gli ebrei
Non solo Mussolini, il parlamento e il re ma anche i volenterosi carnefici del regime
di Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 13.10.2018)
La responsabilità delle leggi razziali antiebraiche introdotte a partire dal 1938 è certo di Mussolini, del parlamento fascista (alla Camera dei Deputati 340 voti favorevoli, 0 contrari) e di Vittorio Emanuele III; quest’ultimo successore sul trono di Carlo Alberto, che novant’anni prima aveva dato lo Statuto (tutti i regnicoli sono eguali dinanzi alla legge) e riconosciuto a ebrei e valdesi i diritti civili. Tra leggi e circolari l’espulsione degli ebrei dalla vita sociale fu progressiva e alla fine completa. L’impulso politico che aveva prodotto le leggi e le circolari ministeriali richiese atti di esecuzione.
La macchina della vergogna
In particolare, per l’espulsione degli ebrei dai posti che occupavano nelle professioni liberali e nella pubblica amministrazione, furono necessari atti amministrativi individuali per ciascuno dei colpiti. Molti organismi, molte persone furono quindi coinvolti e parteciparono all’opera.
Alla ricostruzione dell’esecuzione delle leggi razziali e all’identificazione di coloro che ne furono vittime si sono dedicati gli autori di due recenti studi. Il Consiglio Superiore della Magistratura e il Consiglio Nazionale Forense hanno da poco pubblicato un volume sull’allontanamento di magistrati e avvocati ebrei. Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, per Il Mulino, pubblicano ora
Il censimento
Si tratta di circa 720 funzionari ebrei (56 dei quali sarebbero poi finiti nei campi di concentramento nazisti). Vi fu un censimento innanzitutto, con richiesta a centinaia di migliaia di dipendenti pubblici di fornire indicazioni sulla loro razza, discendenza, religione. Tutti dovettero rispondere (e risposero) e quindi, applicando complessi criteri, fu compilato l’elenco di coloro che dovevano ritenersi ebrei. Prima di essere cacciati, molti dipendenti pubblici, magistrati, avvocati ebrei scelsero di dimettersi o di cancellarsi dagli albi degli avvocati. Furono 14 i magistrati esclusi dall’Ordine giudiziario. Ogni posto «liberato» fu occupato da un dipendente non ebreo.
Si tratta di volumi che non solo coltivano il ricordo di chi fu colpito e la memoria dell’infamia dello Stato, ma anche consentono di non limitare e, per così dire, esaurire l’esecrazione con la condanna dei massimi responsabili politici. È infatti necessario allargare lo sguardo e chiedersi come fu possibile la rapida, solerte esecuzione di simili leggi, nella sostanziale indifferenza della società e dei colleghi delle vittime. E poi chiedersi come reagirebbero oggi la società italiana e le sue varie istituzioni, dovesse mai riprodursi una situazione di tanto grave ingiustizia delle leggi.
Una prima risposta richiama il peso schiacciante della dittatura e l’eliminazione dell’indipendenza della magistratura e dell’autonomia dell’avvocatura. I Consigli dell’Ordine degli avvocati erano stati progressivamente privati di competenze e sostituiti dal Sindacato fascista.
Una formula brutale
Ma a quel contesto istituzionale, da cui oggi siamo tanto lontani, va aggiunta la posizione della legge nel diritto e nella cultura giuridica di quel tempo: la legge indiscutibile, nessuna istanza superiore alla legge, cui richiamarsi per metterla in discussione. L’unica alternativa alla applicazione della legge era la sua violazione, oppure, sporadicamente, sforzi interpretativi e limitativi di cui in qualche caso fece uso la magistratura.
Quelle leggi e quelle introdotte nella Germania nazista e in altri Stati europei, poi concluse con la Shoah, hanno messo in crisi nel dopoguerra la pretesa di indiscutibilità delle leggi. Dopo l’esperienza nazista vi fu chi come Gustav Radbruck, il filosofo del diritto tedesco, riprese l’idea di un diritto al di sopra delle leggi, rispetto al quale le leggi positive possono tradursi in torto legale e quindi da non applicare. La riflessione filosofica è poi divenuta una realtà normativa, quando in Italia e in gran parte d’Europa si affermò la superiorità della Costituzione sulle leggi. Venne poi resa concreta la responsabilità degli Stati rispetto ai diritti fondamentali, con le Carte internazionali e particolarmente, in Europa, con la Convenzione europea dei diritti umani e la sua Corte.
Il criterio che si riassume nella brutale formula dura lex sed lex è oggi inammissibile. Non è più necessario il coraggio di rifiutare l’applicazione di una legge ingiusta, incompatibile con i diritti fondamentali dell’uomo. Ora, qualunque sia la forza del legislatore, qualunque sia l’atteggiamento dell’opinione pubblica, per tutti e in primo luogo per i giudici sarebbe un dovere sottoporre una simile legge a uno scrutinio superiore, quello fondamentale della giustizia.
Il libro, l’elenco
E lo Stato si piegò alla razza
L’espulsione dei dipendenti pubblici ebrei nel 1938 fu la tomba del diritto
Hanno un nome gli statali ebrei buttati fuori dal lavoro nel ’38
Memoria. Ottant’anni dopo, un libro di Giorgio Fabre e Annalisa Capristo con l’elenco delle persone cacciate (il Mulino)
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 03.10.2018)
Pace Raffaele, usciere. Minerbi Fernando, magistrato. Haim Massimiliano, operaio giornaliero. De Angelis Guido, vicedirettore del Tesoro. Luzzatto Mario, archivista. Foà Giovanna, professoressa. E via così... Hanno finalmente un nome gli ebrei che, sulla base delle leggi razziali del 1938, furono buttati fuori dallo Stato italiano per il quale lavoravano e nel quale credevano spesso con mal riposta devozione. Ottant’anni hanno dovuto aspettare perché fosse loro riconosciuto il primo dei diritti umani: la dignità di un nome. Una identità. Quella che i nazisti cancellarono tatuando sulla pelle dei deportati un numero. Come quello impresso sul braccio della senatrice a vita Liliana Segre: n. 75190.
Nomi recuperati uno ad uno, con infinita, minuziosa, infaticabile pazienza da Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, che firmano Il registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943 (in libreria per il Mulino dall’11 ottobre). Un volume nel quale tutti quei nomi, recuperati appunto sui registri dei decreti di cessazione e di liquidazione di tutti i dipendenti pubblici ebrei, «ci si fanno davanti», come scrive Adriano Prosperi nella postfazione, «riscattati dal silenzio».
All’esterno, scrivono i due storici, «quei grandi volumi di protocollo “in folio” sembrano normali registri tipici dell’epoca, magari solo molto voluminosi e poco maneggevoli. Ma basta aprirne uno e, a seguire, gli altri, e con un colpo d’occhio viene fuori immediata la grande e cupa sorpresa. Le pagine - molte pagine, talvolta, per intero - sono costellate di righe rosse, in corrispondenza di alcuni dei nomi presenti nel registro. Le righe rosse sottolineano le parole “Razza Ebraica”, “Ebreo”, “Ebrea”».
Nomi, storie, tragedie. Come quella dell’impiegata del ministero delle Comunicazioni Lidia Della Riccia, che il 18 novembre di quell’autunno nero scrive, «orfana e sola», a Vittorio Emanuele III una lettera gonfia di delusione e di sconcerto. Dove spiega non solo di esser stata battezzata, ma di essere entrata di ruolo con un decreto del 20 settembre 1938 e a partire dal 28 ottobre 1938. Cioè «dopo» l’inizio dell’offensiva razziale fascista: «Ero felice di essermi assicurata (...) un posto che mi avrebbe permesso di lavorare onestamente tutta la vita, quando le recenti disposizioni di legge in materia di appartenenti alla razza ebraica sono venute a togliermi quel posto così faticosamente guadagnato ed a respingermi nella miseria non avendo io diritto, data la mia limitata anzianità di servizio, a pensione o a indennità di alcuna specie».
E parlando di miseria la poveretta non esagerava. Le leggi sul lavoro, spiegano gli autori della ricerca, «spaccarono la comunità ebraica in due o addirittura in più segmenti, per cui una piccola parte comunque rimase protetta, e un’altra fu tremendamente impoverita». Qualcuno, in qualche modo, se la cavò. Come Paolo Vita Finzi che aveva 21 anni di servizio, era console a Sydney, sede disagiata per l’enorme distanza da casa, e «passò da uno stipendio medio di 21.262 lire a 8.141 di pensione», ma «probabilmente riuscì a vivere dignitosamente perché rimase all’estero, a Buenos Aires». A migliaia di chilometri da Roma e dalle persecuzioni antiebraiche in arrivo.
Molto peggio andò ad altri. Come il commissario Guido Cammeo che, vedovo con sette figli, venne espulso dalla polizia e dal ministero dell’Interno il 5 settembre 1938, il giorno stesso della firma apposta dal re alla prima delle leggi fasciste. Non vedeva l’ora, Benito Mussolini che firmò il decreto, di buttar fuori quel funzionario con una pensione di 11.840 lire, la metà di quanto guadagnava prima. Non vedeva l’ora.
Figlio del rabbino di Modena, Guido Cammeo aveva agli occhi del Duce due colpe imperdonabili. La prima: nel 1923, a dispetto del regime già al potere, era stato assolto nel processo (aveva rifiutato l’amnistia: voleva il giudizio in tribunale) per una sparatoria nel 1921, a Modena, in cui erano morti otto fascisti (tra cui un ebreo, Duilio Sinigaglia) che «intendevano assaltare la Camera del Lavoro». La seconda colpa: era ebreo.
Reintegrato in servizio dopo l’assoluzione, per Cammeo era «iniziato un calvario in varie prefetture d’Italia: dopo qualche tempo che arrivava in una nuova sede, qualcuno capiva chi era e incominciava una sarabanda contro di lui e doveva venir trasferito». L’espulsione, corredata da un «ritocco» alle date (anche l’infamia ci tiene ai timbri in regola), fu insomma per il Duce il coronamento di una vendetta. Covata per anni.
«Il totale minimo dei dipendenti statali “in pianta stabile” licenziati perché “di razza ebraica”», spiega nella prefazione Michele Sarfatti, «fu di oltre 720. Assieme ad essi furono estromessi coloro che avevano (anche allora) un rapporto di tipo precario o che rientravano in situazioni normative complesse». Una umanità di «maestre, operai della Zecca, chimici, ragionieri, professori universitari, direttori di carceri, insegnanti di violino...» senza differenze di classe. Tutti «collettivamente e più o meno simultaneamente licenziati, esonerati, allontanati, espulsi, estromessi, reietti, banditi; insomma, dissolti». Dissolti mentre, «parallelamente, altrettanti dipendenti, nati di “razza giusta”, vennero assunti o fecero uno scatto di carriera». Magari compiaciuti della «botta di fortuna».
Il registro , scrive Prosperi, «non è un libro su Mussolini o su qualcuna delle sue vittime, è un libro su come muore uno Stato. (...) Basta sfogliare gli atti amministrativi scoperti e pubblicati in questo volume per vedere come, pagina dopo pagina e persona dopo persona, lo Stato cancelli la legge e faccia straccio delle regole con le quali era costruito il reticolo di rapporti che lo costituivano». Derubando i dissolti, a capriccio, anche delle liquidazioni e delle pensioni cui avevano, per legge, diritto.
Questo furono allora «lo Stato, i suoi ministeri, la sua magistratura contabile: tanti corvi dal solenne aspetto impegnati a saccheggiare quel che spettava ai “liquidati” sotto il segno dell’arbitrio e della prepotenza». A ottobre, pochi giorni dopo le leggi razziali, riaprirono le scuole. Con «vuoti fra i banchi degli allievi e nelle file del corpo docente». Eppure, accusa Prosperi, «Non ci furono reazioni. Chi mancava era entrato nell’ombra di percorsi privati, silenziosi e sofferti. Tra compagni e colleghi fu pronunziata a bassa voce la parola “ebreo”. E tutto finì lì» .
Bugiardo, audace e violento:, sono Mussolini, figlio del ’900
Dai fasci di combattimento, agli omicidi politici, alle donne la parabola del dittatore che “fiutò” lo spirito del tempo
di Mirella Serri (La Stampa, TuttoLibri, 29.09.2018)
La mucca è morta per una malattia infettiva. Il veterinario per evitare il contagio ne cosparge di petrolio la carcassa e la seppellisce in una profonda fossa. Ma i contadini del Polesine riesumano la bestia e la divorano. Giacomo Matteotti - chiamato dai nemici «socialista impellicciato» poiché figlio di un ricco proprietario terriero - nella campagna elettorale e nei comizi nelle sue terre fa di questa vicenda il simbolo della fame secolare e della povertà che spingono a mangiare cadaveri putrefatti.
Il deputato, detto anche Tempesta, è solo uno dei tanti protagonisti dello splendido romanzo di Antonio Scurati, M. il figlio del secolo. Con questo primo tomo - e ve ne sono in cantiere altri due per ricostruire la biografia di Benito Mussolini - lo scrittore napoletano nel suo «racconto-verità», dove persino i dettagli sono storicamente verificati, ripercorre gli esordi del Duce: la narrazione inizia il 23 marzo 1919, quando a Milano nei locali dell’Associazione Commercianti ed esercenti si riunì lo scarso manipolo di reduci che diede vita ai primi Fasci di combattimento, e termina alle ore 15 del 3 gennaio 1925 con il Capo che, «accigliato e scuro in volto», dopo l’omicidio dell’onorevole Matteotti denuncia la campagna denigratoria nei suoi confronti e dà il via al regime dispotico.
Il romanzo-documento di Scurati è un antidoto nei confronti di ogni indulgenza verso la dittatura: ci porta nelle viscere del fascismo, nel cuore dell’ascesa al potere degli ex combattenti, dei folli, dei delinquenti, dei fanatici e di tutta la «schiuma» di una terra avvelenata che riuniva i piccoli artigiani, i commercianti, gli impiegati statali i quali, dopo aver abbandonato il moschetto che non aveva regalato loro alcuna gloria, non avevano più un lavoro né mezzi di sostentamento. Come del resto gli operai e i contadini aggrediti dalla violenta crisi economica.
Di questo straordinario affresco in camicia nera fanno parte non solo Gabriele D’Annunzio, Italo Balbo e Filippo Tommaso Marinetti ma anche figure meno note di quel «mondo di morti» che fu al potere per oltre vent’anni, come Michele Bombacci, uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia divenuto fedelissimo del Duce e poi fucilato dai partigiani a Dongo; Cesare Rossi, ex militante socialista e principale consigliere del despota; Amerigo Dùmini - picchiatore e sicario che si presentava «Dùmini otto delitti». Quest’ultimo nel 1924 fu tra i membri della Čeka del Viminale a capo del manipolo che sequestrò e accoltellò Matteotti.
Il «cerchio magico» delle belle signore che idolatrarono il Mascellone fu costituito da Margherita Sarfatti, dalla giovanissima Bianca Ceccato costretta ad abortire, da Ida Dalser che chiamò suo figlio con il nome del padre, Benito, a cui aggiunse Albino, e da Angela Curti. La dolce e remissiva Angela lo aveva avvicinato nel marzo del 1921 per ottenere la liberazione del marito ed era caduta tra le sue braccia. Divenne madre di Elena a cui Lui riconobbe una grande somiglianza con la sua «mascella quadrata».
Con un linguaggio alto, forte e ricco d’immagini, Scurati tratteggia anche le molteplici identità del tiranno abile politico e capace di imprevedibili voltafaccia. Come avvenne, per esempio, nel caso degli squadristi torinesi che si scatenarono dopo la marcia su Roma nella resa dei conti con i socialisti. Nel dicembre 1922 il feroce Piero Brandimarte che prendeva gli ordini dal monarchico fascista Cesare Maria De Vecchi, dette avvio alla mattanza per vendicare due suoi accoliti uccisi da un tramviere. In piena notte gli squadristi invasero l’abitazione di un fattorino delle tramvie e prima di assassinarlo lo torturarono davanti alla moglie e alla figlia. Poi toccò a un operaio comunista e al segretario della sezione torinese del sindacato metalmeccanici che legato per i piedi al paraurti posteriore di un camion fu trascinato per le strade del capoluogo sabaudo. Negli scontri morirono 14 uomini e vi furono 26 feriti mentre venivano date alle fiamme la Camera del Lavoro, il circolo dei ferrovieri anarchici e la sede dell’Ordine Nuovo. Mussolini protestò veemente e, indignato, definì il massacro «un’onta per la razza umana». Diceva sul serio? Per nulla. Tre giorni dopo proclamava l’amnistia per i reati di sangue a sfondo politico. E non solo: il 28 dicembre veniva istituita la Milizia Volontaria per la Sicurezza nazionale e il sanguinario Brandimarte ne diventava uno dei responsabili.
Bugiardo e spergiuro, il dittatore fu anche un Giuda pronto a liberarsi degli uomini a lui più vicini, come D’Annunzio. Oppure a far manganellare i seguaci ribelli, come il fascista dissidente Cesare Forni, bastonato in pieno giorno alla stazione di Milano. Fu anche un ottimo attore e performer: al Teatro Olimpia di Firenze, Mussolini si presentò alle folle plaudenti in tuta da aviatore come se fosse appena sceso dal suo aeroplano mentre aveva trascorso la notte tra le soffici coltri dell’hotel Baglioni.
Il Duce non si smentì mai nella sua proteiforme volgarità: avvertito della scomparsa di Matteotti, mentre tutto il Paese era attanagliato dalla paura, commentò: «Sarà andato a puttane!». Subito dopo Mussolini buttava alle ortiche democrazia e libertà e con celebri passaggi oratori spalancava le porte all’assolutismo: «Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». Come dargli torto? Affermazioni sacrosante che non si potevano certo smentire.
L’histoire du soldat di Igor Stravinskij
Il Soldato credulone di Stravinskij vende l’anima ai dittatori del ’900
di Sandro Cappelletto (La Stampa, 28.09.2018)
Visto che c’era la guerra, si sono chiesti: «Perché non la facciamo semplice? Perché non scriviamo un’opera che possa fare a meno di una grande sala, che comporti pochi strumenti e due o tre personaggi? Poiché non ci sono più teatri, riprenderemo la tradizione dei teatri ambulanti, da fiera, senza grandi spese».
Losanna, 28 settembre 1918, debutta L’histoire du soldat di Igor Stravinskij. La guerra c’era anche in Svizzera: «Era il tempo della pasta di colore blu, il tempo in cui i borghesi, minacciati dalla fame, convertivano in fretta i loro cespugli di begonia in piantagioni di patate», racconta Charles-Ferdinand Ramuz, lo scrittore svizzero che di Stravinskij fu, in quell’occasione, il principale collaboratore.
Facciamola semplice, a cominciare dalla storia: protagonista è un soldato, un proletario che come milioni di altri soldati di allora torna al paese per una licenza di quindici giorni e sogna di riabbracciare fidanzata e mamma. Senza un soldo, stanco per aver troppo marciato, si ferma sulla riva di un ruscello, tira fuori il violino e comincia a suonare: appare un anziano signore con un retino per acchiappare farfalle: «Datemi il violino», dice al soldato. «No», è la risposta. «Vendetemelo». «No». «Scambiatelo con questo libro». «Non so leggere». «Non importa: non c’è bisogno di saper leggere per leggerlo...». Quel signore è il diavolo e, dopo vari parapiglia, il soldato sarà suo: la storia di conclude con la Marcia trionfale del diavolo. Mefistofele vince ancora.
Con Ramuz e Stravinskij, tre sono gli altri protagonisti: il pittore René Auberjonois, che realizza scene e costumi, il direttore d’orchestra Ernest Ansermet che dirige la prima esecuzione, il mecenate Werner Reinhart di Winterthur, dedicatario dell’opera: anche a farla «semplice», la musica comunque costa.
Per questa «storia da leggere, recitare e danzare» il compositore russo sceglie soltanto sette strumenti: clarinetto e fagotto, cornetta a pistoni e trombone, violino e contrabbasso (il più acuto e il più grave di ognuna delle grandi famiglie in cui si dividono gli strumenti), più una batteria; poi, un Narratore, due attori per i ruoli del Soldato e del Diavolo, che deve anche ballare, come la Principessa: Stravinskij è stato, con Ciaikovskij, uno dei non molti compositori verso i quali il mondo della danza può esprimere la massima gratitudine.
La Principessa entra in scena nella seconda parte dell’Histoire: è una ragazza malata che il soldato, dopo aver recuperato il proprio violino battendo il diavolo in una partita a carte, riesce prima a guarire suonando, poi a sposare. Potrebbe finalmente essere felice, e ricco, ma sente la nostalgia di casa e decide di tornare al villaggio. Errore fatale: appena varca i confini del regno, incappa nel Diavolo che lo stava tranquillamente aspettando, per non lasciarlo più.
Se ci sono un Diavolo e una Principessa, significa che siamo entrati nel territorio della fiaba: il primo spunto della vicenda proviene da Il soldato disertore e il diavolo e Un soldato libera la principessa, due fiabe raccolte e pubblicate a metà Ottocento da Aleksandr Afanas’ev, studioso del folclore russo. Folclore che già aveva ispirato Stravinskij per il suo trittico fauve, selvaggio: Uccello di fuoco, Petruska, Rito della primavera (Sacre du printemps, nel titolo originale francese). Tre partiture e tre balletti che hanno segnato, nella storia della musica e del gusto medio del pubblico, un prima e un dopo.
Stravinskij attraversava un periodo duro. Aveva lasciato, ben prima della Rivoluzione d’Ottobre, la Russia per Parigi, poi, a causa della guerra, Parigi per la Svizzera; era stato colpito dal lutto per la morte del fratello, caduto sul fronte romeno, e stava affrontando problemi materiali: «A ogni costo dovevo assicurare un’esistenza tollerabile alla mia famiglia. La mia unica consolazione era di vedere che non ero il solo a soffrire a causa degli eventi», ricorda nelle Cronache della mia vita, prima di spiegare la scelta del soggetto della Storia di un soldato: «Sebbene questi racconti abbiano un carattere specificatamente russo per quel che concerne l’ambiente e le situazioni, i sentimenti espressi e la morale che se ne trae hanno un carattere così umano e universale che possono riferirsi a tutti i paesi».
Un carattere universale: Stravinskij, che non possiamo considerare un artista «impegnato», ed è sempre rimasto lontano - tranne che nella sua musica - da ogni pulsione rivoluzionaria, tantomeno bolscevica, coglie nel personaggio del reduce, che ha un passato ma non un futuro, il prototipo dell’uomo povero, disilluso, perdente, pronto a credere alle promesse che da lì a pochissimi anni consentiranno l’ascesa delle dittature nazionaliste e totalitarie. E a dannarsi. Il testo di Ramuz è scandito in una prosa fortemente ritmica, pensata per essere recitata ed esaltata da una musica immediata, elegante, spregiudicata nell’alternare tango, valzer e ragtime a elaborati passaggi in contrappunto, marcette a corali. Contaminazione, per lui, non significava banalizzazione. Il filosofo Theodor Adorno accusava Stravinskij di essere «cinico», di scrivere una musica disumanizzata nella sua oggettività. Nella Storia di un soldato, a ben guardare, vive, oltre la fiaba e la burla, una disperata umanità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Arte
Margherita Sarfatti: l’ambasciatrice della cultura italiana del primo Novecento raccontata in due mostre, a Milano e Rovereto
scritto da Tiziana Pikler (Il Sole-24 Ore, il 21 Settembre 2018)
Verso la fine degli anni Venti, il panorama culturale italiano si presentava ricco di individualità e di gruppi che facevano capo a diversi movimenti in giro per l’Italia: la Scuola romana nella Capitale, il Gruppo dei Sei a Torino, i gruppi milanesi Novecento e Corrente, artisti per i quali il cosiddetto “ritorno all’ordine” si traduceva in uno stile figurativo solido e monumentale che racchiudeva in sé l’intento di declinare i temi della grande tradizione italiana, soprattutto prerinascimentali, con la modernità.
A cogliere questa nuova esigenza del panorama culturale italiano è proprio una donna, Margherita Sarfatti, a cui sono dedicate due mostre, inaugurate contemporaneamente, al Museo del Novecento di Milano e al Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, entrambe visitabili fino al 24 febbraio 2019. Mentre a Milano viene approfondita l’arte degli anni Venti nel capoluogo lombardo attraverso un percorso espositivo che vede ben 11 sezioni (Milano, centro di modernità - Margherita Sarfatti nella città che cambia - La rete culturale milanese: artisti, critici, galleristi - Le note d’arte di Margherita Sarfatti: segni, colori e luci - La nascita del movimento artistico “Novecento” - Il “Novecento Italiano” - Il “Novecento Italiano” e la sua organizzazione - Gli orientamenti del gusto e gli acquisti pubblici: il caso delle collezioni milanesi - Il rapporto di Margherita Sarfatti col potere - Dalla redazione dell’Avanti all’esilio dall’Italia), a Rovereto è dato spazio, in altre sei sezioni, al programma di espansione culturale voluto dalla donna.
Margherita Grassini (Venezia, 8 aprile 1880 - Cavallasca, 30 ottobre 1961) nasce in un’importante famiglia ebrea, a soli diciotto anni sposa Cesare Sarfatti, matrimonio che non le impedisce di diventare una figura chiave del sistema culturale italiano, dalla fine della Prima guerra mondiale fino ai primi anni Trenta. Giornalista, curatrice, critica d’arte e fascista convinta, troppo spesso ricordata solo per essere stata una delle amanti di Benito Mussolini, si trasferisce a Milano nel 1902 dove risiede fino alla fine degli anni Venti, quando è costretta a lasciare l’Italia, per un decennio, in seguito alla promulgazione delle Leggi razziali, di cui quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario. Prima però è lei a fondare, nel 1922, il movimento Novecento Italiano, insieme ad artisti come Mario Sironi, Achille Funi, Giorgio Morandi e lo scultore Marino Marini. Per loro, anche con il favore del regime, si fa impellente la necessità di un nuovo ordine compositivo, più moderno, seppure nella consapevolezza dei valori storici italiani, in quell’ambizioso programma di espansione culturale, definito da una delle curatrici, Daniela Ferrari, “colonialismo estetico”.
È anche il periodo in cui si inizia a delineare un moderno “sistema dell’arte” che vede coinvolti critici, galleristi, artisti e mercanti, mentre le mostre d’arte contemporanea iniziano ad attirare l’attenzione del pubblico. Ed è ancora Margherita Sarfatti a promuovere l’arte italiana oltreoceano, con la passione e la dedizione tipiche della caparbietà femminile, tanto da valergli, in quel periodo, il ruolo di ambasciatrice dell’arte italiana nel mondo.
INFO
Museo del Novecento, Milano
Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci a Milano
Orari: lunedì 14.30-19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30-19.30; giovedì e sabato 9.30-22.30
Ingresso: intero 10 euro, ridotto 8 euro
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Margherita Sarfatti. Il Novecento Italiano nel mondo
Orari: martedì-domenica 10.00-18.00; venerdì 10.00-21.00; lunedì chiuso
Ingresso: intero 11 euro, ridotto 7 euro
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
Sarfatti
Il Duce e l’amica troppo geniale
Una doppia mostra al Mart di Rovereto e al Museo del 900 di Milano racconta l’ascesa e la caduta di Margherita Sarfatti: anima intellettuale del primo fascismo poi scaricata da Mussolini. E infine costretta all’esilio: perché ebrea
di Natalia Aspesi (la Repubblica, Robinson, 23.09.2018)
L’ombra che oscura la figura di Margherita Sarfatti e che lei stessa aveva cercato di allontanare scrivendo nel 1955 Acqua passata, dopo il ritorno in Italia dal lungo esilio, è parte essenziale della sua storia ma non è tutta la sua storia: che due mostre contemporanee e congiunte, (fino al 24 febbraio, catalogo Electa), al museo del ‘900 di Milano (curata da Anna Maria Montaldo e Danka Giacon) e al Mart di Rovereto (curata da Daniela Ferrari), cercano di ricostruire oltre quell’ombra il suo ruolo di importante critica d’arte, di collezionista, di organizzatrice di mostre in Italia e all’estero. E pure ricordando il suo celebre salotto milanese di corso Venezia, dove ogni mercoledì si incontravano politici, poetesse, futuristi, galleristi, novecentisti, celebrità varie. Femministe. Socialisti. Bolsceviche. Fascisti. Un giovanotto dagli occhi prensili, un poeta seduttore, Mussolini e D’Annunzio.
Ma si può davvero separare Margherita Sarfatti da Benito Mussolini, la ricca, audace, colta (sa perfettamente tedesco, inglese, francese) signora dal rustico figlio di un fabbro romagnolo, colei che insegnò come indossare le ghette e scegliere il capello, da chi imporrà anni dopo una stupida divisa a tutti, dai figli della lupa alle maestre?
Forse sì, è possibile restituire Margherita Sarfatti a sé stessa, oltre l’avventura fascista con il suo ‘devotissimo selvaggio’: che prima delle Marcia su Roma le scrive qualcosa come, “Mio amore, il mio pensiero, il mio cuore ti accompagnano. Abbiamo passato ore deliziose ... ti abbraccio forte, ti bacio con tenerezza violenti...”. (citato da Antonio Scurati, in M Il figlio del secolo); e poi nel luglio del 1929, anno VII dell’era fascista, con la sua scrittura aguzza e minacciosa la cancella con livore: “Gentilissima Signora, leggo un articolo nel quale ancora una volta voi tessete l’apologia del cosiddetto ‘900, facendovi alibi del Fascismo e del sottoscritto. Lo disapprovo nella maniera più energica ...”.
Questa e altre decine di lettere, fotografie, documenti, manifesti, libri, per la maggior parte del fondo Sarfatti conservato al Mart, intrecciano le vicende politiche con la ricchezza dell’arte di quei primi decenni del secolo scorso, di cui la signora è certo protagonista: i ‘suoi’ artisti formano il gruppo ‘900 e sono Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Oppi, Sironi, Marussig le cui opere si ritrovano nelle due mostre come autori dei suoi tanti ritratti, come parte della sua collezione privata, come immagini di quel tempo artisticamente vivo, in quella Milano al centro di ogni tumulto politico.
Le fotografie di inaugurazioni mostrano la signora, unica donna in mezzo a decine di uomini con i baffi, le palandrane e il capello. Sono anni in cui le donne si stanno imponendo: a Milano ci sono la socialista Anna Kulishoff che combatte per il suffragio femminile, Angelica Balabanoff vicedirettrice dell’Avanti! quando direttore è Mussolini, Ersilia Maino presidente della Lega Femminile, Ada Negri che è arrabbiata per non aver ricevuto il Nobel, le operaie che precederanno gli uomini negli scontri di piazza contro i fasci.
Margherita è irrefrenabile, scrive sull’Avanti! dove ha conosciuto Mussolini e poi sul Popolo d’Italia da lui fondato; dirige Gerarchia, la rivista ideologica del fascismo, cresce tre figli, perde in guerra Roberto, 17 anni, resta vedova, scivola spesso a Palazzo Venezia come tante altre signore, gira l’Italia e il mondo per i suoi artisti e per il duce.
I collezionisti privati e pubblici sono sempre meno inclini a prestare le loro opere, e infatti Milano e Rovereto hanno dovuto rinunciare ad alcune importanti: ma tra le quasi 200 opere esposte ci sono i nudi femminili dalle cosce possenti di Casorati e Bacci, le signore annoiate sotto i cappelini ai tavoli dei caffè di Marussig e Borra, le nature morte di Oppi e Morandi, gli autoritratti di Dudreville e Funi, i paesaggi di Soffici e Salletti, le tozze madonne simili alle stupefatte massaie rurali di Tozzi e Saetti, i muratori d Campigli, i pastori di Sironi. E i tanti Mussolini scolpiti da Wildt, Thayat, Bertelli, la foto da divo del cinema prima della marcia su Roma, poi travestito da Napoleone con la scritta «una fisionomia storica che ritorna, il pallido corso - il fiero romagnolo», in divisa e a cavallo, con pennacchio bianco sul copricapo; e i ritratti più fascinosi e privati con dedica alla colta e utile amante.
Nel 1932 Margherita viene allontanata dal Popolo d’Italia, è l’anno in cui in uno sfrecciare di macchine sulla strada Roma Ostia, Mussolini alla guida di una Alfa Granturismo Zagato sorpassa quella su cui viaggia la signorina Claretta Petacci: lui ha trent’anni più di lei e tre anni meno di Margherita, cui nel 1936 viene proibito l’ingresso a Palazzo Venezia.
Non solo l’antica amante è diventata fastidiosa, ma è anche ebrea: nel 1938 anno delle leggi razziali, lei sa che non sarà risparmiata e può solo fuggire. Torna nel 1947, appestata dal suo passato, abbandonata dagli ex amici, insultata anche in strada. Muore nella sua casa di campagna nel Comasco nel 1961, a 81 anni.
Fascismo Un saggio di Giorgio Fabre
La scure del Duce sui romanzi targati Mondadori
di ANTONIO CARIOTI (Corriere della Sera, 18.09.2018)
Arnaldo contro Arnoldo. Portavano nomi molto simili il fratello minore di Benito Mussolini e suo braccio destro (appunto Arnaldo), morto nel 1931, e l’editore Mondadori, uno dei più dinamici imprenditori culturali italiani. I due entrarono in collisione, narra Giorgio Fabre nel libro in uscita oggi Il censore e l’editore (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pagine 525, euro 24), quando Arnaldo Mussolini, il 31 ottobre 1929, invocò una «profilassi energica» contro i libri incompatibili con lo spirito del fascismo, attaccando tre autori. Due di essi, Erich Maria Remarque e l’«amorale» romanziere francese Maurice Dekobra, facevano parte della scuderia di Mondadori. Il terzo, cioè il giovane Alberto Moravia, di cui Arnaldo Mussolini aveva preso di mira l’opera d’esordio Gli indifferenti (pur pubblicata dall’editrice Alpes, vicina al fratello del Duce), vi sarebbe entrato più tardi.
Quell’intervento, nota Fabre, segnò una svolta nel processo di progressiva stretta, ormai estesa anche alla narrativa, che il regime andava esercitando sulla produzione libraria. È significativo soprattutto il caso Remarque, perché Arnoldo Mondadori teneva molto al capolavoro dello scrittore tedesco Niente di nuovo sul fronte occidentale, un bestseller internazionale la cui traduzione era stata bloccata per il modo in cui denunciava gli orrori della guerra. L’editore fece di tutto per convincere il governo ad assumere una posizione più morbida. Alla fine nel 1931 ottenne di stampare una traduzione italiana, ma dovette farlo in Svizzera con la clausola che il volume circolasse solo all’estero, anche se poi qualche copia giunse anche nel nostro Paese. Lo stesso avvenne per il successivo libro di Remarque, La via del ritorno.
Il meccanismo censorio sulla letteratura s’irrigidì con la svolta razzista e totalitaria del regime. Non caso il primo romanzo sequestrato, nel 1934, fu Sambadù, amore negro della scrittrice rosa Mura, edito da Rizzoli, storia di una passione meticcia. Subito dopo venne emessa una circolare che imponeva agli editori di consegnare alle prefetture, prima della messa in vendita, tre copie di ogni loro pubblicazione.
Mondadori, che era in buoni rapporti con il fascismo e ne aveva ricavato notevoli vantaggi, cercò di barcamenarsi. Era, scrive Fabre, un «vivace e disinvolto sperimentatore cosmopolita», pronto a tutto pur di venire incontro ai gusti del pubblico, ma anche un uomo d’ordine. Certamente gli pesò rinunciare a titoli del popolarissimo Georges Simenon, come Quartiere negro (sequestrato) e I clienti di Avenos, bloccato e mai uscito per la presenza di un personaggio femminile assai disinibito, mentre L’eredità Donadieu, anch’esso pruriginoso, uscì mutilato dei brani «sconvenienti».
La pratica di purgare i romanzi fu spesso adottata da Mondadori per salvare il salvabile: per esempio il 3 ottobre 1933 in una ossequiosa lettera al genero del Duce Galeazzo Ciano, all’epoca capo ufficio stampa del suocero, l’editore propose che due libri su cui erano caduti i fulmini della censura fossero tagliati in modo da eliminare il suicidio e l’aborto inseriti nella narrazione. Uno dei romanzi tornò così in circolazione, l’altro no. Mussolini, nota Fabre, stava venendo allo scoperto con le sue ambizioni di «editore della nazione», deciso a controllare «tutto il mercato librario». E anche per un abile navigatore come Mondadori gli spazi di manovra si restringevano.
L’incontro
Il libro di Giorgio Fabre sarà presentato il 19 settembre a Milano (ore 18.30) al Laboratorio Formentini (via Marco Formentini 10). Discutono con l’autore Francesco Cassata e Christopher Rundle. Modera Oliviero Ponte di Pino.
Giorgio Fabre
Il censore e l’editore
Mussolini, i libri, Mondadori *
La censura libraria fascista seguì un percorso incerto e contrastato rispetto ad altri tipi di controllo culturale, come quello su giornali, cinema, teatro e università. Solo in un secondo tempo, nel tentativo di plasmare l’opinione pubblica in senso nazionalista, razzista e bellicista, Mussolini si impegnò in prima persona nella creazione di un sistema di censura accentrato, pervasivo e articolato. Almeno fino al 1934, però, affrontò numerosi ostacoli di natura burocratica e diplomatica, e ancor più ostica si rivelò l’interazione con il mondo editoriale, un settore privato che contava già su un pubblico ampio e dai gusti raffinati.
Ricco di molta documentazione inedita, questo libro offre una rilettura sorprendente di quell’evoluzione e del suo impatto sulla cultura e sull’editoria italiana, e indica anche quale fu l’intreccio tra le vicende della censura fascista e quelle della più importante casa editrice italiana, la Mondadori, il cui «sistema culturale» mostrava un profilo internazionale talvolta indigeribile per il duce. Mussolini fu solito dedicare moltissimo tempo non solo a valutare possibili sequestri e proibizioni, ma anche a indirizzare le pubblicazioni e le traduzioni, a offrire contratti, a lavorare i libri di suo interesse perfino da editor e correttore di bozze. Contro di lui, l’«editore» per eccellenza, Arnoldo Mondadori, difese l’azienda con straordinaria inventiva e un’attitudine pragmatica e camaleontica che spesso permise di aggirare di fatto le restrizioni del regime o di trarne addirittura vantaggio, smentendo le tesi spesso consolidate di una Mondadori allineata al fascismo.
Concludono il volume 220 schede dettagliate su altrettanti libri e 170 autori Mondadori, coinvolti nella censura (tra loro Remarque, Faulkner, Zweig, Mann, Steinbeck, Vittorini, Moravia, Huxley, Simenon). Esse illustrano da un lato la pervicacia della censura, dall’altro la duttilità della casa editrice nel cercare di prevenirla rivedendo in modo opportuno testi, titoli e copertine, rimodulando le collane e tenendo «nel cassetto» le opere più scomode, in vista del crollo del regime.
Giorgio Fabre, storico tra i maggiori esperti italiani in ricerche d’archivio, è stato giornalista culturale per «Rinascita», «L’Unità» e «Panorama». È autore di numerosi volumi sull’antisemitismo fascista e nazista, sull’antigiudaismo cattolico e sulla censura durante il regime mussoliniano, tra cui L’elenco. Censura fascista, editoria, autori ebrei (Zamorani, 1998), Il contratto. Mussolini editore di Hitler (Dedalo, 2004), Mussolini razzista (Garzanti, 2005). Inoltre ha scritto, sulla storia del comunismo, Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato (Sellerio, 2015). È in uscita per il Mulino il volume, scritto a quattro mani con Annalisa Capristo, Il registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti. 1938-1943.
* Milano: Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2018 525 pp., € 24,00
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La nota sul lavoro di
Federico La Sala
Fascismo razzista
Il giorno che gli ebrei scoprirono di essere nemici degli italiani
di Alberto Sinigaglia (La Stampa, 15.09.2018)
Il 18 settembre 1938 a Trieste Mussolini tenne un discorso tremendo contro gli ebrei. Per la prima volta giustificava al Paese e al mondo le leggi che il re Vittorio Emanuele III aveva già firmate il 5 e il 7 settembre, preludio sinistro al 17 novembre: Regio Decreto 1728 «per la razza italiana», estremo frutto del «manifesto» dei dieci scienziati pubblicato il 14 luglio sul Giornale d’Italia.
Il duce calcolò il momento, il luogo, le parole. Avvertì importanti giornali stranieri. Scelse la città più internazionale, prossima a confini incandescenti: l’Austria invasa dal Reich, la Cecoslovacchia in pericolo, a giorni la Conferenza di Monaco. Scelse la terza comunità ebraica dopo quelle di Roma e di Milano, che contava ebrei fascisti e irredentisti. Andò a gridargli in faccia che l’ebraismo era «un nemico irreconciliabile», che si decideva per loro una «politica di separazione».
Le «soluzioni necessarie» non sarebbero tardate: via dai libri di testo quelli scritti o curati da ebrei; via i bambini dalle scuole pubbliche e gli studenti dalle università; via i padri, le madri e i nonni dalle cattedre accademiche, dai giornali, da assicurazioni, banche, notai, pubblico impiego; spogliati della divisa coloro che avevano combattuto per l’Italia e ancora la servivano in armi; vietati i matrimoni con ariani.
Il capo del fascismo lanciò due precisi messaggi a chi lo considerava emulo di Hitler e a chi difendeva gli ebrei: «Sono poveri deficienti» quanti credono «che noi abbiamo obbedito ad imitazioni o, peggio, a suggestioni»; «il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che i semiti di oltre frontiera (...) e i loro improvvisati amici (...) non ci costringano a mutare radicalmente cammino».
Un operatore cinematografico ufficiale filmò tutto. Paolo Gobetti alla fine degli Anni 70 avrebbe acquistato la pellicola da un collezionista per l’Archivio storico della Resistenza da lui fondato con Franco Antonicelli a Torino. Vi si vede e ascolta il solito Mussolini tonitruante quella mattina in una Piazza Unità d’Italia imbandierata a festa e gremita di popolo, che acconsentiva, applaudiva, urlando di entusiasmo e invocando il suo nome. Dal punto di vista della propaganda fascista, un risultato perfetto: i termini, il tono, l’attore, la scena.
Perché il cinegiornale dell’Istituto Luce mostrò soltanto l’inizio del discorso e poco più? Fu il regime a censurarlo? E per quale strategia il dittatore, pur tornando spesso al tema razziale, non dedicò agli ebrei altri discorsi di quella forza, anzi evitò di nominarli?
Il silenzio di Mussolini li ingannò: furono in molti a illudersi, a non cercare riparo oltreoceano, a non poter immaginare che, comunque cittadini italiani, da altri italiani sarebbero stati consegnati ai nazisti e avviati ai Lager. Poiché quel destino fu segnato dal «discorso di Trieste», il Polo del ’900 e l’Ordine dei Giornalisti del Piemonte hanno pensato che ad aprire le manifestazioni torinesi in memoria delle leggi razziali nulla fosse più efficace di quelle immagini e di quel sonoro: un grumo di odio, disprezzo e «chiara, severa coscienza razziale», certo inattuale, ma salutare alla memoria.
“Occorre una coscienza razziale per stabilire non solo differenze ma superiorità nettissime”
di Benito Mussolini (La Stampa, 15.09.2018)
È questa, o Triestini e Triestine, la quarta volta che ho la ventura, l’onore e la gioia di rivolgervi la parola. La prima fu nel dicembre del 1918, quando nell’aria della vostra città e nelle vostre anime c’era ancora, visibile e sensibile, la vibrazione del grande evento che si era compiuto con la Vittoria. [...]. Dopo molti anni torno fra voi e sin dal primo sguardo ho potuto riconoscere il grande, il poderoso balzo innanzi compiuto dalla vostra, dalla nostra Trieste.
Non sono venuto tra voi per rialzare il vostro morale, così come gli stilopennivori d’oltre monte e d’oltre mare hanno scioccamente stampato. Non ne avete bisogno, perché il vostro morale fu sempre altissimo. (...) Sono venuto per vedere ciò che avete fatto e per vedere altresì come sia possibile di bruciare rapidamente le tappe per giungere alla mèta. Sono venuto per ascoltarvi e per parlarvi. (...)
Triestini!
Vi sono dei momenti nella vita dei popoli in cui gli uomini che li dirigono non devono declinare le loro responsabilità, ma devono fieramente assumerle in pieno. Quello che sto per dirvi non è soltanto dettato dalla politica dell’Asse Roma-Berlino, che trova le sue giustificazioni storiche contingenti, né soltanto dal sentimento di amicizia che ci lega ai Magiari, ai Polacchi e alle altre nazionalità di quello che si può chiamare lo Stato mosaico numero due. Quello che sto per dirvi è dettato da un senso di coscienza che vorrei chiamare, più che italiano, europeo.
Quando i problemi posti dalla storia sono giunti ad un grado di complicazione tormentosa, la soluzione che si impone è la più semplice, la più logica, la più radicale, quella che noi Fascisti chiamiamo totalitaria. Nei confronti del problema che agita in questo momento l’Europa la soluzione ha un nome solo: Plebisciti. Plebisciti per tutte le nazionalità che li domandano, per le nazionalità che furono costrette in quella che volle essere la grande Cekoslovacchia e che oggi rivela la sua inconsistenza organica. Ma un’altra cosa va detta: ed è che, ad un certo momento, gli eventi assumono il moto vorticoso della valanga, per cui occorre far presto, se si vogliono evitare disordini e complicazioni. Questo bisogno del far presto deve essere stato sentito dal Primo Ministro britannico, il quale si è spostato da Londra a Monaco, messaggero volante della pace, perché ogni ritardo non affretta la soluzione, ma determina l’urto fatale. Questa soluzione sta già, malgrado la campagna di Mosca, penetrando nel cuore dei popoli europei.
Noi ci auguriamo che in queste ultime ore si raggiunga una soluzione pacifica. Noi ci auguriamo altresì che, se questo non è possibile, il conflitto eventuale sia limitato e circoscritto. Ma se questo non avvenisse e si determinasse, pro o contro Praga, uno schieramento di carattere universale, il posto dell’Italia è già scelto.
Nei riguardi della politica interna il problema di scottante attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti, ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà. IL perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno. La nostra posizione è stata determinata da questi incontestabili dati di fatto.
L’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo. In Italia la nostra politica ha determinato, negli elementi semiti, quella che si può oggi chiamare, si poteva chiamare, una corsa vera e propria all’arrembaggio. Tuttavia gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibili meriti militari o civili, nei confronti dell’Italia e del Regime, troveranno comprensione e giustizia. Quanto agli altri si seguirà nei loro confronti una politica di separazione. Alla fine, il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che, i semiti di oltre frontiera e quelli dell’interno, e soprattutto i loro improvvisati ed inattesi amici, che da troppe cattedre li difendono, non ci costringano a mutare radicalmente cammino. [...]
Ma per noi Fascisti la fonte di tutte le cose è l’eterna forza dello spirito, ed è per questo che rivendico a me il privilegio di realizzare quello che fu l’ideale bisecolare della vostra città, l’Università completa nei prossimi anni. Padova, che fu per secoli il solo Ateneo delle genti venete, nel suo vigilante patriottismo comprende, e sarà Padova che offrirà il gonfalone alla neoConsorella giuliana.
Triestini e Triestine!
Dopo quanto vi ho detto io vi domando: C’è uno solo fra voi di sangue e di anima italiana che possa per un solo istante dubitare dell’avvenire della vostra città unita sotto il simbolo del Littorio, che vuol dire audacia, tenacia, espansione e potenza? Non abbiate qualche volta l’impressione che Roma, perché distante, sia lontana. No, Roma è qui. È qui sul vostro Colle e sul vostro Mare; è qui nei secoli che furono e in quelli che saranno; qui, con le sue leggi, con le sue armi, e col suo Re.
Mai prima tanta violenza e livore in un proclama
di Amedeo Osti Guerrazzi (La Stampa 15.09.2018)
L’odio si crea, l’odio si insegna. A Trieste, davanti una folla immensa, Mussolini attacca per la prima volta apertamente gli ebrei italiani e «l’ebraismo internazionale». Fino a quel momento, le sue rare uscite sul tema dell’antisemitismo e del razzismo sono state dichiaratamente critiche. In un discorso del 1934, ha addirittura schernito «talune dottrine d’oltralpe» riferendosi al razzismo nazista. La svolta del regime è cominciata già dal 1937, con l’inizio della campagna di stampa antiebraica. Ma è a Trieste che Mussolini si espone personalmente con un discorso che è un violentissimo attacco, ma anche un capolavoro retorico.
Per la prima volta, «l’ebraismo mondiale» viene indicato come «un nemico inconciliabile» del fascismo. Per la prima volta l’opinione pubblica italiana scopre di avere un nemico.È un passo importantissimo, fondamentale: fino al 1938, nonostante la campagna di stampa partita l’anno precedente, gli ebrei sono stati insultati ed attaccati, anche in maniera pesante, ma mai con questa virulenza e livore, e soprattutto mai da figure di primo piano del regime.
Inoltre Mussolini qui non spiega in alcun modo perché gli ebrei sono dei nemici e suggerisce, invece, che il regime è «costretto» a difendersi da un nemico pericoloso e aggressivo. Il fascismo è giusto e generoso, ma nonostante ciò è attaccato dall’interno (gli ebrei italiani) e dall’esterno (l’ebraismo internazionale).
Come tutte le dittature, il fascismo ha bisogno di presentare al «popolo» dei «nemici» contro i quali mobilitarsi, e le conseguenze funeste di questa politica si vedranno durante l’occupazione nazista, quando i fascisti più radicali aiuteranno le SS nelle deportazioni. Il percorso dell’esclusione e della persecuzione, e la retorica dell’odio contro il «nemico» ebreo, voluto da Mussolini con un cinismo rivoltante, comincia da questo discorso.
I giudici e “le leggi abominevoli”, molti grigi esecutori e pochi eroi
di Giuseppe Salvaggiulo (La Stampa, 15.09.2018)
Il ruolo dei giudici nell’applicazione della legislazione razzista è scandagliato nel volume «Razza e inGiustizia», meritoriamente pubblicato dal Consiglio superiore della magistratura e dal Consiglio nazionale forense in collaborazione con l’Unione delle comunità ebraiche italiane e presentato ieri in Senato.
Dal 1923 il fascismo aveva limitato l’indipendenza dei magistrati, degradandoli a «funzionari»: il governo ne decideva promozioni e trasferimenti; nominando i capi delle corti, influiva sulle sentenze. Ai giudici di rango inferiore erano imposti camicia nera e saluto fascista. Chi dimostrava «atteggiamenti incompatibili con le generali direttive politiche del governo» era dispensato dal servizio. I reati politici erano sottratti alla magistratura e devoluti a un tribunale speciale. Il Csm era non era più eletto dai giudici, ma designato dal potere esecutivo e ridotto a organo consultivo del ministro. Nel 1941 la tessera del partito sarebbe diventata requisito per l’esercizio della professione.
In questo contesto, non stupisce che il 17 novembre 1938, quando Vittorio Emanuele III firmò il regio decreto 1728 che poneva le basi giuridiche della discriminazione cancellando il principio di eguaglianza tra i «regnicoli» sancito dall’articolo 24 dello Statuto albertino, il contagio nel mondo giuridico fosse già diffuso. Alti magistrati, avvocati di fama e accademici di prestigio contribuivano alla rivista «Il diritto razzista». In generale, la magistratura si adeguò. Prevalse - chi per paura, chi per viltà - la zona grigia, l’ossequio formale a quelle che Calamandrei definì «leggi abominevoli».
I venti magistrati che aderirono fieramente al razzismo antiebraico furono posti al vertice della piramide giudiziaria, salvo riciclarsi in ranghi ancor più elevati dopo la Liberazione. Gli ebrei erano sfiduciati. Fino al 1943 solo 60 fecero ricorso contro provvedimenti discriminatori.
Ma ci fu una parte dei giudici che invece praticò, sotto diverse forme, una resistenza. L’epurazione di 18 magistrati ebrei fu immediata, all’insegna della «purezza razziale dell’intero apparato».
Una forma di resistenza fu quella di chi cercò di limitare, quando non di vanificare, gli effetti delle leggi razziali con una puntigliosa, creativa e cavillosa interpretazione del proprio ruolo. Scrive Giovanni Canzio, ex presidente della Cassazione: «Mentre in Germania i giudici applicavano le norme razziali facendosi interpreti del comune sentimento popolare e conformandosi all’ideologia nazista, in Italia almeno una parte dei giudici interpretava analoghe norme rifacendosi ai principi generali dell’ordinamento, sì da interporre un qualche argine di legalità formale al controllo assoluto messo in atto dal regime».
L’articolo 26 del regio decreto del 1938 attribuiva la competenza esclusiva e insindacabile in materia al ministro dell’Interno, che era lo stesso Mussolini; una legge del 1939 istituiva commissioni speciali, i cosiddetti «tribunali della razza» affidati ad alti magistrati fascistizzati e quindi sostanzialmente emanazione del regime.
Nonostante ciò, alcuni magistrati civili e amministrativi si ritagliarono un ruolo, operando una distinzione: al ministro la decisione «in merito a chi fosse ebreo», ai giudici quella sul godimento dei diritti civili e politici e sullo stato delle persone. Un campo assai vasto: dal lavoro alla famiglia, dal patrimonio all’impresa. Per altro verso, si sostenne un’applicazione restrittiva di leggi considerate eccezionali e si rigettò l’idea, all’epoca (solo?) diffusa, di interpretare il diritto «alla luce del comune sentimento popolare».
La dottrina più autorevole e illuminata - Calamandrei, Galante Garrone, Jemolo - teorizzò il carattere politico, più che la portata giuridica, delle leggi razziali, spiegando che «il concetto di razza è estraneo all’ordinamento italiano». Nel 1939, in una causa in materia di filiazione, la Corte d’appello di Torino (presidente Domenico Riccardo Peretti Griva) rivendicava la propria competenza «a conoscere dell’appartenenza a razza determinata» di un cittadino quando necessario a determinare i limiti della capacità giuridica.
La parte della magistratura schierata col regime non tacque. Giulio Ricci, primo presidente della Corte torinese, contestò l’orientamento con due circolari, che denunciavano l’elusione delle disciplina discriminatoria e paventavano responsabilità dei magistrati fuori linea. Ma Consiglio di Stato e Cassazione difesero i giudici dissidenti, motivando che le deroghe all’autonomia della giurisdizione non potessero essere oggetto di interpretazione estensiva.
I giudici amministrativi annullarono la revoca del nulla osta all’iscrizione universitaria disposta dal ministro degli Esteri nei confronti di un tedesco di origine ebraica. La Corte dei conti restituì la pensione a un’anziana signora. Fu, quello giudiziario, un eroismo sottile e cocciuto che va ricordato. E coltivato.
Non solo gli ebrei. Così morì lo Stato
Commento di Anna Foa (La Repubblica, Robinson, 02.09.2018)
Nell’autunno 1938 il regime fascista emanò una serie di leggi, le cosiddette "leggi razziali", seguite da ulteriori circolari e disposizioni, che introducevano radicali discriminazioni fra i cosiddetti appartenenti alla "razza ariana" e i non ariani, in particolare gli ebrei. All’epoca, gli ebrei presenti in Italia erano 47.000, di cui 10.000 circa stranieri. Un ebreo ogni mille "ariani", quindi.
Le leggi razziali si abbatterono come un fulmine a ciel sereno sul mondo ebraico italiano, partecipe in larga misura del consenso generale al regime fascista. Le mille disposizioni con cui le leggi colpivano gli ebrei erano inaspettate, anche se fra il 1936 e il 1937 non erano mancate avvisaglie di una possibile svolta razzista, e se il sempre più stretto avvicinamento alla Germania hitleriana appariva a molti preoccupante.
Anche dopo l’emanazione delle leggi, però, il mondo ebraico italiano non ebbe piena consapevolezza della portata della catastrofe. Prevalse l’idea che poco a poco tutto sarebbe finito nel dimenticatoio, mentre molti tentavano la strada delle domande di "discriminazione" per meriti fascisti o altro, ossia l’esenzione individuale dalle norme razziste, per lo più respinte dal regime e che comunque non sarebbero riuscite più tardi ad evitare la deportazione dei "discriminati". Anche tra gli antifascisti, tranne poche voci, scarsa fu la consapevolezza della gravità di quanto accaduto. Il mondo stava precipitando verso la catastrofe e le leggi razziste furono generalmente sottovalutate anche dagli oppositori del regime. Fra gli "ariani" pochissimi reagirono.
Certo, c’era una dittatura che già si era sbarazzata dei suoi oppositori col carcere, l’esilio, il confino. Ma i non ebrei fecero tesoro della propaganda razzista diffusa a piene mani dal regime. I professori delle Università furono pronti ad occupare le cattedre liberate dai colleghi ebrei, gli insegnanti cacciarono da scuola gli studenti ebrei senza mostrare rammarico, un trauma rimasto nella memoria di quei bambini a tutt’oggi. Chi continuava a avere rapporti con gli ebrei era definito "pietista".
Nessuno allora comprese che con queste leggi era definitivamente morto lo Stato creato dal Risorgimento. Che la ferita più grande le leggi l’avevano inferta non agli ebrei, ma all’Italia.
Vaticano e Alleati sordi agli appelli non salvarono gli ebrei a Ferramonti
Il campo di internamento di Ferramonti presso Tarsia (Cosenza) fu inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940
di Mirella Serri (La Stampa, 28.08.2018)
Il presidente del World Jewish Congress, Stephen Wise, a fine dicembre 1942 inoltrò una lettera dal contenuto assolutamente inquietante a Myron Taylor, ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Wise univa una forte e decisa personalità a una grande prudenza, cercava di non fare passi falsi ed era molto legato a personaggi illustri che lo stimavano, come Albert Einstein. Non a caso si rivolse a Taylor che, prima di assumere un ruolo diplomatico, era stato un imprenditore di enorme successo: confidava sul suo attivismo per individuare rapide soluzioni.
La lettera era un grido di dolore proveniente dallo sperduto Comune di Tarsia, in provincia di Cosenza. Nel campo di Ferramonti presso Tarsia, inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940 dopo l’entrata in guerra dell’Italia, erano rinchiusi ebrei, cittadini stranieri e apolidi. Nella missiva da loro inviata al governo degli Stati Uniti e poi arrivata a Wise, gli ospiti del campo non usavano perifrasi. Non solo in quella zona malarica si diffondevano epidemie ma con il procedere del conflitto mancavano cibo e medicine, e arrivavano con dovizia di terribili dettagli le notizie sugli ebrei deportati in Polonia. I lager polacchi non erano luoghi di lavoro ma di sterminio. A Tarsia si temeva una sorte analoga e si chiedeva un permesso di transito per l’Africa o il Medio Oriente.
Lo spettro della Polonia
Attraverso vari passaggi, la proposta planò sul tavolo di Luigi Maglione, nominato da Pio XII nel 1939 cardinale Segretario di Stato. Vi fu anche una presa di posizione di Giovanni Montini: il rastrellamento e la spedizione in Polonia «sembravano imminenti», osservava il futuro papa Paolo VI. «La deportazione in Polonia degli ebrei... significa la loro condanna a morte».
Furono valutati seriamente questi disperati appelli? Per nulla. Gli Alleati e la Santa Sede non mossero un dito per passare il Rubicone e salvare la vita di migliaia e migliaia di ebrei italiani e stranieri che avevano trovato rifugio nella Penisola: lo testimonia il tourbillon di lettere e risposte, fino a oggi inedito in Italia, che Michele Sarfatti, notissimo studioso di storia della Shoah, porta alla luce nella riedizione di Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi).
In coincidenza con la ricorrenza degli 80 anni dall’emanazione delle leggi razziali annunciate il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, il saggista nell’ampia ricerca utilizza documenti reperiti negli American Jewish Archives e presso la World Jewish Congress Collection. E offre una drammatica testimonianza sulle reazioni negative a questa prima tornata di allarmi provenienti dal Congresso mondiale ebraico: la notizia che i tedeschi si attivassero per la deportazione «è destituita di fondamento», protestava con sicumera Francesco Borgoncini Duca, nunzio apostolico in Italia.
Tutto precipita
I tempi della shoah sono rapidissimi, ricorda lo studioso, e tutto cambiò in un breve arco di tempo: prima dello sbarco alleato in Italia, gli ebrei di Ferramonti desideravano fuggire dal Sud della penisola. Ma nel luglio 1943 il rappresentante a Washington del World Jewish Congress fece un’audace proposta:
tutti gli ebrei italiani, anche quelli risiedenti al Nord, dovevano essere spostati in massa al Sud.
Era una soluzione assolutamente praticabile. Vennero mandati cablogrammi alla rappresentanza vaticana e all’ambasciatore svizzero negli Usa nei quali si diceva: quattro milioni di ebrei sono già stati uccisi. Che aspettiamo? Gli appartenenti alla comunità ebraica italiana vanno dislocati nel Mezzogiorno. Ma Berna e Washington si tirarono indietro: non c’era nulla da fare, affermarono, un intervento sul governo italiano non avrebbe nessun successo. Il 6 agosto la Santa Sede garantì che avrebbe fatto «tutto il possibile a favore degli ebrei».
Nulla fu attivato. Il maresciallo Pietro Badoglio, alla richiesta del presidente del Wjc che fosse garantito lo spostamento al Sud degli ebrei, promise che avrebbe facilitato «lo spostamento in zone che possano destare minore preoccupazione». Era una menzogna. Non voleva prendere iniziative sgradite all’alleato tedesco che stava per tradire.
«Tutti i governi sapevano dello sterminio», scrive Sarfatti. E rileva che «i tempi della diplomazia non conobbero accelerazioni particolari». Dispacci e lettere, al contrario, procedevano a passo di lumaca. Né il Vaticano né il governo statunitense «risultarono adeguati alla situazione». Per salvare la pelle al Sud però vi si trasferirono lo stesso Badoglio e la casa reale. Abbandonando i cittadini italiani e le comunità ebraiche al loro destino.
ARCHEOLOGIA FILOSOFICO-POLITICA: L’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. RIPENSARE COSTANTINO, RIPENSARE IL "PRESEPE"...
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
Cent’anni fa il Vate volava su Vienna
Lanciando volantini sulla capitale nemica dimostrava le capacità ignorate dell’aviazione
di Gianni Riotta (La Stampa, 09.08.2918)
Il 9 agosto del 1918 il maggiore Gabriele d’Annunzio volava, con la sua squadriglia aerea 87, Serenissima, sulla capitale nemica Vienna, non per bombardarla, ma per lanciare volantini inneggianti all’Italia. Due mesi prima, il 4 giugno, il colonnello Giulio Douhet, che di D’Annunzio era amico e con lui condivideva la fede nell’aviazione, lasciava l’esercito, sdegnato per l’incapacità dello Stato Maggiore di comprendere la guerra aerea, che gli era costata perfino una condanna al carcere militare.
Il maggiore poeta D’Annunzio e il colonnello stratega Dohuet, l’autore de Il piacere, 1889, e il futuro autore del manuale militare di aviazione, Il dominio dell’aria, 1921, avevano redatto, terzo firmatario l’ingegner Gianni Caproni, un memorandum per il generale Carlo Porro, datato 3 luglio 1917. Chiedevano ai burocrati, come il vetusto generale Cadorna, di fondare un’aviazione indipendente, per ottenere «il dominio dell’aria».
Pionieri Né il «Vate», come i fedelissimi appellavano D’Annunzio, né Douhet vengono ascoltati, ma non mollano. E D’Annunzio, malgrado l’incidente del gennaio ’16, che l’ha reso guercio, decide che se l’aviazione non può vincere la guerra con i bombardamenti strategici prescritti da Douhet, almeno potrà servire a un’audace azione di propaganda. Sorvolare l’orgogliosa Vienna, non per seminare bombe, ma, con «sprezzatura» cara agli Arditi, volantini con messaggi di resa per gli austriaci.
D’Annunzio amava il volo da quando aveva visto uno dei primi show aerei a Brescia, nel 1909, tra gli spettatori anche lo scrittore Franz Kafka, e per aver volato col pioniere Wilbur Wright. Il suo innato senso di comunicazione estetica, lo porta subito a due raid con volantini, agosto e settembre 1915, su Trento e Trieste in mano agli austriaci.
Il poeta malvisto
Se un’idea lo anima diventa slogan, stavolta «Donec ad metam: Vienna!», lo stato maggiore non può sbatterlo in carcere con Douhet, ma lo considera uno scocciatore, e quando concede il permesso per il raid, lo fa senza entusiasmo. -Ricorda lo scrittore Giordano Bruno Guerri, biografo di D’Annunzio e presidente del Vittoriale, casa-museo del poeta: «ll Comando Supremo glielo impedì, nonostante i mille chilometri percorsi in una sorvolata dimostrativa sulle Alpi per esibire la propria resistenza alla fatica. Temevano un fallimento, o addirittura la prigionia o la morte del poeta-soldato. Dopo le sue insistenze, il Comando Supremo e il Governo decisero di autorizzarlo all’impresa, di un’audacia mai tentata prima».
La clausola è però ferrea, se maltempo, caccia nemici o guasti, avessero indebolito la squadriglia di undici Ansaldo Sva (sigla dei progettisti Savoja, Verduzio, Ansaldo), il raid sarebbe stato cancellato. D’Annunzio, sempre «d’annunziano», fa giurare invece ai piloti di andare avanti a ogni costo. Il 2 agosto 1918 la squadriglia è fermata dalla nebbia. L’8, dal vento. Gli equipaggi erano esposti a intemperie e gelo, soli strumenti bussole e mappe, si volava a vista, accecati da una nuvola.
Due volantini diversi
D’Annunzio ha a bordo 50.000 volantini in italiano, sul sito Ebay se ne vende ancora qualcuno, redatti da lui in prosa magniloquente:
«In questo mattino d’agosto, mentre si compie il quarto anno della vostra convulsione disperata e luminosamente incomincia l’anno della nostra piena potenza... l’ala tricolore vi apparisce all’improvviso come indizio del destino che si volge. Sul vento di vittoria che si leva dai fiumi della libertà, non siamo venuti se non per la gioia dell’arditezza...Il rombo della giovane ala italiana non somiglia a quello del bronzo funebre, nel cielo mattutino...o Viennesi. Viva l’Italia! »
Con maggiore realismo politico, il comando fa tradurre in tedesco un altro volantino, 350.000 copie, autore il critico Ugo Ojetti, che si conclude con un appello agli alleati, «Viva l’Italia, viva l’Intesa!» e il 10 agosto, in un dispaccio di prima pagina, il New York Times, cita proprio Ojetti, pur elogiando l’impresa di D’Annunzio, «oltre 1600 chilometri percorsi, 800 su territorio nemico» https://goo.gl/RXLv8g .
Il raid avrà echi straordinari, la folla di Vienna ha visto i velivoli (parola coniata da D’Annunzio) volteggiare a 800 metri, con il poeta che cerca il museo con l’immagine di Santa Caterina d’Alessandria e ordina al copilota Natale Palli di incrociare indietro.
La Frankfurter Zeitung lamenterà che la contraerea tedesca non abbia intercettato gli Ansaldo, l’Arbeiter Zeitung accuserà di codardia gli intellettuali «Dove sono i nostri D’Annunzio? D’Annunzio, che noi ritenevamo un uomo gonfio di presunzione, l’oratore pagato per la propaganda di guerra grande stile, ha dimostrato d’essere un uomo all’altezza del compito e un bravissimo ufficiale aviatore. Il difficile e faticoso volo da lui eseguito, nella sua non più giovane età, dimostra a sufficienza il valore del Poeta italiano...Anche tra noi si contano...quelli che allo scoppiar della guerra declamarono enfatiche poesie. Però nessuno di loro ha il coraggio di fare l’aviatore!».
L’elogio del nemico è sempre il migliore. Ma l’Italia, pioniera del volo nell’industria, nel disegno, nella strategia, non darà seguito al raid di Vienna. D’Annunzio finirà, dopo l’occupazione di Fiume, isolato, Douhet non avrà il tempo di completare il progetto per una grande aviazione. E durante la Seconda guerra mondiale le nostre città scopriranno, con dolore, la differenza tra volantini poetici e bombe vere, tra poesia decadente e strategia efficiente, tra bel gesto e industria di massa.
Hitler e il Discobolo, memoria e spettri vecchi e nuovi
di Mauro Berruto (Avvenire, mercoledì 1 agosto 2018)
Nel 1936 Adolf Hitler scelse la regista Leni Riefenstahl per realizzare un’opera cinematografica che fosse, grazie alle immagini dei Giochi Olimpici di Berlino, formidabile strumento di propaganda. L’Olympiastadion di Berlino diventò così un gigantesco set, il cui fine era l’esaltazione della razza ariana.
Leni Riefenstahl, affascinata dall’antichità classica, con un escamotage cinematografico, fece “animare” la statua del Discobolo Lancellotti, una delle copie migliori dell’originale in bronzo di Mirone, con una dissolvenza. Il marmo si trasformava in un atleta, ariano, impegnato nella rotazione del lancio del disco.
Adolf Hitler, innamorato del genio della Riefenstahl e stregato da quelle immagini decise di acquistare la statua dalla famiglia Lancellotti per un milione di Marchi. Fu presentata il 9 luglio 1938 nel Museo Glyptothek di Monaco, alla presenza del Führer. Esiste una foto, oggi esposta nella pancia dell’Olympiastadion, che ritrae Hitler, in posa davanti al Discobolo. Impietosa. Raffigura un omino con dei ridicoli baffetti e la svastica al braccio dominato, anzi sovrastato dalla bellezza, dall’armonia, dalla perfezione di quella statua che guarda giù e sembra sorridere di fronte a tanta imbecille arroganza.
Il Discobolo nel 1948 tornò in Italia e oggi si può ammirare al Museo di Palazzo Massimo alle Terme, a due passi dalla stazione Termini di Roma.
Tre giorni fa Daisy Osakue, discobola azzurra, torinese, è stata gratuitamente aggredita e ferita. Ennesimo episodio di una spaventosa (nel senso letterale, che fa paura) sequenza di violenze che si stanno diffondendo nel nostro Paese. Episodi che hanno un tratto comune: colpire chi è debole, perché donna o vecchio o fragile, e chi è diverso per colore, etnia o confessione religiosa. I capisaldi del disprezzo per gli “altri”, il motore della xenofobia e del razzismo, insomma. Daisy difende la maglia azzurra della Nazionale di Atletica Leggera, non è una spacciatrice, una ladra, un’immigrata irregolare. È una bella ragazza, nata a Torino, con alle spalle tanti anni di allenamento e studio negli Stati Uniti, che quando lancia il disco si tinge le treccine di azzurro e quando vince canta fieramente l’Inno di Mameli. Il razzismo, tuttavia, non fa distinzioni. Si fonda sull’ignoranza. Ignoranza che genera paura. Paura che genera violenza. Violenza che genera odio. Odio che genera ignoranza. Da lì si riparte, su un livello sempre più alto. È sempre stato così.
William Sheridan Allen, storico americano, pubblicò nel 1965 un saggio che si intitola: “Come si diventa nazisti”, la storia di una piccola città della Germania durante la Repubblica di Weimar i primi anni del Terzo Reich. Una tranquilla e normalissima cittadina di diecimila abitanti, Nordheim, tra il 1930 e il 1935, come tutta la Germania, cambiò volto, quasi senza accorgersene, tra sottovalutazione e silenzio degli indifferenti.
«La fine della democrazia è sempre possibile e, oggi come allora, gli avversari della democrazia stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, ch’è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà», commenta il sociologo Luciano Gallino nell’introduzione a quel saggio. Chissà che cosa ne pensa il Ministro dell’Interno, colui che dovrebbe garantire la sicurezza del Paese. Fra un tweet e l’altro, fra un’emoticon e un “bacione” ai suoi detrattori, viene da pensare che il clima che respiriamo sia frutto di una sorta di tragico lasciapassare.
Nel frattempo Daisy Osakue tornerà a lanciare il disco per la maglia azzurra. Lo farà presto ai Campionati europei di Atletica Leggera che si disputeranno a Berlino, proprio all’Olympiastadion. Quello dove Hitler guardava le gare, quello dove Leni Riefenstahl girava il suo documentario, quello soprattutto dove Jesse Owens diventò simbolo di quei Giochi Olimpici voluti per celebrare la razza ariana. Lui, nero dell’Alabama, vincitore di 4 medaglie d’oro. Perché la storia ha sempre in sé tanto la malattia che l’antidoto.
Storia d’Italia. Il manifesto del Duce che aprì le porte alla persecuzione degli ebrei
Il 15 luglio 1938 il regime fascista pubblicò il documento di discriminazione razziale da cui nacquero le leggi antisemite
di Roberto Festorazzi (Avvenire, 10 luglio 2018)
[FOTO] I dieci punti del Manifesto in difesa della razza
Il 15 luglio 1938, ottant’anni fa, la pubblicazione del “Manifesto della razza” inaugurò in Italia l’antisemitismo di Stato. Allineandosi alla Germania, Mussolini scelse di adottare provvedimenti di discriminazione razziale, che aprirono le porte alla futura persecuzione. Prima di tutto, occorre domandarsi: il Duce era personalmente nemico degli ebrei?
La lunga e pacifica coabitazione, nei primi anni del regime, tra fascisti e comunità israelitica nazionale, nonché la circostanza - tutt’altro che priva di significato anche politico - che il dittatore fu per anni succubo della sua amante e consigliera Margherita Sarfatti, di origini giudaiche, ha indotto taluni a ritenere che le leggi introdotte nel 1938 fossero più dettate da esigenze di realpolitik (in sostanza, per compiacere Hitler), che non ispirate a intimi convincimenti personali.
In realtà, Mussolini condivideva gli stereotipi, largamente circolanti in tutte le società occidentali dell’epoca, sulla pericolosità degli ebrei, in quanto tali, e il suo animo era ricoperto da una fitta vernice di pregiudizio razziale, in senso lato. Le cause remote dell’acuirsi del contrasto tra ebrei italiani e fascismo debbono farsi risalire addirittura alla fine degli anni Venti. Fu proprio la Sarfatti, a quell’epoca, a individuare nei circoli sionisti presenti nella Penisola un focolaio di antifascismo e una sorgente di incomprensione. Il suo ragionamento era molto semplice, e certo condiviso dal Duce: i sostenitori, in Italia, della costruzione dello Stato di Israele privilegiavano le ragioni della propria causa “nazionale”, rispetto alla lealtà verso la Patria fascista. Dunque, si trattava di “rinnegati”. Nonostante una tale reciproca diffidenza, se non una vera e propria ostilità, tra gli esponenti sionisti e il regime, covasse sotto la cenere, fino alla metà degli anni Trenta i rapporti tra il dittatore e la comunità israelitica furono, almeno ufficialmente, corretti.
Ma, già nel 1933-34, l’antisemitismo, dentro la stampa e il Partito nazionale fascista, cessò di rappresentare una posizione marginale, limitata a pochi forsennati, come Giovanni Preziosi, direttore del mensile “La vita italiana”. Cominciarono a profilarsi i fautori di una campagna di sistematica aggressione nei riguardi della componente ebraica della società italiana. I più agguerriti esponenti di questa corrente erano Telesio Interlandi, direttore del quotidiano romano “Il Tevere”, e Roberto Farinacci, capofila dell’intransigentismo nonché fondatore e proprietario del suo organo di stampa, “Il Regime Fascista”.
Farinacci, dalle colonne del giornale, nel maggio del 1933, dopo aver reiterato violente accuse contro l’internazionale e la finanza ebraica, giunse ad auspicare l’introduzione in Italia di un “numero chiuso” per gli israeliti. Mussolini, da parte sua, mentre da un lato condannava ancora ufficialmente le teorie hitleriane sulla superiorità della “razza ariana”, dall’altro tollerava questi attacchi. Ma, in breve tempo, non si sarebbe più limitato ad osservarli: ne avrebbe incoraggiato l’intensificazione e l’estensione. Probabilmente, ragioni di prudenza, sulle prime, gli consigliarono di circoscrivere il “tiro” e di autorizzare soltanto Farinacci, Interlandi, Preziosi e pochi altri estremisti, a condurre in proprio la campagna antisemita a mezzo stampa.
La posizione di Mussolini cominciò ad evolversi soltanto nella seconda metà del 1936, quando iniziò a vedere nella politica sanzionista decretata dalla Lega di Ginevra contro l’avventura italiana in Etiopia, l’espressione irriducibilmente ostile dell’internazionale ebraica. Una sorta di “spectre”, che aveva una quinta colonna, tra gli ebrei antifascisti presenti in Italia, o tra gli esuli, come Carlo Rosselli, assassinato, insieme al fratello Nello, in Francia, nel giugno del 1937.
Si registrò in tal modo l’ulteriore acuirsi dei toni con cui Farinacci, dal “Regime Fascista”, non si limitò più a dirigere il fuoco contro i sionisti italiani, ma, più in generale, contro tutti gli ebrei che vivevano nella Penisola. Il 12 settembre 1936, un articolo di fondo non firmato, e dunque attribuibile al ras di Cremona, dal titolo “Una tremenda requisitoria”, prese lo spunto da un discorso pronunciato, al congresso nazionalsocialista di Norimberga, da Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda di Hitler. Questi aveva denunciato come nella Francia del Fronte Popolare e nella Spagna sconvolta dalla guerra civile, tutti i capi del “sovversivismo” fossero ebrei. -Farinacci andò dunque all’affondo: «Dobbiamo confessare che in Italia gli ebrei, che sono un’infima minoranza, se hanno brigato in mille modi per accaparrarsi posti nella finanza, nella economia e nella scuola, non hanno svolto opera di resistenza alla nostra marcia rivoluzionaria. Ma essi tengono purtroppo un atteggiamento passivo che può suscitare qualche sospetto. Perché non dimostrano in modo tangibile il proposito di dividere la loro responsabilità da tutti gli ebrei del mondo, che mirano ad un solo scopo: al trionfo dell’internazionale ebraica? Perché non sono ancora insorti contro i loro correligionari, autori di stragi, distruttori di chiese, seminatori di odî, sterminatori audaci e malvagi di cristiani?».
Già nel corso del 1937, Mussolini decise di attuare il “giro di vite”, con l’emanazione di una legislazione razzista. In tal modo, sulla stampa di regime, si assistette a un crescendo di invettive, e agli emuli italiani di Goebbels fu concesso di dilagare, a briglia sciolta, nella rappresentazione mostrificata del “nemico” per eccellenza. Si introdusse la distinzione tra gli “italiani ebrei” (ossia i lealisti con accertati meriti patriottici, in cima ai quali vi erano gli iscritti al partito) e gli “ebrei italiani”, vale a dire i sionisti e gli antifascisti. In seno alla comunità israelitica venne seminata discordia. Da un lato vi erano le organizzazioni ufficiali che raccoglievano la pluralità di anime e di correnti del giudaismo nazionale. Dall’altra il regime incoraggiò la nascita del filofascista Cire (Comitato degli italiani di religione ebraica), che si prestò a divenire strumento di disarticolazione della comunità. Il Cire chiese infatti di abolire, non solo la stampa israelitica ma anche di sciogliere la Face (Federazione delle associazioni culturali ebraiche) e l’Adei, che raggruppava la componente femminile. Era iniziata la corsa verso il baratro.
L’eutanasia del duce
Emilio Gentile. L’accurata ricostruzione, sulla base anche delle carte Federzoni, del 25 luglio: Mussolini quasi “propiziò” la sua caduta per «scendere dal treno della storia»
di Raffaele Liucci (Il Sole-24 Ore, Domenica, 01.07.2018)
Il 25 luglio 1943 fu «una giornata movimentata» nell’alloggio segreto di Amsterdam che da un anno nascondeva Anna Frank e i suoi famigliari. Le pareti della casa vennero scosse da ben tre bombardamenti, un forte odore di bruciato si sprigionò nell’aria, una spessa nebbia caliginosa scese sulla città. L’indomani Anna sarà però svegliata da «una splendida notizia, così belle non ne avevamo udite da mesi, forse mai in tutti gli anni di guerra». Mussolini aveva rassegnato le dimissioni, il Re d’Italia ripreso lo scettro del comando: «Eravamo felici. Dopo tutti gli spaventi di ieri, finalmente qualcosa di buono e... una speranza. Speranza nella fine, speranza nella pace».
In Italia, la notizia s’era diffusa la sera stessa. Il giubilo popolare per la cacciata del duce si sfogherà simbolicamente contro i vessilli e i simulacri del ventennio, in un’ansia catartica che prefigurerà Piazzale Loreto.
Come ricorda Emilio Gentile nel suo libro, senz’altro il più approfondito mai dedicato al tema, l’insieme di eventi passati alla storia come «25 luglio» era in realtà iniziato 24 ore prima: allorché alle 17 del 24 luglio 1943 s’era riunito a Palazzo Venezia, nella sala del Pappagallo, il Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo del regime. -Dopo più di dieci ore, alle 2,30 della notte, fu votato a maggioranza un ordine del giorno di Dino Grandi (presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni) che di fatto sfiduciò Mussolini. Alle 17,30 di quella stessa giornata, all’uscita da un’udienza con il Re Vittorio Emanuele III, Mussolini sarà arrestato dai carabinieri e sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio. Il regime littorio terminava così, sciolto come neve al sole da un colpo di mano militare ordito nelle segrete stanze con l’avallo della Corona.
Par di vederli, i gerarchi riuniti nella sala del Pappagallo, tra velluti blu e quadri d’autore. Seduti ai propri tavoli disposti a ferro di cavallo, con il duce al centro in posizione sopraelevata, contemplavano vent’anni di dittatura. La guerra ormai persa, la Sicilia invasa dal nemico, Mussolini diventato «l’uomo più odiato d’Italia» e i suoi moschettieri alla disperata ricerca di una via d’uscita. Tanto evocato nel nostro immaginario, il 25 luglio resta tuttavia una data fluttuante nella memoria piuttosto che un avvenimento storico accertato in via definitiva. Mancando infatti il verbale della seduta, non potremo mai sapere come andarono effettivamente le cose, se non basandoci sulle diverse testimonianze dei protagonisti. Da Grandi a Federzoni, da Bottai a Cianetti, quasi tutti hanno rievocato quel giorno cruciale.
Gentile ha compulsato e collazionato queste memorie (ben ventidue), giungendo alla conclusione che si tratta di «apocrifi d’autore». Redatti dopo il crollo del regime e rimaneggiati con il senno di poi, offrono «una rappresentazione parziale, lacunosa o semplicemente falsa», essendo ognuno dei comprimari «impegnato unicamente a far risaltare la coerenza, la dignità, il coraggio, la consapevolezza del proprio comportamento. Salvo poi contraddirsi in successive versioni o smentirsi reciprocamente». Il mosaico resta insomma monco, con molte tessere che non s’incastrano. Mutatis mutandis, è quanto accade anche allo studioso che tentasse di ricomporre i «55 giorni» del sequestro Moro basandosi sui resoconti dei brigatisti. Sarà interessante vedere come risolverà il rebus Miguel Gotor, il quale ha in cantiere un volume sul 16 marzo 1978 (strage di via Fani), ospitato nella stessa collana laterziana («10 giorni che hanno fatto l’Italia») che accoglie questo libro sul crepuscolo del fascismo.
Sin qui la pars destruens di Gentile. Ma uno storico non può limitarsi a smontare, attraverso la puntuale esegesi delle fonti, una versione distorta; deve anche giungere, per successive approssimazioni, a una ricostruzione plausibile. In assenza di un verbale ufficiale, non restava che andare alla ricerca di tracce il più possibili coeve. -Gentile ha avuto la fortuna (o la sagacia) di rinvenire due documenti inediti nell’archivio del presidente dell’Accademia d’Italia Luigi Federzoni (le note da lui prese durante la riunione e il verbale manoscritto a più mani compilato a casa sua qualche giorno più tardi), cui vanno aggiunti gli appunti raccolti da un altro partecipante, il guardasigilli Alfredo De Marsico, non inediti ma sinora trascurati dagli studiosi. Pur non risolutivi, questi reperti aprono uno squarcio significativo sull’ultima notte del regime, permettendo all’autore di formulare una suggestiva interpretazione degli eventi.
Il «25 luglio», sostiene Gentile, è stato una sorta di grande equivoco. Da un lato, non fu subìto, ma quasi propiziato da Mussolini. In un regime totalitario, infatti, nessun organo dello Stato avrebbe mai potuto sfiduciare il capo supremo. Però il duce era ormai stanco e rassegnato, conscio dell’abisso in cui aveva condotto il paese. Non fece nulla per bloccare quella votazione, che sfruttò anzi come «un espediente», non particolarmente eroico, «per scendere dal treno della storia». Dall’altro lato, gli eterogenei firmatari dell’ordine del giorno Grandi non intendevano abbattere la dittatura, ma soltanto sollecitare Mussolini a restituire il comando delle Forze Armate al Re. Essi stessi rimarranno sorpresi dal colpo di Stato attuato l’indomani dai vertici militari, già in programma, va sottolineato, indipendentemente dall’esito della seduta del Gran Consiglio.
«Tutto quello che è accaduto doveva accadere, poiché se non fosse dovuto accadere non sarebbe accaduto», scrisse Mussolini nel primo dei suoi «pensieri» vergati durante la prigionia. Velatamente, il duce ammetteva dunque che il 25 luglio non vi era stata né una congiura di traditori (o patrioti, come avrebbe detto Grandi), né un suicidio del regime (secondo la lettura di Badoglio), bensì un’eutanasia, da lui scelta consapevolmente.
«Quando un uomo crolla col suo sistema», ribadirà ancora Mussolini, «la caduta è definitiva, soprattutto se quest’uomo ha passato i sessant’anni». Allorché il 18 settembre 1943 il duce, resuscitato da Hitler, annuncerà da Radio Monaco il proprio ritorno, «dopo un lungo silenzio», Benedetto Croce annoterà di essere rimasto indifferente: «perché egli prese in me la figura di un fantoccio di pezza, che ha perduto la segatura della quale era imbottito, e pende e si ripiega floscio»
Il diario (1930-1943)
De Gasperi, l’antifascista in Vaticano
Criticava i vescovi vicini al regime
Gli appunti dello statista trentino, ora pubblicati dal Mulino a cura di Marialuisa Lucia Sergio, dimostrano che fu avverso a Mussolini anche quando la Chiesa lo appoggiava
di PAOLO MIELI (Corriere della Sera, 28.05.2018)
Susciterà interesse il Diario 1930-1943 di Alcide De Gasperi, curato da Marialuisa Lucia Sergio, che è stato dato adesso alle stampe per i tipi del Mulino. Riferisce, nella prefazione, la figlia dello statista trentino, Maria Romana, che negli anni Venti, quando «il potere fascista» era agli inizi, un ex deputato del Partito popolare, Giovanni Maria Longinotti, accompagnandolo a San Pietro, aveva domandato a suo padre: «Quanto credi che durerà questo regime?». E lui, senza esitazione, gli aveva risposto: «Venti anni». Colui che nella seconda metà degli anni Quaranta e nei primi Cinquanta avrebbe guidato la ricostruzione in Italia da presidente del Consiglio, due decenni prima era stato dunque tra i pochi a non farsi illusioni circa una breve durata del regime mussoliniano. E ad azzeccare la previsione. Durante gli anni Trenta, dopo aver conosciuto il carcere, De Gasperi era stato impiegato alla Biblioteca apostolica vaticana; apparentemente si era appartato dalla politica, ma aveva preso nota di quel che andava leggendo e aveva annotato su un taccuino incontri, conversazioni, riflessioni. Taccuino che adesso viene pubblicato nella sua integrità e con il corredo di un apparato scientifico (a cura della Sergio) davvero eccellente. Con il risultato, scrive Marialuisa Lucia Sergio, di far emergere quanto fosse in errore «la storiografia costruita sul paradigma togliattiano della fondamentale adesione di De Gasperi alla posizione della Chiesa che non rifiutava in blocco il fascismo e non ne condannava i connotati antidemocratici». Viene così smentito «il luogo comune di un De Gasperi in stato d’isolamento, relegato al catalogo stampati della Biblioteca apostolica vaticana, o - al contrario - di un protégé dell’autorità ecclesiastica». De Gasperi, come emerge nitidamente dal diario, non fu né una cosa né l’altra.
Il politico di Pieve Tesino all’epoca in cui iniziò a scrivere il diario era già adulto: un uomo che dai 49 anni fino ad oltre i sessanta dovrà «arrangiarsi con lavori modestissimi», ha notato Alberto Melloni. Ma aveva una notevole esperienza politica alle spalle: era stato un parlamentare di rilievo del Partito popolare ed aveva raccolto l’eredità di don Sturzo quando, nel 1924, quest’ultimo era stato costretto ad emigrare. Nell’estate di quello stesso 1924, dopo l’uccisione di Matteotti, all’epoca dell’Aventino aveva caldeggiato un’alleanza con i socialisti di Filippo Turati e per questo era stato duramente redarguito dall’organo dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica». Il suo riferimento era stato all’epoca il partito Zentrum tedesco del teologo Heinrich Brauns. In ciò sostenuto dal nunzio apostolico a Berlino Eugenio Pacelli (futuro Papa Pio XII) che nel 1925, proprio al fine di non destabilizzare lo Zentrum, aveva sconsigliato al pontefice Pio XI di pronunciarsi apertamente contro il socialismo (salvo poi doversi scusare con il capo della Chiesa indispettito per quella sollecitazione). Successivamente De Gasperi è presente all’ultimo congresso del Partito popolare (giugno 1925), subisce lo scioglimento del partito (novembre 1926), viene rinchiuso a Regina Coeli per un presunto tentativo d’espatrio clandestino (a Trieste).
Uscito di prigione, De Gasperi giustifica i Patti lateranensi del 1929, ma solo perché chiudono una volta per tutte la «questione romana». Spesso, soprattutto nel 1931 al momento del contrasto tra fascismo e Azione cattolica, si trova ad essere polemico con Giuseppe Dalla Torre direttore dell’«Osservatore Romano» per quelli che considera come «cedimenti al regime». Regime che lo tiene d’occhio e in più di un’occasione chiede a Pio XI di intervenire per metterlo in riga. Finché il Papa, proprio nel 1931, trasmette a Mussolini il seguente comunicato: «Il S. Padre non si pente e non si pentirà di aver dato ad un onesto uomo e onesto padre di famiglia un poco di quel pane che voi gli avete levato. Dell’azione antifascista di lui risponde il S. Padre; tanto è sicuro che non farà nulla di meno censurabile a questo riguardo». In quello stesso anno - se ne trova conferma nel diario - Pio XI ha frequenti scatti contro il regime mussoliniano. Contro il «negoziatore», padre Pietro Tacchi Venturi: il Papa gli avrebbe risposto battendo il pugno sul tavolo per poi esclamare «Mussolini è il demonio!». E contro padre Agostino Gemelli che gli propone di stringere un rapporto con il fratello del Duce, Arnaldo Mussolini (il quale morirà alla fine del 1931): «Quegli è Tartufo», avrebbe detto il Pontefice. Non mancano, nelle annotazioni degasperiane, giudizi poco lusinghieri (ancorché riferiti a terzi) nei confronti dello stesso Tacchi Venturi - «fuori dei libri non capisce niente»; «accetta cospicue elemosine per messe» - o di qualche eminente prelato come monsignor Enrico Pucci, definito «figura miserabile».
«L’Osservatore Romano», a suo avviso, è eccessivamente corrivo, nel 1932 con le celebrazioni del decennale della marcia su Roma; «rifrigge incontrollate affermazioni sul crocifisso nelle scuole». C’è una reazione indignata a padre Gemelli che ha accompagnato gli studenti della Cattolica ad una Mostra della rivoluzione fascista al Vittoriano e ha reso omaggio al re e al Duce. De Gasperi, nota Marialuisa Lucia Sergio, «censisce gli interventi più plateali dei vescovi locali a favore del fascismo». De Gasperi se la prende con l’arcivescovo di Napoli, cardinale Alessio Ascalesi, che nel settembre del 1932 ascrive alla protezione divina l’invulnerabilità di Mussolini di fronte ai vari attentati contro la sua persona, a suo dire investita di un’ «alta missione» per il bene del «mondo intero». È infastidito dall’amministratore apostolico della diocesi di Velletri, monsignor Giuseppe Marrazzi, il quale ricorda di essere stato tra coloro che applaudivano in piazza all’epoca della marcia su Roma e sostiene essere Mussolini un «uomo mandato da Dio». E anche dall’arcivescovo di Torino, cardinal Maurilio Fossati, che parla del Duce come di qualcuno «messo da Dio a reggere questa nostra cara Patria, con saggezza, prudenza e fortezza».
Secondo De Gasperi, né Pio XI né il cardinal Pacelli gradiscono le manifestazioni di consenso al fascismo tant’è che, nel maggio del 1933, Pacelli interviene per correggere il discorso d’ insediamento del nuovo arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa perché eccessivamente filofascista. Allo stesso modo viene mal considerato un intervento del cardinale Schuster al Duomo di Milano nell’ottobre 1935. All’epoca della guerra d’Etiopia poi le lodi degli alti prelati alla missione civilizzatrice del fascismo si moltiplicano mettendo in imbarazzo la Santa Sede. De Gasperi riferisce di una confidenza di Bernardo Mattarella secondo cui l’arcivescovo di Palermo Luigi Lavitrano nel settembre 1935 avrebbe ricevuto dal Papa la seguente ingiunzione: «Tacere, tacere, tacere!».
Tutti questi cedimenti della Chiesa al regime provocano a De Gasperi acuta sofferenza. Come quando nel 1932 le suore della scuola Pio X a cui sono iscritte due sue figlie pretendono che le ragazze prendano la tessera del Partito fascista: lui non accetta e le sposta all’Istituto francese delle suore di Nevers («lacrime», appunta sul diario). Nel 1934 annota sconsolato: «L’adattamento ha fatto passi da gigante. Nessuno si pone più la domanda di nuovi o possibili rivolgimenti. Lo stato d’animo di opposizione va tramutandosi in rassegnazione». Nell’inverno del 1935 scrive delle «grandi umiliazioni sofferte» e aggiunge: «Se un giorno le mie figliuole leggeranno queste righe, sappiano che ho sopportato soltanto per la famiglia e per loro».
Pio XI, però, nelle pagine del diario degasperiano resiste (e con lui il cardinale Pacelli) a questo «codinismo» dei vescovi e della stampa cattolica. «Sì, sì, il fascismo è il nemico», avrebbe detto il pontefice dispiaciuto perché l’arcivescovo di Firenze Dalla Costa aveva «esagerato in prudenza»: «non mi stanco di ripeterlo da mesi a quanti lo vogliono sentire».
Però il Papa delude De Gasperi per il rifiuto di appoggiare lo Zentrum tedesco ancora all’inizio degli anni Trenta che vedono l’avvento di Hitler al potere (1933). Qui, nota la Sergio, De Gasperi salva solo Pacelli, che detta all’«Osservatore Romano» una nota in difesa del partito cattolico centrista. Nota che però, a limitarne l’effetto, compare sul giornale della Santa Sede «come corrispondenza da Karlsruhe». E, in quanto tale, anonima. Pio XI avrebbe detto in quei giorni: «Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolscevichi. Finora era stato unicamente il Papa». De Gasperi che pure da giovane era stato affascinato dal cristianesimo sociale (e antisemita) di Karl Lueger appare sconcertato e segnala la «meraviglia» del cardinale Michael von Faulhaber per la circostanza «che nei circoli ecclesiastici di Roma si comprendesse così poco la perniciosità del movimento hitleriano». Secondo voci riferite da De Gasperi, Pio XI avrebbe confidato all’ex cancelliere della Repubblica di Weimar Heinrich Brüning la propria intenzione di condannare sia il fascismo che il nazismo (quasi un’anticipazione dell’enciclica Mit Brennender Sorge). Ma Brüning, come nota la Sergio, non menziona quest’episodio nelle proprie memorie pubblicate nel 1977.
Quando nel 1938 la Germania nazista annette l’Austria, De Gasperi annota il proprio stupore al cospetto di una dichiarazione dell’episcopato austriaco in favore dell’intervento hitleriano. E condivide questa sua ansia con «il solo cardinale Pacelli» e con Montini (futuro Papa Paolo VI) che gli confida: «Così va perso il senso della Chiesa!». Poi, nel 1938, scrive che Pio XI avrebbe avuto parole di fuoco sia contro Mussolini che contro Hitler.
Secondo la Sergio il diario di De Gasperi «non ci consegna alcun verdetto su Pio XI». Trattandosi di «annotazioni giornaliere, con un carattere di spontaneità e di immediatezza», esse «hanno il vantaggio di accompagnare il lettore l’ungo l’itinerario del pontificato di Papa Ratti senza la tentazione di tracciare una linearità prestabilita che razionalizzi la complessità di quell’epoca storica riportandola a uno schema interpretativo». Ciò che da queste pagine sembra emergere con chiarezza «è piuttosto l’identikit della vittima del conflitto regime-Chiesa, ossia un laicato cattolico posto nella condizione quotidiana di dover chiedere alla gerarchia il permesso di pensare».
Poi verranno il pontificato di Pio XII, la Seconda guerra mondiale e, a seguito dell’intervento degli Stati Uniti nel conflitto (fine 1941), De Gasperi riprende fiducia. Anche se compare qualche sconsolata allusione alla sua anzianità (l’uomo aveva all’epoca poco più di sessant’anni): «Inverno lungo, 1941-1942; per la prima volta sento gli attacchi dell’età e mi spavento degli anni, perché tutti, parlando d’altri sessantenni, dicono spesso: è un uomo finito, troppo vecchio». Accenna anche a un «esaurimento nervoso che mi durava da quindici giorni», ma subito si rinfranca: «Va migliorando con iniezioni, uova, riposo». Si compiace di alcune (riservate) prese di posizione di Pio XII ostili a Hitler, nota che il cardinale Pacelli fin dal 1942 è favorevole ad una soluzione repubblicana dal momento che non ha alcuna fiducia in casa Savoia. Si accorge che lo stesso Pacelli in qualche modo protegge l’amendoliano Meuccio Ruini. Adesso, avvicinandoci al 1943, De Gasperi non è più un isolato, anzi è l’uomo cardine della ricostituzione politica postfascista e antifascista. Nello stesso tempo si comprende come ritenesse già allora indispensabile, osserva Marialuisa Lucia Sergio, «l’alleanza con i partiti laici, indipendentemente dalla maggioranza di governo, come condizione per impedire al Paese fratture di tipo confessionale e per resistere alle pressioni della destra cattolica». Pagine preziose che contengono una lezione su come sia possibile mettere a frutto gli anni in cui si è costretti alla marginalità e al silenzio per riproporsi in tempi migliori come fulcro di un grande rinnovamento politico.
Il Diario 1930-1943 di Alcide de Gasperi (il Mulino, pagine 271, e22), sarà presentato mercoledì 30 maggio a Roma (ore 17) nella Sala capitolare presso il chiostro del convento di Santa Maria sopra Minerva (piazza della Minerva 38). Intervengono nella discussione Angelino Alfano, Francesco Bonini, Piero Craveri e Marco Impagliazzo. Modera Carlo Felice Casula. Saranno presenti Maria Romana De Gasperi e Marialuisa Lucia Sergio. Tra gli studi sullo statista trentino spiccano la biografia di Piero Craveri De Gasperi (il Mulino, 2006) e quella in tre volumi di Alfredo Canavero, Paolo Pombeni, Giovanni Battista Re, Giorgio Vecchio, Pier Luigi Ballini e Francesco Malgeri Alcide De Gasperi (Rubbettino, 2009).
Segre e i suoi cento anni di Resistenza al fascismo
di Massimo Novelli (Il Fatto, 23.05.2018)
Un secolo di vita, ma soprattutto un secolo di resistenza ai fascismi vecchi e nuovi, all’oscurantismo clericale e civile, ai pregiudizi di razza e di censo, alla violenza del potere. L’avvocato torinese Bruno Segre compirà cento anni tra qualche mese. Partigiano di Giustizia e libertà, uomo di legge e giornalista (dal 1949 dirige il periodico libertario L’Incontro), scrittore e politico (è stato capogruppo socialista, negli anni Settanta, al consiglio comunale di Torino), Segre festeggerà il suo centenario davvero formidabile il 4 settembre. Cento anni, dunque, trascorsi da alfiere indomito della libertà, della pace, della laicità e dei diritti civili, dall’obiezione di coscienza al divorzio.
Molti sanno, o se non altro dovrebbero sapere, che l’avvocato Segre difese nell’agosto del 1949 il primo obiettore di coscienza italiano, Pietro Pinna, davanti a un Tribunale militare. Così come sono conosciute le sue battaglie per il divorzio. Assai meno noto è che, tra l’estate e l’inverno del 1938, l’allora giovanissimo Segre fu il solo nel nostro Paese, assieme all’ex deputato socialista Giulio Casalini, a osteggiare apertamente le leggi razziali fasciste volute da Mussolini, e varate il 17 novembre, in una serie di articoli apparsi su una rivista regolarmente pubblicata in Italia. Si chiamava L’igiene e la vita, usciva a Torino, e l’aveva fondata il citato Casalini, un medico di Vigevano.
In quei mesi del 1938, come Renzo De Felice ha messo in luce nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, la stragrande maggioranza degli italiani rimase indifferente alle leggi razziali. Tacquero quasi tutti gli stessi ebrei italiani; soltanto uno di loro, l’editore Angelo Fortunato Formiggini, espresse tragicamente la sua protesta contro “l’assurda malvagità dei provvedimenti razzisti” suicidandosi a Modena (si buttò dalla Ghirlandina) nel novembre del 1938. E furono silenti o complici del regime gli intellettuali, salvo Benedetto Croce, che espresse il suo “ribrezzo” per l’antisemitsmo nazifascista in una lettera ripresa dal Palestine Post. Pochi altri, da Massimo Bontempelli a Filippo Tommaso Marinetti, ad alcuni cattolici, non nascosero l’avversione alla vergognosa legislazione avallata da Casa Savoia e dal re Vittorio Emanuele III. Ma un conto era il dissenso per lettera, un altro manifestarlo sulle colonne di un giornale non clandestino.
Segre e Casalini, invece, rischiando il carcere o il confino, ebbero il coraggio di scrivere pubblicamente. Su L’igiene e la vita misero in discussione il preteso fondamento storico e scientifico delle leggi, ossia l’esistenza di una presunta razza pura italiana, di origine ariana, come sostenevano gli accademici autori del Manifesto sulla Razza, pubblicato il 14 luglio del 1938 su Il Giornale d’Italia e in altri quotidiani.
Furono soprattutto gli interventi di Segre a mettere in rilievo che le affermazioni contenute nel manifesto “esprimono un punto di vista estremamente soggettivo. Si tratta di affermazioni dogmatiche la cui enunciazione scientificamente lascia molto a desiderare, e che prospettano una situazione diversa assai nei suoi sviluppi storici”. Firmati con lo pseudonimo di Sicor, gli articoli di Segre, all’epoca studente universitario, e di Casalini, che parteggiavano inoltre per la pace (“il fine dei popoli non può essere la guerra”, scrisse l’ex deputato del Psi), non passarono naturalmente inosservati. Come ricorda l’avvocato, “il giornale di Casalini venne sequestrato e soppresso per avere manifestato opinioni antirazziste”.
Certo è che, ha detto più volte Segre, “ancora oggi mi colpisce il fatto che a levarsi contro le leggi razziali non furono gli intellettuali, i giuristi, gli scienziati, i professori universitari, ma un vecchio socialista, che purtroppo nel dopoguerra venne coinvolto in un grave scandalo edilizio, e uno studente quale ero io, uno che aveva appreso dalle lezioni ascoltate all’Ateneo torinese come l’Italia fosse stata un crogiolo di popoli, una molteplicità di genti, altro che purezza di una ‘razza’ sola!”.
La scure della censura fascista non tardò a calare sul giornale. Dai documenti conservati all’Archivio di Stato di Torino, si può apprendere che già il 7 ottobre Dino Alfieri, ministro della Cultura Popolare, inviava ai prefetti un telegramma in cui si invitava a “disporre sequestro rivista L’igiene e la vita diretta da Giulio Casalini numero 9 del di settembre ultimo scorso per atteggiamento antirazzista”. Il 9 di novembre, il prefetto di Torino rispondeva: “Disposto sequestro n. 10-11 del periodico L’igiene e la vita ottobre-novembre diretto da Giulio Casalini stampato Tipografia Mittone per trattazione problema razzista non conformemente direttivo Governo Nazionale”. Francesco Mittone, nonno del noto avvocato Alberto Mittone, era stato lo stampatore de Il Grido del Popolo di Antonio Gramsci e di alcune opere di Piero Gobetti; la sua tipografia venne più volte perquisita dai poliziotti e dai fascisti.
Per il giornale di Casalini e Segre, pertanto, i giorni erano contati. “Tenuto conto”, affermava il prefetto di Torino, “che la rivista mensile L’igiene e la vita diretta da Giulio Casalini e stampa (sic) dalla tipografia Mittone - corso Principe Oddone 34, Torino - tiene atteggiamento antirazzista; che per tale motivo si sono dovuti adottare provvedimenti di sequestro; viste le leggi sulla stampa periodica, testo unico della legge comunale e provinciale e quella della legge di Pubblica sicurezza”, il 3 febbraio del 1939 decretava “la soppressione del periodico mensile L’igiene e la vita“. Il Questore di Torino fu “incaricato dell’esecuzione del presente decreto che dovrà essere notificato al direttore responsabile del periodico”. La rivista cessò le pubblicazioni. E a lungo sarebbe calato il sipario anche sul coraggio del giovane Bruno Segre e del medico socialista Giulio Casalini, due italiani da onorare e da ricordare nei libri di Storia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932. Un saggio di Giorgio Fabre, in "Quaderni di storia", riapre la questione.
Sei lettere sull’Italia
La denuncia di Pareto
Nei testi ora in italiano, curati da Alberto Mingardi, l’economista documenta gli abusi di potere e il carattere illiberale dello Stato crispino
di Sabino Cassese (Il Sole-24 Ore, Domenica, 20.05.2018)
Com’era l’Italia in quello che Croce nel 1928 chiamò “periodo crispino” (1887 - 1896)? Può dirsi che fiorirono in quegli anni ideali liberali, perché larga parte della classe dirigente si proclamava liberale? Benedetto Croce, nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, osservava che Crispi «non mai [...] si propose o vagheggiò un governo autoritario» e che anzi durante il suo governo si avviò la «trasformazione liberale del socialismo».
Abbiamo ora, per la prima volta tradotta in italiano, la testimonianza di un osservatore di eccezione, Vilfredo Pareto (raccolta e presentata con grande cura, dottrina e intelligenza da Alberto Mingardi,), che, in sei “lettere” scritte nel triennio 1888 - 1891 a una rivista americana, presenta l’Italia crispina come un regime statalista, protezionista, militarista, corruttore.
Lasciamo la parola a Pareto. Egli spiega ai suoi lettori d’oltre Atlantico che «la borghesia regna e governa in Italia senza che nessuno la contrasti; il suo potere è così solido che non ha nemmeno bisogno di ricorrere alla forza per mantenerlo». «La borghesia è al potere e ne abusa» perché i partiti popolari sono divisi. Non è solo per il «rispetto per l’autorità fortemente radicato nelle persone», che il governo ha un ruolo dominante, ma anche perché «gli interessi di tutti i cittadini italiani dipendono dallo Stato centrale».
«Nei piccoli paesi il governo controlla completamente le elezioni». La legge non è rispettata, tanto che vengono istituite nuove tasse senza autorizzazione legislativa e arrestate persone per solo ordine della polizia, senza decisione dei giudici. I funzionari governativi non possono essere perseguiti, quando violano la legge, perché solo i ministri possono farlo, mentre «la magistratura è sostanzialmente dipendente dal potere esecutivo».
«La maggioranza dei borghesi è indifferente [...] fintanto che il numero dei posti pubblici messi annualmente a disposizione dei loro figli non diminuisce, fintanto che possono continuare ad arricchirsi grazie al protezionismo, a speculazioni il cui conto viene presentato a tutto il Paese, e a monopoli garantiti loro dal governo, e perché vengano date loro a spese dello Stato tutte le ferrovie che desiderano».
Tra i sostenitori del governo e il governo «si stabilisce una sorta di scambio di favori: quest’ultimo lascia loro avere i denari dei contribuenti, mentre loro mettono al suo servizio la loro influenza in tutto il paese». Continua Pareto dicendo che Crispi non era stimato neppure dai suoi sostenitori: «costoro lo hanno sostenuto semplicemente perché era al potere e perché avevano bisogno di lui o per i propri affari privati o per difendere il partito conservatore contro i radicali».
Due delle sei “lettere” di Pareto riguardano la questione meridionale. Pareto osserva che «le condizioni sociali ed economiche della popolazione nella parte settentrionale della penisola sono molto diverse da quelle che prevalgono nella parte meridionale, incluse le isole, Sicilia e Sardegna».
Un divario simile si trova solo in Irlanda. Il mezzogiorno è oppresso dalla borghesia, che pratica l’usura. L’unica opposizione è quella del brigantaggio, «fenomeno sociale, non politico». Milano, Genova, Torino hanno una classe lavoratrice che «sente e pensa come in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti». Nel Sud, invece, «la borghesia e la nobiltà sono strapotenti».
Quando scrive questo violento atto di accusa contro l’autoritarismo crispino, Vilfredo Pareto è un quarantenne ingegnere (era nato nel 1848), lavorava a San Giovanni Valdano, dove era stato anche consigliere comunale dal 1876 al 1882, nonché candidato senza successo alla Camera dei deputati. Era direttore generale della Società ferriere italiane ed aveva stretto legami con l’ambiente intellettuale e politico fiorentino. Proprio negli anni in cui scrisse quelle lettere conobbe il grande economista Maffeo Pantaleoni, con il quale conserverà un rapporto stretto anche dopo, e nel 1893 si trasferirà a Losanna, dove iniziò la sua carriera più nota, dando contributi importanti sia all’economia e alla teoria economica, sia alla scienza politica e alla sociologia.
Le “lettere” paretiane (veri e propri lunghi articoli, da corrispondente estero), scritte nella lingua francese, quella che gli era più familiare, vennero tradotte in inglese dal direttore della rivista alla quale erano destinate o da suoi collaboratori, e vengono ora pubblicate per la prima volta in italiano grazie ad Alberto Mingardi, il quale le ha accuratamente presentate e annotate, ricostruendo l’ambiente di un gruppo individualista, anti-interventista e anti-statalista di Boston, allora il vero centro intellettuale degli Stati Uniti, un gruppo denominato “gli anarchici di Boston”, ispirato dall’azione di Benjamin Tucker, un attivissimo organizzatore di cultura. Tucker animò e diresse dal 1881 al 1908 la rivista «Liberty», alla quale erano destinate le lettere paretiane, oltre a pubblicare libri importanti, di politici e di scrittori, come Burke, Spencer, Wilde e Zola.
Su «Liberty» l’attenzione di Pareto era stata attirata da Sophie Raffalovich, autrice nel 1888 sul «Journal des Économistes» (al quale Pareto aveva collaborato) di un articolo intitolato «Gli anarchici di Boston» (ora in appendice a questo volume), nel quale spiegava che l’ideale del gruppo americano era la «distruzione dello Stato», per affermare la «sovranità individuale», un ideale manchesteriano in contrasto con quello dei socialisti. Evidentemente colpito dal resoconto della Raffalovich, Pareto si offrì di scrivere una serie di “lettere dall’Italia”.
Perché sono importanti questi scritti paretiani e perché è meritoria la presentazione che ne ha fatto Mingardi? Da un lato, perché queste lettere contengono le prime riflessioni di scienza politica di uno dei padri della teoria delle élite. In queste pagine Pareto fa riferimento a concetti che non erano certo comuni in quegli anni, come «classe dirigente» e «classe che regge il potere» e adopera costantemente un metodo comparativo.
Dall’altro lato, perché le critiche di Pareto alla «borghesia funzionariale», all’«ignoranza del popolo» (dal quale fa dipendere «quasi tutti i mali della società»), allo statalismo crispino, al carattere illiberale dello Stato crispino, permettono di capire i motivi per cui il fascismo, trent’anni dopo, potette utilizzare tante istituzioni dell’Italia postunitaria, piegandole a sé e valendosi dei suoi funzionari.
Gli anni 1901 - 1910, nei quali, secondo la ricostruzione crociana «si attua l’idea di un governo liberale», non furono sufficienti per mutare la natura dello Stato nato dall’unificazione. E la recente poderosa ricostruzione di Guido Melis (La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino) sta lì a dimostrare la disperata conclusione con la quale termina il saggio introduttivo di Mingardi sulla «corruzione e cialtroneria» come tratti costanti della classe dirigente italiana.
Fenomenologia del dittatore
L’arte di fare il tiranno
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 13.05.2018)
Siamo debitori con gli antichi greci per parole essenziali del nostro linguaggio politico: monarchia, tirannia, aristocrazia, oligarchia, democrazia, demagogia. Aristotele, il più raffinato fra gli antichi greci nel metodo della distinzione, definì la tirannia la “forma peggiore” fra le forme di governo: «Una monarchia che esercita il potere dispotico sulla comunità», e «irresponsabile impera su tutti i cittadini uguali o superiori per l’utilità propria e non dei sudditi». In un libro intitolato Tiranni il politologo statunitense Waller R. Newell ripercorre per 2500 anni la “strana carriera della tirannia”. Il politologo della Columbia University non menziona Aristotele, né propone una sua definizione della tirannia. Tuttavia, riferendosi ai monarchi orientali, li chiama «tutti tiranni», perché «detenevano sui sudditi un potere assoluto di vita e di morte». In quasi quattrocento pagine, scorre un lunga galleria di tiranni, dagli eroi omerici ai terroristi dello Stato islamico.
Newell distingue i tiranni in tre categorie. Alla prima categoria, il “tiranno giardiniere”, che egli considera al tempo stesso il più antico e “il più frequente nel nostro mondo”, appartengono Gerone I di Siracusa, Nerone, il generalissimo Franco, Atanasio Somoza, Papa Doc Duvalier, Mubarak: essi «dispongono di tutto il loro Paese e della sua società come fossero loro proprietà personali, sfruttandoli per il proprio piacere e profitto e per favorire i loro familiari e sodali».
Alla seconda categoria, il “tiranno riformatore”, appartengono «uomini spinti dall’ambizione a godere di sommi onori e ricchezze e a esercitare un potere assoluto», ma non sono «semplici edonisti o profittatori», come i “giardinieri”, perché desiderano «realmente migliorare la loro società e il popolo attraverso un esercizio costruttivo della propria autorità illimitata»: Alessandro Magno, Giulio Cesare, i Tudor, Luigi XIV, Federico il Grande, Napoleone e Kemal Ataturk; i quali spesso «non sono nemmeno percepiti come tiranni, ma come paladini della gente comune».
Infine, c’è la terza categorie dei “tiranni millenaristici”, fra i quali «rientrano figure come Robespierre, Stalin, Hitler, Mao, Pol Pot e i jihadisti di oggi»: essi «non si accontentano di essere banali tiranni giardinieri, ingordi e sfruttatori, e neppure di essere dei tiranni riformatori, che aspirano a realizzare miglioramenti costruttivi», ma sono piuttosto guidati «dall’impulso di imporre un regime utopico a cui l’individuo deve sottostare per il bene collettivo e in cui ogni privilegio e alienazione saranno per sempre sradicati».
I “tiranni millenaristici”, secondo il politologo, sono tutti moderni e non hanno precedenti fino al Terrore giacobino del 1793.
Un così vasto panorama storico ha un suo fascino, sia pur terribile. Si rimane colpiti dall’onnipresente potenza della tirannia che si perpetua per 2500 anni: nel racconto del politologo, ricorre martellante il monito: «La tirannide è un’alternativa permanente nella vicende umane e nell’interpretazione dell’azione politica”. Tuttavia, il libro si chiude con un atto di fede nella democrazia, «destinata a sconfiggere la tirannia, per il semplice fatto che è un’idea migliore».
Pur condividendo tale atto di fede, alla fine della lettura si rimane alquanto sconcertati. Prima di tutto, per alcuni rilevanti svarioni, commessi forse per eccesso di analogia: come quando il politologo afferma che molti dei tiranni millenaristi iniziarono la «loro ascesa al potere tiranno insolitamente presto ... Verso i trent’anni Hitler era già una grande figura pubblica della Germania; Lenin divenne il leader indiscusso dei bolscevichi a trentatré anni; alla stessa età, Robespierre prese il predominio sui giacobini».
In realtà, a trent’anni, nel 1919, Hitler era sconosciuto e impiegò 14 anni per ascendere al potere; nel 1903, la fazione bolscevica era meno numerosa di una scolaresca, e solo 14 anni dopo, a 47 anni, Lenin conquistò il potere. Un appropriato esempio di giovanile ascesa al potere tirannico poteva essere Mussolini, che divenne capo del governo a 39 anni: ma al tiranno italiano, venerato da Hitler come maestro e modello, il politologo dedica appena due pagini sciatte e scialbe, per descriverlo come una macchietta dal «machismo spavaldo», ponendolo in una scombinata associazione accanto a Salazar, Somoza, Mubarak, Assad, Peron.
Ma anche nelle tre categorie, i tiranni appaiono collocati alla rinfusa, come Gerone e Franco fra i “tiranni giardinieri”. Per esempio, non sembra storicamente plausibile attribuire la stessa mentalità millenarista a Robespierre e a Hitler, facendo del primo addirittura l’antenato di tutti i tiranni millenaristici. Neppure si comprende perché sono “millenaristici” solo i tiranni nati dopo Robespierre, mentre non sono menzionati i tiranni religiosi del Medioevo. Studiati nel 1957 da Norman Cohn ne I fanatici dell’Apocalisse (Edizioni di Comunità, 2000): per esempio, Giovanni di Leida, proclamatosi re di Münster nel 1534, fu certamente un tiranno millenarista molto più affine di Robespierre o di Hitler ai tiranni dell’ISIS. A questo proposito, forse sarebbe stato opportuno, per maggior aderenza alla storia, distinguere almeno i tiranni millenaristi e i tiranni del “messianismo politico”, ai quali ha dedicato una storia in tre volumi Jacob Talmon, iniziando con la “democrazia totalitaria” dei giacobini. Ma probabilmente neppure questa distinzione avrebbe reso più convincenti le analogie e le genealogie proposte nella “strana carriera della tirannia” dal politologo della Columbia University.
Strane è piuttosto la sensazione che rimane alla fine della lettura: sembra di aver assistito alla formazione di un “buco nero” storiografico, dove sono stati risucchiati i più eterogenei e inassimilabili personaggi vissuti durante duemilacinquecento anni di storia: un re greco che a capo degli achei nella guerra di Troia; un sovrano inglese per diritto divino della dinastia Tudor, che si fece capo di una Chiesa; un avvocato della provincia russa, che dopo trent’anni di oscura militanza diventò l’artefice di una rivoluzione mondiale; un generale turco che fondò una repubblica laica sulle rovine di un vasto impero islamico; un georgiano, ex seminarista ortodosso, che divenne il costruttore e capo osannato di un possente impero ideologico e militare, esteso dall’Europa centrale al Pacifico; un anonimo austriaco, architetto mancato, assurto a capo assoluto di uno degli Stati più moderni e colti d’Europa, con una partito razzista e antisemita, e così ancora per 2500 anni della “strana carriera della tirannia”, dove, alla fine, si identificano tutti con un personaggio, il tiranno, sempre e ovunque uguale a se stesso.
Il protagonista unico di una storia senza storia.
Waller R. Newell, Tiranni. Una storia di potere, ingiustizia e terrore , trad. di Luigi Giacone, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 396, € 25:
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.... *
Discussione
L. Steffens, Moses in Red. The Revolt of Israel as a Typical Revolution Dorrance and Company 1926
di Guido Bartolucci ( Lo Sguardo - rivista di filosofia, "Rivoluzione: un secolo dopo", N. 25, 2017.)
Non sempre gli anniversari sono occasioni per pubblicare e recensire nuovi libri, sono anche momenti utili per riscoprire vecchi autori e testi. È il caso di Lincoln Steffens (1866-1936) e del suo Moses in red, un libro unico nel suo genere, perché fu il primo a riconoscere nel racconto biblico dell’Esodo, le tracce di una ‘teoria’ della rivoluzione che aveva trovato la sua realizzazione negli eventi russi del 1917. «Il libro che ho appena finito», scriverà all’amico Gilbert Roe nel 1925, «è la storia di Mosè raccontata alla luce della rivoluzione, un classico esempio di come la rivolta di un popolo avviene. Jehova simbolizza la natura; Mosè, il riformatore e il leader; il faraone, il re o il padrone capitalista; Aronne l’oratore e gli ebrei sono il popolo. Il parallelo con la Russia o ogni altra rivoluzione è strettissimo».
Quando il libro uscì, nel 1926, Steffens era stato in Russia già tre volte, spettatore degli eventi e intervistatore dei principali protagonisti, come Lenin: una prima, nell’estate del 1917, dopo la rivoluzione di aprile; la seconda, nel 1919 a seguito della missione di pace guidata da William C. Bullitt; la terza nel 1923, durante il periodo della NEP. Fino a quel momento egli era stato quello che negli Stati Uniti si chiamava un muckrakers, cioè un giornalista d’inchiesta che aveva aperto il fronte, nella società americana, della aperta critica al sistema liberale. Ma Steffens non era rimasto chiuso nei confini statunitensi, aveva allargato i suoi orizzonti intellettuali in Europa alla fine dell’800, studiando teoria sociale e psicologia, e assistendo ai primi tentativi di costruire una scienza dell’organizzazione e del comportamento umano. Egli era convinto che la società fosse soggetta a leggi che potevano essere studiate come quelle che regolavano la natura.
Se in un primo momento della sua carriera Steffens aveva creduto nella possibilità che bastasse rendere evidente il legame corruttivo tra politica e affari per riformare la società, dopo l’incontro con la rivoluzione bolscevica si fece strada in lui l’idea che l’unico modo per trasformare la comunità degli uomini era la rivoluzione, che in Messico, in cui era stato tra il 1915 e il 1916 aveva avuto un suo primo momento, ma che in Russia aveva trovato la sua piena realizzazione.
Il libro dell’ Esodo agli occhi di Steffens, rappresenta la possibilità di raccontare a un pubblico che conosce bene gli avvenimenti narrati nel testo veterotestamentario, le tappe attraverso le quali si è sviluppata la rivoluzione russa e le ragioni che hanno mosso i suoi leader a specifiche azioni e politiche.Dopo una lunga introduzione e un breve capitolo preliminare, Steffens articola la sua trattazione in nove parti, che seguono gli avvenimenti narrati nel libro dell’ Esodo.
Il secondo capitolo è dedicato alla figura di Mosè e alla sua trasformazione in leader del popolo oppresso (pp. 51-59). Gli ebrei erano schiavi in Egitto dopo le politiche di Giuseppe, che avevano provocato l’odio degli egiziani verso il suo popolo. Fu necessario, dunque, che sorgesse un leader capace di guidare gli ebrei fuori dalla schiavitù e quest’uomo si impose perché poteva contare su una formazione unica. Scrive Steffens: «Mosè, nato schiavo, divenne un aristocratico nei sentimenti, nel comportamento e nell’aspetto. Egli era libero, impulsivo, fiero, diretto, audace, e senza legge. Egli si liberò della psicologia servile del suo popolo, ma non perse il senso della razza, che, nel suo caso, era la coscienza di classe. E fu l’unione di questi due tratti, la nobiltà egiziana e la lealtà alla razza che fecero di lui un grande leader ebreo dei lavoratori». (p. 57).
Dopo la formazione del leader, Steffens descrive la strategia, che passa attraverso la cospirazione contro il padrone, il faraone. Mosè si comporta come un classico agitatore politico, un leader dei lavoratori: invece di pretendere qualcosa d’irrealizzabile e difficilmente ottenibile, si limita a domandare un piccolo miglioramento, apparentemente facilmente realizzabile. È Dio, che per il giornalista americano rappresenta la natura, che propone a Mosè di andare dal faraone e chiedere di lasciare andare il popolo nel deserto per tre giorni per organizzare un sacrificio in onore della propria divinità. I leader, scrive Steffens, muovono i lavoratori a chiedere una minima riduzione dell’orario o un piccolo aumento della paga, ma in realtà «gli agitatori vogliono tutto ciò che il lavoratore produce» (p. 63). Allo stesso modo, prima della grande rivoluzione, nel 1907 il popolo fu spinto a chiedere allo zar una modesta partecipazione in un governo costituzionale.
La ragione di tutto ciò è evidente, scrive Steffens: uno dei problemi centrali per un movimento rivoluzionario è convincere e muovere le masse. Le piccole richieste a cui le autorità normalmente rispondono con un netto rifiuto e una violenta reazione hanno la funzione di innescare la rivolta: il primo esempio di questa strategia fu la cospirazione organizzata da Dio e Mosè. Steffens scrive: «I rivoluzionari che hanno studiato la storia, dichiarano che i rivoluzionari non possono fare una rivoluzione, solo il governo e i faraoni possono provocare un tale stato di crisi, e così accadde nella rivoluzione russa» (p. 88).
Ma uno degli aspetti più misteriosi del racconto dell’Esodo, continua il giornalista americano, è la ragione per cui gli ebrei, una volta usciti dall’Egitto non entrarono direttamente nella terra promessa, ma vagarono per quarant’anni nel deserto; la stessa cosa accadde anche in Russia: il popolo non ‘entrò’ direttamente nel nuovo stato comunista, ma si fermò, si voltò indietro, vagò per il deserto del dubbio e del compromesso. I leader della rivoluzione, infatti, sostennero che era necessario un cambio radicale nelle persone, perché la vecchia generazione che aveva conosciuto gli antichi mali dello zar doveva necessariamente essere superata.L’attraversamento del deserto, dunque, contiene al suo interno i passaggi più drammatici della fase rivoluzionaria. Il primo è la strage di parte degli adoratori del vitello d’oro ai piedi del monte Oreb: «c’è una certa legge naturale che governa i terrori. Quando una grande massa di persone ha paura, è incline a diventare crudelissima; quando una nazione sta organizzando un nuovo sistema di leggi e costumi, ecco che si ha un terrore rosso; quando sta difendendo un vecchio sistema ecco che c’è un terrore bianco. Ciò non è bene, ma è chiaramente naturale, e dunque è divino, come Mosè sapeva, o pensava» (p. 108).
Questo momento conferma che il popolo uscito dalla schiavitù, dimostrando di essere ancora legato alla vita in Egitto ha ancora paura e non accetta facilmente i cambiamenti imposti da Dio. È per questa ragione che dopo la strage si afferma la dittatura di Mosè, attraverso la quale si impongono le nuove leggi. Ma non è sufficiente, la paura continua a stringere il popolo, tanto che, una volta che gli esploratori mandati da Mosè sono tornati dalla terra promessa e hanno raccontato ai capi tribù che il paese è occupato da popolazioni bellicose, la maggior parte degli ebrei si rifiuta di entrare e pretende di tornare in Egitto. È in questo momento che l’ultimo insegnamento esodico si rivela ai rivoluzionari: la vecchia generazione deve morire affinché la nuova sia pronta a costruire la nuova nazione.
Sta in questa ragione l’errare degli ebrei per quarant’anni nel deserto, un momento che fu un periodo di transizione e di selezione della nuova generazione. La dittatura di Mosè e il terrore rosso sono necessari per la rivoluzione e per la costruzione di un nuovo popolo, capace, una volta attraversato il Giordano, di fondare una nuova nazione. È questo, secondo Steffens, l’insegnamento dell’ Esodo e che ne fa nelle sue varie tappe, una storia esemplare per tutti i rivoluzionari. Ma non basta: il libro di Mosè ha anche un’altra funzione. Sfeffens fu un ‘pragmatista’, il suo interesse per la rivoluzione doveva passare necessariamente per l’esperienza, sia messicana, che russa, ma al fine di costruire una teoria universale.
L’esaltazione delle politiche leniniste, della dittatura e del terrore, della rivoluzione bolscevica in cui egli riconosceva il futuro del genere umano, non certificano un’adesione acritica al comunismo. Il suo scopo era di indagare e isolare i modi attraverso i quali la rivoluzione operava, come esempio di una nuova strategia di configurazione del potere all’interno della società. Le ‘leggi’ che egli aveva riconosciuto nella storia russa erano ora riproposte al pubblico attraverso un racconto che era alla base di molte delle narrazioni fondative della società americana, come dimostrava, per esempio, l’uscita in quegli anni (1923) del film The Ten Comandments di Charles B. DeMille. Il libro dunque era sì un’operazione propagandistica, ma non esclusivamente rivolta all’esaltazione del bolscevismo (o almeno non solo), ma piuttosto a riconoscere nella rivoluzione l’unica strada per cambiare radicalmente la società americana.
Il libro, pubblicato nel 1926, non ebbe alcun successo e non circolò per il paese, anche se Lincoln Steffens non cessò mai di propagandare nei suoi articoli e nelle sue conferenze tenute in ogni angolo degli Stati Uniti la forza della rivoluzione russa. Ma nonostante la scarsa circolazione, il testo di Steffens conquistò lungo i decenni un ruolo di rilievo nelle riflessioni politiche attorno al testo biblico.
Il primo a riattivare le riflessioni del giornalista americano fu Aaron Wildavsky nel suo The Nursing Father: Moses as a Politica Leader, (1984), ma il testo riacquistò un ruolo centrale nel 1985, quando uscì Exodus and rivolution di Michael Walzer. Proprio questo lavoro parte dalla riflessione di Steffens, ne amplia l’esemplarità storica, riconoscendo il ruolo del racconto esodico per la rivoluzione inglese, e per l’analisi della tradizione politica ebraica.
Il binomio Esodo e rivoluzione, dunque, è diventato un classico della riflessione politica, anche se declinato in prospettive diverse, e ha trovato in Steffens un interprete di rara efficacia interpretativa. «I have seen the future, and it works», scriverà Steffens nel 1919 al ritorno dal secondo viaggio in Russia, e attraverso la storia di Mosè e del popolo ebraico voleva accompagnare il popolo americano proprio nel futuro che aveva pensato di intravedere durante la rivoluzione.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
A Mikhail Gorbaciov e a Karol J. Wojtyla ... per la pace e il dialogo, quello vero!!!
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
E Carlo Alberto “liberò” gli ebrei
170 anni fa il decreto che estendeva i diritti civili ai non cattolici
di Elena Loewenthal (La Stampa, 30.03.2018)
Quest’anno la Pasqua avrà un sapore particolare per gli ebrei del Piemonte. Nei giorni intermedi della settimana di festa, se nella piccola sinagoga torinese dove un tempo c’era il forno per le azzime capiterà di rivolgere uno sguardo all’armadio santo - che contiene i rotoli della Torah - dipinto di nero in segno di lutto accorato per la morte di re Carlo Alberto, lo si farà con pizzico di malinconia tutta particolare e una gratitudine indimenticabile.
Perché proprio cento e settant’anni fa - il 29 marzo 1848 - il sovrano piemontese firmò sul campo di battaglia di Voghera un decreto col quale concedeva tutti i diritti civili agli ebrei e agli altri «acattolici», aprendo quel processo di emancipazione che fu fondamentale non soltanto per i figli d’Israele - e fra gli altri anche per i Valdesi del Piemonte - ma prima ancora per la civiltà.
Fino a quello storico momento e per quasi duemila anni, infatti, gli ebrei avevano vissuto rinchiusi dentro un’emarginazione fisica e teologica: erano i «perfidi giudei», cioè gli infedeli per eccellenza, erano l’unico «diverso» dentro una società europea perfettamente uniforme. Ma in quanto testimoni viventi della passione di Gesù e del messaggio cristiano andavano preservati come una sorta di reperto archeologico a vista. In questo equilibrio fra colpa e sopravvivenza a uso teologico gli ebrei erano stati sempre sottoposti a una ricca serie di divieti e privazioni e trattati non da cittadini ma da stranieri spregevoli, anche se come nel caso del nostro Paese potevano vantare una continuità e delle radici millenarie.
Con la firma di Carlo Alberto, che da quel giorno in poi fu per gli ebrei piemontesi un vero e proprio idolo - con tutto il rispetto per il rigoroso monoteismo biblico - gli ebrei divennero «come gli altri» pur nella loro diversità. E se oggi la parità di diritti civili è giustamente un dogma della democrazia, bisogna pensare che a quel tempo rappresentò un passo sorprendente.
E Carlo Alberto diede prova di una straordinaria lungimiranza, degna di un grande sovrano, pur senza derogare al rinomato (mai abbastanza rinomato, a dire il vero) understatement piemontese: «Sulla proposta del nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari dell’Interno, abbiamo ordinato ed ordiniamo: Gli Israeliti regnicoli godranno, dalla data del presente, di tutti i diritti civili e della facoltà di conseguire i gradi accademici. Nulla è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette. Deroghiamo alle leggi contrarie al presente».
In questo scarno frasario del Regio Decreto del 29 marzo del 1848 sta racchiusa quella rivoluzione epocale che ha reso gli ebrei dei veri italiani. Anche se esattamente novant’anni dopo di allora il regime fascista emanava quelle infami leggi razziali cui i figli d’Israele guardarono innanzitutto con sgomenta incredulità.
La storia è molto spesso capace di stupire, nel male come allora. Nel bene di coincidenze che paiono costruite a tavolino, con mano sapiente e cuore partecipe. Proprio come la doppia ricorrenza di questi giorni, in cui i figli d’Israele celebrano, ricordano ma soprattutto si immedesimano nell’avventura della conquista della libertà. Perché soprattutto questo è il Pesach, cioè la Pasqua: «passaggio», come dice la parola ebraica, dalla schiavitù d’Egitto all’autodeterminazione nel deserto, al di là del Mar Rosso.
Non un mero transito bensì una vera e propria trasfigurazione, perché quando arriva dopo tanto tempo e tanta fatica e non meno sofferenza, la libertà ti cambia.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ... *
Diritto
Nel saggio di Daniele Menozzi (Carocci) la storia di come la Carta regolò i rapporti tra Stato e Chiesa
Nella Costituzione senza esserlo. Il destino ambiguo del Concordato
I tessitori. Dossetti e Togliatti con il liberale Lucifero trovarono la soluzione sancita nell’articolo 7
di Roberto Finzi (Corriere della Sera, 30.03.2018)
Non c’è dubbio che tra i «principi fondamentali» che reggono la nostra Repubblica racchiusi nei primi dodici articoli della Carta del 1948 (cui Carocci dedica una serie diretta da Pietro Costa e Mariuccia Salvati) il più controverso sia stato (in parte continui a essere) l’articolo 7 o meglio, e soprattutto, il primo asserto del suo secondo comma. Se, al di là delle sfumature, ogni forza politica e ogni cittadino, poteva ammettere che «lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» perplessità e opposizioni nascevano e continuarono dalla affermazione che seguiva: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi», firmati, come si sa, da Benito Mussolini e dal cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri l’11 febbraio 1929, regnante Achille Ratti, Papa Pio XI. Sanavano la «questione romana» apertasi con la presa di Roma. Con accordi e norme complicate tra cui due particolarmente odiose per un Paese che - dopo un decennio di guerre e la doppia occupazione nazista e alleata - si era scrollato di dosso la dittatura anche attraverso la Resistenza e stava lavorando non solo al ritorno delle civili libertà ma a una democrazia nuova, repubblicana come aveva decretato il voto del 2 giugno 1946.
Si trattava dell’asserto che quella cattolica era la religione «di Stato» e, per la sua pervasività, dell’attribuzione degli effetti civili al matrimonio religioso. Con il paradosso che chi riteneva il matrimonio un sacramento poteva, per le norme del diritto canonico, ottenerne la nullità, riconosciuta poi dallo Stato e chi invece aveva del matrimonio una concezione puramente civile era destinato a essere legato a vita, indissolubilmente, non per diretta conseguenza dei Patti, ma per la coincidenza nella visione della famiglia tra Chiesa e fascismo. Nel quadro per di più di un diritto di famiglia in cui era sancita una netta subordinazione della donna.
Nella sua ricostruzione del formarsi del dettame costituzionale e poi dei suoi effetti nella vita democratica italiana ( Art.7. Costituzione italiana ), Daniele Menozzi non nega le conseguenze negative del permanere di quelle norme specie nel quindicennio successivo alla emanazione della Carta Costituzionale. Ci offre però una chiave di lettura della formazione e del senso della norma più articolata, che affonda le sue radici nella complessità del problema cattolico nella storia dell’Italia unita e soprattutto a quel punto della vicenda del nostro Paese.
La Chiesa, lo dimostreranno le successive elezioni del 18 aprile 1948, aveva ancora un forte ascendente sulla popolazione ed era una Chiesa che, seppure - si vedrà di lì a poco - intimamente percorsa da interne pulsioni verso il nuovo, era ancora fortemente contraria al mondo moderno e alle sue forme politiche. In particolare a quelle di matrice socialista e comunista. Ora, si trattava, in sostanza - spiega Menozzi con precisione e acribia filologica - di attirare, per così dire, la Chiesa verso la accettazione piena di quella democrazia che si andava delineando nel lavoro della Costituente, cedendo in via formale alle sue richieste anche se nell’immediato contraddittorie con quella visione.
Protagonista di questa operazione complicata e sottile fu in primis Giuseppe Dossetti che univa alla sua profonda fede cristiana una visione non ierocratica della Chiesa, la competenza giuridica del canonista di vaglia, cristalline convinzioni democratiche, saldi legami con le altre culture politiche formatisi nella Resistenza. Dossetti trovò una sponda in Palmiro Togliatti, a lungo, e tutt’oggi, accusato di avere, in qualche modo permesso un inquinamento della Costituzione con il riconoscimento nel suo testo dei famigerati Patti Lateranensi.
L’atteggiamento del leader del Pci derivava dal convincimento che nella Repubblica dovessero riconoscersi per davvero tutti gli italiani e pure, dice Menozzi, da considerazioni più immediatamente politiche. Mentre stava costruendo il «partito nuovo» guardava alla possibilità di una adesione al Pci di cattolici. Così temuta dalla Chiesa pacelliana che nel 1949 il Papa scomunicherà i comunisti.
Io aggiungerei due aspetti. Togliatti era ben consapevole di quanto Milovan Gilas nelle sue Conversazioni con Stalin ricorda avergli detto il dittatore sovietico: «Questa guerra (...) è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale». E infine la lotta per l’egemonia all’interno della sinistra. In quel campo i socialisti, allora sotto la sigla Psiup, erano ancora, seppure non di molto, maggioritari rispetto al Pci.
Per ben intendere la vicenda al quadro manca un tassello. Decisivo. Si tratta della seconda parte del secondo comma dell’articolo 7 che recita: «Le modificazioni dei Patti (Lateranensi), accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». In tal modo si eliminava una delle più forti obiezioni all’inserimento dei Patti in Costituzione. Per tale via infatti non venivano «costituzionalizzati» ché la loro modifica poteva avvenire per legge ordinaria. L’artefice di questo accorgimento essenziale fu Roberto Lucifero, liberale e monarchico.
Così l’articolo, nota Menozzi, «appariva formulato con il concorso di tre diverse famiglie politiche: la democristiana, la comunista e la liberale».
La «non costituzionalizzazione» dei Patti - in un modo profondamente cambiato all’interno e soprattutto all’esterno della Chiesa - sarà uno degli elementi che permetterà all’Italia l’adozione formale, prima sul terreno parlamentare e quindi - con i referendum del 1974 e del 1981 - attraverso la conferma popolare di decisive riforme come il divorzio e l’interruzione volontaria di gravidanza. E del nuovo diritto di famiglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Federico La Sala
E’ MEZZOGIORNO... L’ ORA DEI VAMPIRI
di PAOLO MAURI (la Repubblica, 14 ottobre 1988)
SE AI TEMPI di Cenerentola non ci fosse stato l’orologio, un orologio in grado di battere le ore, di renderle esplicite per tutti, a mezzanotte non sarebbe successo proprio nulla. Perché il prodigio si compia, infatti, è necessario che scocchi l’ora fatidica, cioè che un segnale particolare la renda reale e sia pure relativamente ad un luogo e ad una comunità universale. L’ora fatidica dei fantasmi e dei vampiri non viene dunque, come comunemente si crede, da molto lontano: è un effetto speciale legato alla misurazione del tempo, una certezza tutto sommato abbastanza moderna.
Anticamente, cioè prima dell’ orologio, la scansione del giorno riguardava soprattutto le ore di luce, con un momento privilegiato: il mezzogiorno. Per quanto oggi possa apparire incredibile, fu proprio il mezzogiorno l’ ora fatidica dei prodigi e dei fantasmi, dei vampiri e dei demoni, delle apparizioni misteriose e del manifestarsi della follia. Il parallelo mezzanotte-mezzogiorno ci dice intanto una cosa fondamentale: che l’uomo ha bisogno di segnare nettamente i confini tra il regno della normalità e quello soprannaturale; colonne d’Ercole mentali, le ore fatidiche segnano il punto di passaggio tra ciò che si conosce e ciò che si teme, perché ignoto e quindi insieme terrifico e fascinoso.
E’ facile intuire perché l’uomo antico scegliesse il mezzogiorno come ora fatidica: intanto era un’ora riconoscibile anche a occhio e determinabile con una certa precisione, badando ad alcuni fenomeni alla portata di tutti. Il sole raggiunge il punto massimo nel cielo e le ombre sulla terra si accorciano fino a scomparire: una sorta di orologio rudimentale, lo gnomone, consiste proprio di un’asta che proiettando un’ombra consente di verificare l’ ora meridiana.
Proprio a I demoni meridiani dedicò uno studio, poco oltre la metà degli anni Trenta, Roger Caillois, ancora oggi ben noto e presente per i suoi lavori sul sacro e sul mito, nonché per le sue teorie sul gioco.
Era un momento delicato, in Europa, per dare spazio all’ irrazionale; e giustamente Carlo Ossola, che ha provveduto oggi a trasformare quello studio disperso in un libretto che esce tra pochi giorni (I demoni meridiani, Bollati Boringhieri, pagg. 128, lire 20.000) si sofferma nell’ introduzione sul clima culturale del tempo e sulle intenzioni del Collège de Sociologie dove Roger Caillois si trovava ad operare.
Il programma di Caillois (e naturalmente del Collège de Sociologie) è assai complesso: si tratta di illuminare i comportamenti degli uomini (anzi dell’ intero regno animale) attraverso i miti, che ne sono una rappresentazione. Devo qui, necessariamente, prendere una scorciatoia, non potendo (come fa Ossola nella sua introduzione) ricapitolare i principali passaggi di un’operazione culturale fascinosa e rischiosa insieme. Non appena il mito tocca il contemporaneo, l’analisi cede il posto alla volontà di fare. La passione di fare diventa bruciante.
Quando, dopo essersi occupato dei demoni meridiani, Caillois si mise a studiare il moderno mito di Parigi, con tutti i suoi corollari di superamento della mediocrità borghese verso una divina (o diabolica) volontà di potenza, il reale (in questo caso il nazismo) ha già fatto largo uso dell’irrazionale per porre le basi del suo progetto di dominio.
Sarà Marcel Mauss ad avvertire gli studiosi del Collège che stanno rischiando grosso: credo che siate tutti in questo momento sbandati, probabilmente sotto l’influsso di Heidegger, bergsoniano attardato nell’ hitlerismo, che legittima l’hitlerismo invasato d’ irrazionalismo....
Di fronte all’hitlerismo, inaccettabile perché razzista, Caillois fa marcia indietro, ed è probabilmente questo uno dei motivi per cui il suo studio sui demoni meridiani non venne da lui più tardi recuperato. Non tanto perché in esso trattasse questioni immediatamente pericolose: in fondo si tratta di una eruditissima ricognizione rivolta al recupero di una dimensione trascurata eppure anticamente assai attiva, ma soprattutto perché in esso stavano due chiavi comportamentali che potevano tranquillamente essere resuscitate anche nell’Europa moderna.
Da un lato, infatti, l’ora meridiana è l’ora dell’acedia, una forma di depressione, di taedium vitae, di spaesamento, che colpisce si tramanda i monaci e gli anacoreti del deserto portandoli a ripudiare il proprio essere monaci, a non capire più, o addirittura a non sopportare più, la propria condizione. L’acedia è la perdita del sacro.
D’ altra parte, a far da contraltare alla passività indotta dall’acedia, c’è la volontà di potenza e di immortalità favorita dall’ allucinazione che il calore meridiano provoca. Nella sua ambiguità la potenza del sole distrugge e feconda, sconfigge i deboli ed esalta, in senso proprio, i forti. C’ è dunque un messaggio di morte e contemporaneamente un accredito vitale nell’ ora fatidica.
Caillois ripercorre passo passo le situazioni topiche dell’ora meridiana: ora centrale del giorno che divideva in due zone ben distinte le cose lecite (o favorevoli) da quelle illecite. Racconta Plutarco, per esempio, che nessun condottiero romano avrebbe mai firmato un trattato o un atto importante dopo mezzogiorno. Sotto altri cieli (in Messico, presso gli aztechi) il mezzogiorno era un’ ora privilegiata per i sacrifici ed è sempre a mezzogiorno che le divinità si manifestano. Caillois ricorda che Pan, il più importante dio dell’Arcadia, era solito comparire appunto a mezzogiorno.
LA LETTURA del lavoro di Caillois mi ha fatto venire in mente un’ altra remota lettura, il libretto di Franz Altheim dedicato al cristianesimo e ai culti solari: si intitolava Il dio invitto e in Italia lo tradusse nel 1960 Feltrinelli. Anche il cristianesimo, che pure ha molto contribuito ad attribuire la luce al bene e le tenebre al male, ha le sue implicazioni con il sole e con i culti solari.
Risfogliandolo dopo tanto tempo ho letto che Costantino ebbe la visione della croce all’ ora meridiana del sole e che alla stessa ora la sua anima salì al cielo. Dunque il mezzogiorno è anche (o meglio soprattutto) l’ora dei morti, non fosse altro che per il fatto dell’ accorciamento e scomparsa dell’ ombra, che presso alcuni rappresentava l’ anima. (L’avventura di Peter Schlemihl ha dunque radici assai remote). L’ora dei morti (seguo sempre Caillois) era riservata alle libagioni in onore dei morti: anche in Sofocle è mezzogiorno quando Antigone viene ad offrire il sacrificio per il fratello. Di qui la credenza, abbastanza diffusa, che si trattasse di un’ora sacra e quindi pericolosa: nei templi si tiravano le tende a quell’ ora fatale, bambini e donne erano invitati a non uscire di casa e i morti senza pace ne approfittavano per manifestarsi. Particolarmente nutrita quest’ultima categoria, come attestano numerose fonti: la guardia forestale con la testa sotto il braccio, il cavaliere senza testa che è stato impiccato, l’uomo senza testa attorniato dai cani... Anche il cadavere che non ha ricevuto gli onori funebri appare a mezzogiorno: lo ricorda anche Stazio nella Tebaide.
Ancora: mezzogiorno è l’ ora della malia incantatrice. L’autore si rifà qui alla leggenda delle sirene, già nell’antichità messe in relazione con Sirio, la stella più brillante del Cane, foriera di spossatezza, di lascivia e quindi di mortale abbandono. Si mescolano qui due temi di lunga durata: il piacere e la morte, sicché s’introduce l’elemento sessuale, nella doppia accezione della fecondazione e dell’ abbandono ai sensi.
MA IL VIAGGIO non è finito: ancora molte sorprese attendono il lettore, che verrà condotto, nell’ora accidiosa della calura, a spiare i pastori emuli di Pan (o Pan ricalcato sulle abitudini lascive dei pastori); sfinito dal canto delle cicale, già immortalate da Platone; sbarcato nella pericolosa terra dei lotofagi, dove le sirene, che reggono un loto, ritornano, quasi a chiudere il cerchio dell’ incantesimo. Si toccheranno, ancora, le spiagge del sonno pericoloso e popolato (in senso classico) di incubi, si toccheranno le soglie della furia allucinata, con l’ apparire delle Ninfe, anch’esse meridiane, protettrici del sacro.
Nella catastrofe finale l’ora fatidica e terrifica sarà ulteriormente gravida di eventi eccezionali: è il terremoto di mezzogiorno, l’oscuramento del sole. Non c’ è bisogno, per questo, di allontanarsi troppo da testi assai noti anche oggi: non è forse il sacrificio di Cristo, consumato tra mezzogiorno e le tre, annunciato da un oscuramento e da un terremoto? A mezzogiorno appaiono gli angeli ad Abramo per annunciargli la nascita di Isacco; a mezzogiorno Giovanna d’ Arco sente le voci; la tradizione ebraica racconta il demone di mezzogiorno come un mostro fatto di scaglie e di capelli, con un occhio solo situato a livello del cuore.
Che il fascino un po’ morboso e misterioso delle ore della massima calura non sia finito con gli antichi, lo testimonia molta letteratura a noi vicina. Caillois aveva sottomano, allora, un romanzo di Paul Bourget, Le démon de midi, ma ben prima di lui Montale s’ era cimentato col sole che abbaglia, nell’ accidia del meriggiare che lo induce a riflettere con triste meraviglia sul significato del vivere; e come non ricordare, pescando un esempio a caso tra quanti vengono alla mente, l’ora della calura, con i suoi corollari di sonno, sesso e indolenza propiziata dal frinire delle cicale, nel film di Tavernier, Una domenica in campagna? Per dire, in buona sostanza, che il viaggio nel sole non è certo finito, ma anche che certi miti bisogna guardarli di traverso e non cedere, supini, al loro culto. La storia ha già dimostrato, meglio della medicina, come siano nefasti certi colpi di sole.
Archivio "la Repubblica", 14 ottobre 1988.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Rilanciare la chiesa in Cina l’obiettivo di papa Francesco
Il Pontefice sta chiudendo l’annosa questione dei cattolici di Pechino aperta con l’inizio della Repubblica popolare. Entro l’anno l’accordo
di Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 10. 03.2018)
Francesco è stato percepito, cinque anni fa, come un Papa carismatico, esterno però alla diplomazia vaticana (considerata non così decisiva ai tempi di Benedetto XVI, tanto che i governi s’interrogavano sull’utilità delle ambasciate in Vaticano). Invece gli anni di Francesco hanno visto un’intensa attività diplomatica, come nel 2014 con la mediazione nelle trattative tra Cuba e Stati Uniti. Ora Francesco sta per chiudere l’annosa questione dei cattolici in Cina, aperta dall’avvento della Repubblica popolare, disinteressata al rapporto con il Vaticano (nel 1951 fu espulso il nunzio Riberi, spostatosi poi a Taiwan presso il presidente Chiang Kai-shek, sconfitto dai comunisti). La crisi, dopo intense pressioni governative su cattolici e vescovi, cominciò soprattutto con la creazione dell’Associazione patriottica cattolica nel 1957, espressione del controllo governativo sulla Chiesa.
La Chiesa cinese si divise allora in due segmenti: i cattolici «ufficiali» e quelli «sotterranei», entrambi con propri vescovi. La vicenda ha un precedente nella Rivoluzione francese, quando la Costituzione civile del clero nel 1791 dette origine alla Chiesa ufficiale, respinta dai cattolici fedeli a Roma. La questione fu chiusa nel 1801 dal concordato tra Bonaparte e Pio VII, che depose tutti i vescovi (patriottici e fedeli al Papa), per avviare una nuova procedura di nomina. La divisione in Francia durò dieci anni. In Cina, la Chiesa è divisa da settant’anni in due mondi, seppur con sovrapposizioni specie negli ultimi anni.
Se si guarda la storia della Chiesa, sorprendono i tanti decenni passati per arrivare a ricomporre i cattolici in Cina. Molto dipende da Pechino, ma non solo. Per il Papato, risolvere gli scismi è una priorità, come s’è visto dal grande impegno con i tradizionalisti di Lefèvre. Il protrarsi delle divisioni crea fossati duri da superare e soprattutto rende la Chiesa inabile a compiere la sua missione, come mostra la relativa crescita dei cattolici in Cina, pur in un terreno di mobilità religiosa. I cattolici sono oggi appena attorno ai dieci milioni, mentre gli evangelici (specie neoprotestanti) sarebbero circa settanta milioni con una grande crescita.
La questione sino-vaticana ha suscitato un dibattito quasi superiore alle dimensioni del problema. È considerata l’ultimo dossier dell’Ostpolitik, iniziata dal cardinal Casaroli. Infatti tornano le critiche fatte allora al Vaticano: svendere il martirio dei cristiani e accettare un ambiguo controllo statale. Così ha scritto George Weigel, biografo di Wojtyla, criticando la «cedevolezza» vaticana all’unisono con tante voci anglosassoni. L’accordo è percepito come smarcamento della Santa Sede dall’Occidente e dagli Stati Uniti, come faceva notare Massimo Franco. Si chiedono alla Chiesa posizioni che però i Paesi occidentali non hanno con la Cina.
Il disallineamento dall’Occidente è avvenuto pure con Giovanni Paolo II, Papa delle ragioni del Sud, ma pure dagli intensi legami (anche politici) con l’Europa e gli Stati Uniti. Che il cattolicesimo non debba essere un’agenzia religiosa dell’Occidente è linea costante dei Papi del Novecento, anche se non sempre di facile attuazione. È una realtà, prima che politica, inerente la missione della Chiesa tra culture, civiltà e regimi diversi. Non sorprende, allora, che Francesco cerchi un accordo con Pechino per dare stabilità alla Chiesa e rilanciarla, anche se un negoziato ha sempre un prezzo.
La questione ha un valore simbolico. Suscita aspre critiche tra cattolici (spiccano quelle del card. Zen di Hong Kong), severe sull’approccio «diplomatico» alla questione cattolica in Cina: vi si legge una continuità tra Casaroli e l’attuale Segretario di Stato, Parolin. Ma la diplomazia di Parolin in un mondo multipolare è per forza diversa da quella della Guerra fredda, anche se resta lo strumento negoziale (a fini pastorali però).
Si parla d’intesa sino-vaticana dal 1980, quando la via fu aperta dal cardinal Etchegaray (salutato a Pechino come «un grande funzionario di una grande religione occidentale»). Allora i cinesi - diceva il cardinale - offrivano condizioni migliori di oggi. Il negoziato procedette a salti. Si bloccò con la canonizzazione dei martiri cinesi il 1° ottobre 2000, festa della Repubblica popolare, vista dai cinesi come atto ostile. Poi nel 2009 ci fu un’altra interruzione, fino alla ripresa del negoziato nel 2013 con Francesco.
Quasi quarant’anni d’incontri e crisi insegnano che, con il tempo, il quadro negoziale s’indurisce da parte cinese. Anche perché la Cina di Xi Jinping ha un’altra dimensione rispetto al passato.
È significativo però che la Cina tratti su affari religiosi interni con un soggetto non nazionale. Mai l’ha fatto l’Urss. Mao Tse Dong, nel 1962, rispose male a Giancarlo Pajetta, che intercedeva per i cattolici: «ognuno ha gli dei del cielo del proprio paese».
L’accordo (forse entro il 2018) è una novità, ma non una clamorosa «Conciliazione» tra il Papa e Xi. Non riguarderà i rapporti diplomatici. Verterà soprattutto sul meccanismo di nomina dei vescovi (ci sarà un rappresentante vaticano non fisso a Pechino per studiare le nomine). L’intesa non verrà sbandierata, ma sarà il primo passo di un negoziato su altre problematiche. Il fatto decisivo è che consentirà, con la formazione di un unico episcopato in Cina, la ricomposizione della Chiesa, essenziale per rilanciare la presenza cattolica in un Paese che cambia. Questo è, per ora, il «modesto «obiettivo di papa Francesco.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA. MADDALENA SANTORO (1884-1944). Chi è Costei? Come mai di lei non c’è alcuna traccia nei libri di storia? Questo documento apre la pista a infinite domande
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA", LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il destino di Vittorio Emanuele III. Successi e disastri del «re soldato»
Ebbe un ruolo importante nella Grande guerra, specie dopo Caporetto
Ma poi si condannò alla rovina facendosi complice della dittatura fascista
di Paolo Rastelli (Corriere della Sera, 02. 03.2018)
«O Badoglio, Pietro Badoglio, ingrassato dal fascio littorio, col tuo degno compare Vittorio ci hai già rotto abbastanza i coglion...». Così cantavano nel 1944 i partigiani della brigata Carlo Rosselli (Giustizia e Libertà), mettendo nello stesso calderone ribollente di disprezzo il vecchio maresciallo d’Italia e il re Vittorio Emanuele III, colpevoli della catastrofe dell’8 settembre.
Per quanto riguarda il sovrano, allora 75enne (era nato l’11 novembre del 1869), l’ironia della sorte non avrebbe potuto essere più grande. Soprannominato il «Re soldato» per il comportamento sobrio e dedito al dovere durante la Prima guerra mondiale, era poi diventato uno dei simboli della più grande sconfitta politico-militare di tutta la storia italiana e della bancarotta di un ventennio di regime fascista, al quale aveva consentito di impadronirsi dello Stato. Bersaglio di un odio forse superiore a quello tributato al Duce, Benito Mussolini, come hanno dimostrato anche di recente le polemiche per il ritorno in patria, nel dicembre del 2017, della salma ora tumulata nel santuario di Vicoforte (Cuneo), mentre Mussolini riposa tranquillamente nella tomba di Predappio, meta di pellegrinaggi nostalgici senza che nessuno protesti più di tanto.
Un personaggio divisivo, dunque, e ancora in grado di risvegliare passioni anche violente. Appare quindi indovinata la scelta di far partire con una biografia di Vittorio Emanuele III, firmata dallo storico Pierangelo Gentile, il ciclo di volumi che il «Corriere della Sera» dedica ai personaggi, alle armi e alle tattiche della Grande guerra.
L’Italia entrò nel primo conflitto globale soprattutto per l’opera congiunta di una minoranza rumorosa di interventisti e di un partito bellicista che ebbe nel sovrano e nella corte i suoi massimi esponenti, capaci di fare sponda con le ambizioni del governo, dell’epoca guidato da Antonio Salandra e con Sidney Sonnino titolare del ministero degli Esteri. Una parte della critica storica, a proposito delle roventi giornate che vanno dal 4 maggio (denuncia della Triplice Alleanza che univa l’Italia alla Germania e all’Austria-Ungheria) al 24 maggio 1915 (inizio delle ostilità contro Vienna), ha parlato di un quasi-colpo di Stato, una specie di prova generale di quanto sarebbe poi successo nell’ottobre 1922 con la presa del potere da parte del fascismo.
Di certo ci fu una spinta da parte di governo e sovrano nei confronti di un Parlamento ancora in gran parte pacifista e neutralista. Ma non bisogna scordare che lo Statuto albertino del 1848, legge fondamentale del Piemonte risorgimentale e poi dell’Italia sabauda, all’articolo 5 assegnava solo al re il potere esecutivo e così ne delineava le competenze: «Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra: fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune».
L’articolo 5 fu forzato parecchio. Ma parlare di colpo di Stato, cioè di sovvertimento totale della legge, appare francamente eccessivo. Del resto lo stesso Giovanni Giolitti, uomo simbolo dei neutralisti, si rese conto che c’era poco da fare, come scrisse poi nelle sue memorie: «Io sono monarchico convinto e, se mi fossi messo a capo della maggioranza neutralista, sarebbe saltata la monarchia, e questo allora mi sembrava essere il guaio maggiore».
Una volta dichiarata la guerra, Vittorio Emanuele III divenne con la massima tranquillità il primo soldato del Regno. Definizione agiografica, senza dubbio, e strumentale alla sacralità di una figura regale in cui i fanti contadini, ancora in gran parte distanti dal sentirsi parte di una compagine nazionale, potessero riconoscersi. Ma sicuramente con forti agganci alla realtà, vista la vita regolata, aliena da ogni sfarzo e protagonismo, nonché rispettosa delle gerarchie e delle attribuzioni del Comando supremo in mano a Luigi Cadorna, che il sovrano decise di condurre. Lunghi giri con la macchina fotografica, ispezioni, pasti frugali, udienze, lettura dei dispacci.
Ma quando fu il momento, con l’esercito italiano sconfitto a Caporetto, Vittorio Emanuele III seppe prendere in mano le redini del Paese, risolvendo la crisi politica seguita alla sconfitta con l’incarico di formare il governo assegnato a Vittorio Emanuele Orlando e poi assicurando agli alleati, al convegno di Peschiera, che l’esercito italiano avrebbe continuato a battersi.
C’è una gustosa scenetta, descritta anche nel volume di Gentile, tra il re e il suo aiutante Solaro del Borgo, che si incontrano sul treno che riporta il sovrano da Roma al fronte: «Scortomi nel corridoio del vagone, Sua Maestà mi domandò in piemontese: “Cosa ca pensa?” (Cosa sta pensando?). Risposi: “Maestà, dop la pieuva a ven sempre el bel temp!” (Maestà, dopo la pioggia viene sempre il bel tempo). Lessi nei suoi occhi l’approvazione; ed afferratomi il braccio, disse: “A l’è parei ch’un dev pensé” (È così che si deve pensare)». Fu il suo momento più bello.
* La collana Parte oggi in edicola con il quotidiano la serie sui protagonisti del primo conflitto mondiale
LA STORIA DEL FASCISMO. Storiografia in crisi d’identità ...
“Una curatrice senza qualità”
di Francesca Pasini (Alfabeta2, 25 febbraio 2018)
Ho ripreso in mano Breve storia della curatela (Hans Ulrich Obrist, 2011, postmedia books) con le interviste a Walter Hoppes, Pontus Hultén, Johannes Cladders, Jean Leering, Harald Szeemann, Seth Sieggelaub, Werner Hoffman, Walter Zanini, Anne D’Harnoncourt, Lucy Lippard. Le loro esperienze vanno dalla fine degli anni ‘50 all’inizio del secondo millennio e tuttora sono un riferimento. Si può sempre partire dal basso e dare vita a musei, esposizioni cruciali, come hanno fatto loro? I movimenti di opinione esistono? O sono sostituiti da molecole in via di aggregazione?
Parafrasando Musil, mi sento “una curatrice senza qualità”, nel senso che devo imparare una diversa qualità per riconoscere e proporre la ricerca di uomini e donne, che oggi partecipano numerose alla scena contemporanea in tutti i campi del sapere, compreso quello dell’arte.
Tra le mostre che mi hanno offerto spunti per cercare “questa qualità” c’è la Biennale di Massimiliano Gioni nel 2013. Il suo Palazzo Enciclopedico ha messo in piena luce non solo un gran numero di artisti, tradizionalmente inseriti in espressioni “laterali”, ma anche molte donne di cui non si avevano più notizie. Ho apprezzato un’enciclopedia che superava le specializzazioni linguistiche. È stata una chiave di lettura non solo di singoli artisti e artiste, ma dell’arte contemporanea in generale. All’atteggiamento onnivoro, promosso dalla globalizzazione, Gioni contrapponeva il legame sedimentato tra presente e passato. Internet e le mostre in tutto il mondo ci avvertono di tutto, ma poi rimane la grande avventura dell’approfondimento, leggendo i libri, guardando le singole opere, accettando l’influenza anche di chi non ha avuto, o non ha ancora, influenza. Questo, per me, è il perno per interpretare l’arte, gli incontri, le letture, i viaggi. E già, oggi i viaggi entrano prepotentemente nei consumi culturali, le mostre sono “asterischi” nei programmi delle agenzie turistiche. È un bene? Credo di sì.
La moltitudine di persone che nel 2014 è andata al lago d’Iseo per “galleggiare” nella piattaforma di Christo e Jeanne Claude, ha risposto all’imperativo mediatico di esserci, ma sono convinta che l’energia dell’arte è forte quando provoca uno choc in ognuno, e non nell’epica partecipazione a code chilometriche. E qualcosa di quello choc ha sicuramente toccato qualcuno in quella folla. Per questo non sono moralmente contraria alle mostre per i grandi numeri.
Tuttavia, se penso a Szeemann e alla sua mitica mostra When Attitudes Become Form, sento la nostalgia per il sentimento di comunità tra chi crea e chi cura, tra chi ha già “un nome” e chi offre un’espressione allo stato nascente. Cosa che oggi non è così frequente.
Mi hanno molto colpito le mostre di Damien Hirst a Palazzo Grassi e Punta della Dogana (Treasures of the Wreck of the Unbelievable), durante l’ultima Biennale, e Take me (I’m Yours) a cura di Obrist, Boltanski, Parisi, Tenconi, all’Hangar Bicocca a Milano, di cui ho scritto sul sito di alfabeta, rispettivamente il 27 maggio e il 5 dicembre 2017.
Pur nella diversità, dalle due mostre ho preso lo spunto per affrontare la critica all’economia multinazionale che governa il mondo e l’arte. Le decisioni non dipendono più dagli Stati, ma dalle multinazionali che competono per il primato del capitale finanziario e non per il benessere sociale, politico, culturale dei singoli. In queste due mostre c’è un avvertimento utile per capire come inventare una grande mostra, ma anche per interpretare le molecole culturali che si muovono fuori e dentro la galassia globale, senza cadere nel rimpianto del tempo che fu e senza il conformismo di un’arte che supera le contraddizioni. Queste due mostre le hanno indicate in modo non univoco, possono, infatti, essere lette come critica, ma anche come accettazione di un dato di fatto. A ognuno la scelta. Ma non è questo il compito di un’opera che non voglia essere didascalica?
A questo proposito la mostra, appena inaugurata alla Fondazione Prada di Milano, POST ZANG TUMB TUUUM - ART LIFE POLITICS - ITALIA 1918-1943, a cura di Germano Celant, apre un capitolo interessante.
Il nodo è leggere la storia guardando “gli artefatti”, senza separarli dal contesto. Questa è la scommessa di Celant e, per affrontarla, propone uno straordinario apparato fotografico dell’epoca accanto, o meglio, dentro le opere esposte. Il suo intento è fuggire dall’ideologia del white cube, in cui - come scrive in catalogo - vede il cardine “della tipologia comunicativa modernista dei musei e delle istituzioni, delle gallerie e delle collezioni”. L’obiettivo è presentare uno “spazio reale”, in cui far emergere le relazioni “tra segni e tracce all’interno di un sistema culturale”, dove avviene “l’adattamento dell’artista che per sopravvivere al regime, difende la propria autonomia linguistica rimanendo però indifferente alla sua strumentalizzazione”. Nello “spazio reale di questa mostra” appare una verità nota: in Italia il consenso al fascismo era altissimo.
Uomini e donne, però, rimangono uomini e donne anche sotto il fascismo, forse è per questo che quadri e immagini consentono la scappatoia dal contesto attraverso l’emozione individuale. Anche il fascismo è stato un’emozione individuale. Allora, quando un’opera diventa figura di ribellione? E rispetto a chi?
Picasso ha dipinto Guernica e, prima di lui, Goya la fucilazione, fino ad arrivare alla foto del bambino nudo che scappa sotto le bombe in Vietnam. Icone dichiarate, di tragedie da non dimenticare, ma io credo che la ribellione di una figura dipinta, scolpita, fotografata, sia un ponte tra la propria ribellione e quella che vediamo rappresentata in una figura che non sono io, che non sei tu, che non è chi l’ha creata. In quel momento riconosco nell’opera un soggetto col quale dialogare, combattere, inorridire. Tutti abbiamo, alle spalle, parenti fascisti, ma li abbiamo frequentati, contestati, amati.
Quindi l’opera può andare oltre il fascismo esterno, cioè quello del contesto messo magistralmente in mostra da Celant, ma quello interno riemerge perché riflette chi la fa, chi la accoglie, chi la compra, chi la commissiona, e tutto questo non è asettico, nutre lo spirito del tempo. Sono rimasta colpita dalla visione “reale”, come direbbe Celant, di fotografie e opere che dicono che fascisti erano anche gli artisti. Ci sono, però, dei quadri che mi hanno mostrato un autoritarismo che da un lato ha trovato espressione in molte opere che hanno abbellito i luoghi e gli appuntamenti del regime; dall’altro fa vedere la condizione individuale interna del soggetto fascista.
In particolare, quello di Giuseppe Capogrossi, Il vestibolo (Donna bendata. Lo spogliatoio degli uomini), 1932. Un uomo e una donna, nudi, si tengono per mano mentre attraversano una sala con altri uomini nudi. Lei ha la testa bendata.
Ora come allora c’è tensione, sopruso, esibizione, possesso da parte di quest’uomo che mostra Lei davanti ad altri uomini in un luogo di potenziale aggressione. Tutto dipende dalla testa completamente bendata di lei.
Per me, questo è il simbolo del fascismo interno alla coscienza.
Anche gli artisti che, per sopravvivere si sono adattati, lo avevano dentro, tranne quelli che lo hanno rifiutato “che - sottolinea Celant - rappresentano una minoranza”. Un uomo e una donna, invece di avventurarsi nel mondo fuori dal paradiso, si presentano nel luogo simbolico della virilità, lo spogliatoio probabilmente degli atleti del regime. È un’iconografia impressionante.
Celant insiste molto nella definizione di “artefatti” e con acribia li collega alla storia reale, politica del fascismo. Una svolta importante.
Io preferisco definirli “soggetti” interlocutori, che mi raccontano la loro vicenda di figure autoritarie messe al mondo dagli artisti. Influiscono nel mio contesto? Sì. Mi permettono di vedere in quello specifico “soggetto” il fascismo che non ho vissuto, ma anche l’autoritarismo che continua ad esistere.
Come “curatrice senza qualità” vorrei fare tabula rasa rispetto alla promozione dell’opera e organizzare le mostre dentro gli studi, come ho fatto con Arianna Giorgi lo scorso settembre a Milano. Questa è la mia risposta alla sollecitazione di Celant di abbandonare il white cube e la mia ricerca di qualità per non separare “l’artefatto” dal suo, e dal mio, divenire soggetto in dialogo con l’arte.
POST ZANG TUMB TUUUM - ART LIFE POLITICS - ITALIA 1918-1943
a cura di Germano Celant
Fondazione Prada, Milano
fino al 25 giugno 2018
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Il Ventennio, che bellezza! La grande arte italiana al tempo del fascismo
di Ada Masoero *
Abbiamo il forte sospetto che la mostra Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics. Italia 1918-1943, che si apre oggi in Fondazione Prada a Milano, rimescolerà pesantemente le carte nella pratica curatoriale che ha dominato l’ultimo ventennio. E che darà una spallata agli «accostamenti emozionali», agli «apparentamenti creativi», ai «confronti evocativi» di certi allestimenti (ancora?) alla moda.
In questa mostra bellissima e monumentale, che occupa quasi per intero gli spazi della Fondazione, Germano Celant ha infatti voluto dar voce ai soli documenti - fotografici soprattutto, ma anche testuali - e presentare le opere esattamente come furono presentate allora, nelle grandi mostre istituzionali, nelle gallerie private di punta o nelle case di collezionisti di fama - come F.T. Marinetti o il mercante francese Léonce Rosenberg, di cui si rievoca la celebre Sala dei Gladiatori di Giorgio de Chirico -, restituendo così le opere al contesto storico, culturale, politico in cui furono fruite. Perché, scrive, «ricollocare l’artefatto nel sistema d’uso», servendosi di tali strumenti “oggettivi”, significa «attuare una ricostruzione quasi antropologica della produzione artistica e del suo apparire».
Di quegli anni figurano perciò in mostra solo opere di cui esistano fotografie delle occasioni pubbliche o private in cui furono viste: «è il documento che ha comandato l’ordinamento», ci ha spiegato mentre allestiva, tanto che lo spettacolare Dinamismo di un foot-baller (1913) di Umberto Boccioni, giunto dal MoMA di New York, non si trova all’inizio del percorso, bensì nelle sale degli anni ’30. Fu scattata nel 1934, infatti, l’impagabile fotografia di Marinetti - il grande rivoltoso - che, di fronte a quel dipinto appeso nella sala da pranzo della sua casa romana di piazza Adriana, mette in scena una gag da gran borghese (quale era in realtà, per nascita e per censo), impartendo un ordine a una cameriera che pare uscita da un manuale di bon ton, con tanto di crestina e grembiulino di pizzo: un trattatello di sociologia condensato in un’immagine, appunto.
Le opere emergono dunque dallo sfondo d’ingrandimenti sgranati di foto d’epoca. Sono in gran parte capolavori, ma non sono mai decontestualizzate, come si suole fare per congelarle in quel ruolo. Se si esclude l’incipit, con i ritratti di Marinetti dipinti negli anni ’20 da Fortunato Depero e Rougena Zatková, la cui fotografia-guida è del 1931 (ma la scelta qui era dettata dal titolo della mostra, che cita le marinettiane «parole in libertà»), di qui in poi tutte le opere sono esposte in 24 grandi ricostruzioni scandite dalla data delle immagini che le mostrano nei contesti d’epoca: ci s’imbatte così nelle opere di Depero e di Giacomo Balla com’erano disposte nella Biennale veneziana del 1926 (la prima cui parteciparono i Futuristi), e nella celebre Natura morta del 1920 di Morandi, “incastonata” nella fotografia della sua parete in Das Junge Italien, la mostra che si tenne a Berlino nel 1921. Ci sono i marmi di Wildt della Biennale del 1922, poi le sculture di Arturo Martini e i dipinti di Mario Sironi posti nelle gigantografie delle loro sale in Biennale, nel 1932. E così è, più avanti, per Fausto Melotti, le cui archetipiche figure maschili sono mostrate nel geniale allestimento di BBPR per la Triennale di Milano del 1936.
I grandi appuntamenti espositivi del tempo sono tutti documentati: ci sono le mostre sarfattiane di “Novecento Italiano”, le Quadriennali di Roma (con Gino Severini in primo piano), i Premi Carnegie (qui è Felice Casorati il primattore), la rassegna epocale Fantastic Art Dada and Surrealism, curata nel 1936 da Alfred H. Barr al MoMA, con i de Chirico metafisici. E le gallerie private più influenti (la Casa d’Arte Bragaglia, il Milione, il Cavallino, la Cometa...), oltre ad affondi su personalità-chiave per la cultura del ’900, alcune organiche, come Luigi Pirandello e Margherita Sarfatti, altre d’opposizione, come Piero Gobetti, Carlo Levi, Alberto Moravia, Lionello Venturi. -Proseguendo con l’identico modello, e senza dimenticare gli artisti ribelli all’ufficialità novecentista (dalla Scuola di via Cavour ai “Sei di Torino”, a Corrente) si giunge all’epilogo, nel 1943: qui, nel gran salone al piano terreno del Podium, sfilano i bozzetti per l’ultimo, grande “ruggito” urbanistico del regime, l’E42, pensato per celebrare il ventennale della Rivoluzione fascista con l’Esposizione Universale Roma, Eur. Mentre, di fronte, si alzano le voci degli artisti dissidenti, da Aligi Sassu a Ernesto Treccani, a un Mino Maccari fascista pentito (siamo nel 1943, e il 25 luglio Mussolini è stato sfiduciato dal Gran Consiglio e arrestato) con la serie satirica Dux.
In un simile, documentatissimo affresco di quel periodo tragico, che vide però fiorire una stagione artistica e architettonica (anch’essa ben presente in mostra) di prim’ordine, non poteva mancare la Mostra del Decennale della Rivoluzione Fascista, organizzata nel 1932 in Palazzo delle Esposizioni a Roma. A quella mostra impressionante è dedicato l’enorme spazio del Deposito: qui, su otto altissimi schermi scorrono gli ingrandimenti delle foto delle sale della mostra, ognuna assegnata a un artista o a un architetto. Ci sono Mario Sironi e Achille Funi, Giuseppe Terragni, Marcello Nizzoli, Adalberto Libera e altri ancora: come dire, lo Stato Maggiore delle arti visive del tempo, in uno spettacolo grandioso che riesce ancora a stupire.
* Il Sole-24 Ore, Domenica, 18 febbraio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Com’era effervescente l’arte sotto la cappa del Regime
A Milano una mostra racconta la straordinaria creatività nell’Italia tra le due guerre, in contrasto con il rigido ordine imposto dal fascismo
di Francesco Bonami (La Stampa, 16.02.2018)
«Prendete il vostro tempo o voi che entrate» potrebbe essere scritto all’entrata di «Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics, Italia 1918-1943» la gigantesca rassegna che aprirà domenica alla Fondazione Prada, dove resterà fino al 25 giugno. «Una mostra che può sfiancare un toro», dice il curatore Germano Celant: «Mille documenti, 500 opere più i fantasmi». I fantasmi sono le riproduzioni in bianco e nero di opere che facevano parte delle mostre originali ricostruite in una efficacissima scenografia pensata da Michael Rock e dal suo studio 2x4 di New York.
Appunto vecchie foto d’epoca sono ingigantite a grandezza naturale, creando l’effetto che la nostra memoria ha sulla storia e sui ricordi - sfocato, nebbioso, inafferrabile ma presente. Se il bianco e nero sgranato delle immagini rappresenta la distanza temporale, le pareti di iuta grezza naturale danno alla mostra lo sfondo che unifica l’immensa varietà di opere presentate. «In questa mostra», spiega Celant, «si riesce a leggere la vera storia di un periodo, come quello in Italia tra le due guerre, complessissimo, ricchissimo, fatto di compromessi, contraddizioni e salti della quaglia. Un periodo pieno di eccezionali figure minori e oggi sconosciute ma che raccontano la fecondità della nostra cultura e dell’arte italiana».
Siamo davanti a un dipinto di Balla del 1924, Fascisti e antifascisti, che per la sua freschezza e ambiguità potrebbe essere stato dipinto nel 1980. Un giovane millennial davanti a un’opera del genere penserà a Balla come a un fascista o un antifascista? «Se pensiamo alla società di quel tempo», riflette ancora il curatore, «formale, retorica, con la gente che andava in giro con i cappelli a tuba, e guardiamo questo quadro, non si riesce a capire come un’arte del genere potesse esistere...».
Ma è proprio l’eccezionale contrasto tra una società che stava entrando nel rigido ordine fascista e la sua straordinaria creatività a fare di questa mostra uno strumento di riflessione sul nostro presente. Un progetto del genere ha richiesto più di due anni di ricerca, ma sembra essere fatto oggi, in sincronia con un’Italia dove le parole della politica e della società più in generale assomigliano molto allo Zang Tumb Tuuum, le parole in libertà, i suoni e i rumori caotici che amavano tanto Marinetti e i futuristi, esprimendo l’energia di un avvenire che però non sarebbe mai stato come se lo immaginavano.
Il caos della campagna elettorale di questi giorni sembra molto futurista. Ma la vera importanza della mostra sta nelle domande che pone alla cultura e all’arte di oggi. Dove l’arte e la cultura devono tracciare una linea oltre la quale non è possibile andare, oltre la quale è impossibile accettare un compromesso con ideologie e dittature che sfruttano l’arte come il loro miglior strumento di propaganda? Domanda attualissime. Anche oggi artisti, intellettuali, architetti, registi e attori sono disposti a chiudere un occhio davanti a Paesi o poteri economici dove democrazia e giustizia sono spesso opinabili ma che dispongono di mezzi eccezionali capaci di realizzare i sogni creativi più ambiziosi.
«Post Zang Tumb Tuumm» sottolinea con lucidità come le migliori menti del tempo abbiano realizzato le loro opere più importanti - basta pensare alle architetture di Terragni - accettando l’abbraccio megalomane e visionario della dittatura fascista. La sezione che ricostruisce in otto grandi schermi, nel gigantesco deposito della Fondazione Prada, la mostra voluta da Mussolini a Roma nel 1932 al Palazzo delle Esposizioni per celebrare i primi dieci anni della rivoluzione fascista è un perfetto esempio di come propaganda, immaginazione e innovazione potessero sostenersi e inquinarsi a vicenda. Cosa è quindi meglio, il fragore dei suoni futuristi, le contraddizioni politiche e morali di geni come Adolfo Wildt, Arturo Martini, Alberto Savinio, Giorgio de Chirico, Mario Sironi e tantissimi altri artisti e architetti del tempo, oppure il silenzio cupo imposto dalla dittatura fascista?
«Post Zang Tumb Tuuum» è un efficacissimo spaccato di quel cavallo di Troia che fu il compromesso con il regime, che tuttavia consentì all’arte e alla cultura italiane di produrre idee e progetti che avrebbero fecondato la genialità destinata a esplodere nella neonata democrazia del dopoguerra. L’intensa e ricca maratona si conclude con la famosa Crocifissione di Guttuso del Premio Bergamo del 1942 che valse la scomunica a chi andava a vederla, una piccola Guernica italiana, per entrare infine nel drammatico finale dove la benda cade dagli occhi svelando atrocità, ingiustizie e menzogne della dittatura e della guerra.
A far da sfondo, le immagini di una mostra del 1945 a Palazzo Ducale di Genova, dove gli artisti misero in vendita opere a favore delle vittime della guerra appena conclusa e dove, tra foto e slogan sfocati, vien fuori una scritta che celebra sia i corsi e ricorsi della storia sia l’estrema puntualità di tutta la mostra: «Noi donne».
DITTATORI. I due leader avrebbero potuto conoscersi a Ginevra, quando erano entrambi socialisti rivoluzionari. Di sicuro il capo del fascismo fu attento alla tragedia russa e sfruttò la paura del comunismo per raggiungere il potere
Quel misterioso incontro tra Mussolini e Lenin.
di Marcello Flores (Corriere della Sera, La Lettura, 04.02.2018)
Benito Mussolini e Vladimir Uljanov, noto come Lenin, avrebbero potuto incontrarsi a Ginevra nel 1904. Forse l’incontro ebbe luogo, probabilmente no. Ma la possibilità fu reale, visto che rivoluzionari italiani (come allora era Mussolini) e russi (come Lenin), appartenenti tutti alla variegata famiglia del socialismo, si ritrovavano spesso nello stesso Café Landolt. Parte dalla ricostruzione di questo possibile incontro - attraverso memorie discordanti e documenti contraddittori - il libro di Emilio Gentile Mussolini contro Lenin (Laterza), che racconta la polemica dell’italiano contro il russo, soprattutto nel corso della Prima guerra mondiale e subito dopo, che termina sostanzialmente con la conquista del potere da parte del primo e la morte del secondo, cui fa da corollario il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Italia e Urss nel febbraio 1924.
Gentile ripercorre le strade parallele e diverse che entrambi seguirono all’interno del movimento socialista e rivoluzionario europeo del primo Novecento, il radicalismo che entrambi manifestarono all’interno dei loro partiti contro i più moderati ortodossi del marxismo, e la divergente biforcazione delle loro vite e delle loro politiche che il trauma della Prima guerra mondiale produsse e accentuò nel corso di pochi anni.
Lo studio di Gentile - uno dei più originali contributi apparsi nel centenario della rivoluzione russa - non vuole essere, ovviamente, un libro su Mussolini «e» Lenin, sul fascismo e il comunismo, sui rapporti tra Italia e Russia. Analizzando con precisione e ricchezza di citazioni l’interesse che Mussolini e il suo giornale, «Il Popolo d’Italia», dedicarono al bolscevismo e a Lenin, Gentile propone un altro piccolo pezzo del suo grande mosaico interpretativo sul fascismo: arricchendolo con l’analisi del rapporto e dello sguardo mussoliniano rispetto alla rivoluzione russa e alla figura di Lenin, un tassello centrale e indispensabile per meglio comprendere l’evoluzione del pensiero del futuro Duce soprattutto negli anni di passaggio dalla milizia socialista all’interventismo e poi alla fondazione dei Fasci e alla guida verso il potere di un fascismo sempre più dinamico e incisivo.
L’attenzione che «Il Popolo d’Italia» dedica alla rivoluzione russa a partire dai primi mesi del 1917 è costante, attenta alle notizie e alla ricostruzione degli eventi quanto a una loro interpretazione. E questa tensione «analitica» continuerà anche dopo la fine della guerra, nei confronti del regime bolscevico vincitore, della guerra civile che conduce vittoriosamente contro le armate bianche, del regime autocratico e «asiatico» che costruisce e che rappresenta - agli occhi di Mussolini - la prova del fallimento del socialismo come teoria e come proposta politica, quindi la giustificazione della propria scelta di abbandonarlo per cercare una «rivoluzione nazionale» di altro segno, ma altrettanto radicale.
Se l’idolo mussoliniano e del «Popolo d’Italia», per quanto riguarda la rivoluzione russa, è Aleksandr Kerenskij (su cui si spera di vedere presto in edizione italiana lo studio di Boris Kolonitskij Compagno Kerenskij), l’obiettivo polemico della crescente opposizione a Lenin è il Partito socialista italiano, affascinato tanto nei suoi vertici quanto, soprattutto, nella sua base, dal mito del leader rivoluzionario russo. Lenin è il «traditore» che, per conto dei tedeschi, sabota la rivoluzione russa e soprattutto il suo impegno nella guerra contro gli Imperi centrali; è il costruttore di una tirannia asiatica che viene definita come «esplosione di istinti zoologici». E il bolscevismo «ch’è la risorgenza e la sopraffazione degli istinti di ferocia primitiva, di annientamento, di distruzione, è la negazione del socialismo».
La battaglia ideologica contro i socialisti è particolarmente aspra dal 1918 al 1920, quando Mussolini mette a punto il suo progetto rivoluzionario (antistatalista e repubblicano), di cui un elemento ideologico centrale è proprio l’antibolscevismo (Gentile ricorda opportunamente un articolo antisemita, che Mussolini dovrà ritrattare e correggere rapidamente). Per il capo del fascismo il comunismo come progetto è ormai fallito, e Lenin con la Nuova politica economica (Nep) avrebbe intrapreso una chiara deriva capitalista, pur in un regime tirannico, sancendo la sconfitta del progetto socialista internazionale, che intravede in Germania e in Italia in modo definitivo.
Negli ultimi anni di vita di Lenin «Il Popolo d’Italia» polemizza con il «mito» che ne hanno creato i socialisti, con l’illusione delle masse, con un’esperienza di speranza tramutata in tragedia e sofferenza per tutto il popolo. Nello specchio di quel fallimento il Duce vede sorgere e affermarsi il trionfo del proprio movimento, e sembra pronto a concedere l’onore delle armi al nemico defunto. È comunque il fascismo ad avere salvato l’Italia dal bolscevismo, e di questa «leggenda», come la chiama Gentile, Mussolini si servirà per «legittimare la sua conversione dal fascismo libertario e antistalista, al nuovo fascismo antidemocratico e statalista, avvenuta nel corso del 1921». Una volta morto il «magnifico avversario» la strada è pronta per il riavvicinamento diplomatico tra i due primi totalitarismi del Novecento. Sul cui confronto c’è un ultimo interessante paragrafo, che si spera possa diventare presto uno studio più completo.
Mussolini e Lenin le divergenze parallele
Partiti dal socialismo rivoluzionario, i loro itinerari si svilupparono in senso antitetico con la Grande guerra
Un libro di Emilio Gentile che rovescia opinioni diffuse
di Mario Toscano (La Stampa, 02.02.2018)
Non esiste la certezza che Benito Mussolini e Vladimir Il’ic Ul’janov (Lenin) si siano incontrati occasionalmente alla Brasserie Handwerk di Ginevra il 18 marzo 1904. L’ipotesi è comunque suggestiva per tratteggiare e incrociare le biografie politiche dei due personaggi nel successivo, incandescente ventennio del Novecento. Emilio Gentile (Mussolini contro Lenin, Laterza) ricostruisce accuratamente le loro esperienze, intrecciando i percorsi dei due futuri dittatori verso il potere in un lavoro che offre dati e spunti di riflessione sul rapporto tra guerra e rivoluzione, sul ruolo del leader carismatico nella nuova politica di massa, sulle difficoltà e la crisi della democrazia liberale durante e al termine della Prima guerra mondiale, proponendo una lettura originale della relazione tra le due personalità.
Diversi per età, ambiente familiare e collocazione sociale, Lenin e Mussolini agli inizi del secolo erano entrambi assorbiti dall’impegno politico nell’ambito del socialismo rivoluzionario. Ostili al revisionismo riformista, manifestavano concezioni simili della rivoluzione e del partito. Nel corso del decennio successivo, le loro carriere politiche conseguivano risultati differenti: nel congresso socialista di Reggio Emilia del luglio 1912, Mussolini emergeva come una delle figure più significative della corrente rivoluzionaria e assumeva poco dopo la carica di direttore dell’Avanti! Lenin fondava il partito bolscevico, ma il suo nome era sconosciuto alle masse operaie e contadine russe.
Lo scoppio della Grande Guerra imprimeva una svolta alle loro storie politiche: Lenin si schierava contro la guerra borghese e imperialista, accusava di tradimento i partiti della Seconda Internazionale, si appellava al proletariato internazionale affinché trasformasse la guerra imperialista in guerra civile internazionale.
Mussolini, dopo aver condiviso la scelta neutralista del Partito socialista, individuava nel conflitto contro gli Imperi centrali l’evento destinato a scardinare l’assetto politico-sociale esistente e abbracciava la linea dell’interventismo rivoluzionario, che sosteneva dalle colonne del suo nuovo quotidiano Il Popolo d’Italia, ed era espulso dal partito.
Le vicende rivoluzionarie in Russia, a partire dal febbraio 1917, segnavano un’ulteriore diversificazione dei loro itinerari politici. La trattazione delle vicende russe da parte del Popolo d’Italia offre uno specchio significativo dell’evoluzione della posizione mussoliniana. La rivoluzione di febbraio, presentata come un moto della folla contro l’autocrazia zarista, accompagnato dalla volontà di proseguire la guerra, era una convalida dell’interventismo rivoluzionario. Il ritorno di Lenin in Russia nell’aprile del 1917, i suoi proclami contro la guerra erano accolti con disappunto. La presa del potere da parte bolscevica consolidava la critica nei confronti di un personaggio raffigurato come un agente al servizio del governo tedesco, «traditore della Russia, del socialismo, della libertà dei popoli, per la quale combattevano le nazioni dell’Intesa», come confermava la pace separata con la Germania.
L’attenzione del direttore del Popolo d’Italia si volgeva anche alle forme che andava assumendo il potere di Lenin, giudicato l’edificatore di una dittatura di partito e di una tirannia personale. Sin dagli inizi, le vicende russe avevano offerto al politico romagnolo anche un’occasione per polemizzare con i socialisti italiani, abbacinati (tranne i riformisti) dall’ascesa di Lenin e dal suo progetto rivoluzionario.
La polemica contro i «leninisti d’Italia» si accentuava nel dopoguerra, in un Paese lacerato dalle conseguenze del conflitto e percorso da un’ansia di rinnovamento e di rigenerazione che sfociava in aspre lotte sociali. Sfruttando limiti ed errori del massimalismo socialista, il movimento guidato da Mussolini passava nell’autunno del 1920 alla lotta contro un pericolo bolscevico ormai scomparso. Era il momento dell’affermazione dello squadrismo, della nascita del Partito fascista come partito milizia, che sosteneva la marcia di Mussolini verso il potere sulla base di un progetto politico nemico della democrazia e ostile ai valori del liberalismo.
La conclusione di Emilio Gentile è significativa e rovescia opinioni diffuse. A suo giudizio, «il duce nulla aveva appreso dal capo bolscevico. Né per conquistare il potere, né per costruire il proprio regime totalitario».
Il totalitarismo burocratico e riluttante dello Stato fascista
«La macchina imperfetta», un denso saggio di Guido Melis per Il Mulino
di Claudio Vercelli (il manifesto, 01.02.2018)
L’Italia divenne per davvero uno «Stato fascista» o non sarebbe invece meglio parlare di uno Stato ai tempi del fascismo? In altre parole, quale dei due capi della relazione prevalse durante il Ventennio mussoliniano? La dimensione ideologica, con la sua carica al medesimo tempo aggressiva e radicalizzante, ispirata a una tanto incongrua quanto ipnotica modernizzazione, oppure la continuità degli apparati già ereditati dall’esperienza dell’amministrazione liberale, poi transitati attraverso la Grande guerra e riprodottisi, sia pure con alcune differenze, soprattutto dinanzi alle sollecitazioni introdotte dal conflitto sociale postbellico, nell’organizzazione di regime?
Guido Melis, storico contemporaneista, docente alla Sapienza di Roma e studioso delle dinamiche delle pubbliche amministrazioni, nel suo corposo lavoro dedicato a La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista (il Mulino, pp. 616, euro 38), parla non a caso di «un totalitarismo sempre annunciato e mai interamente realizzato, un sistema di istituzioni imperfetto, fatto di vecchi e nuovi materiali confusamente assemblati senza un progetto lineare, con un’evidente vocazione, nei momenti cruciali della ricostruzione dello Stato, al compromesso tra vecchio e nuovo».
IL QUADRO che l’autore ci restituisce è quello di una complessa e stratificata policrazia in totale assenza di pluralismo, propendente quasi sempre alla compromissorietà. Quindi incapace di tradurre intuizioni e suggestioni in pratiche politiche autonome, dovendo semmai costantemente rispondere a mediazioni variamente articolate, che ne affaticavano e appesantivano il percorso, molto spesso producendo un’eterogenesi dei risultati. In altre parole, non si era in presenza solo dell’evanescenza, della millanteria e del velleitarismo del regime, caratteristiche sbrigatoriamente identificate dai suoi avversari come i suoi tratti esclusivi, ma dell’organica incapacità di dare corpo e sostanza ad un progetto di Stato «nuovo» da affiancare alle non meno incaute formulazioni sull’affermarsi di un modello di uomo antiborghese, connotato dai tratti viriloidi e guerrieri.
LA GUERRA mondiale si sarebbe peraltro incaricata di fare strame di queste posizioni identitarie, sulle quali il fascismo aveva costruito una ricca narrazione di sé, salvo poi rivelare la fragilità dell’intero impianto. Alla persistenza così come alla sovrapposizione, alla reciproca contaminazione ma anche alla competizione tra organismi ed apparati vecchi e nuovi, si accompagnava dunque il persistente riprodursi di una dialettica tra interessi contrapposti, proprio per ciò impossibilitati ad arrivare a quella inedita sintesi che il fascismo intendeva invece proporre come la vera chiave attraverso la quale leggere la sua carica eversiva. Afferma Melis: «emerge la novità ambigua di uno Stato-partito costituito ex novo modificando in profondo la Costituzione liberale, ma al tempo stesso condizionato sino all’ultimo dalla sopravvivenza degli antichi equilibri: cioè dal modello di Stato ideato a fine Ottocento dai maestri del diritto costituzionale e amministrativo».
Si tratta di una questione che va ben oltre il problema della reciproca perimetrazione tra la Corona e il regime, in un sistema di persistente diarchia dove la propensione alla neutralizzazione dell’interlocutore, potenzialmente antagonista, si traduceva nella difficoltà di portare avanti linee autonome di indirizzo politico.
UN FATTO che richiama non solo il problema storiografico, al netto di qualsiasi giudizio politico e morale, del grado di effettiva dirompenza del fascismo sulla scena italiana, e poi europea, ma anche il tema della funzione della so