Premessa. Il 26 agosto 1780, Pietro Verri, a cui Gaetano Filangieri da Napoli ha inviato la prima parte della “Scienza della Legislazione”, così risponde da Milano: “(...) alla pagina 59 del primo tomo ho ascoltata la voce di Ercole che ha rimbombato sul mio cuore, e ogni dubbio è svanito. A misura poi che mi sono avidamente inoltrato nella interessantissima lettura”. Il riconoscimento è grande: Filangieri ne è fiero e compiaciuto. Ma a cosa allude Verri, che Filangieri ben sa e bene accetta? Che cosa significa “la voce di Ercole”?
A ben pensare, non ci sono dubbi: a cinquanta anni dalla pubblicazione della seconda “Scienza Nuova” (1730) e a trentasei anni dalla morte di Vico e dalla pubblicazione della sua terza “Scienza Nuova” (1744), è un omaggio dovuto e condiviso al lavoro di Chi in Ercole ha visto e teorizzato “il carattere degli eroi politici”, l’eroe fondatore di “ogni nazione gentile”:
“(...) questa Scienza, ne’ suoi Principii, - scrive Vico nella “Spiegazione della dipintura proposta al frontespizio, che serve per l’introduzione dell’opera” (1730, e poi anche 1744) - contempla primieramente Ercole (poiché si truova ogni nazione gentil’ antica narrarne uno, che la fondò); e ’l contempla dalla sua maggior fatiga, che fu quella con la qual uccise il Lione, il qual, vomitando fiamme, incendiò la Selva Nemea, della cui spoglia adorno, Ercole fu innalzato alle stelle (il qual Lione qui si truova essere stata la gran Selva della Terra, a cui Ercole, il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi Politici, i quali dovettero venire innanzi a quelli delle guerre, diede il fuoco e la ridusse alla coltura); - e per dar’ a intender’ altresì il Principio de’ tempi appo i Greci, da’ quali abbiamo tutto ciò, ch’abbiamo dell’Antichità gentilesche; i quali tempi incominciarono loro dalle Olimpiadi, co’ giuochi olimpici, de’ quali Ercole pur ci si narra, essere stato il Fondatore (...)” (“Scienza Nuova”, 1730).
LA PUNTA DI UN ICEBERG. Nel 1924, Croce è a Londra: alla “Modern Humanities Research Association” di Cambridge tiene la sua prolusione, è il suo “Presidential Address”, quale “presidente per l’anno 1923-1924”. Il titolo e il tema è “Shaftesbury in Italia”, vale a dire sul soggiorno di Lord Shaftesbury a Napoli dal 1711 al 1713, anni coincidenti con gli anni in cui Giambattista Vico era già un importante protagonista della vita culturale della Città.
Il discorso è una brillante ricostruzione storiografica della figura di Shaftesbury, ma al contempo è anche una drammatica implicita confessione non solo del gran ritardo con cui egli ha messo a fuoco la presenza di Shaftesbury a Napoli ma anche - per contrasto - del limite della prospettiva con cui ha guardato al Vico filosofo, al Vico rappresentante di cultura, al Vico uomo (cfr. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, 1911). Aveva ragione Nicola Abbagnano: “Attenzione a non valutare la biografia di un filosofo povera di eventi esterni”!
Benché Croce, già nel 1915, avesse cominciato a riflettere sul proprio percorso (cfr. Contributo alla critica di me stesso, Milano 1989), il suo orizzonte teoretico (gnoseologico-metafisico) è già chiuso e segnato: alle sue orecchie non è arrivata e non arriva alcuna “voce di Ercole”! Più tardi, come Gentile (e il Fascismo), farà il suo ‘concordato’ con la Chiesa cattolico-romana (cfr. B. Croce, Perché non possiamo non dirci "cristiani", 1942) e continuerà a pensare nel solco di Hegel anziché di Vico: “la malattia morale” (1944) è superata, ma non risolta - l’Italia comincia a star meglio, ma non è affatto guarita!
LEMURUM FABULA - il testo sulla "bruttezza" della dipintura "tutta contraria" della “Scienza Nuova” del 1730, per quanto ignorato (non ripreso nella “Scienza Nuova” del 1744), è un monito perenne - un invito a non lasciarsi sedurre dalla cattiva immaginazione e a percorrere “gli impervi sentieri delle Muse”, delle Grazie (“Charites”) e della Grazia (“Charis”).
ENZO PACI E VICO. Incredibilmente - poco dopo e negli stessi anni, nel 1944 (a duecento anni dalla morte di Vico e dalla pubblicazione della terza “Scienza Nuova”), a un militare italiano internato nel Lager di Wietzendorf capita di imbattersi in un libretto su La giovinezza di Vico (di Fausto Nicolini, Bari 1932) e di essere risvegliato dal suo sonno dogmatico dal rimbombo della voce di Ercole. Il militare internato è Enzo Paci, che così poi ricorda e scrive da Milano: “Negli anni passati in Germania, in un campo di concentramento, la grande ombra di Vico venne a trovarmi e mi sembrò di sentire che tutta la sua opera era stata una lotta eroica contro la ingens sylva della barbarie (...)” (cfr.: Lettere di carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, a c. di A. Vigorelli, “Rivista di storia di filosofia”, I, 1986, p. 103). Egli, nel 1949, riprende il discorso su Vico (cfr. E. Paci, Ingens sylva, Bompiani. Milano 1994) e, nel 1954, dà vita alla rivista “Aut Aut”: nel nome, non solo il richiamo a Kierkegaard, ma anche il ricordo dell’‘incontro’ e della lezione dell’eroico Vico!
1.0 - SHAFTESBURY A NAPOLI. Ad ogni modo, la sorpresa di Croce, su quanto acquisito relativamente alla presenza di Lord Shaftesbury a Napoli, è grande: “La pubblicazione di lettere e frammenti inediti dello Shaftesbury, fatta dal Rand nei due volumi che s’intitolano The life, unpublished letters ad philosophical Regimen of Anthony, Earl of Shaftesbury (London, Sonnenschein, 1900), e Second Characters or the language of forms (Cambridge, University Press, 1914), mi ha messo innanzi molto materiale atto a illustrare il soggiorno dello Shaftesbury a Napoli; e questo materiale ho poi accresciuto con altre lettere e scritti di quelli che serbano ancora inediti nel Record Office, tra gli Shaftesbury Papers, da me consultati” (“La Critica”, 1925, 23, p. 2. Il riferimento successivo del n. delle pagine, senza le note, è a questo n. della Rivista). E grande è anche la consapevolezza sul valore delle sue scoperte (per tutto ciò che riguarda Vico, evidentemente): l’anno successivo ripubblica il testo del suo discorso - già stampato in opuscolo a Cambridge - su “La Critica”, “pensando che possa riuscire di qualche interesse anche agli studiosi italiani” (p. 1). Ma i tempi sono quelli che sono: due anni dopo, nel 1927, “Shaftesbury in Italia” è ‘archiviato’ nei volumi di “Uomini e cose della vecchia Italia” (cfr. Laterza, Roma-Bari, 1956, vol. I, pp. 273-309).
1.1 - ROYAL SOCIETY, NEWTON, VALLETTA. Se Vico, nel 1725, invia a Newton una copia della sua prima “Scienza Nuova”, ha le sue buone ragioni: non è il gesto di un isolato dalla cultura europea del suo tempo! Una di queste ragioni è che egli, sin dagli anni degli studi universitari (1689-1693), era in relazione con Giuseppe Valletta.
Ecco quanto Croce dice di lui nel suo discorso del 1924: a Napoli, “lo Shaftesbury entrò in relazione (...) con Giuseppe Valletta e col suo circolo (...) Valletta, già mercante e avvocato (...) conoscitore com’era, oltre che del latino e del greco, del francese, e dell’inglese, segnatamente verso l’Inghilterra tenne rivolto lo sguardo, e coi dotti e le società scientifiche inglesi coltivò corrispondenze. Di libri inglesi, scarsissimi allora in Italia, era assai ben provvista la sua libreria, e dall’inglese egli traduceva in italiano o in latino le notizie scientifiche, in specie quelle che la Società reale di Londra gl’inviava sulle esperienze che essa veniva compiendo. Il segretario di quella società, il Waller, gli richiese tra l’altro, nel 1712, una informazione - continua e precisa Croce - sull’eruzione del Vesuvio allora accaduta, e poi ancora sull’epidemia del bestiame che impersava in Italia, e le sue memorie su tali argomenti furono lette in quell’adunanza, presente e presidente il Newton. Così stimato era quei dotti - continua ancora Croce - che più volte gli fu offerta (narra un biografo) da milordi e signori inglesi un luogo in quella Regia società: onore che egli, modesto com’era, rifiutò” (pp. 5-6).
1.2 - VALLETTA, DORIA, E VICO. Premesso che Vico, negli anni della permanenza di Lord Shaftesbury a Napoli (1711-1713), è già tra i protagonisti della vita culturale della Città (nel 1708 tiene la settima orazione inaugurale “De nostri temporis studiorum ratione”, e nel 1710 pubblica il “De antiquissima Italorum sapientia”) , Croce così prosegue nel raccontare le sue acquisizioni e precisazioni progressive: “tra quegli amici del Valletta, frequentatori dello Shaftesbury, era Paolo Mattia Doria (...). Il Vico, che anche lo frequentava, lo dice “gran cavaliere e filosofo” (...). E’ possibile - continua Croce - che nel circolo del Valletta fosse già pervenuta o si sapesse qualcosa della prima edizione delle Characteristics, che è del 1711, e che si conoscesse alcuno dei giudizi che dei saggi dello Shaftesbury avevano dato i giornali letterari di Europa qui avidamente cercati e letti” (pp. 7-8).
1.3 - SHAFTESBURY, IL “GIUDIZIO DI ERCOLE”, E LA TAVOLA DI CEBETE. Nel 1712 il “famoso maestro” Paolo de Matteis, “il successore di Luca Giordano in Napoli” lavora per Lord Shaftesbury: “Il quadro che egli eseguì fu il Giudizio di Ercole o Ercole al bivio, secondo la favola di Prodico, per il quale il filosofo inglese gli fornì, in una speciale memoria stesa in francese, la più accurata analisi psicologica del soggetto, la determinazione del momento determinante da cui prescegliere, le fisionomia e gli atteggiamenti delle tre figure, di Ercole, la Virtù e la Voluttà. Preceduta, quella memoria scritta a uso del De Matteis, da una lettera sull’arte del disegno (A letter concerning the Art or Science of Design to Milord***) con la data di Napoli, 6 marzo 1712, e tradotta in inglese col titolo A notion of the Historical Draught or Tablation of the Judgement of Hercules according to Prodicus, fu divulgata sin d’allora e unita di poi alle edizioni e traduzioni delle Characteristics, portando sempre a capo, come pregio una piccola riproduzione del quadro del pittore napoletano” (pp. 12-13)”.
Shaftesbury - continua Croce - “dopo aver scritto quella lettera [sul disegno] e la traccia del quadro di Ercole, e abbozzato una traduzione con commento della Tavola di Cebete, si veniva occupando nel mettere insieme gli appunti per un più ampio saggio da intitolare Plastics, or the original, progress and power of designatory Art: e di tutto questo pensava di fare un’opera da aggiungere alle prime Characteristics col titolo di Second Characters (“secondi parti nel dramma”) or the Language of Forms in four treatises. Sarebbe stata, questa, come la sua “Estetica”, da far sèguito alla “Filosofia morale” esposta nella prima opera” (pp. 17-18).
1.4 - PAOLO DE MATTEIS E DOMENICO ANTONIO VACCARO. Nell’illuminare meglio il rapporto di Paolo de Matteis con Shaftesbury, Croce racconta che ha anche avuto la fortuna di guardare “alcuni numeri superstiti di una Gazzetta di Napoli degli anni 1712 e 1713” (p. 11) e che nel numero del 2 aprile [1712] è scritto: “Domenica si aprì la prima volta la sagrestia di san Pietro a Maiella dei padri celestini, dopo l’incendio del 1711, ed è riuscita assai vaga, sì per per la pittura del celebre Paolo de Matteis ed ornamento di Francesco Saraceno, come ancora per il finissimo lavoro ad intaglio di noce, col pavimento di marmo mischio, l’uno e l’altro fattosi con l’assistenza dell’ingegnere Domenico Vaccaro” (p.12). La lingua batte dove il dente duole: la notizia illumina sì il rapporto del De Matteis con Shaftesbury, ma evidentemente ciò che colpisce Croce è la partecipazione ai lavori dell’ingegnere Domenico Antonio Vaccaro, il collaboratore di Vico, l’autore della “Dipintura” della Scienza Nuova del 1730 - e del 1744. E questo a Croce, ovviamente, non sfugge e lo annota - per i posteri: chi ha orecchie per intendere intenda!
1.5 - LA SCELTA DI SHAFTESBURY: “PROMETEO”. Lontanamente dal pensare oggi che “l’idea (...) che è centrale per tutta la Scienza Nuova, è la stessa che sorregge la concezione che ha Shaftesbury della morale, della religione, e dei reciproci rapporti, la quale si può pensare che riguardi tanto il comportamento individuale quanto il corso storico dell’umanità (cfr. F. Crispini, L’etica dei moderni. Shaftesbury e le ragioni della virtù, Donzelli, Roma, 2001, p. 117), Croce dall’alto della sua conoscenza della storia dell’idealismo tedesco non si sbagliava del tutto nell’analisi delle tensioni dell’orizzonte teoretico di Shaftesbury:
“Nell’estetica, del pari che nella filosofia morale, lo Shaftesbury non si pone il problema dialettico dello spirito e dei suoi momenti o forme, e dell’arte e della morale come momenti dialettici; non procede come, ai tempi suoi, e senza sua saputa, già faceva il Vico e, in certo senso anche il Baumgarten tentava; e, pur nondimeno - precisa Croce - egli reca un contributo di prim’ordine al chiarimento del vero concetto dell’arte. Quella sua Calogathia, quella sua sua concezione della moralità come bellezza e della bellezza come moralità (...)
Si ricordi come egli parli, nelle Characteristics, del poeta, che non è per lui (come per i retori del suo e di tutti i tempi) il rimatore e il cadenzatore di periodi, ma “un altro creatore, un Prometeo, posto sotto Giove, e che simile a quest’artista sovrano o alla Natura plastica, forma un tutto legato e proporzionato in se stesso, con debita subordinazione delle parti costitutive, e segna i limiti delle passioni, conosce esattamente i loro toni e la loro misura, e perciò le rappresenta correttamente, mostra il sublime dei sentimenti e delle azioni, distingue il bello dal deforme, l’amabile dall’odioso, e in questo senso, e per questa necessità della rappresentazione vera, è un artista morale” (pp. 19-20).
Croce, guardando dal punto di vista hegeliano ai segni del pensiero dello Shaftesbury in tutta la letteratura e la filosofia classica tedesca è impedito a comprendere che quelli “ritrovati e molteplici in Kant” hanno un valore tutto diverso, carichi come sono proprio della lezione di Shaftesbury “sull’entusiamo” e del suo stesso lavoro critico sui sogni prometeici dei metafisici-visionari.
Kant sapeva (grazie alle sollecitazioni di Shaftesbury, ma soprattutto grazie alla sua immaginazione analoga a quella di Vico) - come scrive nel 1794 sugli equivoci di Schiller - che “solamente dopo aver domato dei mostri, Ercole diventa Musagete, ma davanti a tale fatica, queste buone sorelle, indietreggiano con terrore. Queste compagne di Venere-Urania sono sorelle cortigiane al seguito di Venere-Dionea, appena esse vogliono indicarne i moventi” (cfr. La religione entro i limiti della sola ragione, 1794- II ediz., Laterza, Bari 1980).
VICO E SHAFTESBURY. Lord Shaftesbury morì a Napoli il 15 febbraio 1713, a soli quarantuno anni. Nel 1730 Vico ha finito la sua seconda “Scienza Nuova”: se Shaftesbury fosse stato ancora vivo, egli sicuramente ne avrebbe subito spedito una copia a Londra! E questa volta la risposta certamente non sarebbe mancata: già solo a vedere la “dipintura” - la “Tavola delle cose Civili”, Shaftesbury avrebbe accolto con socievole entusiamo l’omaggio e il lavoro del Filosofo conosciuto a Napoli negli anni decisivi del suo soggiorno.Federico La Sala (07.02.2014)
Sul tema, nel sito, si cfr. anche:
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
A CARLO M. MARTINI E A ENZO PACI, IN ONORE E MEMORIA ....
DEL CARDINALE CARLO M. MARTINI, LA LEZIONE PIU’ GRANDE: IL PRESEPE DEL LAGER NELLA BASILICA DI SANT’AMBROGIO (MILANO, 2000).
Federico La Sala
L’EUROPA, "L’ELOGIO DELLA FOLLIA" (1511) E L’UTOPIA (1516). CULTURA E SOCIETÀ: "LA MONTAGNA INCANTATA" (1924) e "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929).
Una nota a margine di una "citazione" di una lettera di #Tommaso Moro a #Erasmo di Rotterdam:
«Non puoi immaginarti quanto ora io m’imbaldanzisca, quanto mi gonfi, quanto mi tenga più su. Immagino di continuo che i miei Utopiani mi vorranno eleggere loro sovrano perpetuo, tanto che mi vedo già incedere del diadema di frumento, mi vedo cospicuo nel paludamento francescano, mi vedo portare lo scettro venerabile di un covone di messi. Circondato da un’insigne accolta di cittadini di Amauroto, mi vedo, in pompa solenne, andare incontro agli ambasciatori e ai principi delle genti straniere, ben miseri al nostro confronto, pieni di sciocca superbia, perché ornati fanciullescamente, pieni di vanità femminile, carichi di disprezzabile oro, ridicoli per la porpora, per le gemme, per altre bazzecole.» (Cfr. E. Scelza, "LE CITAZIONI: il sogno ad occhi aperti di Tommaso Moro", "Gente e Territorio", 15 novembre 2023).
SE SI CONSIDERA CHE TOMMASO MORO (1478-1535) scrive quello che scrive ad ErasmodiRotterdam (1469-1536) il 4 dicembre 1516, e che, al contempo, Martin #Lutero (1483-1546) nell’ottobre del 1517 diffonde le sue #95Tesi, c’è da pensare che ognuno sognasse un proprio #sogno ad occhi aperti e non avessero affatto un #mondo "unico e comune" (#Eraclito) : questo spiega, soprattutto da parte di Erasmo e Moro, anche la loro presa di distanza dalle sollecitazioni di riforma della Chiesa da parte di Lutero.
Non è un caso che, pochi anni dopo (al tempo di Carlo V, dopo il Sacco di Roma nel maggio del 1527), la richiesta di un tentativo di edizione della "#Monarchia" di #DanteAlighieri, fatto da Alonzo de #Valdès (1490 - 1532) e Mercurino di #Gattinara (1465-1530), è lasciato cadere nel vuoto da Erasmo da Rotterdam (nel marzo del 1527), e, ancora e purtroppo, di lì a poco c’è la rottura di #EnricoVIII con Chiesa cattolica e l’avvio della Riforma Anglicana (1534).
All’indomani della Prima Guerra Mondiale, alla fine della sua "Montagna Incantata" (#Zauberberg, 1924), #ThomasMann scrive: "Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?" (trad. di E. Pocar).
Nel 1929, in Italia, la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano sottoscrivono il "Concordato" (#PattiLateranensi, 11 febbraio 1929): a Vienna, intanto, #SigmundFreud porta avanti il suo lavoro e pubblica il risultato delle sue ricerche e delle sue riflessioni sul "Disagio della civiltà" (e nella civiltà).
P.S. - STATO ITALIANO E STATO PONTIFICIO (CHIESA CATTOLICA): LA QUESTIONE ROMANA E IL "20 SETTEMBRE 1870" (Festa della liberazione della capitale e dell’unificazione nazionale, abolita dal Fascismo). BENEDETTO CROCE, NELLA "STORIA D’ITALIA DAL 1871 AL 1915" (1928), A PROPOSITO DEL PERSONAGGIO "LUDOVICO SETTEMBRINI" DELLA "MONTAGNA INCANTATA" ("DER ZAUBERBERG", 1924) DI THOMAS MANN, COSI’ SCRIVE:
ATHIAS, Giuseppe
di Elvira Gencarelli (Dizionario Biografico degli Italiani) *
Appartenente a una cospicua famiglia di israeliti emigrata dalla Spagna in Olanda e dall’Olanda in Italia, l’A. nacque probabilmente a Livorno nel 1672. Abbandonò sin da giovane il commercio per dedicarsi a lunghi viaggi e allo studio. Fu profondo conoscitore della lingua ebraica, studioso della Bibbia, di matematica e di fìlosofia, intenditore di musica e bibliofilo. Si interessò anche di chimica e di scienze naturali e - nei frequenti e prolungati soggiorni fiorentini - apprese la filosofia aristotelica e forse qualche nozione di cartesianesimo. Più tardi ebbe modo di compiere anche studi approfonditi in diritto romano, canonico e marittimo, sugli statuti e leggi toscane, tanto da meritare l’alta considerazione di Cosimo III de’ Medici, del Rinuccini e dello stesso moderatore dello Studio di Pisa, il senatore Ricci.
A Pisa l’A. entrò in contatto non solo con letterati ed eruditi di quella università - come Antonio Cocchi e l’abate Tommaso Perelli, lettore di astronomia - ma anche con Antonio M. Salvini, Roberto Sostegni e, in special modo, con il Magliabechi ed il Muratori, con i quali ultimi mantenne continui rapporti epistolari. Non risulta che abbia lasciato scritti originali se deve essere assegnato ad altro Athias (Giuseppe ben Abraham di Cordova) quell’edizione del Vecchio Testamento che G. B. Vico attribuiva a lui. I frequenti viaggi d’istruzione, compiuti sia in Italia sia all’estero, gli permisero tuttavia una vasta attività di diffusione non solo di opere straniere in Italia - a ciò gli valse in special modo l’amicizia del famoso libraio ginevrino Bousquet - ma anche di libri italiani all’estero, come accadde per la Scienza nuova del Vico.
A questa intelligente attività culturale si aggiunse nel 1733 quella di rabbino della comunità israelitica di Livorno; attività che andava dalle vive ed interessanti riunioni che si tenevano nella casa dell’A., ai frequenti contatti (non interamente precisati) con i frammassoni d’oltr,alpe che portarono alla fondazione, nel 1738, della prima loggia massonica di Livorno.
Tutto ciò non mancò di suscitare i sospetti dell’Inquisitore fiorentino p. Paolo Ambrogi, il quale nel 1739 pretese di far perquisire la ricca biblioteca defi,A., sospettandovi la presenza di libri eretici. Richiesta che, nell’acceso clima di lotte giurisdizionali dovuto alle nuove direttive politiche della Reggenza, incontrò la ferma opposizione dei ministri Rucellai e Richecourt. Da questo avvenimento si fanno più rare le notizie sulla vita dell’A. che morì a Livorno nel febbraio del 1745.
* Ripresa parziale (senza la bibliografia).
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DI "PERICLE IL POPULISTA" E DI PLATONE...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI "PERICLE", E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL PROGETTO POLITICO DI ATENE, forse, è opportuno - ricordando la messa al bando di Omero e dei "poeti" dalla "Repubblica" di Platone - riprendere e rivedere (non solo i lavori di Eric A. Havelock, ma anche) la brillante analisi del cosiddetto "Elogio di Atene" da parte di Umberto Eco nella sua nota sul "Pericle il populista" di ieri e di oggi (la Repubblica, 14 gennaio 2012):
e, al contempo, volendo, rimeditare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e riflettere sulla sua proposta di una "Scienza Nuova", al di là dell’imbalsamazione crociana.
Federico La Sala
Una nota sui "Discorsi morali su la Tavola di Cebete tebano" di MASCARDI, Agostino *
"MASCARDI, Agostino [...] Nel 1627 videro la luce a Venezia, con dedica a Maurizio di Savoia, i Discorsi morali su la Tavola di Cebete tebano, compimento del lavoro di lettura dal M. svolto presso l’Accademia degli Addormentati durante l’esilio genovese del 1621-23.
L’opera, divisa in quattro parti per complessivi 35 discorsi, si configura come commento all’operetta greca, latinamente indicata come Cebetis Tabula e risalente al I o II secolo d.C., che ebbe ampia fortuna almeno fino a Vico. La Cebetis Tabula è un dialogo filosofico-morale con forti venature stoiche, ma che include sincreticamente anche dottrine socratico-ciniche e neoplatoniche, in cui vengono illustrate le immagini dipinte in un quadro votivo nel quale, attraverso complesse allegorie, si allude al cammino dell’uomo che progressivamente si lascia alle spalle l’ignoranza e i vizi fino a raggiungere con fatica la vera sapienza.
I Discorsi morali non si limitano tuttavia all’esegesi puntuale e fedele delle dottrine contenute nella Tabula, ma, affiancando con brillante eclettismo alle voci dei filosofi e dei poeti antichi (Platone, Aristotele, Seneca, Plutarco, Massimo Tirio, Omero, Virgilio) quelle dei moderni (G. Lipsio, Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso), riflettono sui grandi temi dell’esistenza umana: la difficoltà di distinguere il bene dal male, il suadente richiamo dei piaceri, l’instabilità della fortuna, i vizi e i pericoli che si accompagnano alla sorte favorevole, le insidie dell’adulazione, la funzione positiva del pentimento e del rimorso, l’inganno delle false scienze inutili al raggiungimento della vera virtù, l’asprezza della via che conduce alla conquista della vera sapienza.
Oltre alla difesa dell’utilità morale e della forza persuasiva delle favole antiche (I, 3), che si pone in controtendenza rispetto ad ampie zone della cultura postridentina, generalmente sospettosa verso la mitologia, notevole appare l’intera Parte terza, dove, in aperto contrasto con quanto affermato dalla Tabula, il M. sostiene l’importanza delle arti liberali e delle discipline scientifiche, da Cebete considerate non altro che vana erudizione, nel percorso di perfezionamento dell’uomo, opponendo così il proprio netto rifiuto a un modello etico svincolato dai valori umanistici.
Di singolare rilievo le pagine dedicate alla filologia (Della critica, III, 8, pp. 309-325), nelle quali il M., a dimostrazione di una viva curiosità intellettuale, trova modo di ricordare il Don Chisciotte di Cervantes (p. 315) e individua con gusto sicuro nel giovane G.L. Bernini lo scultore più creativo della sua generazione (pp. 320 s.). Un ritratto grafico del M., databile intorno al 1630 e attribuibile alla mano di Bernini, è conservato a Parigi presso l’École des beaux-arts (Bellini, 2003, pp. 404-415). [...]" (cfr. Eralbo Bellini, cit.).
* Testo: Discorsi morali, Agostino Mascardi, su la Travola di Cebete Tebano.
** Sul tema, cfr. l’Introduzione di S. Benedetti, al suo Itinerari di Cebete. Tradizione e ricezione della «Tabula» in Italia dal XV al XVIII sec., Introduzione, Roma 2001, pp. 323-384
FLS
Accademie siciliane: un confronto col Settecento
di Pietro Simone Canale ( L’Identità di Clio, 14 Dicembre 2020)
Spirito nuovo e diverso coraggio
Tre secoli sembrano tanti.
Il Settecento, dopo avere scavalcato quel limite immaginifico del terzo millennio, può sembrare anacronistico e superato. Eppure, l’Europa ha un debito profondo verso quel secolo. In esso ha radici, di esso possiede impronta, ne custodisce geni e germi.
A contraddistinguere il Settecento è la «rivoluzione delle idee», ossia quel radicale cambiamento del paradigma fondato su diseguaglianza, rassegnazione e agricoltura. Una rivoluzione che pone le basi per il mondo industriale e l’ordine liberal-democratico, basati su ragione, libertà, tolleranza e felicità (vedi E. Felice, Storia economica della felicità, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 194-196).
È l’Illuminismo, che non è sempre sinonimo di Settecento, ma che ne è però espressione, sintesi, essenza. Ad essere generoso con il secolo dei Lumi è infatti il Seicento, dal quale ha acquisito le forti spinte della Rivoluzione scientifica. L’idea tutta baconiana che la conoscenza debba guardare alla tecnica e al miglioramento della condizione umana si innesta in quel pensiero nuovo dei philosophes del diritto alla felicità. Un diritto, o un’aspirazione, che è tutt’oggi punto di riferimento identitario per l’Europa.
In questo articolo non si scrive però un’apologia, poiché sarebbe bene ricordare anche gli aspetti più bui del XVIII secolo: le numerose guerre, come quelle di successione nella prima metà, o quella dei Sette Anni, considerata la prima vera guerra mondiale, il commercio degli schiavi, il razzismo scientifico, il Terrore giacobino.
Ciò non toglie tuttavia importanza alle conquiste, alcune anche solo di ordine mentale, di questo secolo: la fiducia nella ragione, la critica allo schiavismo, il rifiuto della tortura, l’affermazione del pensiero laico e dello «spirito pubblico». Tutto ciò si incarnava in «una élite culturale e informata e sottratta all’influenza della gerarchia ecclesiastica, pronta a recepire e a contrastare l’influenza del potere politico» (P. Viola, L’Europa moderna. Storia di un’identità, Torino, Einaudi, 2004, pp. 193-194).
Si fa presto a pensare a Parigi, ma la verità è che bisogna parlare di una «Repubblica internazionale delle lettere», già fiorita nel Cinquecento, ma che nel Settecento è comunità corposa, vivacissima e sostenuta da fitti scambi epistolari, pubblicazioni di opuscoli e di periodici, istituzioni di società, circoli e accademie che sorgono copiose tra la capitale della Francia, Londra, Napoli, Firenze, Amsterdam, Pietroburgo, Copenaghen, Edimburgo, Berlino, Milano, Vienna, Padova, Palermo.
Nulla è vera novità, ma tutto ha uno spirito nuovo e un diverso coraggio. Se si pensa alle accademie, molte erano già sorte ben prima: l’Accademia della Crusca di Firenze nel 1583, l’Accademia dei Lincei di Roma nel 1603, mentre la celeberrima Royal Society londinese, della quale furono membri Robert Boyle, Michael Faraday, John Locke, Isaac Newton, Leibniz, Alessandro Volta e Albert Einstein (solo per citarne alcuni), nel 1660.
Tuttavia, nel Settecento nascono numerose le accademie, che si presentano come luoghi di decisivo rinnovamento dei contenuti culturali e dei modelli tradizionali di sociabilità. Da esse passano i nuovi temi della cultura europea e il «senso nuovo della utilità della scienza» (M. Verga, Da letterato a professore della Regia Università. Le accademie a Palermo nel XVIII secolo, Palermo, Palermo University Press, 2019, p. 9). Si manifesta anche un interesse nuovo e scientifico per l’agricoltura, le produzioni, le macchine e le nuove tecnologie e si dà ampio spazio alla riflessione economica e politica.
Le accademie del Settecento si pongono anche in aperta critica al sapere tradizionale e statico delle università. Non è un caso che in questo secolo, mentre si assiste al loro proliferare, si manifesti contestualmente una spinta innovatrice nei confronti del settore dell’istruzione per liberarlo dal monopolio gesuitico, per ampliarne l’utenza e per introdurvi più attuali discipline (come la fisica e la chimica) e adeguare i sistemi educativi alle nuove istanze della politica, dell’industria e della società.
Il XVIII è anche il secolo delle accademie siciliane. Lo storico fiumano Michele Maylender, nella sua Storia delle accademie d’Italia, ne indica almeno 170 per l’isola tra il Cinquecento e il Novecento, molte delle quali sorte proprio nel Settecento. La maggior parte dei grandi centri della Sicilia ne ospita qualcuna: accademie sorgono a Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Caltagirone, Gangi, Castelbuono, Nicosia. Ciò testimonia una vivace, ma a volte poco nota, vita intellettuale dell’isola.
Il Settecento siciliano è, quindi, marcato da importanti elaborazioni culturali e da alcune incisive mutazioni sociali ed economiche. Esso, riprendendo le parole di Renda, «presenta nella sostanza le medesime caratteristiche del Settecento napoletano e del Settecento in altre regioni italiane, e in modo più o meno definibile ripete le tendenze di fondo del Settecento europeo» (F. Renda, Società e politica nella Sicilia del Settecento, in La Sicilia nel Settecento. Atti del Convegno di studi tenuto a Messina nei giorni 2-4 ottobre 1981, Messina, Università degli studi di Messina-Facoltà di lettere e filosofia - Centro di studi umanistici, 1986, v. 1, p. 11). Per questo motivo, l’isola è progressivamente coinvolta in trasformazioni che fanno eco alle grandi rivoluzioni e alle vive e feconde correnti di pensiero del tempo. I cambiamenti mettono radici profonde e durature in Sicilia, ne condizionano il suo sviluppo e creano la consapevolezza di essere parte di un processo di rinnovamento culturale europeo. Proliferano, quindi, le fondazioni di nuovi istituti, le sottoscrizioni ai periodici italiani ed europei, l’edizione di riviste locali, la pubblicazione di opuscoli, orazioni e conversazioni.
Le città si animano di incontri, scambi e dibattiti culturali. Nell’isola si introducono le colonie dell’Arcadia romana e della Accademia fiorentina della Colombaria, a testimonianza degli intensi rapporti tra Palermo e Firenze. Allo stesso modo nascono la celebre Accademia palermitana del Buon Gusto (1718), istituita nel palazzo di Pietro Filangieri, Principe di Santa Flavia, l’Accademia degli Ereini (1730), sotto la protezione del Principe di Resuttano, ma anche quella dei Pericolanti di Messina (1727), degli Aretusei a Siracusa (1735) e degli Etnei a Catania (1672). A metà del Settecento è istituita pure l’Accademia degli Agricoltori Oretei di Palermo (1753), la quale si interessa prevalentemente dei problemi dell’agricoltura, delle produzioni e delle tecniche agricole.
Un impulso notevole è dato dall’attività di raccolta di documenti, fonti narrative, dall’edizione di repertori bibliografici al fine di ripensare la storia siciliana e di dirimere gli annosi contrasti giuridici tra feudalità e monarchia. Non va però dimenticato che l’attività culturale siciliana si poneva sempre all’ombra della nobiltà, che si serviva degli eruditi per affermarsi anche politicamente.
L’evoluzione della attività culturale e pubblica delle accademie nel corso del secolo contribuisce a dare una spinta decisiva ai processi di innovazione dei sistemi educativi e di istruzione, soprattutto a seguito della cacciata dei Gesuiti dalla Sicilia nel 1767. Quest’atto politico offriva finalmente agli intellettuali palermitani, ma anche agli altri religiosi, in special modo i teatini, in contrasto e competizione con la Compagnia di Gesù, la possibilità di insegnare pubblicamente e di ottenere una cattedra.
È evidente che, in questo momento di trasformazione prevalgano le nuove sensibilità accademiche e le suggestioni provenienti dal resto d’Italia e dall’Europa. Tuttavia, la storia del Collegio Massimo, poi della Regia Accademia e infine dello Studium, sono già altro da queste pagine sul Settecento e le accademie e meritano uno specifico approfondimento, che va oltre lo spazio a disposizione, sebbene sia grande l’apporto degli intellettuali e delle accademie siciliane, e soprattutto palermitane, nella diffusione di una diversa idea di istruzione maggiormente corrispondente alle necessità della società siciliana in trasformazione.
Per chi volesse approfondire la storia delle accademie siciliane e più in generale la figura dell’intellettuale settecentesco, utile ed estremamente interessante è il volume di Marcello Verga, professore di Storia moderna presso l’Università di Firenze e già direttore dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche, edito per i tipi di Palermo University Press, Da letterato a professore della regia università. Le accademie a Palermo nel XVIII secolo.
VITTORIO FOA, GIAMBATTISTA VICO, E I PRINCIPI DELLA "SCIENZA NUOVA" E DELLA NUOVA ITALIA ....
— ***VITTORIO FOA. "Caduto il regime fascista, Vittorio Foa lasciando il carcere donava al suo compagno di cella la Scienza nuova di Vico, con una dedica tratta dal testo: «Per varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità» [cf. "Principj di una Scienza Nuova", dedica a Clemente XII, 1730 - fls]. L’eterogenesi dei fini è una regola della scienza sociale moderna, un invito a far leva sui limiti della ragione per cogliere risvolti positivi da ogni evento, anche il più negativo [...]" (Nadia Urbinati, cit. - qui, allegato).
Vittorio Foa: ricordiamo la lezione dei costituenti
Vittorio Foa, l’anticonformista militante
di Ilaria Romeo (Collettiva, 18/09/2020)
Centodieci anni fa, il 18 settembre 1910, nasceva a Torino un politico, un sindacalista, un giornalista e uno scrittore indimenticato. Un uomo che dagli esordi in Giustizia e libertà, passando per la Resistenza, la Costituente, la militanza nella Cgil ha attraversato l’intera storia della sinistra italiana
Amico di Leone Ginzburg, nel 1933 Vittorio Foa si avvicina al gruppo antifascista di Giustizia e Libertà, collaborando con lo pseudonimo di ‘Emiliano’ agli omonimi quaderni pubblicati a Parigi. Arrestato a Torino il 15 maggio 1935 su delazione dell’informatore dell’Ovra Pitigrilli resta in carcere fino al 23 agosto 1943. Padre costituente, deputato socialista per tre legislature, nel 1955 diventa segretario nazionale della Fiom per passare, alla morte di Giuseppe Di Vittorio, alla segreteria della Cgil.
Nel 1970 decide di lasciare gli incarichi sindacali per dedicarsi agli studi (dal 1987 al 1992 è senatore, eletto nelle liste del Pci e poi del Pds, come indipendente). Dirà nel suo discorso di addio alla confederazione: “Voi sapete che questo distacco è difficile. Mi consentirete di non vestire di parole dei sentimenti che sono agitati e profondi. Vi prego caldamente, in ragione di una antica stima reciproca, di dispensarvi da parole di commemorazione o gratificazione. Voglio solo ringraziarvi tutti, e con voi mille e mille compagni noti o sconosciuti, per quel che in tanti anni avete fatto di me”.
“Età e ragioni di salute - affermava nell’occasione - mi hanno indotto a dimettermi da segretario della Cgil. Si è amichevolmente osservato che l’età non si misura col numero degli anni. Resta il fatto che, l’attenzione dovuta al merito che uno ha acquisito con molti anni di lavoro, contraddice la cruda necessità di congedare chi è logorato. Solo rimedio utile per attenuare quella contraddizione è la fissazione di un limite di età oggettivo, impersonale, oltre il quale si deve partire non per incapacità soggettiva, ma per una norma. E in questo caso la norma vale se non vi sono eccezioni. Si è anche osservato che uno deve, per la Causa, sopportare i malanni dell’età e una salute deteriorata. Ma se la salute ha poca importanza per i singoli, essa ne ha molta per l’organizzazione, soprattutto quando si tratta di quel logoramento tipico del lavoro sindacale che coinvolge il modo di lavorare, la calma e la necessaria capacità di percezione dei particolari del movimento, fuori degli schemi generici”.
“La Cgil è stata la sua casa”, diceva il giorno dei funerali l’allora segretario generale Guglielmo Epifani. “Se ne va uno dei grandi uomini del nostro sindacato. Dobbiamo ringraziarlo per tutto quello che ci ha dato e per il senso di libertà che ci ha lasciato. A volte la sua poteva sembrare una speranza disarmata, ma Vittorio ha sempre visto nel fare e nell’agire il legame tra la speranza e il cambiamento (...) Si considerava un operatore sindacale, e la sua più grande preoccupazione è sempre stata quella di avere un sindacato autonomo. Fino agli ultimi giorni aveva chiesto di vederci, di parlarci: non si considerava uno messo di lato, si considerava, ed era, uno di noi”.
A dare notizia della morte di Vittorio Foa sarà, per desiderio della famiglia, l’allora segretario del Pd Walter Veltroni: “È un immenso dolore per noi - dirà - per il popolo italiano, è un immenso dolore per gli italiani che credono nei valori di democrazia e libertà, per l’Italia che lavora, per il sindacato a cui Vittorio Foa ha dedicato la parte più importante della sua vita (...) È un dolore per me personalmente perché Vittorio Foa incarnava ai miei occhi il modello del militante della democrazia, un uomo con una meravigliosa storia di sofferenza, di lotta e di speranza, un uomo della sinistra e della democrazia, mosso da un ottimismo contagioso e da un elevatissimo disinteresse personale (...) Penso che tutto il paese senta Vittorio Foa come uno dei suoi figli migliori”.
Autore di numerosi libri (fra gli altri, Il cavallo e la torre, Questo Novecento, Lettere della giovinezza), Foa aveva pubblicato poco prima della morte Le parole della politica. “Forse - sosteneva nel saggio - il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell’agire pensando di essere soli e nel pensare solo a se stessi [...] Io non credo che si possa insegnare a pensare al resto del mondo, ma pensare se stessi insieme agli altri è l’unico modo per ricostruire i cosiddetti valori”.
È il principio che sta alla base della confederalità della nostra organizzazione, quel principio del quale Guglielmo Epifani diceva in occasione del centenario della Cgil: “L’identità confederale richiede inevitabilmente una ricerca permanente di valori e politiche di unità, partendo dalle differenze; e un’idea alta di autonomia comunque espressa nelle alterne fasi che hanno segnato la storia dei rapporti fra partiti e sindacati. Solo un sindacato confederale - quello di ieri e quello di oggi - può tenere unite dentro di sé le ragioni dei lavoratori della terra a quelli dell’industria, quelli pubblici e quelli privati, quelli del Sud e quelli del Nord, gli emigranti e gli immigrati, i giovani che studiano, i disoccupati, gli anziani e i pensionati. Tutto, proprio tutto, della vita centenaria del sindacato italiano sta qui, in quell’atto, in quella scelta, in quell’inizio. In quell’idea - come ci ricorda Vittorio Foa - per la quale battendosi per i propri diritti si pensa insieme sempre ai diritti degli altri”.
Un uomo particolare Vittorio, fedele ai suoi ideali ma indisciplinato, dal sorriso sornione e l’intelligenza acuta, la mente brillantissima. Affermava lui stesso all’interno del volume Cent’anni dopo. Il sindacato dopo il sindacato: “Nel lavoro della formazione e soprattutto in quella che il dirigente dà agli altri dirigenti, nella continuità del suo lavoro, vi è un elemento molto importante, e non si tratta della disciplina, ma è la lotta contro il conformismo. Non bisogna accusare l’indisciplina. Non c’è niente di male a essere indisciplinati, se nell’indisciplina c’è una volontà. La cosa peggiore è quando la volontà non c’è più, quando si sceglie sempre di dare retta ad altri. L’insegnamento da dare ai compagni è che pensino con la loro testa. Possono anche pensare male, ma l’importante è che pensino con la loro testa. Questa è la vita che io credo di avere vissuto nella Cgil e credo di aver amato nella Cgil più di ogni altra cosa”.
Parole che tratteggiano una personalità straordinaria, fresca, incredibile, originale, di una grande curiosità intellettuale.
Una personalità ben riassunta dalla frase - notissima - rivolta a Pisanò durante un dibattito televisivo: “Se avesse vinto lei - affermava Vittorio - io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me”.
IL SENSO DEL SUD PER LA SINISTRA
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 23 marzo 2018)
Caduto il regime fascista, Vittorio Foa lasciando il carcere donava al suo compagno di cella la Scienza nuova di Vico, con una dedica tratta dal testo: « Per varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità». L’eterogenesi dei fini è una regola della scienza sociale moderna, un invito a far leva sui limiti della ragione per cogliere risvolti positivi da ogni evento, anche il più negativo. Con le dovute proporzioni, la sinistra del dopo 4 marzo dovrebbe saper vedere nella caduta un’opportunità. Altre volte in passato, la riflessione su "che cosa è andato storto" è stata fondamentale. È evidente che saper leggere implica avere dei criteri di giudizio come antenne; solo così la sconfitta si può fare opportunità.
La questione della rappresentanza sociale - dello schierarsi con chi - è una di queste antenne: la sinistra ha la missione di partire dalla condizione di chi sta peggio per poter correggere in positivo i rapporti sociali. In Italia, questa condizione è propria di alcune fasce (giovani e vecchi) e aree geografiche (il Sud). Ma non basta censire la mancanza cronica di lavoro e una vita di espedienti ( non sempre legittimi) come fanno gli scienziati sociali. Occorre sentire quei problemi e le loro implicazioni, poiché la politica è vicina alle emozioni che guidano le azioni. E un partito deve saper progettare le azioni, non solo dei pochi che lo dirigono, ma soprattutto dei molti che lo seguono o lo votano.
Pensiamo alla " questione meridionale" che molta parte della dirigenza della sinistra sembra aver lasciato cadere, consolandosi col dire "basta ai piagnistei", ci si " rimbocchi le maniche", " l’Italia è ripartita". Pochi anni fa, Roberto Saviano obiettò su questo giornale che quello del Sud «è un urlo di dolore, non un piagnisteo che sembra invece somigliare di più alla cantilena del va tutto bene » . Il Sud come " palla al piede" che deturpa l’immagine di un’Italia che riparte: in anni recenti, questo è stato il sentire della sinistra. E l’abbandono del Sud è stato reciproco, un divorzio. La quasi scomparsa della sinistra era una sconfitta annunciata. Che lo si sia visto dopo, questo è il problema.
Alle origini del fascismo, Antonio Gramsci scriveva che la classe politica era fatta di "dilettanti" che si preoccupavano di eliminare dalla vista ciò che ostacolava il cammino, preferendo magari usare il piglio autoritario: « Non hanno alcuna simpatia per gli uomini [ che soffrono]... Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio e di volontà del cittadino italiano » . E intanto, le forme di illegalità, le periodiche rivolte fanno del Sud un’incognita. Una storia eterna.
La "questione meridionale" non è così misteriosa e neppure una " palla al piede": mostra come con una lente di ingrandimento la disgregazione sociale, lo sfarinamento delle forze associative, che sole possono attivare protagonismo, e opporre una politica di programmi a una di promesse assistenziali. La condizione del disagio deve poter stimolare il sentire per meglio orientare il comprendere.
Ritornare a riflettere sulle politiche sociali, per abbandonare i piccoli stratagemmi elettorali della monetarizzazione del bisogno, per riprendere la via del rilancio di politiche per l’occupazione. E collegarsi con le altre forze della sinistra europea per riportare al centro la condizione di chi è penalizzato dalla globalizzazione. E intanto, aprire le sezioni e ogni luogo di incontro per dare voce a chi è restato ai margini, e rimettere in funzione i radar; tornare a leggere un Paese del quale si sono perse le tracce. Non può essere il premio David di Donatello a farci capire che il Sud c’è e non è una "palla al piede".
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO, LA « SCUOLA » DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi.
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
Federico La Sala
Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il mezzogiorno austriaco e borbonico
IL MEZZOGIORNO AUSTRIACO E BORBONICO
Recensione di Gerardo Pecci (01/11/2010) *
Il 27 aprile 2009 è terminata la stampa dell’opera di Francesco Abbate “Storia dell’arte nell’Italia meridionale”. Il quinto e ultimo volume conclude un lavoro impegnativo di sintesi delle ricerche storico-artistiche che hanno caratterizzato il racconto delle esperienze artistiche dell’Italia meridionale dall’età longobarda a quella borbonica.
Un racconto lungo e paziente che nell’ultimo volume affronta un arco di tempo di circa centocinquanta anni e del quale Abbate ci offre uno scorrevole racconto delle vicende storico-artistiche del Mezzogiorno, prima austriaco, poi borbonico: da Napoli alle province, alla Sicilia. Si tratta di momenti storico-politici e storico-artistici cruciali, che vedono il Mezzogiorno “aprirsi”, nel corso del XVIII secolo, verso una cultura che si lega ad esperienze ed aspetti di respiro internazionale, soprattutto verso il cosmopolitismo culturale, e non solo politico, dell’Illuminismo, che pure ebbe a Napoli una sua ragion d’essere, un suo ruolo, attraverso Antonio Genovesi o Bartolo Intieri, alla ricerca di una filosofia sempre più intesa come etica, non chiusa in sé, nella pura speculazione, ma con il chiaro intento di «giovare alle bisogne della vita umana». Altro pilastro portante di questo pensiero è Giambattista Vico.
Abbate offre al lettore una puntuale ricostruzione del clima artistico del periodo, anche attraverso momenti cruciali quali il movimento dell’Arcadia, della letteratura d’impronta bucolica, della chiara e serena pittura rococò, con una sottile vena di temperato classicismo che possiamo trovare nella produzione coeva, tra fine Seicento e inizio Settecento. Ma sullo sfondo di queste vicende c’è poi l’intreccio di un classicismo archeologico, alla “moda”, alimentato dalle scoperte delle due grandi città romane di Pompei ed Ercolano, sepolte dalla furia devastatrice del Vesuvio in quel maledetto giorno di agosto del 79 d.C., e dalla quasi contemporanea “scoperta” dei templi di Paestum che pure ispirarono vedute architettoniche straordinarie del pittore Antonio Joli (o Ioli) o le successive vedute di Hackert riguardanti, per esempio, i siti reali di caccia e di svago borbonici, al tempo di Carlo III e poi di Ferdinando IV, o le altrettanto importanti vedute, tra Roma e Napoli, di Gaspar van Wittel, padre di un altro grande protagonista delle vicende storico-architettoniche e artistiche dell’Italia meridionale settecentesca: l’architetto Luigi Vanvitelli.
Il primo capitolo, corposo, affronta la produzione artistica a Napoli durante il viceregno austriaco (1707-1734) partendo da una sintesi su quello che era il clima politico e l’assetto istituzionale di Napoli “austriaca” che, pur sostituendosi al “malgoverno” spagnolo, non cambiò poi di molto i fatti e i misfatti della precedente amministrazione se è vero che proprio personaggi politici napoletani che avevano ruoli nel passato regime spagnolo furono «prontamente orientati ad abbracciare questi nuovi principi (riciclandosi, diciamolo pure)...»(pag.7).
In tale temperie operarono artisti come Francesco Solimena e Luca Giordano, il maggiore artista di dimensione europea, ma anche Paolo De Matteis che operò una personale pittura tra Luca Giordano e le istanze classiciste presenti nella cultura napoletana dell’epoca. Erano gli anni del ritorno del Giordano a Napoli e della prima grande pittura di Solimena. Ma in quel lasso di tempo (1702-1705) il cilentano De Matteis fu attivo a Parigi dopo essersi formato ai modi di Giordano e poi di Maratta a Roma: «Classicismo e tradizione giordanesca, allora; [...] combinati con efficacia di risultati per nulla generici.» (pag. 11) Abbate ritiene che la pittura del De Matteis fu lontana dalla poetica tout court del rococò dal quale il pittore mantenne comunque una certa distanza, pur se fu amico di Giacomo Del Po.
In questo contesto operò anche lo scultore Giacomo Colombo che nel 1701 divenne Prefetto della Corporazione dei Pittori di Napoli e che ebbe modi stilistico-scultorei a tratti legati a un elegante e temperato classicismo, alla tradizione naturalistico-veristica del presepe napoletano e a un’incipiente vena rococò sulla quale è stata ipotizzata la cosiddetta “svolta stilistica” del 1709, relativamente al gruppo ligneo e policromo dell’ “Annunciazione” di Sant’Arsenio, messa in campo da Letizia Gaeta e sostenuta, non fra dubbi e ricerche, anche da Francesco Abbate in questo volume allorquando si chiede su «quanto la svolta rococò di Giacomo Colombo (per esempio nell’ Angelo annunziante di Sant’Arsenio, che è del 1709) sia debitrice proprio al Vaccaro»(pag. 80).
Ma io rilancio e mi chiedo, e chiedo al professor Abbate: se questa svolta “rococò è una costante presente e rilevabile nelle opere del Colombo, dopo il fatidico spartiacque dell’anno 1709, in quali altre opere successive la si può rilevare e senza soluzione di continuità, dunque senza interruzioni? O è solo presente in alcune opere, in alcuni episodi scultorei colombiani? D’altra parte la “questio” esige una risposta, che pur sembra rilevarsi nel lavoro dell’autore e mi pare che è presente laddove l’Abbate afferma che l’artista non sarebbe legato a una corrente stilistica in particolare «nel senso che Colombo è spinto a muoversi su diversi e variegati registri espressivi, per venire incontro al meglio a differenziate richieste e svariate esigenze della committenza» (pag.88).
Dunque la committenza esercitava un ruolo non indifferente nel proporre all’artista opere di diverse: dal gruppo scultoreo, solenne, della “Pietà” ebolitana a semplici figure presepiali, che esigevano per forza registri stilistici e iconografie di volta in volta diversi. D’altra parte anche il “solimenismo” colombiano lascia il posto a influssi pittorici che provengono soprattutto da Luca Giordano, com’è piuttosto evidente nella tela dipinta che fa da fondale proprio al gruppo dell’ “Annunciazione” di Sant’Arsenio (Salerno), tradizionalmente attribuita alla mano dello scultore-pittore, sia pure con qualche opinione contraria, come quella di Antonio Braca che, inceve, l’attribuisce a Francesco Solimena.
Da qualche altra parte c’è la presenza di Giacomo Colombo che proprio in qualità di pittore predilige apertamente la pittura del Giordano, e non solo dal punto di vista coloristico, ma anche da quello strettamente iconografico. Ma è un’altra storia, in attesa di essere scritta. L’analisi di Abbate poi prosegue nella tradizione pittorica giordanesca fino ad esaminare, poi, la figura di Solimena durante il viceregno austriaco, per passare ai solimeneschi e a Domenico Antonio Vaccaro in qualità di pittore, prima con le tele di Sant’Agostino degli Scalzi e poi con altre opere.
L’Abbate sottolinea la complessa formazione stilistica del Vaccaro, con presenze nelle sue opere di tratti stilistici che variamente si rifanno a Solimena e a Luca Giordano, ma anche al Gaulli e ai decoratori genovesi Piola e Ferrari. Dopo l’intermezzo dedicato al pittore calabrese Francesco Peresi, l’Autore ci offre un’interessante lettura del romano Giacomo Del Po (pp.38-40), anche in rapporto all’ultima stagione pittorica dell’oramai anziano Luca Giordano e altri pittori dell’area culturale genovese. Altro affresco chiaro e illuminante è il rococò architettonico napoletano attraverso le personalità di Domenico Antonio Vaccaro e del Sanfelice, la cui poetica architettonica si irradiò, seppure con esiti differenti, da Napoli verso le province, durante il viceregno austriaco. Celebri restano nell’architettura sanfeliciana le sue “scale aperte”, che travalicano gli spazi della vita dei palazzi napoletani e non napoletani. Un celebre esempio è il « monumentale scalone di palazzo Serra di Cassano [...] che immette direttamente nel piano nobile, è infatti inserito in un vano chiuso, una sorta di grandioso vestibolo a cui si accede da un vasto arco, posto al termine del cortile ottagonale; motivo, anche questo, innovatore nella pratica architettonica di Sanfelice...» (pag. 61)
Per quanto concerne la scultura ai tempi del viceregno austriaco, l’Autore non manca di evidenziare la personalità di Giovan Battista Antonini, giunto a Napoli proveniente da Roma, con echi stilistici legati alla cosiddetta « fronda solimenesca» pittorica, «con chiari agganci, nella sua forte impostazione alla Gaulli, con Giacomo Del Po.» (pag.83) Altro filone portante del panorama pittorico viceregnale austriaco è certamente quello legato al vedutismo, genere artistico particolarmente sviluppato nel corso del XVIII secolo e variamente intrecciato con il gusto del “capriccio” e del “rovinismo” di matrice archeologico-romantica. Tra i “vedutisti” l’Autore cita Leonardo Coccorante, seppure legato a una fantasiosa vena inventiva, Angelo Maria Costa, Tommaso Ruiz, Michele Pagano: «piccoli maestri» di questo genere che pure aveva un proprio spazio nel mercato artistico dell’epoca, tanto a Roma quanto a Napoli.
Il libro prosegue con il racconto degli avvenimenti che improntarono la civiltà storica e artistica nata e sviluppatasi nel corso del venticinquennale regno di Carlo III di Borbone (1734-1759) su Napoli e il Mezzogiorno italiano, fino al momento del trasferimento del sovrano in Spagna, per assumerne la reggenza. Centrale attenzione è dedicata da Abbate alla «insaziabile passione venatoria di Carlo» (pagg.102-103) che ebbe come conseguenza l’acquisizione di vasti territori e feudi in cui egli istituì, soprattutto in Campania, da Capua a Venafro e a Persano, importanti siti reali di caccia, un po’ come avveniva nel contempo nel Piemonte sabaudo. E in questo frangente, considerato anche il cantiere della Reggia di Caserta, Carlo III ritenne opportuno rivolgersi ad architetti provenienti da Roma: Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga e Antonio Canevari, relegando in un angolino i napoletani Domenico Antonio Vaccaro e Ferdinando Sanfelice. Anche la viabilità ne risentì beneficamente in quanto il re si preoccupò di collegare la capitale con le residenze periferiche.
L’Autore passa poi al racconto delle vicende, anche queste non di secondaria importanza, dell’architettura e delle arti a Napoli sotto il re Ferdinando IV, succeduto al padre, offrendoci una lettura piacevole, a tratti arguta. Egli ci racconta le vicende, e anche le passioni latenti, che improntarono la vita stessa degli artisti, seppure intuite e inserite in un circuito culturale e politico non certo semplice, ma alquanto variegato, complesso, i cui intrecci e il cui svolgimento non sono certamente semplici da dipanare.
Interessanti sono le pagine dedicate al Presepe napoletano (pagg. 177-187), forma di altissimo artigianato artistico e fenomeno d’arte e di costume che finiva per coinvolgere personalità di rilievo del panorama scultoreo e pittorico dell’epoca, nonché gli stessi coniugi Carlo di Borbone e Maria Amalia che spesso cuciva «di sua mano le fantasiose e spesso sontuose vesti dei pastori. Fenomeno artigianale, allora, oltre che artistico»(pag. 180).
Un capitolo a sé l’Abbate lo dedica alla Reggia di Caserta e ai siti reali borbonici, offrendoci una chiave di lettura che, in fondo, racchiude aspetti di vita della corte borbonica, da Carlo III a Ferdinando IV. Interessante è la lettura e la ricostruzione dei rapporti fra l’architetto Luigi Vanvitelli e gli artisti del proprio tempo, soprattutto in funzione della costruzione della Reggia casertana. Interessante è anche il capitolo, che si riallaccia a quanto prima affermato, sul genere prospettico - pittorico paesaggistico e quello topografico - urbanistico, da Joli ad Hackert e poi alla cosiddetta “Scuola di Posillipo”, con la figura dell’artista Giacinto Gigante.
Purtroppo, Francesco Abbate dedica poco spazio ad Antonio Joli (o Ioli), che invece, a mio avviso, resta un autore importante soprattutto per alcune celebri vedute dei templi arcaici greci di Poseidonia. Inoltre nel volume è eclatante
l’assenza - nel capitolo dedicato al vedutismo - di Giambattista (o Giovan Battista) Piranesi che pure ha lasciato eccezionali incisioni con vedute dei templi pestani (nel 1777) e, prima, delle città romane di Pompei ed Ercolano (1770). Le incisioni piranesiane con vedute, infatti, ricoprono un ruolo importante non solo riguardo al genere della veduta “archeologica”, ma soprattutto come documentazione storico-topografica di una realtà culturale: quella legata alla rinascita - sia pure in senso neoclassico e/o preromantico - di un mondo antico che è capace di evocare suggestioni e “malinconie”attraverso il culto delle rovine antiche, che pure faceva parte dell’immaginario collettivo della civiltà artistico-letteraria dell’epoca.
E proprio sull’importanza di Paestum nell’ambito della pittura di veduta “antiquaria” e topografica settecentesca lo storico dell’arte Giuliano Briganti scrisse un’importante pagina, dal titolo “Paestum e il vedutismo settecentesco” (in “La fortuna di Paestum e la memoria del dorico 1750-1830”, catalogo della mostra, Padula, Certosa di San Lorenzo, 1986, vol. I, pp. 60-62 e ssgg.). In esso Briganti, riguardo al pittore Joli, scrisse che è appunto con lui «che si può dire inizi il rapporto diretto fra un vedutista e una committenza di precisi interessi eruditi-antiquari. Non è un caso, infatti, che la rassegna delle vedute di Paestum, si apra con tre sue vedute dei templi (penso che in origine fossero più di tre) eseguite a Napoli nel 1759 e che, di Paestum, costituiscono, in pittura, la prima esatta documentazione visiva»(ivi, pagg. 60-61).
Sappiamo poi che fu soprattutto intorno alla fine degli anni Settanta che si affermò una sorta di vedutismo meno sensibile al fantastico e al rococò, una sorta di “reportage paesistico” e topografico che incontrava i gusti dei viaggiatori colti che giravano per le contrade del Mezzogiorno d’Italia, appunto il vedutismo messo in cantiere anche dal Piranesi. Piuttosto articolato è quello che Abbate dice in merito alla “Scuola di Posillipo” da Pitloo a Gigante dall’interpretazione “romantica” del paesaggio alla macchia pre-impressionista presente già in Pitloo, ai disegni dal vero di Gigante e ai suoi luminosi paesaggi, fino a Salvatore Fergola che, invece, si formò al di fuori della cerchia dei “posillipisti” e fu più legato al filone hackertiano.
Il capitolo successivo, sull’Ottocento napoletano si apre con la chiusura dell’Accademia Reale delle Belle Arti della città partenopea, dal 1789 al 1803, in seguito ai moti giacobini, filo francesi, e, poi, il cosiddetto “decennio francese” e il rapporto tra Murat e le arti figurative, in cui periodo è stato peraltro studiato recentemente, nel 2008, anche da Ornella Scognamiglio nell’opera “I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat. Storia di una collezione”.
Successivamente, Abbate traccia una sintetica panoramica degli avvenimenti artistici a Napoli fino al 1848 e all’Unità d’Italia. Nel 1825, a imitazione dei “salons” parigini, Francesco I emanò il decreto di organizzazione di mostre d’arte a cadenza biennale, le cosiddette «biennali borboniche» (p.333) con la presenza di tutte le arti, «comprese le arti minori» (p.333). Da non dimenticare il riordino degli insegnamento dell’Accademia delle Belle arti napoletana ad opera di Antonio Niccolini, nel 1822. Tra i pittori accademici di questo periodo l’Abbate ricorda Raffaele Postiglione, Tommaso De Vivo, Giuseppe De Nigris e altri artefici, fino a giungere a più importanti artisti, tra cui Domenico Morelli e il “verista” Filippo Palizzi.
L’ Autore poi ci offre un’interessantissima lettura panoramica dell’architettura dell’Ottocento a Napoli, con dovizia di informazioni e completezza di giudizio sulle opere di volta in volta descritte, proseguendo con un’interessante panoramica delle trasformazioni urbanistiche partenopee, sia della città borbonica che di quella murattiana. Purtroppo, a corredo dei capitoli sulle vicende architettoniche ed urbanistiche di Napoli e dell’intero Mezzogiorno, vi è la mancanza di piante urbanistiche ed architettoniche di supporto, che sarebbero state di grande utilità per il lettore, pur se è ottima la ricostruzione filologica e narrativa di queste trasformazioni.
Molto importante e illuminante è il capitolo sulle arti applicate (pp.395-469) a Napoli e nel Mezzogiorno dal secolo XVIII al secolo XIX e che giustamente Francesco Abbate afferma che tali arti «minori spesso non furono affatto.»( p. 395) Sfilano davanti ai nostri occhi opere d’arte in argento, le maioliche e le porcellane di Capodimonte, i marmi commessi, gli intagli lignei, gli arazzi...tutte opere di grande tenore qualitativo, spesso dovute alla paternità di grandi nomi dell’arte del tempo. Tutto ciò dimostra, semmai ce ne fosse ancora bisogno, ma non credo, come Napoli e il Mezzogiorno d’Italia non fossero affatto legati a una produzione in ‘tono minore’, rispetto a quelle messe in cantiere in altre zone d’Italia. Si tratta, com’è noto, di una variegata e complessa produzione artistica e di alto livello tecnico e /o artigianale che, anzi, svolgeva spesso un ruolo trainante nell’intero contesto europeo, con prodotti di altissima e certissima qualità. Abbate rende finalmente giustizia a un Mezzogiorno che fu realmente un territorio di eccellenza, all’avanguardia, per quanto concerne questa produzione di altissima e finissima ricerca artistico-artigianale.
Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il mezzogiorno austriaco e borbonico *
Nella seconda parte del volume l’Autore analizza in linee generali, ma sufficientemente articolate, le diverse realtà artistiche relative alla province del viceregno austriaco e borbonico, soffermandosi sugli esempi regionali dell’arte prodotta nei diversi contesti civili e culturali dell’epoca, con un intero capitolo dedicato alla Sicilia nel Settecento, e fino all’Ottocento nel regno continentale e poi di nuovo in Sicilia.
L’analisi dell’arte campana del primo Settecento, ad esempio, parte dalla Terra di Lavoro, da Capua ed Aversa, da Nola a Sorrento; poi analizza il Principato Ultra, da Benevento al tempo del Card. Vincenzo Maria Orsini (successivamente papa con il nome di Benedetto XIII) che resse la diocesi per il primo ventennio del XVIII secolo, e con i lavori dell’architetto Filippo Raguzzini. Si passa poi a San’Agata dei Goti, dove vi è la presenza del pittore Tommaso Giaquinto. Relativamente al Principato Citra l’Abbate cita la chiesa dell’Annunziata a Salerno per poi parlare degli interventi nel Duomo di San Matteo, a partire dal 1700 per volontà dell’arcivescovo Bonaventura Poerio, proseguiti poi ai tempi dell’arcivescovo Paolo de Vilana Perlas, con gli interventi del Sanfelice, particolarmente enfatizzati dal De Dominici, ma che in realtà furono piuttosto modesti. -Altro momento importante fu la ricostruzione del monastero di San Giorgio delle monache benedettine, sul quale l’Abbate si sofferma perché opera del predetto Sanfelice, per passare poi al pittore Filippo Pennini (o Pennino) e auno sguardo su «certi meccanismi del mercato artistico provinciale...».(p.488) Pagine ricchi di spunti e interessanti riflessioni sono poi quelle dedicate ai pittori Michele Ricciardi e Leonardo Olivieri (pp.489-492). Poi l’Autore si sofferma sulla pittura in costiera d’Amalfi e sul Duomo dell’antica repubblica marinara. Altre interessanti pagine sono quelle dedicate alla Certosa di Padula nel Settecento e il limitrofo territorio (pp.500-509).
L’autore, successivamente, passa al racconto delle vicende artistiche nella Calabria, e in Basilicata, dove attribuisce alla mano dello scultore Giacomo Colombo il “Cristo morto compianto dall’Addolorata” (p.527) nella chiesa del Crocifisso a Lagonegro (Potenza) che conserva altri capolavori in legno policromo del grande scultore d’Este: un “”Ecce Homo” del 1707 e un “San Sebastiano”. Abbate poi traccia un sintetico profilo dell’arte del Settecento in Abruzzo, in Molise e in Puglia, soffermandosi per più pagine (pp.535-552).
Altro capitolo importante è quello dedicato alle province continentali nel Settecento borbonico e il corposo capitolo dedicato alla Sicilia nel medesimo secolo (pp. 589-645) in cui lo studioso ci offre uno spaccato piuttosto esaustivo delle civiltà artistica siciliana dell’epoca. Conclude il volume il capitolo dedicato all’Ottocento nel regno continentale e in Sicilia, fino all’Unità nazionale italiana.
Il libro si chiude con un’interessante bibliografia (da p.675 a p.689) e con l’indice dei nomi. Nella premessa alla bibliografia, Autore afferma che l’ultimo volume, come pure l’intera opera, è «pensato per un pubblico non specialistico, e la relativa bibliografia quale possibile approfondimento per quel tipo di pubblico. Quest’ultima pertanto, lungi dal voler essere completa, privilegia i testi più recenti e possibilmente quelli in italiano, salvo i casi di opere fondamentali» (p. 675). -Sostanzialmente, non si può non essere pienamente d’accordo con Abbate riguardo al taglio divulgativo usato, perché tale è il tono e il registro linguistico storico-artistico che impronta tutta l’opera. Ciò rappresenta indubbiamente un grande pregio poiché è il primo tentativo organico di voler “sistematizzare” in un vasto orizzonte storiografico e geografico-storico il lungo percorso della storia dell’arte nell’Italia meridionale, rendendolo fruibile a un sempre più vasto pubblico che s’accosta (o dovrebbe farlo) al ricco patrimonio di opere d’arte che il Mezzogiorno italiano possiede, togliendolo all’oblio del tempo e della memoria, dando ad esso visibilità e una rinnovata vita.
Ma sappiamo anche che quest’ultimo volume, com’è già successo con gli altri che lo hanno preceduto, non è soltanto destinato a un astratto pubblico generico, ma sicuramente anche agli studiosi, agli specialisti e agli studenti universitari e quelli degli istituti di istruzione secondaria di secondo grado, per colmare in parte alcune delle gravissime e macroscopiche lacune presenti nei libri di testo, dove vige la quasi totale mancanza di riferimenti a momenti storico-culturali e artistici dell’Italia meridionale. Da questo punto di vista, e per queste ragioni, la bibliografia avrebbe dovuto essere più “completa”, con citazioni di studi e contributi relativi a momenti, personalità e anche singole opere scoperte da poco, ma pubblicate, quindi fruibili per chi ama conoscere “qualcosa in più”. Una bibliografia più ricca e puntuale sugli argomenti trattati, anche e solo relativa a testi e studi in lingua italiana, sarebbe stata sicuramente più utile e proficua per tutti.
Sono sicuro che anche questo volume, come i precedenti, farà parte dei libri di testo che saranno adottati in alcuni corsi di storia dell’arte di atenei italiani e quindi, a maggiore ragione, la bibliografia di riferimento avrebbe dovuto essere il più aggiornata possibile, senza esclusioni di sorta. Ma fare una scelta “parziale”, a monte, a mio avviso avrebbe dovuto essere evitata proprio perché risulta, alla fine, mutila. D’altra parte si comprende che una persona non sempre può essere informata attimo per attimo di ciò che avviene negli studi del settore di propria competenza e quindi è chiaro che delle involontarie omissioni sono sempre possibili. Resta il fatto che questo volume, come i precedenti, rappresenta un contributo notevole per un rinnovato e sempre più acuto interesse verso i grandi capolavori d’arte che il nostro Sud possiede e deve spingere altri studiosi a seguire la via tracciata dall’Autore.
*
Recensione di Gerardo Pecci, 01/11/2010.
«Scienza nuova». Attraverso l’analisi delle tre redazioni del testo è possibile entrare nell’elaborazione del pensiero del filosofo che ha delineato un’altra via del «moderno» in una diversa prospettiva
Nel laboratorio di Giambattista Vico
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.04.2020, p. VIII)
Come si sa della Scienza nuova di Vico esistono tre edizioni, quella del 1725, la seconda del 1730, la terza del 1744. Una situazione per molti aspetti eccezionale, paragonabile in letteratura a quella del Furioso dell’Ariosto, del quale esistono, come nel caso della Scienza nuova, tre edizioni, quella del 1516, del 1521, del 1532.
Le diverse redazioni dello stesso testo ci permettono di entrare nel laboratorio di un autore e di vedere in presa diretta come egli lavori, in un continuo farsi del testo, che viene riafferrato nella sua concretezza storica, anche quando ha assunto, come capita ai capolavori, la fisionomia di un classico fuori del tempo in cui è nato e si è sviluppato, reagendo a impulsi e tensioni dell’epoca alla quale appartiene. Naturalmente, non tutte le redazioni stanno sullo stesso piano, né è detto che l’ultima sia, in quanto tale, la migliore.
È un fatto che nel caso di Vico, l’attenzione degli studiosi si sia concentrata a lungo sull’edizione del 1744, preferendola a quella del 1725 e a quella del 1730. A conferma però di quello che dicevo, uno dei meriti più importanti della ricerca contemporanea su Vico è stata la “riscoperta” dell’edizione del 1730, prima sottovalutata, ad opera degli studiosi raccolti nel Centro di studi vichiani fondato e diretto prima da Pietro Piovani, poi, con risultati di notevole valore, da Fulvio Tessitore, il quale ha fornito nel 2002 anche un’edizione anastatica del testo dimostrando il rilievo e l’originalità che esso ha nel pensiero di Vico. Questa anastatica si inseriva a sua volta in un ampio progetto di pubblicazione delle edizioni anastatiche delle principali opere di Vico - per iniziativa del Lessico Intellettuale Europeo, fondato da Tullio Gregory - fra cui, naturalmente, la Scienza nuova del 1744.
Gli studiosi di Vico possono quindi disporre oggi delle edizioni originali delle sue opere più importanti, che possono studiare, agevolmente, nel loro processo di formazione e di sviluppo - cogliendole nella loro specificità, al di fuori, dunque, di prospettive di carattere teleleologico che non servono mai, quando si lavora sul piano della critica storica.
Della Scienza nuova del 1744 è stata pubblicata ora una nuova edizione anastatica ad opera di una piccola, e benemerita, casa editrice di Napoli, Belle Époque Edizioni, che si avvale - e questo mi pare un suo merito non secondario - della Introduzione di uno dei maggiori studiosi di Vico, Biagio de Giovanni, che su questo tema ha scritto pagine che sono un punto di riferimento e che si riflettono anche in questo volume. Penso, ad esempio, all’insistenza con cui de Giovanni batte sulla pluralità delle linee interne a quello che si suole chiamare «Moderno», mostrando come Vico si muova in una diversa, anche volutamente opposta a quella di Cartesio e al «soggettivismo riflessivo» della Mente, spingendo la prospettiva in altre direzioni ben rappresentate dalla famosa battuta di Vico: non è vero che homo intelligendo fit omnia, è vero invece, e lo dimostra la «metafisica fantasticata», che homo non intelligendo fit omnia.
Vico, insiste de Giovanni, delinea un’altra via del moderno, e lo fa scoprendo il territorio della storia. E questo vuol dire che la verità è un farsi, con un «oltrepassamento» quindi del rapporto intellettualistico soggetto-oggetto, con tutti i problemi che questo comporta, a cominciare dall’individuazione del confine tra il preistorico e lo storico, lì dove - ed è un problema cruciale - l’umanità inizia a formare il proprio destino.
Credo che su questo punto de Giovanni abbia ragione: il “moderno” si configura come una pluralità di linee e di tensioni, di cui il paradigma “scientifico” di Cartesio, Galilei, è un aspetto essenziale, ma non esaustivo. È un discorso che si potrebbe fare allo stesso modo per Giordano Bruno, che certo è un pensatore “moderno” ma non ha niente in comune con la concezione della natura, dell’atomo, del minimo di un pensatore come Galilei. Sono molte le linee che hanno portato alla “modernità”.
Al centro di queste pagine, e qui mi pare l’elemento maggiore di novità, è l’insistenza con cui de Giovanni si misura con il problema del rapporto tra la «storia ideale eterna» e la «storia che corre in tempo», cioè tra eternità e tempo, individuato come «il nodo cruciale del pensiero di Vico». Ed è muovendo di qui che de Giovanni scrive le pagine più nuove e interessanti: «entrambe le storie», sottolinea, «stanno ambedue nelle modificazioni della Mente umana», e muovendo da questa affermazione giunge a una determinazione di questa Mente che, opponendosi all’ego cartesiano, si configura come una «realtà collettiva», «una vera potenza della prassi umana». La Mente non si risolve dunque nella coscienza, ha un campo di riferimento molto più vasto: «è piuttosto evento, accadere, realtà collettiva, vitale...».
’Vitale’, lemma centrale in de Giovanni, che, qui come sempre, ha presente come ’fonte’ della sua meditazione sul moderno le pagine di Husserl ne La crisi delle scienze europee: «la Mente», scrive, «nasce per la salvezza e la conservazione della Vita, ecco la storia ideale eterna. È la ragione collettiva, carica di infondatezza logica, che permette la nascita del mondo umano e resta dentro tutto il corso della storia umana». In conclusione, la Mente è «unità di ’storia ideale eterna’ e ’storia eterna’». È il loro rapporto che rende possibile la salvezza della Vita, salvando il finito, mantenendo insieme Logos e physis, Mente e corpo, intelligenza e natura. Una salvezza mai acquisita una volta per tutte.
E qui veniamo a un altro punto importante dell’immagine che de Giovanni presenta di Vico: afferra la crisi del suo tempo, esprimendosi anche con toni tragici, mettendo in evidenza quali possono essere gli effetti della diffusione di una filosofia come quella di Epicuro o del pensiero di Cartesio - tutto riflessione e niente storia -, o dello scetticismo che, spingendo gli uomini a chiudersi nel proprio piacere e nella propria utilità, disgrega le società, con il rischio di passare da «perfetta libertà» a una «perfetta tirannide», e finendo col fare «selve delle città» e delle «selve covili d’uomini».
Rischio sempre aperto, ieri ed oggi: lo sapeva bene Alessandro Manzoni, che nei Promessi sposi, parlando della peste, riprende il lessico, e il motivo, di Vico: «S’immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedicimila appestati... e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichio, come in ondeggiamento... Tale fu lo spettacolo che riempì a un tratto la vista di Renzo...».
San Martino, al via la mostra "Vesuvio quotidiano_Vesuvio universale"
Cento opere, dal Cinquecento a oggi, per raccontare la paura ancestrale della presenza incombente del vulcano sul paesaggio e sulla città
di laRepubblica-Napoli (06 luglio 2019) *
Fino al 29 settembre 2019 alla certosa e museo di San Martino apre al pubblico la mostra "Vesuvio quotidiano_Vesuvio universale", curata dalla direttrice del Polo museal campano Anna Imponente, in collaborazione (per la parte storica) con la direttrice del sito Rita Pastorelli.
L’esposizione raccoglie alcune delle suggestioni suscitate nel corso del tempo dalla paura ancestrale della presenza incombente del vulcano sul paesaggio e sulla città, come espressione della potenza della natura e della fragilità umana. Secondo la curatrice Imponente: “Nell’immaginario artistico la bellezza conturbante del Vesuvio è considerata simbolo tragico della catastrofe, montagna di fuoco che distrugge, ma che diventa vitale e rigeneratore”. In rassegna, un centinaio di opere dal Cinquecento ad oggi, tra cui alcune delle più significative provenienti dalle raccolte del museo accanto ad altre di collezioni pubbliche e private.
“Assieme alle testimonianze delle eruzioni del 1631, del 1754 e del 1872 - continua Anna Imponente - le opere contemporanee reinterpretano piuttosto un’ansia creativa e rigeneratrice che attraverso il tempo si traduce in prorompente vitalità. Lo "sterminator Vesevo" leopardiano (La ginestra, 3 - 1836) può infondere all’arte un flusso incomparabile di nuova energia, così come succede in natura per la fertilità della terra, alimentate entrambe da una forza cosmica in equilibrio tra distruzione e rigenerazione. Il titolo trae spunto da quello di una mostra di Stefano Di Stasio, "Vesuvio quotidiano" (San Gemini, 2016) e dal titolo del recente ritratto raccontato nel libro di Maria Pace Ottieri "Vesuvio universale". I due termini contrapposti offrono l’idea dalla terribilità di una natura incombente e di una socialità che si sviluppa per esorcizzarne il pericolo”.
Si inizia con la cartografia cinquecentesca di interesse naturalistico, fra cui la preziosa stampa di Athanasius Kircher, tratta da Mundus supterraneus (Amsterdam, 1665), che presenta la fantasiosa immagine di un Vesuvio in sezione. Il percorso della mostra prosegue poi con una sezione dedicata ad alcune fasi della “carriera” del vulcano: le eruzioni del 1631, del 1754 e le altre che si susseguirono nel Settecento, del 1872. Attorno alle raccolte storiche, con opere emblematiche come "L’Eruzione del Vesuvio del 1631" di Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro) di recentissima acquisizione, e al tema della sacra protezione, invocata per la salvezza con il settecentesco busto reliquiario di Sant’Emidio, protettore dei terremoti e dei cataclismi (Cappella del Tesoro di San Gennaro), con la raffigurazione di Castel Sant’Elmo e della certosa di San Martino, si affiancano alcune opere contemporanee.
Dall’eruzione del 1872 trae spunto una serie di immagini del paesaggio vesuviano dal vero di Giuseppe de Nittis, collocate in una sala dedicata, provenienti dalla Pinacoteca civica Giuseppe De Nittis di Barletta e da una collezione privata napoletana, tra i brani più emozionati dell’esperienza giovanile del pittore. Una selezione di dipinti tra Settecento e Ottocento viene completata dalle testimonianze artistiche di Carlo Bonavia, Pietro Fabris, Pierre Jacques Volaire, operanti al tempo del Grand Tour, che documentano le vedute “pirotecniche” del Vesuvio. Accanto ad essi opere di Tommaso Ruiz, di Antonio Joli, e altri artisti che dipingevano “all’ombra del vulcano”.
In una sala a parte sarà esposta l’"Allegoria della prosperità e delle Arti nella città di Napoli" di Paolo de Matteis, del primo Settecento, insieme a una serie di "galanterie" e servizi in porcellana della fabbrica ferdinandea caratterizzate dal tema del Vesuvio in eruzione. Per la prima volta sarà anche integralmente esposta la preziosa serie di circa cento gouache, acquerelli e stampe, consacrate all’immagine del Vesuvio, donata nel 1956 da Aldo Caselli (mecenate e erudito e docente universitario), fra cui tre tavole tratte dal volume di William Hamilton, ambasciatore presso la corte di re Ferdinando IV di Borbone: i "Campi Phlegraei: observations on the volcanos of the Two Sicilies", Londra 1776-1779. Il volume, con tavole di Pietro Fabris, proveniente dalla Biblioteca Nazionale Vittorio Emauele III di Napoli, sarà anch’esso esposto in mostra.
In dialogo con le opere antiche saranno in mostra 50 opere moderne e contemporanee: le terrecotte smaltate di Leoncillo Leonardi, della fine degli anni Cinquanta, in cui il gesto artistico impresso alla materia argillosa acquista una scabra plasticità informale; la combustione di Alberto Burri "Tutto nero" (1956) che rimanda alle fratture e alle bruciature della terra; il ritratto "Vesuvius" (1985) di Andy Warhol che ritrae il vulcano “più grande del mito, una cosa terribilmente reale”; il "Senza titolo" (1996) di Jannis Kounellis in ci l’elemento del carbone concretizza la naturalità della materia povera; il dipinto Odi navali (1997) di Anselm Kiefer, contaminato da piombo agglomerato e bruciature, raffigurazione epica della sofferenza umana.
Nel cortile di ingresso fanno da introduzione alla mostra le due sculture di Bizhan Bassiri (2006) "Meteoriti" nel cortile, installazione completata da "Evaporazione rossa" (2013), una sorta di astro solenne che domina la navata della Chiesa monumentale. Le sculture di Anna Maria Maiolino artista italiana che lavora in Brasile, sono portatrici di un’energia esplosiva capace di modificare la materia del cemento e del raku. La mostra prosegue con le opere di Claudio Palmieri, le cui forme ceramiche contengono il flusso lavico che esplode invece sui dipinti; la scultura di Roberto Sironi fa parte della serie "Fuoco", composta da calchi in bronzo di tronchi o rami d’albero bruciati trovati in natura; nelle grandi carte Adele Lotito si serve della evanescenza e della trasparenza del fumo per misurare e disvelare presenza e assenza; in "Inferno" (2018) l’artista belga Caragh Thuring trae ispirazione dalle antiche gouache napoletane, traducendole in una pittura pastosa con le silhouette sulla cima del Vesuvio, eredi della poetica del sublime. I dipinti di Stefano Di Stasio rispecchiano il suo stile tra simboli e metafore, affiorante dal mondo dell’inconscio e dell’onirico; le tempere su tela del napoletano Oreste Zevola riprendono in forme archetipiche e primitive le figure di santi e di sirene, di teschi e di vulcani fluttuanti nello spazio, legate all’immaginario popolare; nelle Geografie Temporali (2019) di Sophie Ko, artista georgiana che lavora a Milano, il pigmento si mescola alla cenere creando paesaggi mutevoli.
L’esposizione è arricchita dalle foto di Antonio Biasiucci, maestro degli scatti sui vulcani attivi in Italia e del Vesuvio in particolare, di Giovanni De Angelis, che con "Volcano" rimanda al cratere come simbolo di improvvisi cambiamenti, di Maurizio Esposito, che documenta i roghi che nel 2017 hanno devastato il Parco nazionale del Vesuvio, e una “cartolina” di Riccarda Rodinò di Miglione, un gioco di riflessi nelle acque del Golfo e dalla installazione di art sound di Piero Mottola. Lungo il percorso della mostra, in un piccolo ambiente, sarà proiettato il cortometraggio di Maya Schweizer, “Insolite” (2019), realizzato con il sostegno del Goethe Institute: una suggestiva sequenza di immagini del Vesuvio attuali in dialogo con quelle dell’ultima eruzione avvenuta nel 1944, senza alcun nesso narrativo, ma immaginifica ed emozionante.
Per il finissage, venerdì 27 settembre, sarà presentato il catalogo della mostra, edito da Arte-m, con testi di Anna Imponente, Bruno Corà, Fernanda Capobianco, Ileana Creazzo, Luisa Martorelli, Rita Pastorelli, Annalisa Porzio e contributi di Maria Pace Ottieri e Silvio Perrella. Nella stessa occasione saranno riaperti al pubblico i Sotterranei gotici, misterioso ventre della Certosa, che racconta la storia della sua fondazione, simbolico “cratere” del complesso certosino, da cui affiorano i capolavori che questo conserva. A conclusione della presentazione del catalogo sarà proiettato “Sul vulcano”, il film documentario di Gianfranco Pannone.
La mostra è organizzata dal Polo museale della Campania con Scabec, col sostegno dell’Associazione Amici di Capodimonte e dell’Associazione Metamorfosi.
Orario d’ingresso, tutti i giorni (tranne il mercoledì) dalle 9.30 alle 17. Biglietto 6 euro.
STORIA E MEMORIA: DANTE, MAZZINI, E L’ITALIA - OGGI ...
RICORDANDO CHE il “DELL’AMOR PATRIO DI DANTE” è del 1826 (e non, ovviamente, del 1926), a omaggio del lavoro dell’Autore e della Redazione della Fondazione (si cfr.: Maurizio Nocera, "Giuseppe Mazzini e i Mazziniani salentini", Fondazione "Terra d’Otranto", 04.12.2018), RICHIAMO l’avvio del memorabile articolo di Giuseppe Mazzini:
"Quando le lettere formavan, come debbono, parte delle istituzioni, che reggevano i popoli, e non si consideravano ancora come conforto, bensí com’utile ministero, fu detto il poeta non essere un accozzatore di sillabe metriche, ma un uomo libero, spirato dai Numi a mostrare agli uomini la verità sotto il velo dell’allegoria; e gli antichi finsero le Muse castissime vergini, e abitatrici dei monti, perché i poeti imparassero a non prostituire le loro cetre a possanza terrestre.
Ne’ bei secoli della Grecia, i poeti, non immemori della loro sublime destinazione, consecravano il loro genio all’utile della patria; ed altri, comeTeognide, spargevano tra’ loro concittadini i dettati della saggezza; altri, come Solone, racchiudevano ne’ loro poemi le leggi, che fanno dolce il viver sociale; altri, come Pindaro e Omero, eternavano i trionfi patrii; altri, come Esiodo,consegnavano ne’ loro versi i misteri, e le allegorie religiose. - Cosí santissimo uffizio affidava la patria ai poeti, l’educazione della gioventú al rispetto delle leggi religiose e civili, e all’amore della libertà; e finché l’inno d’Armodio, e le canzoni d’Alceo suonarono sulle labra dei giovani Greci, non paventarono né tirannide domestica, né giogo straniero.
Ma, come la civiltà degenerata in corruttela, i guasti costumi, il lusso, e il tempo distruggitore d’ogni buona cosa, ebbero inchinata la mente degli uomini alla servitú, e la prepotenza de’ pochi giganteggiò sulla sommessione abbiettade’ molti, la poesia tralignò anch’essa dalla sua prima indipendenza, si trafficaron gli ingegni, e furono compri da chi sperava, che il suonar delle cetre soffocasse il lamento dell’umanità conculcata; la poesia divenne l’arte di lusingare la credulità, e la intemperanza dei popoli; attizzò all’ire e alle voluttà i tiranni, e si fe’ maestra spesso di corruttela, quasi sempre d’inezie [...]" -(cfr. Giuseppe Mazzini, "Dell’Amor Patrio di Dante").
SUL TEMA “Dante, - oggi”, mi sia consentito, si cfr.: DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE. Per una rilettura del “De Vulgari Eloquentia” e della “Monarchia”
Federico La Sala
Storiografia in crisi d’identità ...
LO SPIRITO E L’OSSO storia, immaginario, filosofia e psicoanalisi
L’analogia armata del Califfato. Parole e conflitti retorici
di Fabio Milazzo*
Sgozzature, lapidazioni, defenestrazioni, crocifissioni, esecuzioni di donne, bambini e anziani, come forma di disciplinamento di massa alle "quali assistono folle intere, mentre fanno acquisti o nel bel mezzo del traffico di tutti i giorni" (p. 10). Tra tanti segni di barbarie, gli omicidi ritualizzati e "scenarizzati" a fini di propaganda, forse, rappresentano l’elemento che più di tutti ha colpito l’immaginario dell’Occidentale, quello che si confronta con ciò che Slavoj Žižek definisce l’orrore del Reale insimbolizzabile. Un orrore incomprensibile che, proprio per questo, scatena sterili reazioni di diniego e ingenui tentativi di reductio ad absurdum. Si invoca l’analfabetismo culturale e politico, l’idiozia gutturale sottolineata "dalle grida dei selvaggi" (p. 10), si riporta tutto alla miseria psico-sociale di chi, nato e cresciuto in una condizione di cieca disperazione, regredirebbe alla condizione animale (avete mai visto animali uccidere ritualmente?). Ma siamo così sicuri che oltre lo sconcerto ci sia solo il confronto con un mondo-barbaro da cui crediamo esserci emancipati?
Non è che semplicemente ci stiamo rapportando con un mondo che utilizza logiche espressive - e quindi modelli mentali - troppo diversi dai nostri per poterli ridurre alle comode e rassicuranti coordinate che danno forma al mondo sorto dall’Illuminismo?
Questi interrogativi tengono in piedi il libro di P.-J. Salazar "Paroles Armées. Comprendre et Combattre la Propagande Terroriste, appena tradotto in Italia per Bompiani. Lo dico subito: quello di Salazar è un grande libro che ha il coraggio di non abbandonarsi ai toni ideologici della maggior parte delle ermeneutiche in circolazione e, senza girarci intorno, chiarisce la posta in gioco dello scontro con l’Is: la retorica.
Continuare a ripetere che le ragioni dello scontro sono (innanzitutto) economiche, legate all’arretratezza dell’Islam o effetti residuali del colonialismo, non consente di focalizzare quella che possiamo chiamare l’oscena fantasia che tiene in piedi le narrazioni in campo. Ci sono visioni del mondo - quindi modi di usare le parole per costruire le storie che riempiono l’immaginario - totalmente diverse tra l’Occidente logocentrico e questo Islam tanto violento quanto retoricamente eccessivo e dallo stile figurato.
Precisiamo che le dicotomie, i "noi" e i "loro", ovviamente, non hanno ragion d’essere alla luce di una microfisica psico-sociale in grado di evidenziare la contingenza e l’irriducibile valore differenziale delle soggettività, ma mostrano il loro valore nel momento in cui si ha a che fare con il campo dell’immaginario di gruppo, con quei quadri-mentali-collettivi[2] su cui tanto si sono dibattuti gli storici novecenteschi delle Annales[3]. Quadri riconosciuti dallo stesso Lacan con la definizione di "mentalità". D’altra parte il parlante è sempre immerso nel proprio involucro immaginario, fatto di parole che organizzano sia le rappresentazioni, sia il senso attraverso cui fa esperienza del mondo. Non si capisce perché questa considerazione - neanche troppo originale oggi - non debba valere per le collettività, per mondi e nicchie-antropologiche che prendono forma entro coordinate storico-discorsive contraddistinte da una condivisione retorica di fondo molto forte.
In quest’ottica, non comprendere la mentalità dei terroristi, ridurla ad epifenomeno di cause economiche e materiali, significa operare con un perverso rasoio irriflesso in nome del riduzionismo più becero e ingenuo. Salazar lo sottolinea a più riprese, evidenziando quanto il problema dello scontro con l’Isis riguardi l’incomunicabilità di mondi che usano forme discorsive diverse.
"C’è - ci dice - una logica dietro i discorsi del Califfato, che sembrano presentare uno scarto rispetto a ciò che noi consideriamo logico, ragionevole e persuasivo in politica. Una logica di altro genere [...] che possiede, oltre alla professione di fede e alla sua forza evocativa poetica un rigore dialettico. Il rigore del ragionamento per analogia" (p. 14).
Soprattutto queste ultime parole fanno venire voglia di riprendere in mano un gigante del pensiero come Enzo Melandri che nel suo «La linea e il circolo»[4] lungamente si è espresso sulle peculiarità di questo procedimento discorsivo. Si tratta di fare fino in fondo i conti con uno stile retorico-espressivo, ma anche con modelli di pensiero, che solo a fatica possono essere ricondotti "al sistema logico dei ragionamenti scientifici o razionali" (p.13). Se l’Europa ha messo al bando (salvo riconoscergli un ruolo osceno) la poetica e la retorica, separandole nettamente dal ragionamento logico e dalle argomentazioni scientifiche, così non è accaduto nel mondo islamico in cui "uno slancio lirico" vale come argomento e prova logica. -Facciamocene una ragione.
Siamo dunque condannati all’incomunicabilità e all’impossibilità del dialogo? Salazar non è così pessimista e lo dice bene in questa intervista:
«Se le armi non bastano, come possiamo contrastare il Califfato? Con l’istruzione. Dobbiamo educare una popolazione, quella europea, che vive di luoghi comuni. [...] Gli allievi europei non studiano bene la storia e la geografia. Di conseguenza, il vecchio continente si ritrova con una marcia in meno rispetto al Califfato che invece mette in mostra una notevole cultura, coltiva i grandi testi non solo religosi, cita i filosofi, recita poesie e canta inni. L’Europa mette in mostra una tecnologia che le si ritorce contro e nel frattempo vive un deficit culturale»[5].
Per inciso, la scuola - e il suo valore formativo - trova in queste dichiarazioni spazi inediti di possibile affermazione e rivalutazione in un periodo di profonda crisi in atto. Ma questo è un altro discorso.
Il libro di Salazar non si limita soltanto ad evidenziare quanto sia scorretto, oltre che inutile, cercare di imporre la logica argomentativa sviluppatasi dopo la rivoluzione scientifica come chiave di lettura per decifrare l’orrore del Califfato, ma sottolinea anche quanto siano falsate - e ingenue - le ermeneutiche che riducono il fenomeno jihadista a semplice effetto sovrastrutturale, a conseguenza di una subordinazione economica, da parte del mondo musulmano, insostenibile nell’epoca della colonizzazione mediatica.
Questa tesi, più o meno argomentata, è inconsistente se consideriamo quanto il proselitismo del Califfato interessi anche (soprattutto?) persone istruite che sembrano essere alla ricerca di valori chiari e di ideali da difendere, piuttosto che il riscatto economico, centrale invece per l’immaginario collettivo Occidentale.
Non «considerare - ci dice l’Autore - il jihadismo come qualcosa di diverso da una patologia di imbecilli» (p.70) è una «cantonata» fondamentale, tipica di una società incapace di relazionarsi con l’Altro - per dirla con Lacan - senza ridurlo all’altro - delle proiezioni narcisistiche. I video e i periodici dei jihadisti dell’Isis, invece, sono pensati «per giovani intelligenti e istruiti, beneficiari di un buon capitale culturale e materiale, lettori attenti alla ricerca di argomenti solidi (anche se in ordine ad una teoria dell’argomentazione diversa dalla “nostra”) e di idee sviluppate con cura» (p.71).
Non deve così sorprendere - né essere considerata una eccezione - che le «tre brillanti liceali inglesi passate al Califfato [...] e il giovane medico australiano che è andato a esercitare il suo mestiere là dove lo hanno portato le sue convinzioni» (p.71) appartengano a quell’universo di gente istruita, che è andata a scuola e si è magari laureata, che le teorie del sottosviluppo economico come molla per l’adesione agli ideali dell’Isis dovrebbero non contemplare.
Invece ecco che si palesa un dato: la propaganda del Califfato si rivolge a persone «animate da un desiderio meditato» (p.71) di martirio. Per quanta fatica si faccia ad accettare questo elemento, questo ci dicono i dati a nostra disposizione e negarli, o cercare spiegazioni poco convincenti e contorte per giustificare una tesi postulata per principio è non soltanto epistemologicamente scorretto ma anche intrinsecamente contraddittorio.
Ma allora «come rispondere a tutto questo? Banalizzando il fenomeno - ci dice Salazar-: facendo circolare quelle riviste [del Califfato] nelle scuole, prendendone spunto per analisi del testo e decostruzioni radicali [...] per ridurre a poca cosa quei documenti materiali attraverso prove argomentate di linguaggio, grazie a ciò che la tradizione culturale francese sa fare meglio. Pensare in modo chiaro e distinto» (p.100). Si tratta cioè di non rifiutare il confronto, di non giocare sulla difensiva ma di contrattaccare retoricamente. E, in tale ottica, la risposta più intelligente che possiamo dare è quella di costruire narrazioni convincenti, basate su argomenti solidi, in grado di convincere quei giovani che sono tentati di abbracciare l’idea mortifera del Califfato di quanto l’intenzione sia una scelta da vicolo cieco. Contro-narrazioni in grado di decostruire la propaganda jihadista e di offrire valide alternative teoriche innanzitutto. Continuare a ripetere lo stanco e logoro mantra dell’arretratezza culturale, figlia del sottosviluppo economico, è controproducente, inutile e scioccamente supponente, anche se di una supponenza perversa, tipica di chi non riconosce effettiva autonomia di pensiero all’Altro ma, implicitamente, lo considera incapace di processi simbolici autonomi e, quindi, di scelte etiche libere. Lo dice con chiarezza Salazar:
«Che si conduca o meno un’offensiva militare effettiva sul campo del Califfato, bisogna ripensare i termini retorici di questo eventuale impegno e ammettere che lo scontro comincia con una guerra retorica in cui l’avversario controlla una panoplia omogenea che va dall’ingiunzione all’analogia, passando per un’arte oratoria convincente e sostenuta dalla potente logica di un legalismo imperativo. [...] Bisognerà pensare islamico, parlare islamico, argomentare islamico. Mettersi alla portata retorica dell’avversario» (p.19).
Mettersi alla portata retorica dell’avversario significa anche considerarlo come tale, nel suo essere radicale differenza, alterità da prendere come tale, anche quando si serve, ragiona e giudica attraverso una forma argomentativa - quella analogica - che alle nostre orecchie stupisce e ci appare «perversa o delirante» (p. 14). «L’analogia è il quarto fondamento del ragionamento giuridico» (p.15) islamico, che vuol dire che attraverso l’analisi di un esempio tratto dalla Tradizione si procede all’emissione di un parere giuridico (fatwa) vincolante. Anche le condanne a morte, che tanto orrore provocano a Occidente, vengono inflitte su questa base logica. Possiamo davvero pensare di confrontarci con questo mondo senza aver adeguatamente sviluppato le conseguenze teoriche ed etiche di ciò? «Utilizzando le analogie nella sua propaganda - ci dice Salazar-, la politica jihadista si nutre quindi di un’atmosfera retorica che ci sembra strana o irrazionale [...], che però costituisce una forma politica di interpretazione delle cose, potente e generale» (p.16). Improntare una guerra-retorica per decostruire la propaganda dell’avversario, significa dunque, innanzitutto, «ripensare i termini retorici» (p. 19) di questo scontro e non sottovalutarne la portata performativa.
In definitiva la lezione di questo libro riguarda il fatto che c’è una "potenza oratoria e persuasiva" (p.8) assolutamente incomprensibile per i canoni logocentrici delle "nostre orecchie" abituati a concatenamenti logici di causa ed effetto e fintanto che non riusciremo a misurarne il peso e il valore saremo "disarmati", teoricamente innanzitutto. Prendere confidenza, conoscere, valutare "una logica di altro genere"(p.14), e i fantasmi (dell’inconscio collettivo) che la incorniciano, è quindi il passo necessario per evitare quella forma di etnocentrismo culturale da cui riteniamo di esserci vaccinati ma che, in forma perversa, rischia di vanificare le nostre interpretazioni e, quindi, le strategie per combattere la propaganda del Califfato.
[1] Cfr. P.-J. Salazar “Parole armate” di Salazar: ecco la cultura del Califfato che sottovalutiamo in «Io Donna- Corriere della Sera», 22 Gennaio 2016, http://www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2016/01/22/philippe-joseph-salazar-parole-armate-il-califfato-lo-si-combatte-con-la-cultura-e-le-minacce-a-roma-sono-serie/
[2] Cfr. P. Corrao, Storia della Mentalità in «Studi culturali», http://www.studiculturali.it/dizionario/lemmi/storia_delle_mentalita.html
[3] Cfr. Voce «Annales» in Treccani.it, http://www.treccani.it/enciclopedia/annales/
[4] Cfr. E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia (1968), Quodlibet, Macerata 2004
[5] Cfr. P.-J. Salazar “Parole armate” di Salazar: ecco la cultura del Califfato che sottovalutiamo...cit.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA. Storiografia in crisi d’identità:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura (pdf, scaricabile)
PAROLA DI VICO. SULLA MODERNITÀ DI CARTESIO, RICREDIAMOCI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
GREGORIO MESSERE *:
Gregorio Messere, indicato anche come Missere o Messerio (Torre Santa Susanna, 15 novembre 1636 - Napoli, 19 febbraio 1708), è stato un filosofo, poeta, filologo e grecista italiano.(...)
L’aver ripristinato l’insegnamento della lingua greca in Napoli valse al Messere non solo il titolo di “ristoratore della greca erudizione”, ma contribuì alla ripresa dello studio di Omero, influenzandone il pensiero poetico e filosofico del tempo. Notevole fu l’influenza che egli ebbe sulla formazione del pensiero del Gravina.
Essenziale nella vita culturale di Gregorio Messere fu anche l’amicizia con Giuseppe Valletta, suo allievo. La conoscenza che Gregorio Messere aveva della filosofia fu ugualmente vasta tanto che gli valse l’appellativo di “novello Socrate” e quando si riferivano a lui veniva anche chiamato il “Socrate dei nostri tempi”.
La grande conoscenza della lingua greca gli conferì grande notorietà nonché una cattedra di Lett[erat]ura Greca, che mantenne fino all’anno della morte, presso l’Università degli studi di Napoli.
Tale cattedra, soppressa probabilmente nel 1627, era stata nuovamente istituita nel 1681 a spese di Giuseppe Valletta, filosofo, letterato e giureconsulto dell’epoca ed amico del Messere. Valletta aveva una profonda stima per il Messere, il quale fu assiduo frequentatore della sua casa non solo quale insegnante dei suoi figli e nipoti, ma anche perché divenuta luogo di riunioni dei più eruditi intellettuali del tempo.
Fra i suoi molti allievi che assistevano alle sue lezioni, ne ebbe alcuni divenuti celebri, si annoverano Gennaro d’Andrea, Antonio Barra, Gregorio Caloprese, Gianvincenzo Gravina, lo stesso Giuseppe Valletta, Niccolò Capasso, Andrea Mazzarella da Cerreto, Matteo Egizio, Tommaso Donzelli ed altri.
Morì nel 1708, ai suoi funerali parteciparono tutti i professori dell’Università e altri illustri personaggi; fu sepolto nella cappella dove riposano le ceneri del letterato Giovanni Pontano. Giambattista Vico, noto filosofo suo amico, gli dedicò un breve madrigale dal titolo Ghirlanda di timo per Argeo Caraconasio (...).
Il mondo culturale napoletano della seconda metà del ’600 fu caratterizzato da importanti innovazioni a livello filosofico, scientifico, civile e politico. Tale fervore culturale aprì la strada alla nascita di un numero notevole di accademie, che divennero luoghi di discussione aperta e di diffusione di nuove idee filosofiche e scientifiche.
A Napoli le principali accademie del tempo furono soprattutto quella degli Investiganti e quella di Medinaceli. Che il Messere sia stato membro autorevole di entrambe le accademie e frequentatore di circoli e salotti letterari napoletani è testimoniato da non pochi documenti, tra cui manoscritti e altri a stampa conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli; le sue lezioni ebbero un così folto seguito di giovani tanto da far suscitare invidie fra i letterati fanatici dell’erudizione i quali, a furia di schernirlo per la sua ellenofilia, diffusero in Napoli addirittura la moda letteraria della macchietta dello pseudogrecista, satireggiata pure dal Vico nella terza Orazione inaugurale.
Fu anche tra i primi membri dell’Arcadia fondata dal Crescimbeni e dal Gravina, ove gli fu attribuito il nome pastorale greco di Argeo Coraconasio, “dalle campagne dell’isola Coraconaso”. Nel 1703 fu fondata a Napoli la Colonia “Sebezia” dell’Arcadia e anche qui il Messere fu tra i primi iscritti.
* Wikipedia. (ripresa parziale - senza note).
MATERIALI DELLA "FONDAZIONE TERRA D’OTRANTO":
"La famiglia di Giambattista Vico" *
Aggiungere un ulteriore e fondamentale tassello alla conoscenza della biografia di Giambattista Vico, in particolare della sua famiglia, come fa in questo volume Antonio Illibato, può essere considerato un piccolo tributo reso a tale grande pensatore napoletano purtroppo non valutato adeguatamente alla sua epoca.
E’ ben nota, infatti, la vicenda personale di Vico, il quale, pubblicata per la prima volta la sua opera più importante, la Scienza Nuova, ebbe la netta impressione di averlo fatto non in una grande città, bensì in un deserto, come scrisse in una lettera a un amico nel 1725.
Coloro ai quali aveva inviato l’opera, come egli stesso riferisce, incontrandolo facevano finta di niente, non accennavano minimamente al fatto di averla ricevuta e non gli dicevano nemmeno una parola su di essa.
Una sorta di ‘congiura del silenzio’. In realtà, tutti avevano letto e compreso la sua posizione controcorrente: aver rivalutato la storia come scienza, anzi come ‘scienza nuova’, in polemica con Cartesio per il quale essa era una pseudoscienza.
Vico apriva gli occhi dei suoi contemporanei, saldamente ancorati alla filosofia cartesiana, un non allineato alla mentalità dominante, secondo la quale la vera conoscenza era di carattere fisico-matematico.
Il mondo, ossia la res extensa, quale obiectum dell’attività conoscitiva della res cogitans, può essere investigato con l’unico linguaggio, quello della matematica, che possiede caratteristiche tali da non essere soggetto alla dimensione qualitativa, bensì esclusivamente a quella quantitativa.
Non per nulla il filosofo francese, partendo dal cogito e non fidandosi dei sensi perché ritenuti fallaci, deve dimostrare che esiste la res extensa, la quale, in quanto tale, è puramente quantitativa.
Nel secolo dei Lumi la reazione di Vico non poteva trovare plauso, giacchè egli ebbe l’ardire di sostenere che non la storia, ma il mondo fisico non può essere conosciuto dall’uomo.
La storia, infatti, è costruita dall’umanità, mentre del mondo fisico è creatore Dio, il quale è l’unico che ne possiede la perfetta cognizione. Non poteva esserci antitesi più evidente al pensiero cartesiano.
* Antonio Illibato, Nuovo Monitore Napoletano, 10 Novembre 2016, PDF.
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE:
Perché Croce piace all’estero ma non è profeta in patria
A Napoli un convegno sulla sua grande fortuna internazionale conferma la necessità di riscoprirne il valore anche qui in Italia
di Roberto Esposito (la Repubblica, 22.09.2016)
La figura di Benedetto Croce ha spesso diviso i pareri, ponendo più di un interrogativo sul suo posto all’interno della filosofia moderna. Qualcuno, con qualche eccesso, si è spinto a parlare di un mistero di nome Croce. Come conciliare, ci si chiede, un profilo teoretico non troppo netto, più da grande intellettuale che da filosofo vero e proprio, con il suo crescente successo internazionale? Perché su quest’ultimo non vi sono dubbi. Basta scorrere il programma del Convegno di Napoli in programma oggi e domani presso l’Istituto di studi storici - organizzato dalla Fondazione che porta il suo nome, inaugurato questa mattina dal presidente Sergio Mattarella, e intitolato appunto La diffusione internazionale dell’opera di Benedetto Croce - per averne conferma.
Dall’Inghilterra alla Germania, dagli Usa al Canada, dalla Cina al Giappone, l’opera di Croce è oggetto di un interesse che non ha uguali, forse con l’eccezione di Gramsci, nel panorama italiano del ’900. Né si tratta di una scoperta recente. Il suo Breviario di estetica elabora una serie di lezioni tenute nel 1912 al Rice Institute di Huston. Come Aesthetica in nuce è lo sviluppo della voce Estetica scritta per l’Encyclopaedia Britannica, con Bohr e Einstein.
A cosa addebitare tale travolgente successo per un autore così lontano dai canoni della filosofia contemporanea - per intenderci, da Husserl e Heidegger, Wittgenstein e Bergson, Sartre e Adorno?
La risposta va cercata in una duplice direzione, come dimostrano due vaste sillogi appena pubblicate, Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, a cura di Michele Ciliberto per l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, e Lessico crociano. Un breviario filosofico- politico per il futuro, a cura di Rosalia Peluso per La Scuola di Pitagora.
Intanto Croce strinse una serie di relazioni con i maggiori intellettuali del tempo, da Sorel a Vossler, a Collingwood, che diffusero la sua opera in Europa. Stimata da personaggi del calibro di Weber, Meinecke, Dewey, Ortega e Zambrano.
Già al centro del dibattito europeo sul marxismo e la sua crisi, la sua figura crebbe durante la prima guerra mondiale, quando rifiutò ogni atteggiamento grettamente nazionalistico. E poi, ancora di più, quando assunse il ruolo di capo dell’opposizione morale al fascismo. Ma anche dopo la seconda guerra, egli si situa allo stesso livello di grandi autori liberali quali Aron, Popper, Berlin, come ricorda Corrado Ocone nel recente Il liberalismo del ‘ 900. Da Croce a Berlin (Rubettino).
E allora? Da dove nasce quest’aria di sufficienza nei suoi confronti? Da un lato dal rovesciamento speculare del provincialismo patriottico che certamente ha caratterizzato il Ventennio italiano in una sorta di pregiudizio antitaliano che ha portato alla liquidazione della nostra cultura filosofica primonovecentesca, catalogata come neo-idealismo. Dall’altro dalla marcata eterogeneità del lessico concettuale crociano rispetto alle scuole filosofiche più in voga - fenomenologica, esistenzialista, analitica. Alcuni dei problemi sono comuni, ma il linguaggio, la prospettiva, la tonalità di Croce sono molto diversi.
Ma - ecco il punto - è sicuro che tale diversità spinga il filosofo italiano all’indietro? Dipende naturalmente da cosa s’intende per filosofia. Se le si assegna una connotazione logica, analitica o metafisica, con un alto tasso di gergo specialistico. O se la si considera affacciata sul “fuori”, a contatto con la politica, la storia, la vita - come è del resto tipico dell’intero pensiero italiano.
Quando Croce scrive, in polemica con “i filosofi puri” che «la filosofia ha sempre l’origine sua nel moto della vita» e che essa «non può risolvere che i problemi che la vita le propone», intende rompere lo steccato che spesso rinchiude il sapere filosofico entro confini autoreferenziali.
Certo, Croce non avvertì che l’epoca moderna volgeva rapidamente al tramonto. Cercò ancora in essa le chiavi per arrestarne la deriva. E questo non può che allontanarlo da noi, ormai irrimediabilmente postmoderni. Ma, ben lontano dall’abito distaccato e curiale che gli è stato cucito addosso, egli colse con intensità, e talvolta disperazione, i drammi del proprio tempo, cercando, fino all’ultimo, di fronteggiarli.
Benedetto Croce «globale»: un convegno a Napoli poi il seminario in Giappone *
Dopo il convegno che si tiene oggi e domani a Napoli presso l’Istituto italiano per gli studi storici, sarà ancora più difficile bollare l’idealismo di Benedetto Croce (1866-1952) come un pensiero provinciale. L’incontro, organizzato dalla Fondazione Biblioteca Benedetto Croce a 150 anni dalla nascita del filosofo, riguarda la diffusione internazionale della sua opera e vi partecipano relatori da tutto il mondo: Paesi anglosassoni, Francia, Europa orientale, America Latina, Cina, Giap-pone.
«Croce - osserva Piero Craveri, presidente della Fondazione - aveva intessuto una fitta rete europea di rapporti, i cui riflessi si avvertivano anche in Asia: la prima traduzione in cinese della sua Estetica è del 1937». E ora a Pechino l’interesse è rifiorito: dal 2000 in poi sono state pubblicate sette opere di Croce.
Il convegno di Napoli, che si apre oggi alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella con una relazione di Giuseppe Galasso, è stato preceduto in maggio da un appuntamento tenuto a Mosca e sarà seguito (il 10 ottobre) da un incontro a Kyoto . «Tanta attenzione - commenta Craveri - deriva dal fatto che Croce è un antidoto alla barbarie. Dinanzi a fondamentalismi, nazionalismi, populismi, c’è bisogno di riscoprire la sua religione della libertà».
* Corriere della Sera, 22.09.2016
PAESTUM, GIAMBATTISTA VICO, E L’EGITTO. LA "CITAZIONE" DI GABRIEL ZUCHTRIEGEL:
"Paestum e l’Egitto":
(Museo Egizio di Torino, “Il Nilo a Pompei. Visioni d’Egitto nel mondo romano”)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
Il caso Cesare Beccaria
di Vincenzo Ferrone (Il Sole-24 ore, Domenica, 24 luglio 2016)
Cesare Beccaria ha certamente cambiato il nostro modo di pensare il diritto di punire, la stessa idea di giustizia, ponendo al centro della sua riflessione la difesa dell’uomo dall’uomo, in particolare dal cosiddetto homo necans, l’uomo che uccide per un ideale superiore. Risulta impressionante constatare il numero dei convegni che si sono svolti in Italia e all’estero in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione del Dei delitti e delle pene. Perché tanto clamore e coinvolgimento emotivo? Perché quelle pagine così ricche e appassionate si rivelano ancora moderne ed efficaci nella loro requisitoria contro la pena di morte, ma anche capaci di irritare tanti lettori nel mondo dei giuristi? Quanto conta l’estraneità di Beccaria a quel mondo, storicamente incline a concepirsi più o meno consapevolmente come corporazione, sensibile a una concezione del diritto come scienza ontologicamente autonoma, talvolta persino tempio dei sacerdotes juris e dei loro impenetrabili arcana?
Il fatto è che ancora troppi dei nostri studenti di giurisprudenza e più in generale tanti operatori di giustizia ignorano le pagine del Dei delitti e delle pene, o il più delle volte ne commentano con sufficienza le tesi, in parte a causa di una storiografia giuridica antilluminista che resta egemone nelle università italiane.
«Beccaria non è un vero giurista!» Quante volte questa frase perentoria ha concluso ogni discussione sul contenuto autentico di quel volumetto? Dopo la sua condanna all’oblio sancita dalla Restaurazione accadde che, nei primi decenni del Novecento, studiosi autorevoli come Arturo Rocco e Vincenzo Manzini ne certificassero l’estraneità alla corrente dei fautori dell’indirizzo tecnico-giuridico e della purezza scientifica del diritto positivo. Tale pregiudizio, legato a un’idea tutta formalistica di diritto, permane inossidabile.
Il vero punto dolente resta però soprattutto la poca simpatia che continua a correre tra l’illuminista milanese, considerato una sorta di padre spirituale dei cosiddetti garantisti, e il mondo dei giudici. Il contrasto, che nacque già all’indomani della pubblicazione del volume, non pare destinato ad attenuarsi. Al centro del contenzioso resta il problema interpretativo della norma. Il contenuto del celebre paragrafo IV, Interpretazione della legge, scritto nel nome dei diritti della persona e del principio di legalità e contro l’arbitrio e il dispotismo di settori della magistratura, continua infatti a essere decontestualizzato.
L’obiettivo è sempre quello di far apparire Beccaria un ingenuo e astratto incompetente che non conosceva il difficile mestiere del giudice, cui da sempre è connaturata una qualche forma di interpretatio. E invece quel capitolo va letto per intero, storicizzato senza anacronismi e semplificazioni, in quanto esso disegna un modello limite, un orizzonte di riferimento, e soprattutto pone per la prima volta un grande problema storico e giuridico, un problema cruciale con cui continuiamo e continueremo a fare i conti in futuro.
Quel paragrafo apriva infatti una stagione nuova nella storia del diritto in Occidente, allorché l’antica figura del giudice era chiamata a mutare mentalità e profilo professionale, a confrontarsi con un’idea di legge conseguente al declino del cosiddetto «governo degli uomini» e alla nascita del moderno «governo delle leggi», del nuovo spirito repubblicano e democratico-rappresentativo voluto dagli illuministi.
«Chi sarà dunque il legittimo interprete della legge? - si chiedeva Beccaria - Il sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di tutti o il giudice, il cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un’azione contraria alle leggi?». La secca risposta a favore del legislatore andrebbe valutata nel suo significato autentico, che prevedeva la presa di distanza dall’antica concezione del diritto elaborata dal medioevo, dalla visione sacrale di un magistrato ermeneuta e di una legge, estranea alla volontà umana, da riconoscere nel fluire della realtà storica secondo un’antica modalità che dava di fatto un potere enorme ai sacerdotes juris.
Chi ha compreso con acutezza la vera posta in gioco in quel testo è stato Paolo Grossi, maestro della storiografia giuridica italiana. Non a caso egli ha fatto delle pagine scritte da Beccaria sul tema fondamentale dell’interpretazione un punto decisivo della sua implacabile requisitoria contro le «mitologie giuridiche della modernità», e in particolare contro la «legolatria illuministica», colpevole di aver liquidato l’antica dimensione sapienziale del diritto maturata nel medioevo. Una perdita che «non vuol dire soltanto la sottrazione del diritto a un ceto di competenti, i giuristi, siano essi maestri teorici o giudici applicatori, ma la perdita del suo carattere òntico, del diritto come fisiologia della società, da scoprire e leggere nella realtà cosmica e sociale e tradurre in regole».
L’Illuminismo e la sua politica del diritto centrata sul governo della legge rappresentano dunque per Grossi il momento di rottura che porta verso la così poco amata modernità giuridica, ossia l’approdo di un lungo processo di trasformazione del diritto come fatto sociale avviato nel Trecento con l’emergere dell’individualismo moderno contro il comunitarismo e il corporativismo medievale. Ecco che con i Lumi arriva la vittoria della sovranità del principe e dello Stato assoluto, decisi a ridurre il diritto alla sola legge imposta autoritariamente dall’alto grazie all’influenza di miti come lo stato di natura, la geometrica eguaglianza degli individui, il contratto sociale.
Va detto con chiarezza che - al di là dei giudizi di valore che si possono esprimere a favore o contro la modernità giuridica - la serrata ricostruzione storica di Grossi circa la genesi di quel nuovo modo di pensare il diritto è per larghi tratti condivisibile. E tuttavia è difficile non individuare punti critici nella sua caratterizzazione della cultura giuridica dell’Illuminismo quale premessa del moderno positivismo giuridico kelseniano.
Allo stato attuale della ricerca storiografica, ad esempio, il persistente riferimento a una «mistica della legge» imposta come una sorta di filo rosso alla modernità giuridica da parte degli illuministi non regge alla prova dei fatti. A ben vedere, quella tesi che ha fatto di questi ultimi i veri ispiratori dell’ossessiva codificazione ottocentesca non tiene nel debito conto la discontinuità profonda di opere come quella di Beccaria.
Si dimentica l’apporto originale e fecondo della cultura illuministica alla storia del moderno costituzionalismo, alla fondazione dei presupposti giuridici e politici dello Stato costituzionale in cui viviamo: tematiche queste ormai da anni al centro del dibattito internazionale ma ancora poco frequentate dalla storiografia giuridica italiana.
Oggi sappiamo che il costituzionalismo illuministico, con il suo repubblicanesimo, con la sua difesa della costituzione scritta, con la centralità dei diritti dell’uomo, era cosa ben diversa sia dal costituzionalismo d’Antico regime, consuetudinario - che nella concezione di Montesquieu opponeva potere a potere, i corpi intermedi al re -, sia dal costituzionalismo rivoluzionario, dominato dalla volontà generale, dal primato del legislativo e dall’idea della sovranità nazionale che faceva comunque premio sui diritti dell’individuo posti dagli illuministi al di sopra di ogni cosa. Per sincerarsene basta ripercorre le pagine scritte da Condorcet e da Paine, alle prese con il dibattito costituzionale americano prima del 1789, o quelle straordinarie di Gaetano Filangieri e di Francesco Mario Pagano decisi a creare una nuova Scienza della legislazione capace di produrre un ordinamento giuridico costruito sulla base di principi, valori e diritti dell’uomo.
Contro l’assolutismo essi prefigurarono le fondamenta di un moderno Stato costituzionale. Uno Stato in cui dovevano operare due piani di legalità: un piano codicistico e legislativo e un piano costituzionale di verifica dei valori illuministici maturati consacrati nel principio dell’eguaglianza dei diritti dell’uomo.
Cesare Beccaria fu certamente tra coloro che in Italia e in Europa ispirarono direttamente la nascita del moderno e cosmopolita «costituzionalismo illuministico» destinato a essere travolto dalla Rivoluzione francese e dalla costruzione degli Stati nazionali nel corso dell’Ottocento. Nel suo interrogarsi sulla presenza di Beccaria nella costituzione repubblicana sorta dalla Resistenza non a caso fu proprio Piero Calamandrei a fornire suggestioni in questa direzione indicandolo tra i fautori liberali di una dottrina del potere pubblico limitato.
L’opera di Beccaria continua insomma a interrogarci e a rivelarsi ricca di suggestioni e insegnamenti. E ciò perché le ragioni profonde del suo perentorio imporsi restano universali e perenni in quanto elaborate con passione civile a difesa dell’uomo e dei suoi diritti.
Intervista a Giuseppe Galasso
di ANTONIO GNOLI *
Tra un impegno politico e una lezione universitaria, fra un congresso scientifico e una seduta parlamentare, Giuseppe Galasso trova il tempo di parlarci di Napoli. E’ un argomento che ama. Lui parla, e l’ idea che ci facciamo è quella di essere di fronte a una grande scatola che si riempie di protagonisti, storie, colori. E’ la Napoli del Settecento che Galasso predilige. Miserie e nobiltà; ma anche qualcosa di meno ovvio. Una città che, nelle parole di Galasso, prende quota, si arricchisce di sfumature culturali, di sottigliezze storiografiche. Napoli, che sul finire del Settecento, diviene improvvisamente un laboratorio teorico politico, cioè qualcosa che potrebbe modificare il corso della storia del Mezzogiorno, se non proprio dell’ Italia intera e che invece non produrrà, se non in ritardo, certi frutti sperati. Ma i Lumi qui, a differenza che in Francia, generano altre storie, altri protagonisti: più inclini al fallimento.
Che cosa è la Napoli del diciottesimo secolo? La risposta più fedele si può ricavare dai viaggiatori d’ epoca. Vedono cose sorprendenti nel bene e nel male. Sono impressionati dal numero spropositato degli abitanti, colpiti dalla loro vivacità, addolorati dalla miseria, dall’ accattonaggio, dalle forme di degradazione sociale. E’ il lato eterno di Napoli. Però è solo un lato. Perché qui si svolge anche una vita culturale straordinaria.
E’ la città, ricorda Galasso, dalla quale Ferdinando Galiani entra in corrispondenza con mezza Europa. E’ la città nella quale si pubblicano libri che vengono recensiti sulle maggiori riviste europee. E’ un centro delle arti, specialmente della musica, che con l’ opera buffa segna uno dei vertici del tempo. E’ la città nella quale Goethe va a far visita a Filangieri...
Da Gaetano Filangieri, Galasso ha preso una celebre espressione La filosofia in soccorso de’ governi e l’ ha messa come titolo a una sua raccolta di saggi che la casa editrice Guida ha pubblicato in questi giorni. Un libro ricco di intuizioni e di straripante erudizione, profondo ed esteso.
Professor Galasso torniamo a questa Napoli settecentesca. Lei ha parlato di vivacità della vita culturale. Era così anche la vita sociale?
Quest’ ultima è meno ricca e interessante di quella di altre città. C’ è ancora una certa ristrettezza provinciale nella vita mondana e non si può dire che i salotti di Napoli abbiano il tono di quelli di Parigi. E neppure che l’ intensità delle relazioni sociali, della vita mondana sia paragonabile a quella, non dico di Parigi, ma per esempio di Venezia.
A Parigi ci sono donne che svolgono un ruolo preminente nella vita culturale e sociale. E a Napoli?
Per una situazione di complessiva arretratezza del paese, la donna intellettuale del Settecento, protagonista in Francia, da noi non esiste. E’ completamente tagliata fuori dalla cultura.
In che cosa si manifesta la cultura settecentesca napoletana?
Innanzitutto in una intensa riflessione sulla vita civile. Essa riguarda tutto l’ ambiente culturale della città. Appartiene ai pensatori che possono sembrare più teorici, mettiamo un Vico. Ma coinvolge anche studiosi che appaiono concentrati su questioni ideologiche, come Giannone a proposito dei rapporti fra Stato e Chiesa. Si estende, in pari tempo, a coloro che appaiono più propensi alla discussione di problemi concreti, di riforme, di trasformazione della realtà meridionale, come Genovesi, Galanti o Galiani. Suggestiona, infine, pensatori che hanno un’ impostazione più sistematica, come Filangieri, e persino utopisti come Vincenzio Russo.
Questa attenzione alla vita civile, suppongo fosse il risultato dell’ influenza determinata da alcuni grandi scrittori europei.
Le influenze ci sono. C’ è, in parte almeno, la partecipazione a una caratteristica generale della cultura europea di questo periodo che nelle sue forme più varie, secondo le fasi e i paesi nutre lo stesso interesse. Non ci dimentichiamo che il Seicento e il Settecento sono i secoli della fondazione teorica del liberalismo e della democrazia moderna. Sono i secoli di Locke e di Montesquieu, di Rousseau e dei grandi utopisti. Ma poi c’ è anche l’ esperienza storica specificamente napoletana, nella quale la problematica dello Stato, rapporti tra Stato e società, tra Stato e cultura prendono gradatamente quota.
Lei insomma sostiene che l’ attenzione per la vita civile nasce anche dalla particolare condizione storica di Napoli.
Nasce dall’ esperienza in uno Stato che nominalmente era un feudo della Chiesa e in cui la Chiesa aveva una posizione privilegiata. Ne derivavano problemi di rapporto fra Stato e Chiesa di un’ intensità tale che è difficile trovarne di uguali in altri paesi cattolici d’ Europa. Era un paese in cui il feudalesimo aveva una incidenza nella vita sociale molto forte.
Sulla questione del feudalesimo non c’ è molto accordo fra voi storici. Alcuni continuano ad applicare al Mezzogiorno il criterio secondo il quale il feudalesimo nel diciottesimo secolo era solo un elenco di nomi e di titoli e in realtà il baronaggio si identificava con un ceto più o meno borghese.
Io credo che questo giudizio storiografico, che viene applicato anche ad altri paesi europei, non sia corretto. Soprattutto non è corretto per Napoli, dove invece il feudalesimo aveva una struttura forte e reale, ed esercitava nella vita politica e sociale un peso di primaria importanza. Non desta quindi stupore che il problema feudale fosse tra le maggiori preoccupazioni del pensiero napoletano.
Come si esercitava, in concreto, questo potere feudale?
Con il baronaggio. Attraverso di esso la feudalità godeva ancora di ampi poteri giurisdizionali ed esercitava poteri giudiziari che mettevano praticamente la popolazione alla mercé dei feudi. Dal punto di vista economico, poi, il peso della rendita feudale sulle condizioni di vita delle classi contadine si manteneva altissimo. Dal punto di vista giuridico si verifica anche a Napoli ciò che è stato constatato ad esempio per la Francia: l’ accesso alla proprietà è largamente bloccato dalla struttura feudale. Questo spiega, tra parentesi, sia tanti atteggiamenti del mondo rurale francese nella rivoluzione del 1789, che quelli delle classi civili, diciamo così, del Mezzogiorno d’ Italia.
E così comincia a farsi strada il sentimento che dal punto di vista economico sia diventato il Mezzogiorno la periferia d’ Europa...
A metà del Settecento Genovesi dirà che se gli inglesi non avessero portato nel Mezzogiorno gli aghi, non si sarebbe potuto neppure cucire. E lo stesso Genovesi farà un’ altra riflessione sullo stato di estrema miseria e di arretratezza delle campagne napoletane. Lui e altri scrittori parleranno degli ottentotti, selvaggi allo stato puro, che vivevano alle porte delle ville borghesi e nobiliari. C’ è quindi effettivamente una profonda coscienza dell’ arretratezza del Mezzogiorno rispetto all’ Europa. Miseria, arretratezza, oppressione. Ecco i tre termini del problema.
Questa situazione di arretratezza si può legare al discorso meridionalistico che si è fatto dopo l’ Unità d’ Italia?
No. Il termine di confronto meridionale, in quel periodo, è l’ Europa; non è il dualismo italiano.
Nel suo libro, La filosofia in soccorso de’ governi lei parla, riferendosi a Napoli, di una sorta di partito degli intellettuali. E’ un partito influente?
L’ espressione è molto approssimativa. L’ ho usata per dire semplicemente che gli intellettuali costituiscono, in questo periodo, una forza politica e sociale come non erano mai stati prima. Adesso essi fanno opinione e determinano l’ orientamento, prima della corte, poi del paese.
Quindi lavorano, almeno in una prima fase, per la monarchia. Qual è in genere la loro estrazione?
Molto varia. C’ è un aristocratico come Filangieri. C’ è Genovesi, figlio di una modesta famiglia di un paese del salernitano. C’è una persona agiata e di civilissima condizione, come Galiani, e c’ è un avvocato di provincia inurbatosi a Napoli, come Giannone.
Questo fronte favorevole alla monarchia, diciamo meglio al riformismo borbonico, viene frantumato dalla rivoluzione francese. Si rompe il rapporto fra la corte e gli intellettuali. Questi sostengono l’ esperienza rivoluzionaria degli anni successivi all’ 89. Ma è un’ esperienza che finisce malissimo. Come mai? Come mai la rivoluzione giacobina a Napoli fallì?
Finì male perché gli intellettuali si ritrovarono isolati. E qui nasce un grosso problema: quello appunto del rapporto fra gli intellettuali e il paese, che è un po’ il problema anche del rapporto fra Napoli e le province del Regno. Napoli non riesce ad esercitare, rispetto alle province del Regno, la funzione che Parigi esercita rispetto al resto della Francia durante l’ esperienza rivoluzionaria. E così gli intellettuali napoletani non trovano quelle espressioni politiche che in Francia si concretano nella straordinaria ampiezza del movimento rivoluzionario, nel carattere diciamo pure definitivo dell’ esperienza rivoluzionaria per tanti aspetti, nella storia francese ed europea.
Questo confronto fra Parigi e Napoli fa pensare anche a un’ altra cosa. Al fatto che i nostri Lumi non produssero pensatori del calibro di quelli francesi...
Ma i Voltaire e i Rousseau li ha prodotti solo la Francia. Non li ha prodotti nemmeno Firenze, neppure Lipsia o Amsterdam. Io non imposterei il problema così: Francia e Inghilterra soprattutto erano allora i centri principali, i centri-guida della vita culturale europea. Ma non solo della vita culturale, bensì anche della vita politica, della vita diplomatica. Facevano scuola da tutti i punti di vista. Rispetto al centro della vita europea, Napoli era un paese periferico. Vale piuttosto la pena di notare che questa periferia è riuscita a contare anche presso il centro, perché, ad esempio, Filangieri ebbe una fama europea credibile, figurando come uno degli esponenti più rappresentativi del movimento intellettuale del suo tempo, grazie alla sua appartenenza alla massoneria. I libri di Genovesi furono tradotti in molti paesi europei. Lo stesso per i libri di Giannone.
Lei accenna all’ importanza della massoneria. Questo consente di vedere l’ illuminismo non più come un blocco razionalistico compatto, ma come qualcosa attraversato, al suo interno, da conflitti, crisi...
Il razionalismo illuministico, che è certamente un valore centrale nell’ orientamento intellettualistico del secolo, è ricco di motivi, un mare in cui convergono tendenze diverse. La massoneria appartiene agli altri Lumi, come ha scritto qualcuno. Gli altri Lumi che non sono quelli della ragione convenzionalmente definita come astratto e trionfale procedere matematico e deduttivo. Costituiscono invece un illuminismo pregno di tensione etica, di tensione psicologica, di ansia religiosa e anche di qualche forma di vitalità. Non a caso quel secolo, il Settecento, fu definito anche un secolo di avventurieri.
La Napoli del Settecento, la Napoli illuminista, è anche superstiziosa?
La superstizione, l’ irrazionale, il vitalismo in forme diverse sono presenti in tutta l’ Europa. Sono aspetti che si riscontrano non solo a livello di devozione popolare, ma anche nello sforzo che la cultura del tempo fa di razionalizzare, di capire queste forme di superstizione. Il Settecento per esempio, vede gli studi sul tarantolismo che Ernesto De Martino poi ricostruirà in un libro di grandissimo interesse. Nello stesso secolo si assiste a un mutamento della concezione della iettatura che passa da fenomeno magico, nella interpretazione degli scrittori di quel tempo, a fenomeno prodotto oggettivamente da forze naturali.
Si può dire che questi temi siano più forti a Napoli che altrove?
Sì. Per ragioni di arretratezza, a Napoli e nel Mezzogiorno le credenze assumeranno forme più spettacolari, più colorite, più intense.
La prima donna alla Royal Society
di Franco Giudice (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19 Giugno 2016)
È innegabile. Nelle tradizionali storie della filosofia e della scienza, le donne non figurano mai tra i cosiddetti autori canonici, quasi che una coltre di oblio volesse sottrarle alla nostra memoria storica. Così, anche se ora sappiamo che nel XVII secolo diverse donne si occuparono di scienza e filosofia, per lunghissimo tempo i loro libri sono rimasti pressoché invisibili, come se fossero stati scritti con inchiostro simpatico.
Un destino davvero beffardo, tanto più se consideriamo che quei libri suscitarono all’epoca notevole interesse e discussioni vivaci. Ma per rendersene conto, si è dovuto aspettare fino agli anni Settanta del Novecento, quando l’onda lunga dei movimenti femministi ha portato, soprattutto negli Stati Uniti, alla creazione di numerosi dipartimenti universitari di women studies, al proliferare di riviste specializzate, e alla riscoperta appunto del ruolo delle donne nello sviluppo della filosofia e della scienza in età moderna. Gli studi che ne sono derivati - non tutti, bisogna riconoscerlo, convincenti e con tesi sempre condivisibili - ci hanno restituito un panorama più variegato, popolato da figure femminili spesso trascurate, gettando una luce inattesa su ambienti culturali solo in parte noti. A tal punto che oggi, almeno nel mondo anglosassone, i risultati di tali ricerche trovano accoglienza in ogni buon manuale politically correct, dove non manca mai un capitolo sulle women philosophers o sulle women scientists.
In questa ricca e ormai quasi incontrollabile letteratura, un posto di primo piano è occupato da Margaret Cavendish, duchessa di Newcastle. Negli ultimi anni, i lavori sulla storia della sua vita, sulle sue opere e sul contesto in cui visse sono aumentati a un ritmo così incalzante da costituire un autentico filone di studi specialistici. Ai quali si deve ora aggiungere il libro di David Cunning: un’accessibile e documentata introduzione alla filosofia della Cavendish e alla sua evoluzione. La duchessa di Newcastle fu una delle più affascinanti e dotate figure intellettuali del Seicento inglese. Basti pensare che in un periodo storico in cui era piuttosto insolito che le donne si cimentassero con problemi di filosofia naturale, lei scrisse ben sei libri sull’argomento. Non solo: diede alle stampe poemi, testi teatrali, orazioni, discorsi, e perfino un’opera di fantascienza.
Un’autrice dunque prolifica, che arrivò a pubblicare qualcosa come ventitré volumi e che, pur essendo nota ai contemporanei per i suoi lavori letterari, si distinse anche per la sua attività filosofica. Anzi, fu soprattutto a tale attività che dedicò gran parte delle proprie energie, elaborando una dottrina sistematica e originale. Che si rivela ancor più sorprendente, giacché la duchessa, come ci ricorda Cunning, era priva di un’istruzione accademica formale.
Nata nel 1623 a Colchester, nella contea dell’Essex, da una famiglia della piccola nobiltà terriera, Margaret Lucas, questo il suo nome da nubile, aveva ricevuto la tipica educazione riservata alle ragazze del suo rango: le fu cioè insegnato, oltre a leggere e scrivere, canto, danza e poco altro. Nonostante un’istruzione così modesta, da lei stessa deplorata, riuscì ugualmente a farsi una straordinaria cultura filosofica e scientifica che le consentì di essere informata sulle più importanti e dibattute questioni del suo tempo. E a rendere possibile tutto ciò fu un evento che cambiò per sempre la sua vita: il matrimonio con William Cavendish, duca di Newcastle.
Eminente personaggio di corte e convinto realista, William Cavendish nutriva un profondo interesse per la filosofia e le scienze, e insieme al fratello Charles, un matematico di talento, fin dagli anni trenta del Seicento avevano creato una sorta di accademia, il cosiddetto circolo di Newcastle, di cui facevano parte alcuni dei pensatori più innovativi dell’epoca, tra cui Thomas Hobbes.
Durante la guerra civile inglese, questo gruppo, che condivideva una concezione meccanicistica della natura, espatriò a Parigi, entrando in contatto con gli intellettuali che gravitavano intorno al padre Marin Mersenne, il segretario della République des Lettres. E fu proprio a Parigi - dove si trovava anche lei in esilio come damigella d’onore della regina Enrichetta Maria, moglie di Carlo I d’Inghilterra - che nel 1644 Margaret incontrò il duca di Newcastle, che sposò l’anno dopo. Grazie alla ricca rete di relazioni dei fratelli Cavendish, Margaret scoprì un mondo forse prima nemmeno sospettato, dove poteva partecipare all’esecuzione di elaborati esperimenti scientifici e compiere osservazioni con i microscopi e i telescopi dell’imponente collezione messa insieme dal duca, che vantava due esemplari costruiti da Torricelli.
Nella residenza parigina del marito, oltre a Hobbes, la cui impostazione materialistica avrebbe esercitato un’enorme influenza sulla sua evoluzione filosofica, conobbe Mersenne, Descartes e Gassendi. Tutti autori che avevano formulato sistemi filosofici alternativi alla tradizione aristotelica ancora dominante nelle università, e di cui Margaret divorò le opere. Un lavoro insomma di studio e di ricerca, che non abbandonò più e che dal 1660, quando dopo la Restaurazione ritornò in Inghilterra, proseguì con maggiore intensità, leggendo gli scritti di Galileo e di William Harvey, così come di Robert Boyle e di Robert Hooke, due dei principali esponenti della filosofia sperimentale propugnata dalla Royal Society.
Ma la duchessa di Newcastle, come a ragione sottolinea Cunning, non voleva essere una semplice spettatrice della rivoluzione scientifica. Convinta che le competenze acquisite negli anni le avessero consentito di elaborare un originale sistema filosofico in grado di rivaleggiare con quelli dei suoi contemporanei, intendeva ritagliarsi un ruolo da protagonista. Anzi, come scrisse in una delle sue prime opere, «non desidero altro che la fama». Ovviamente, sapeva bene di vivere in un’epoca in cui la filosofia era territorio esclusivo degli uomini, e che forse anche le stesse donne l’avrebbero biasimata: «immagino che sarò censurata da quelle del mio stesso sesso e che gli uomini considereranno il mio libro con un sorriso di scherno, pensando che le donne ambiscano ad arrogarsi molte delle loro prerogative, ritenendo che i libri siano la loro corona e la spada lo scettro con cui regnano e governano». Ciò, tuttavia, non le impedì di sfidare le convenzioni sociali né, tanto meno, di rivendicare il diritto di rendere pubblica la propria concezione del mondo.
In tutte le opere di filosofia naturale, Margaret Cavendish articolò un materialismo di tipo organicistico dove la materia, a differenza di quanto pensavano i meccanicisti come Hobbes e Descartes, non era inerte e passiva, ma possedeva un movimento intrinseco, era cosciente di sé e dotata di percezione. A suo avviso, in natura non esisteva alcuna sostanza incorporea, e sosteneva che anche l’anima, per quanto più rarefatta e più pura, fosse corporea. Idee poco ortodosse, che la duchessa esprimeva con uno stile creativo estremamente personale, confidando che la scienza avrebbe tratto grandi vantaggi dall’essere presentata in modo immaginifico. Così, nello spiegare come gli atomi, con i loro principi attivi, possano creare diversi mondi, li paragonava agli «operai che costruiscono le case», e assimilava il loro movimento alla «danza».
Nel suo libro, Cunning offre una dettagliata analisi della dottrina della Cavendish, che trovò la sua esposizione più completa e matura nelle Observations upon Experimental Philosophy del 1666. In questo testo, la duchessa di Newcastle non si limitava a riproporre in forma sistematica tutti gli elementi della sua filosofia naturale, ma esprimeva anche una critica razionalistica della scienza sperimentale praticata dalla Royal Society. Un attacco duro, rivolto soprattutto a Hooke, il celebre autore della Micrographia (1665), e che prendeva di mira l’eccessivo entusiasmo per strumenti come il telescopio e il microscopio, da lei considerati, per averne avuta esperienza diretta, non sempre attendibili e spesso ingannevoli.
Non stupisce dunque che quando nel maggio 1667, dopo lunghe trattative, poté infine partecipare a una seduta della Royal Society - ed era la prima volta che un simile “privilegio” veniva concesso a una donna - si trovò di fronte una folla di curiosi, accorsi lì per vedere questa eccentrica figura femminile che varcava la soglia del tempio della scienza. La duchessa di Newcastle morì il 15 dicembre 1673, e fu seppellita nell’abbazia di Westminster come un personaggio di fama riconosciuta, proprio quella fama da lei tanto agognata. Ma ci sono voluti più di tre secoli per stabilire il valore dei suoi contributi e per correggere giudizi poco generosi e troppo affrettati. Come quello, assai autorevole e influente, di Virginia Woolf che nel Lettore comune (1925) la definì una donna «irrequieta e contorta», accusandola addirittura, in Una stanza tutta per sé (1929), di aver «buttato via il proprio tempo scribacchiando cose senza senso e sprofondando sempre più nell’oscurità e nella follia».
di Federico Vercellone (La Stampa, 09.06.2016)
Ricorrono i centocinquant’anni dalla nascita di Croce, e ci troviamo dinanzi a un anniversario quanto mai scomodo. Croce costituisce un grande rimosso della cultura italiana.
Non a caso il libro di Paolo D’Angelo, massimo specialista di Croce oggi in Italia, comparso da Quodlibet, s’intitola Il problema Croce. Abbiamo a che fare con il nume che ha dominato la cultura italiana per decenni, che fatica ora a profilarsi nella nostra memoria culturale come quel grande olimpico classico che fu invece in vita.
Trascorso il tempo dell’epica lotta tra crociani e anti-crociani, lasciati dietro di noi i venti di una polemica che segnò in profondità e per decenni la cultura filosofica ed estetica, ora si fa fatica a fare i conti in modo maturo con l’opera di Croce.
E’ significativo per esempio che si siano dedicate almeno tre importanti biografie a Gentile, mentre a Croce nessuna. Il suo sistema appare obsoleto e arretrato il suo atteggiamento culturale anche in forza del polemico atteggiamento nei confronti di discipline come la sociologia e la psicoanalisi.
Alla base della ricezione attuale di Croce resta poi in fondo l’ Estetica del 1902, un’opera che sembra profilarsi come impari rispetto a quelle precedenti e coeve provenienti dalla grande tradizione continentale. Si dimentica a questo proposito, e non è poco, che l’estetica in Italia prima di Croce era ben poca cosa mentre la sua opera ebbe un immediato respiro internazionale. E’ ben vero: nell’Estetica Croce liquida, con un quasi oltraggioso colpo di spugna, tutti le grandi categorie che avevano pervaso la tradizione.
A fronte del dominio assoluto della bellezza da lui sostenuta, venivano messi da parte il comico, il sublime, il patetico, il tragico, l’umoristico, e poi la partizione delle arti e i loro principi specifici. E il critico, privato dei ferri del mestiere, sembrava di colpo indotto ad affidarsi alla sola intuizione per esercitare il proprio mestiere. Nondimeno, guardando all’arte contemporanea, Croce sembra avere anche attualmente qualche buona ragione da mettere in campo. Sono davvero utili oggi quelle distinzioni sovratemporali che mancano infine la realtà concreta e variegata dell’opera d’arte?
Onore dunque al grande umanista retrò che ebbe comunque lampi geniali che ci consentono di avvicinare il presente dell’arte. E poi all’antifascista che seppe dialogare con i vertici della cultura europea in tempi quanto mai difficili, e resistere, da grande e onesto aristocratico, al conformismo della società italiana dell’epoca che permane purtroppo come una nostra inquietante eredità.
Università in festa: la Federico II compie 792 anni
di Mariagiovanna Capone *
Settecentonovantadue anni e non sentirli affatto. L’Università Federico II festeggia il suo genetliaco con modernità strizzando l’occhio al passato e puntando lo sguardo con ottimismo verso il futuro. Il 5 giugno 1224 fu fondato dall’Imperatore Federico II il più grande Ateneo del meridione e da allora i successi sono stati straordinari. Per il secondo anno, il rettore Gaetano Manfredi e il prorettore Arturo De Vivo hanno messo a punto un cartellone di eventi per dare il «Buon Compleanno Federico II» e aprendo gli spazi solitamente dedicati allo studio e alla ricerca, alla cittadinanza. Saranno aperti e accessibili gratuitamente (dalle 9 alle 13.30) l’Orto Botanico e il centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche (4 giugno), il real Museo Mineralogico (6 giugno), il Museo di Antropologia (7 giugno), il Museo Zoologico (8 giugno) e il Museo di Paleontologia (10 giugno).
I festeggiamenti principali per il 792esimo compleanno dell’Ateneo sono slittati al 10 giugno per via delle elezioni amministrative e si concentreranno tra l’Aula Pessina (ore 15) dove saranno premiati gli studenti meritevoli dell’anno accademico in corso, «un modo per regalargli la giusta gratificazione per l’impegno profuso, che sia anche di buon auspicio per il loro futuro professionale», spiega Manfredi. Con rettore e prorettore anche i presidenti dei vari istituti federiciani da cui provengono i vincitori: Luigi Califano della Scuola di Medicina e Chirurgia, Lucio De Giovanni della Scuola delle Scienze Umane e Sociali, Piero Salatino della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base, Matteo Lorito della Scuola di Agraria e Medicina Veterinaria.
Alle 16.30 ci si sposterà nell’Aula Magna Storica per premiare stavolta i laureati illustri, coloro che hanno contribuito con le loro capacità e talenti a migliorare il Paese. Il geniale e poliedrico Renzo Arbore laureato alla Federico II in Giurisprudenza, il talentuoso drammaturgo Enzo Moscato laureato in Filosofia, e poi la storica dell’arte Paola D’Agostino da circa un anno direttrice del Museo nazionale del Bargello di Firenze, Riccardo Monti attuale presidente dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane laureato in Economia e Commercio, il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli che sta provando a salvare la biblioteca dei Girolamini, e il Paolo Sassone Corsi che attualmente dirige il Centro per l’Epigenetica e il Metabolismo della University of California da dove sta contribuendo a studi sulla lotta al cancro.
Dopo la premiazione dei laureati illustri ci si sposterà sullo scalone della Minerva per un intervento musicale del Coro Polifonico Universitario Federico II e in piazza del Gesù per la festa vera e propria con cui l’Ateneo risentirà il calore e l’affetto della cittadinanza dopo il successo dello scorso anno. Ad aprire la serata sarà Mariano Rigillo cui è affidata la lettura di un monologo inedito di Maurizio De Giovanni sul fondatore dell’Università. In occasione dei 40 anni della Gatta Cenerentola, Peppe Barra si esibirà in concerto insieme alla sua band, anticipato dalla lettura di un messaggio del maestro Roberto De Simone. In chiusura di serata Francesco Di Bella in concerto.
Ricche proposte culturali e artistiche, a cominciare dal Fru16, decima edizione del Festival delle Radio Universitarie Italiane ospitato nel Complesso dei Santi Marcellino e Festo che farà da preludio dal 3 al 5 giugno alla giornata clou. Il Festival porterà a Napoli rappresentanti delle comunità studentesche di quasi tutti gli Atenei italiani che hanno una radio e sono previsti oltre 200 partecipanti di almeno 26 radio.
* Il Mattino, Mercoledì 1 Giugno 2016
La Federico II compie 792 anni: la storia della prima Università pubblica al mondo
di Luca Tesone *
Fondata il 5 giugno del 1224, l’Università Federico II si appresta a compiere ben 792 anni! Una vera e propria festa è stata organizzata dal rettore Gaetano Manfredi, e dal prorettore Arturo De Vivo. Per tutti i cittadini sarà possibile infatti visitare gratuitamente (dalle 9 alle 13.30) l’Orto Botanico e il centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche (4 giugno), il real Museo Mineralogico (6 giugno), il Museo di Antropologia (7 giugno), il Museo Zoologico (8 giugno) e il Museo di Paleontologia (10 giugno). Festeggiamenti che poi proseguiranno il 10 giugno, a causa delle imminenti elezioni comunali.
La storia di questa importantissima università ha inizio con quella del suo fondatore, Federico II appunto. L’imperatore che, nelle sue mani, deteneva i poteri del Regno di Sicilia e dell’Impero germanico. Una personalità spiccatamente mecenatesca come la sua non poteva che fondare la prima università laica e statale degli studi del mondo Occidentale. La scelta cadde su Napoli e non su Palermo (che era la capitale del regno) perché era più facile da raggiungere, sia via terra che via mare. Inoltre, essendo una delle città più ricche e grandi del regno, poteva più facilmente offrire alloggi agli studenti.
In oltre 700 anni di storia, la Federico II ha avuto molti alti e bassi. In particolare, nel Seicento si registra il periodo di maggior decadenza dell’istituto. Solo a partite dal secolo successivo, con l’intervento delle dinastie degli Asburgo prima, e dei Borbone poi, l’ateneo riuscì a riprendersi: creazione nel 1735 della prima cattedra in Astronomia in Italia e nel 1754 della prima cattedra di Economia. Senza dimenticare la presenza di personalità che hanno fatto la storia, e che hanno insegnato proprio alla Federico II, come il filosofo Giambattista Vico.
In seguito al ventennio fascista, la Federico II divenne il secondo ateneo più importante d’Italia per numero di iscritti, dopo la Sapienza di Roma. In questi anni, vissuti anch’essi tra alti e bassi, non sono mancati importanti riconoscimenti. La facoltà di Ingegneria, ad esempio, è stata riconosciuta come la migliore d’Italia. Importanti traguardi raggiunti anche nell’ambito della ricerca scientifica, come la cura per la schizofrenia. Più recente, invece, la costruzione della prima trave al mondo attraverso l’uso della stampante 3D. Un traguardo raggiunto anche grazie al lavoro dei ricercatori del Dipartimento di Strutture per l’Ingegneria e l’Architettura della Federico II.
Insomma, una storia densissima di traguardi e primati, che rendono la Federico II la più importante università d’Italia ed una delle più importanti al mondo. Non resta quindi che augurarle, anche noi, buon compleanno!
* Vesuvio-on-line, 01 giugno 2016 (ripresa parziale).
Documenti vichiani nell’Archivio Storico Diocesano di Napoli
di Antonio Illibato *
Una fortunata e imprevista circostanza ha fatto ritornare nella sua sede il fondo Processetti Matrimoniali dell’Archivio Storico Diocesano di Napoli, l’incartamento della promessa di matrimonio di Gambattista Vico con Teresa Destito.
Il decreto Tametsi, approvato l’11 novembre 1563 dall’assemblea conciliare riunita a Trento, dettò precise disposizioni per la celebrazione del matrimonio. Per accertare l’eventuale esistenza di impedimenti dirimenti e mettere fine ai matrimoni clandestini fu deciso che prima della celebrazione del matrimonio dovessero essere effettuate in Ecclesia tre pubblicazioni in giorni festivi durante la messa solenne e che l’avvenuta celebrazione fosse certificata in un apposito registro parrocchiale.
I contraenti dovevano esprimere il loro consenso alla presenza del parroco o di un sacerdote da lui debitamente delegato e di almeno due testimoni. La coppia, inoltre,per essere autorizzata a sposarsi, era tenuta a scambiarsi formale promessa di matrimonio davanti al vicario generale o un notaio della Curia diocesana e a due testimoni. Fu riconfermato, infine, l’antico divieto di nozze nei tempi di Avvento e di Quaresima.
Queste disposizioni, anche se ebbero pieno adempimento solo alcuni decenni dopo, furono all’origine della ricca serie Processetti Matrimoniali dell’Archivio Storico Diocesano di Napoli, che raccoglie la documentazione richiesta agli sposi dalle autorità ecclesiastiche per la concessione del permesso della celebrazione del matrimonio. Essa inizia dall’ultimo ventennio del Cinquecento, in modo piuttosto frammentario; dal Seicento in poi comincia ad essere sempre più completa, arrivando fino ai nostri giorni.
Ogni fascicolo contiene le fedi di battesimo degli sposi, gli attestati delle avvenute pubblicazioni nelle parrocchie del loro domicilio, le deposizioni rese dai contraenti e dai testimoni in forma di risposta alle domande del notaio di Curia e successivamente dal parroco, secondo uno schema quasi sempre fisso, e l’autorizzazione del vicario generale a contrarre matrimonio. Le informazioni riguardano il luogo di origine e il domicilio dei nubendi e dei testimoni, la parrocchia dei fidanzati e la loro paternità, la professione dei testimoni e degli sposi, abitualmente dei soli uomini. Ovviamente tutto debitamente firmato. Se non sapevano scrivere sottoscrivevano al deposizione con un segno di croce.
La serie dei Processetti Matrimoniali dell’archivio Storico Diocesano di Napoli, la cui consistenza si aggira attorno ad oltre un milione di fascicoli, offre al ricercatore una dovizia di informazioni di prima mano, difficilmente ricavabili da altre fonti, per lo studio dell’alfabetizzazione, delle professioni, della topografia e della toponomastica storica, degli immigrati forestieri e stranieri e, fino a tutto il primo decennio dell’Ottocento, dei proprietari di case e palazzi della città e dei casali: Senza dire dei fascicoli matrimoniali di uomini di governo, intellettuali e artisti, come svela il caso di Giambattista Vico.
Il fascicolo di nostro interesse, di mm.270x205, si compone di 8 cc.nn., di cui le prime tre scritte sul solo recto. Purtroppo è da considerarsi definitivamente perduta una nona carta, asportata con un colpo di forbici: quella su cui abitualmente un addetto di Curia annotava le generalità degli sposi e dei testimoni ed eventuali dispense ottenute. La perdita del foglio, comunque, nulla toglie all’integrità del contenuto del documento che si faceva desiderare da oltre un quarantennio.
Il fascicolo, agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, fu consultato da Fausto Nicolini, che ebbe sotto gli occhi anche quelli riguardanti il primo del il secondo matrimonio di Antonio Vico e i registri dei battezzati e dei matrimoni delle parrocchie di S. Gennaro all’Olmo, di S. Angelo a Segno e del Duomo.
Tuttavia, nonostante l’ampia ricerca esperita, quanto scritto dallo studioso non è esente da imprecisioni, ragione per la quale, adesso, si è preferito dare alle stampe il documento nella sua interezza, anche a scanso di ulteriori infortuni, dando notizia nello stesso tempo, di altri recenti ritrovamenti, che integrano opportunamente quanto detto dai biografi di Giambattista Vico.
Il padre di quest’ultimo, Antonio Vico, era nato a Maddaloni quasi certamente nel 1636. Nel maggio 1658, quando impalmò la napoletana Candida Tipaldo, nata il 12 gennaio 1639 nel popolare quartiere Mercato, suo padre Aniello era già scomparso; da circa dieci anni abitava "a S.Biase alli librari in domibus Santcti Ligorii" vale a dire del monastero di S. Gregorio Armeno o Santo Liguoro, come popolarmente soprannominato dai napoletani.
Via S. Biagio dei Librai, nel cuore della Napoli antica, rientrava nella giurisdizione della parrocchia di S. Gennaro o "Iennarello all’Olmo, che precedentemente aveva avuto sede nell’attigua chiesetta di S. Biagio, dal quale prendeva il nome".
Il 6 maggio 1659 Candida Tripaldo, munita di "tutti li Sacramenti" pose fine prematuramente alla sua non lunga giornata terrena, trovando sepoltura nella chiesa parrocchiale di S. Maria dei Vergini.
Antonio Vico, al quale la defunta non aveva lasciato prole, due mesi dopo passò a nuove nozze con la napoletana Candida Masullo, nata il 12 luglio del 1633.
Dopo il matrimonio, i due fissarono la loro residenza nelle stessa casa in cui il "libraro" Antonio era vissuto con la Tripaldo. Qui, come si evince dal volume VIII dei battezzati di S. Gennaro all’Olmo, nacquero i figlio della coppia.
A integrazione e rettifica di quanto scritto da Nicolini a proposito dei figli di Antonio Vico e Candida Masullo, va detto che Nicola Onofrio Maria Vico, nato il 4 agosto 1666, intraprese la carriera delle armi. Come egli stesso ebbe a dichiarare al notaio di Curia in occasione del suo matrimonio, era "sargente della Compagnia del Capitano D. Michele Ceva Grimaldi" e abitava "in Regio Arsenali", nella parrocchia "del Castello Nuovo". Pur se non sapeva scrivere, come si evince dagli atti preparatori del suo matrimonio con Domenica Libertella, Nicola non era però "un buono a nulla" come asserito da Fausto Nicolini.
Il 5 gennaio del 1699 Giambattista Vico potette finalmente sedere sulla cattedra di retorica dello Studio napoletano. La raggiunta sicurezza economica gli permise di prendere in fitto una casa "al vico delli Giganti", nelle circoscrizione parrocchiale "dell’Arcivescovato", dove si trasferì con tutta la famiglia.
L’abitazione, già di proprietà di Gennaro Caracciolo ed ora dei Padri Oratoriani napoletani, si componeva di una "sala tre Camere Cucina Loggia sopra la Cappella di S. Anna ed altre comodità come rimessa e cantina" e un giardino. Il fidanzamento con la ventunenne Teresa Destito avvenne poco tempo dopo. Già da parecchi anni Giambattista Vico frequentava la sua casa. Il padre Antonio, nella deposizione resa al notaio delle Curia, affermò di aver conosciuto la futura nuora "con l’occasione che continuamente c’avemo abitato vicino et tenuto et tenemo amicitia e corrispondenza insieme".
Il primo dicembre 1699, effettuate le pubblicazioni, gli sposi e due testimoni si recarono nelal Curia arcivescovile per deporre alla presenza del canonico Antonio Cicatelli.
La fede di battesimo del Vico, inserita nel fascicolo, reca la data del 23 aprile 1687 e la firma di don Francesco Antonio Crata, parroco di S.Gennaro all’Olmo di quel tempo.
Teresa Caterina Destito dimorava "alla porta del Battitore di S. Paulo" ora vico S. Paolo, nella parrocchia di S. Angelo a Segno, la stessa in cui era stata battezzata il 26 novembre 1678. Non sapendo scrivere, firmò apponendo in calce alla deposizione il segno della croce. La condizione di analfabetismo di Teresa Caterina non sorprende, se si pensa che prima il governo vicereale e poi quello borbonico, fino all’ultimo trentennio del ‘700, non annoverarono mai tra i doveri dello Stato quello dell’istruzione dei cittadini. D’altro canto, anche nei ceti sociali più elevati, non pochi pregiudizi si nutrivano nei confronti dell’istruzione, soprattutto di quella femminile. Le poche donne che sapevano leggere e scrivere, quasi sempre, erano oggetto della meraviglia diffidente dei più o della gelosa sorveglianza dei mariti, dei padri e dei fratelli. Un’indagine condotta nel fondo Processetti Matrimoniali ha messo in luce che nel 1685 sapevano firmare solo il 3.5% delle spose e l’8,5% nel 1775.
Il 2 dicembre 1699 il vicario generale Giovanni Andrea Siliquino concesse il permesso di celebrare il matrimonio tra Giambattista Vico e Teresa Caterina Destito, benché fosse <
Nella casa di "vico delli Giganti" nacque Luisa Gaetana, che vide la luce il 17 settembre 1700, alla quale tenne dietro Carmelina Nicoletta, venuta al mondo il 17 luglio 1703 e deceduto il 27 dello stesso mese.
Il 4 maggio 1704 i Vico lasciarono al casa di vico Giganti, trasferendosi nel "Palazzo fuori la porta grande de’ Gerolamini" da quanto risulta nei libri dello Stato delle Anime. Nella stessa casa dimoravano la madre di lui, la sorella minore ed il fratello Giuseppe con la moglie.
Come in tutte le case, anche in quella di Giambattista Vico e di Teresa Caterina Destito si alternarono gioie e dolori. Di otto figli ne sopravvissero cinque. Nel 1706 Antonio Vico, padre, morì all’età di 70 anni, Candida Masullo nel 1715, all’età di 85 anni
Luisa Gaetana Vico, figlia prediletta del filosofo, si unì in matrimonio con Antonio Servilli il 6 dicembre del 1696.
Gli studiosi di questioni vichiane hanno sottolineato concordemente le strettezze finanziarie di Antonio Vico e del suo illustre rampollo, inquilino sempre moroso dei Padri Oratiani, che con grande signorilità non lo molestarono mai per i fitti non pagati e decisero addirittura di condonargli il debito, calcolando con larghezza il compenso del lavoro da lui sostenuto per l’acquisto della biblioteca di Giuseppe Valletta.
Benedetto Croce scrisse che il filosofo era notoriamente "assai povero", mentre Nicolini ha parlato di "somma povertà" del modesto rivenditore di libri di S. Biagio dei Librai.
Ma, stando a quanto è lecito desumente dalla documentazione presa in esame, non pare ch ela povertà di Antonio Vico sia stata veramente "somma", dal momento che riuscì, seppur con sacrifici, a far studiare i figli Giambattista e Giuseppe e a dare la possibilità al figliuolo Nicola di intraprendere la carriera militare. Ciò dovette facilitare anche il matrimonio del dottor Vico con Teresa Caterina Destito, i cui fratelli Nicola e Francesco, l’uno "scrivano" della Gran Corte della Vicaria e l’altro avvocato, come i figli di Antonio Vico, erano nel novero di quelle categorie sociali che esercitavano professioni liberali:
Discorso analogo fa fatto per il suo celebrato rampollo. Dei cinque figli sopravvissuti di Giambattista Vico, 3 maschi e due femmine, Luisa e Angela ebbero la sorte di incontrare uomini in buone condizioni finanziarie, mentre Gennaro occupò la cattedra universitaria. Vero è che il figlio Ignazio diede dispiaceri al padre per non aver voluto studiare e per il suo matrimonio con Caterina Tomaselli, mal visto dai coniugi Vico- Destito per via dei non illibati costumi della Tomaselli. Dall’infelice unione nacque un bambino che, dopo la prematura scomparsa di Ignazio Vico, i nonni paterni accolsero nella loro casa.
Ma va anche detto che il filosofo, oltre a percepire lo stipendio universitario di cento ducati annui e a ricavare un altro centinaio dalla cosiddette "fedi di retorica", ossia dal modesto diritto fisso che gli studenti erano tenuti a versare per essere ammessi al preliminare esame di baccalaureato, traeva guadagni anche dallo studio privato, che egli aprì nel 1699 nella sua casa.
Nonostante l’usura del tempo, gli scritti di Benedetto Croce, Giovanni Gentile e Fausto Nicolini sono tuttora fondamentali per una conoscenza di Giambattista Vico immune da apriorismi e da sentito dire. Ma i risultati della ricerca storica, come si sa, non sono mai definitivi: sono sempre possibili nuovi ritrovamenti d’archivio, che obbligano ad integrare, correggere o addirittura rovesciare “certezze”, che pur sembravano incontrovertibili. Ciò ovviamente vale anche per la presente ricerca, che gli specialisti di studi vichiani, particolarmente quelli interessati alla ricerca delle fonti biografiche dell’autore della Scienza Nuova, potranno pertanto utilmente approfondire e forse anche emendare.
ENZO PACI. IL FILOSOFO E LA VITA
Il rapporto tra maestro e allievo nel ricordo di Carlo Sini
di Fulvio Papi *
Alla ricchissima produzione filosofica di Carlo Sini si aggiunge ora un libro di rara eleganza filosofica e narrativa. Il suo titolo, molto rapido, è Enzo Paci. Il filosofo e la vita, Feltrinelli, Milano, 2015. Se poi desiderassimo anticipare quella che è la gradevole scoperta del testo, dovremmo scrivere “La mia giovanile vita filosofica intrecciata all’esperienza decisiva di Enzo Paci della fenomenologia di Husserl”. Rendere i titoli referenziali ha solo il vantaggio di svelare al lettore un cammino di verità, poiché proprio in questo intreccio sta il fascino di queste pagine. La filosofia vive (fenomenologicamente) in una esperienza vivente, in una intenzionalità che si ripete e così si rinnova.
Siamo nel 1957 quando Sini, dopo la dolorosa scomparsa di Barié con cui era laureando, si trova a comporre il suo lavoro di tesi hegeliano nell’atmosfera filosofica che Paci sta inaugurando. È l’inizio di quell’epoca straordinaria, quando il filosofo era impegnato in una rinascita fenomenologica, che fu una esperienza molto importante nella nostra cultura. Poi Paci aveva una energia straordinaria e una dedizione totale propria di un filosofo che in Husserl trovava la modalità veritativa del pensiero. Il lavoro delle lezioni, dei seminari, della promozione editoriale, della rivista «Aut-Aut», convegni, dibattiti in Italia e all’estero. È una ebbrezza intellettuale ma anche una passione personale. Paci, che riconobbe subito Sini come un ingegno fuor dal comune e un giovane filosofo cresciuto nella filosofia, gli assegnò il posto di assistente, e così Sini fu coinvolto teoreticamente ed emotivamente in questa impresa filosofica il cui stile passava, come processo di formazione, dal maestro all’allievo. Il libro di Sini rimanda con chiarezza filosofica e con un ricordo pieno di partecipazione questo riflettersi di compiti e di obiettivi filosofici. Le pagine nella loro stilistica sobrietà fanno rinascere il tessuto vitale di quel tempo.
Lo “stacco” di Sini avviene su una domanda fondamentale: “che origine ha l’autocoscienza, come si è costituita?” Quindi Nietzsche, il pragmatismo, la concezione della scrittura alfabetica come condizione del pensiero oggettivante, le pratiche che costituiscono, nel loro intreccio, gli orizzonti filosofici e culturali. È Sini che, nella memoria del suo cammino, ci presenta un Paci vivente. Come oggi non è, per molte ragioni che potrei anche elencare facilmente. Ma chiuderò un po’ alla Kraus: “Il lavoro filosofico di Paci era troppo intelligente e troppo ampio per ridurlo a una banalità”.
Testimone delle tragedie europee del Novecento, il filosofo non si arrese mai all’angoscia
Croce: la libertà è lotta perenne
Nel 1966 la ricorrenza del centenario crociano innescò discussioni aspre sulla sua opera
La riflessione. Per lui il dramma non è la morte: sarebbe peggio restare chiusi nel carcere della vita
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 12.02.2016)
Le ricorrenze sono ingannevoli. Fanno credere che si celebrino o si ricordino sempre le stesse cose come immobilizzazioni della memoria, incrostazioni del passato. Ma non è così. Il lavoro ineludibile e inesorabile del tempo si esercita anche sul passato. Uno stesso passato vive quale apparve ai suoi tempi, poi quale appare al presente, e ancora vivrà quale apparirà nel futuro.
Nel caso di Benedetto Croce, i centocinquant’anni dalla sua nascita, il 25 febbraio 1866, ricorrono in modo evidentemente diverso che il centenario nel 1966. Allora nel ricordarlo risuonarono, anche più forti che lui vivo, le polemiche, le contrapposizioni, le riprovazioni che ne avevano accompagnato la lunga, centrale presenza nella vita civile e culturale italiana nella prima metà del Novecento, fino alla morte il 20 novembre 1952. Croce era stato, infatti, esaltato per sessant’anni come grande maestro e profondo rinnovatore della cultura e della vita morale italiana, oppure, all’inverso, dannato nella memoria come filosofo senza effettivo nerbo di pensiero, responsabile di un isolamento provinciale della cultura italiana e (addirittura!) di uno scarso sviluppo delle scienze in Italia, fiero conservatore fino a un equivoco rapporto col fascismo, sempre avverso alle più giovani e nuove correnti della vita nazionale. Oggi, per i centocinquant’anni dalla nascita, non si può dire altrettanto.
Le cose dette nel 1966 con un fortissimo animus polemico sono ripetute oggi, per così dire, a freddo, come frasi fatte di conformistici luoghi comuni. E allo stesso modo le cose dette allora col tono fervente di una perorazione non solo filosofica o teoretica sono dette oggi col tono di una distesa certezza non solo di ordine storico.
Che vuol dire? Croce è uscito dal panorama dell’attualità militante e urgente? Si è eclissata anche la proiezione della sua ombra postuma? Non è così. Non si tratta di sepoltura o epilogo, bensì, come per ogni altro grande nome, del passare dalla tumultuosa contingenza del tempo alla perennità dei classici, alla perenne attualità delle voci che di volta in volta percepiscono ed esprimono qualcosa di sempreverde e imperituro circa l’essenza e l’esperienza della storia, ossia del mondo e dell’uomo.
L’eredità del suo pensiero è, su questo piano, molteplice: irriducibile specificità della poesia, e suo valore anche conoscitivo; vari aspetti realistici della politica e del diritto; universale storicità del pensiero e della vita; modello etico-politico di un vivere civile che vada oltre la logica ferrea del mors tua, vita mea e si proponga livelli superiori di libertà e di dignità umana; concezione pragmatica della conoscenza e del lavoro scientifico con le loro mirabili scoperte e invenzioni; fecondità della distinzione fra momenti ed espressioni diverse dell’attività umana; eterna problematicità della vita e del mondo, che nulla, tuttavia, ha di misterioso o di paralizzante.
Sono punti di indiscutibile rilievo da più punti di vista. Non ci si fa, comunque, un’idea di lui adeguata a ciò che egli fu nella storia del suo tempo senza pensare alla progressiva drammatizzazione della vita che ne connotò il sentire e il pensiero. Giunse a scrivere che la civiltà è un fiore che nasce sulla nuda roccia e si radica in essa, ma che un evento improvviso può sradicare e disfare. Oppure che non è la morte, evento naturale, il dramma dell’uomo, e che vero dramma sarebbe, invece, il restare indefinitamente chiusi nel carcere della vita. Oppure che il motore della vita e della storia è in una spinta vitale, in una terribile forza egoistica senza ingombri di morale o di altro. E ciò a non parlare di tante e tante sue mirabili pagine di letteratura e di storia.
L’ humanitas della grande tradizione europea, in cui era interamente immerso, fu lo spirito reggente della ispirazione filosofica e morale di Benedetto Croce. In questo spirito fu un grande testimone della crisi europea del suo tempo. Non fu mai, però, un filosofo della crisi, del mistero, dell’angoscia, dello smarrimento esistenziale. Ricordava che le autentiche e profonde angosce della sua giovinezza lo avevano portato a convivere con l’angoscia, a renderla domestica e nota, e perciò a domarne la tirannia.
Non intendeva come sistema il suo pensiero, ma come una perenne sistemazione da offrire ad altri quale strumento di lavoro. Credeva nella positività della storia e della vita, e riteneva che la libertà ne fosse la vera cifra, sia quando trionfava, sia quando la si negava e opprimeva, senza poter, peraltro, impedire che rinascesse, perché la sua perennità storica non è quella di un pigro, ininterrotto vegetare, ma una drammatica, perenne lotta col suo opposto.
Era sempre, insomma, il filosofo che nel 1909 aveva scritto che «la verità è sempre cinta di mistero, ossia è un’ascensione ad altezze sempre crescenti, che non hanno giammai il loro culmine, come non l’ha la vita», la quale è essa «il vero mistero, non perché impenetrabile dal pensiero, ma perché il pensiero la penetra, con potenza pari alla sua, all’infinito». Una profonda lezione che spiega il suo persistere, ormai poco discutibile, come grande classico del mondo moderno, al di là del caduco e del contingente che nelle sue pagine, come in quelle di ogni altro grande, si ritrova.
Estetica ed economia in Croce
di PAOLO D’ANGELO*
Che cosa mai potranno avere in comune Estetica ed Economia? La scienza che studia «il lato più bello della storia del mondo» (Hegel dixit) e la dismal science? Quella che si occupa della più disinteressata tra le attività umane e quella che ha che fare con i bisogni? Quella che si confronta con la dura necessità e quella che si dedica al superfluo? Nulla o ben poco, vien da pensare. Esse sembrano legate piuttosto, come è stato detto, da «un’ostilità strutturale e reciproca», che le costituisce «l’una come negazione dell’altra», la prima consacrata all’inutile, la seconda al suo opposto[i].
Benedetto Croce non la pensava così. Egli ha infatti apparentato queste due scienze in un saggio un tempo famoso, oggi ben poco conosciuto, mettendone in luce le analogie e scoprendo in esse un «fondo» comune. Lo scritto crociano fu composto nel 1931; apparve in volume, per la prima volta, negli Ultimi saggi del 1935, e successivamente è stato ristampato anche in appendice alla edizione laterziana del Breviario di estetica in collana economica, e si intitola Le due scienze mondane. L’Estetica e l’Economica[ii].
Ma cosa unisce secondo Croce due discipline a tutta prima tanto distanti? In primo luogo si tratta, agli occhi di Croce, di due scienze eminentemente moderne. L’antichità e il Medioevo non le conobbero, o ne conobbero solo accenni, incunaboli, precorrimenti. Come scienze vere e proprie, esse sorsero unicamente nel Settecento, che non è solo il secolo che vide il battesimo e il rigoglio dell’estetica, a partire da Baumgarten (seppure Croce, in proposito, avrebbe citato [dovuto citare, fls] piuttosto Vico), ma anche quello in cui l’economia politica assurse a dignità scientifica, e apparve il primo capolavoro sistematico di teoria economica, la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith.
Prima di allora, naturalmente, non è che vita economica, politica e artistica non vi fosse, e neppure che mancasse qualsiasi riflessione sui fenomeni che la caratterizzano. Croce sapeva bene che l’antichità aveva dato importanti trattati di poetica, e qualche accenno di teoria economica e politica; egli era ben consapevole, inoltre, che l’estetica non sorge nel Settecento ex abrupto, ma si costruisce sull’ampia messe di trattati sulla poesia e le arti figurative composti a partire dal Cinquecento, così come l’economia e soprattutto la politica (vedremo che le due attività sono in Croce ricomprese sotto la categoria più generale dell’economico) avevano cominciato a guadagnare attenzione autonoma più o meno nello stesso periodo. Resta il fatto che la costituzione delle due discipline, e soprattutto il riconoscimento filosofico della loro autonoma dignità, è per Croce un acquisto imperituro del secolo dei Lumi.
A unire estetica ed economia è dunque, in prima istanza, un dato negativo, un’assenza: l’assenza di una scienza economica e di una scienza estetica nel mondo antico e in quello medioevale, epoche, scrive Croce nel saggio Inizio, periodi e caratteri della storia dell’estetica, caratterizzate «dal disinteresse verso quelle forme dello spirito che più fortemente si attenevano al mondo, al sensibile, al passionale: ossia, nella sfera pratica, verso la teoria delle vita politica ed economica, e, nella sfera teoretica, appunto verso la teoria della conoscenza sensibile o estetica»[iii].
Certo, Croce sapeva bene che nihil sequitur ex mere negativis, che da due determinazioni negative non può seguire nessuna affermazione, e infatti il saggio del 1931 non conclude affatto circa un carattere comune all’estetica e all’economia a partire dalla loro sostanziale assenza prima del Settecento. Piuttosto - correttamente da un punto di vista logico - vede la modernità delle due scienze come conseguenza di un carattere positivo condiviso da entrambe.
Questo carattere è quello sottolineato e annunciato fin dal titolo: estetica ed economia sono due scienze mondane. E «mondano», vale qui nel senso in cui si parlava un tempo di «sapienza mondana» in opposizione al sapere teologico: significa antitrascendente, antiascetico, profano. Estetica ed economia sono due scienze che mirano, in modo diverso ma in certo senso complementare, alla legittimazione del senso, della sensibilità, del desiderio e, al limite, del piacere.
Lasciamo che sia Croce a spiegare che cosa intende quando afferma che sono entrambe scienze del senso: «Che cosa, in ultima analisi, fanno queste due scienze? Per dirla in breve, esse intendono a giustificare teoricamente, ossia a definire e sistemare dandogli dignità di forma positiva e creativa dello spirito, quel che si chiama il “senso”, e che, oggetto di diffidenza o addirittura di negazione e di esorcismi nel Medioevo, l’età moderna, nella sua opera effettuale, veniva rivendicando. E poiché il “senso” aveva due congiunti ma distinti significati, e designava, da una parte, quel che nel conoscere non è logico e raziocinativo ma sensibile e intuitivo, e, dall’altra, quel che nella pratica non è per sé morale e dettato dal dovere ma semplicemente voluto perché amato, desiderato, utile o piacevole, la giustificazione dottrinale metteva capo, da una parte, alla logica dei sensi o logica poetica, scienza del puro conoscere intuitivo o estetica, e, dall’altra, alla edonistica, alla logica dell’utile, all’Economica nella sua più larga comprensione: che era né più né meno che la teoretica e filosofica “redenzione della carne” come si suol chiamarla, cioè della vita in quanto vita, dell’amore terreno in tutte le sue guise»[iv].
Almeno per quanto riguarda l’estetica, la determinazione di «scienza del senso» appare largamente giustificata, anche solo dal nome della disciplina, che nasce appunto come scientia cognitionis sensitivae. È vero però che questa accezione dell’estetica, oggi tornata ampiamente in auge, può in qualche modo sorprendere in Croce, che di solito viene interpretato come una fautore di un’estetica identificata con la filosofia dell’arte. Qui Croce sembra invece aderire appieno ad un’idea baumgarteniana di estetica come scienza della sensibilità, un’idea che, pur presente nella prima formulazione dell’estetica crociana (quella delle Tesi di estetica del 1900 e poi della grande Estetica del 1902), si era andata poi attenuando negli sviluppi successivi, più marcatamente idealistici, della sua filosofia.
Non per nulla, infatti, nella seconda parte dello scritto del 1931, intitolata Spirto e natura (mentre la prima parte, ricordiamolo, si intitola Spirito e senso) Croce svolge alcune osservazioni che, pur andando nella stessa direzione delle affermazioni appena riportate, si presentano più in linea con la prospettiva filosofica del Croce maturo. Le due scienze mondane, l’estetica e l’economica, precisa qui Croce, aiutano la filosofia nel suo complesso a superare il dualismo corrente tra realtà materiale o naturale e realtà spirituale. Lo fanno in quanto mostrano che ciò che chiamiamo «natura» è anch’essa un’attività spirituale: è la vita passionale, la vita degli impulsi e degli stimoli, che viene elaborata da un lato nella forma espressiva, artistica, dall’altro offre la base su ci viene a esercitarsi la vita morale. «Le due scienze filosofiche, che abbiamo dette precipuamente moderne e che si riferiscono l’una alla praxis nella sua vita dinamica e passionale, e l’altra alle figurazioni della fantasia, apprestano i dati necessari alla soluzione del problema, svelandoci l’oggetto per nient’altro che quella vita passionale, quegli stimoli, quegli impulsi, quel piacere e dolore, quella varia e molteplice commozione, che è ciò che si fa materia della intuizione e della fantasia e, attraverso di essa, della riflessione e del pensiero. La verità, in conseguenza di questa concezione, non sarà, dunque, da definire, come nella scolastica, adaequatio rei et intellectus, giacché la res come res non esiste, ma piuttosto (prendendo, beninteso, in modo metaforico il concetto dell’adeguazione), adaequatio praxeos et intellectus»[v].
Si tratta di un brano ricco di tensioni: per un verso è ancora la concezione famosa, anzi famigerata, della «natura» come costruzione pratico-economica, operata schematizzando l’infinita diversità del reale attraverso i concetti empirici o pseudo-concetti; per un altro, siamo già prossimi a qualcosa che avrà molto peso nell’ultimo Croce, ossia la concezione del «vitale» come fondo da cui si origina tutta la vita spirituale. Ci torneremo alla fine di questo saggio. [...]
*
RIPRESA PARZIALE E SENZA NOTE. Per proseguire la lettura, cliccare su MICROMEGA - PER L’ARTICOLO COMPLETO su PDF
Carlo di Borbone, il re che fece di Napoli una grandissima capitale europea
di Francesco Pipitone (VESUVIO-Live, 04 novembre 2015)
Il 10 Maggio 1734 un appena diciottenne Carlo, figlio di Filippo V di Spagna, entrò trionfante nella città di Napoli rendendola capitale di uno Stato tornato ad essere sovrano e indipendente, che sarà prosperoso e regalerà al mondo intero grandissimi capolavori. Riuscì a conquistare il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia, togliendoli agli austriaci, approfittando di un grosso conflitto europeo, la guerra di successione polacca. Sua madre era Elisabetta Farnese, ragion per cui divenne Duca di Parma e Piacenza ereditando la celebre e ricchissima Collezione Farnese, adesso conservata a Napoli, città alla quale è stata legittimamente donata.
A Palermo fu incoronato come Carlo III di Sicilia, a Napoli avrebbe dovuto essere re con l’appellativo di Carlo VII di Napoli, tuttavia egli rifiutò quella numerazione optando per un semplice “Carlo” senza alcuna numerazione, per sottolineare il fatto di essere re di uno stato indipendente, mentre coi precedenti sovrani non poteva dirsi altrettanto. A causa della giovane età, nei primi anni di regno fu consigliato nelle scelte di governo soprattutto dalla madre, una donna molto forte, istruita, saggia, come d’altra parte era naturale vista l’illustre famiglia alla quale apparteneva, tanto che influenzava persino le decisioni del marito, sovrano di Spagna.
Carlo di Borbone fu un perfetto esempio di quello che si suole definire un “sovrano illuminato”, ossia un monarca che si circondava di intellettuali, artisti e uomini politici che portavano avanti le idee dell’Illuminismo che nel ‘700, detto appunto secolo dei lumi, si diffusero in tutta Europa ponendo in primo piano assoluto l’intelletto umano, contro l’ignoranza e la superstizione.
D’altra parte Napoli era riuscita ad anticipare importanti temi dell’Illuminismo - la cui affermazione è data intorno al 1750 - si pensi ad esempio a Giambattista Vico e a Pietro Giannone, morti rispettivamente nel 1744 e nel 1748, e insieme a Parigi fu la città che più contribuì alla corrente, non limitandosi ad assorbirla come accaduto invece nel resto d’Europa. Gli intellettuali napoletani svolsero dunque un ruolo sociale, oltre che culturale - tra questi, oltre ai già citati, è bene ricordare, tra gli altri, Antonio Genovesi (fondatore della prima cattedra al mondo di Economia Politica), Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri, Antonio Broggia, Francescantonio Grimaldi, Francesco Mario Pagano e altri.
Tra i primi atti di governo di Carlo abbiamo la tassazione dei beni ecclesiastici, i quali, poiché erano numerosissimi grazie a speciali privilegi del passato, permisero di triplicare le entrate del Regno. Grazie al suo passaggio in Toscana mentre si dirigeva nel Mezzogiorno, poté affiancarsi Bernardo Tanucci, che ricoprì vari ruoli fino a divenire primo ministro ed acquistare il titolo nobiliare di marchese. Vero e proprio uomo di fiducia del re, intraprese un programma riformatore amministrativo e finanziario, togliendo poteri e privilegi a nuclei particolari che sfruttavano risorse senza recare un tangibile beneficio allo stato. Fu artefice del Concordato con la Chiesa Cattolica del 1741, in cui si sanciva la supremazia dello stato, e la politica finanziaria ispirata ai più moderni principi apportò grandi risultati all’economia del Regno.
È però di natura artistica, architettonica e archeologica il più grosso segno che Carlo ha lasciato a Napoli e dintorni: a lui si deve l’apertura sistematica degli scavi di Ercolano, Pompei e Stabia; la realizzazione del Real Teatro di San Carlo, che sostituì il San Bartolomeo e fu inaugurato il 4 Novembre, giorno dell’onomastico del re; la Reggia di Portici, la Reggia di Capodimonte e la maestosa Reggia di Caserta, affidata a Luigi Vanvitelli per rivaleggiare con quella di Versailles, e il contestuale Acquedotto Carolino; il Foro Carolino (oggi Piazza Dante) sempre ad opera del Vanvitelli e che vanta alcune sculture di Giuseppe Sanmartino, l’artista del Cristo Velato; il gigantesco Real Albergo dei Poveri dell’architetto Ferdinando Fuga; il rinnovamento e ampliamento di Palazzo Reale; la fondazione della Real Fabbrica di Capodimonte per la produzione della porcellana; la fondazione dell’Accademia di Belle Arti. Grazie a tutto ciò, Napoli divenne una grandissima capitale europea, sicuramente e di gran lunga la più importante città in Italia, ambitissima meta del Gran Tour capace di stregare Goethe e Stendhal.
Carlo si innamorò a prima vista della sua capitale e del suo popolo, che ricambiava quell’amore, tanto che imparò la Lingua Napoletana per diventare egli stesso napoletano, comprendere ed essere vicino alla sua gente. Nel 1759 il trono di Spagna rimase vuoto e proprio Carlo dovette occuparlo, a malincuore e controvoglia. Secondo una leggenda che pare abbia, comunque, un fondamento di verità, al momento di lasciare il suo Regno si tolse dal dito un anello che portava sempre, rinvenuto a Pompei, poiché apparteneva ai napoletani, non a lui.
Si riaccende il dibattito sui suoi studi letterari
La rivincita di Croce il critico guerriero
di Paolo Mauri (la Repubblica, 30.10.2015)
Dopo aver dominato la cultura italiana e non solo per oltre mezzo secolo Benedetto Croce è uscito di scena in modo abbastanza drastico: secondo Natalino Sapegno, per esempio, non aveva capito fino in fondo la portata della lezione di Marx da lui liquidato troppo presto; secondo i seguaci delle nuove teorie critiche legate prima all’analisi stilistica e poi allo strutturalismo era rimasto ostinatamente aggrappato ad una concezione del linguaggio che non stava in piedi, insomma il suo pensiero sulla linguistica, scriveva Tullio De Mauro nel 1965 era «una bomba piena di esplosiva follia». Adesso però l’interesse si riaccende. Come dimostra la ripubblicazione, da parte di Adelphi, del suo Poeti e scrittori d’Italia, a cominciare dal primo volume.
Un’ampia antologia di scritti sulla nostra letteratura dalle origini al primo Novecento. Giuseppe Galasso, nel rigoroso e dettagliato saggio introduttivo a questo primo capitolo, accenna addirittura all’irrisione di cui Croce fu vittima da parte dei suoi detrattori. Ma ancora Benvenuto Terracini, che possiamo considerare un alfiere della critica stilistica ai suoi esordi in Italia, rende omaggio alla posizione altissima che Croce ha occupato nei confronti della nostra cultura e sottolinea l’incontro tra Croce, Vossler e Spitzer, cioè proprio nell’ambito che avrebbe promosso l’analisi stilistica dei testi. Fermarsi su ciò che Croce non fece, non volle fare o capire è in questa sede poco remunerativo: conviene dunque chiedersi invece che cosa il lettore di oggi può trovare nelle pagine di Croce dedicate ai secoli d’oro della nostra letteratura.
Intanto registriamo un dato di non piccolo conto: Croce è un combattente e continuamente deve battersi con chi ha un’idea della poesia che lui proprio non condivide. Per esempio Croce non ama i dantisti: secondo lui tutte le costruzioni erudite a partire dalla Commedia servono solo a umiliare la grande poesia di Dante, che tuttavia non pertiene a tutta l’opera, ma solo a quei momenti eccelsi in cui c’è vera poesia. Croce scrisse per il sesto centenario della morte di Dante, dunque nel 1921, un libro di cui l’antologia conserva alcune parti: libro che fu a sua volta accusato di distruggere l’unità del poema. Ma, alla fine, sappiamo dire una volta per tutte che cos’è la poesia? È una domanda infinita alla quale si possono dare (e sono state date nel tempo) molte risposte, ma in genere queste risposte riguardano il modo in cui si fa una poesia. Una volta Luzi, in una intervista, disse che i poeti danno voce al nostro malessere.
Croce si occupò per tutta la vita della questione e ne scrisse moltissimo, mettendo però sempre in campo quello che una volta Contini chiamò un sistema binario, l’opposizione tra poesia e non poesia. L’ago della bilancia alla fine era affidato alla sensibilità del critico.
E Croce, per esempio, nega che vi sia stata poesia in Italia dal 1375 al 1475 e non ha riguardi verso il barocco (cosa che irritò Praz) e le sue esagerazioni, come verso personaggi-poeti di gran fama e gloria come Marino o come Metastasio. E se si occupa di Ariosto deve fatalmente mettere da parte i lavori eruditissimi di Pio Rajna sulle fonti del poema e demolire l’idea di trasformare la critica letteraria in una scienza del concreto, dove il concreto è soprattutto erudizione. In sostanza la sua era una battaglia contro il positivismo di fine secolo ben saldo in cattedra e nelle riviste come il Giornale storico della letteratura italiana che usciva a Torino. Se proprio doveva costruirsi un albero genealogico, Croce non esitava a ricorrere a Vico e al più vicino De Sanctis.
Roman Jakobson andava intanto teorizzando, all’altezza degli anni Trenta, che si può fare poesia con qualsiasi materiale il che ci dice che i formalisti russi stavano portando la critica letteraria su un pianeta sconosciuto e certo molto distante da quello crociano, dove poesia si opponeva a non poesia e poesia si distingueva da letteratura. Boccaccio è per Croce un poeta e sbagliano coloro che si affannano a parlare di novelle a proposito del Decamerone , così come sbaglia chi dice che Boccaccio rispecchia la società del suo tempo perché la vera poesia è un assoluto e non ha bisogno di rispecchiare niente.
Nel 1929 Jurij Tynianov aveva scritto, invece, che i confini tra letteratura e vita sono fluidi e forse è così anche per quel che riguarda l’opera di Boccaccio, ma con Tynianov ci spostiamo di nuovo in ambito formalista e dunque in una prospettiva completamente diversa da quella crociana.
Ho sempre pensato che la critica letteraria rivolga, per così dire, domande sempre diverse alle opere che prende in esame e per questo cambia anche radicalmente, anzi: sente la necessità inderogabile di cambiare. Per questo ogni esperienza critica conosce una inevitabile crisi e così è stato anche per lo strutturalismo e altre forme recenti di analisi, come Cesare Segre ha puntualmente registrato nei suoi libri. Riattraversare l’opera di Croce ha senso se si accetta quell’esperienza in base a quello che ancora può darci e non è davvero poco. Negli anni Cinquanta, per esempio, Giacomo Debenedetti partiva dal saggio di Croce su Pascoli (che è del 1906) per illustrare il poeta ai suoi allievi di Messina.
Con Croce il dialogo non è chiuso. Umberto Eco nel riprendere i temi dell’ Estetica di Croce negli anni Novanta ne mette in luce le contraddizioni (il saggio si può ora leggere nel volume Kant e l’ornitorinco 1997) ma alla fine conclude che Croce fa giustizia delle contraddizioni perché è uno scrittore travolgente: «Il ritmo, il dosaggio di sarcasmo e riconciliata riflessione, la perfezione tornita del periodo, rendono persuasiva qualunque cosa egli pensi o dica». Non ho niente da aggiungere.
Benedetto Croce un secolo fa. Il pensatore «totus nasus»
Nel 1915 scrisse il più autobiografico dei suoi libri dove trionfa il motivo etico dell’operosità contro le ferite della vita
di Matteo Marchesini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.05.2015)
Esattamente un secolo fa, poche settimane prima che l’Italia entrasse nella Grande Guerra, Benedetto Croce scrisse di getto il Contributo alla critica di me stesso, oggi disponibile nelle edizioni Adelphi con le note aggiunte a margine nei decenni successivi. Il Contributo, scritto alla soglia dei cinquant’anni, è il pezzo più autobiografico di un filosofo che, come Catullo «voleva essere totus nasus», vorrebbe «essere giudicato tutto pensiero». Si tratta, è vero, di una «autobiografia mentale», o comunque di una vita esemplare; ma per sorprenderci, all’autore basta ritrarsi sdraiato su un sofà mentre rimugina sul suo sistema nascente.
Siamo davanti a un trionfo della prosa crociana: della sua musica rotonda, della sua patina antiquaria, ma soprattutto del suasivo movimento con cui il filosofo dimostra che le analisi più sottili sono traducibili in un motto di sano buon senso. Trionfa, qui, anche il più insistito Leitmotiv etico di Croce: quello dell’«operosità» che sola medica le ferite della vita, come il piccolo Benedetto apprese in un collegio di preti borbonici. Ed è impossibile non sorridere, riconoscendo il puntiglio del futuro filosofo laico nel ragazzo che prima di confessarsi distingue i peccati e li scrive su un foglietto.
La formazione di Croce cambia segno dopo il terremoto di Casamicciola, che nel 1883 annienta la sua famiglia e lo seppellisce per ore sotto le macerie. Il superstite è accolto allora nella casa romana del politico Silvio Spaventa, cugino del padre e fratello del filosofo Bertrando. Il lutto, lo spaesamento, l’adolescenza: non stupisce che questa miscela abbia precipitato il giovane in una crisi d’ipocondria; e l’ostentato contegno olimpico dell’adulto deriva forse da questo periodo oscuro. «Quegli anni», confessa l’autore del Contributo, furono «i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino».
Nella Roma del trasformismo, Benedetto si chiude in biblioteca. Ma a scuoterlo è Antonio Labriola, che con le lezioni sull’etica di Herbart gli offre un appiglio cui aggrapparsi nel naufragio della fede. Croce ricorda di averne recitato più volte i capisaldi sotto le coperte, come una preghiera. È con questo bagaglio che nell’86 torna a Napoli per rifugiarsi negli studi storici; e solo il bisogno di chiarirne il metodo lo convince a stendere nel ’93 la prima memoria filosofica. Poco dopo, ad allargarne gli orizzonti interviene ancora Labriola, che lo contagia con la nuova passione marxista. Croce, però, l’affronta col suo stile di formidabile ruminante: s’immerge in un corso sistematico di economia, e quando è ormai più ferrato del maestro, espelle dalla materia appena digerita una componente essenziale, quella della militanza, per trasformarla in puro fertilizzante delle sue ricerche.
Nel 1900, il socialismo che agita l’Europa gli appare nient’altro che una parte di sé già superata. Mentre lo stesso senso del dovere che lo porterà al governo con Giolitti e alla presidenza del Partito Liberale gli impone di soccorrere le devastate istituzioni napoletane, il commissario scolastico Croce si prepara ora a entrare nelle scuole con ben altra efficacia attraverso l’Estetica, la sua opera più famosa e volgarizzata. Subito dopo la sua pubblicazione, fonda con Gentile la rivista «La Critica», braccio secolare dell’idealismo italiano, e vi applica la propria teoria dell’arte diffondendo un gusto tutto spostato sull’800.
Qui Croce sente di aver raggiunto un maturo «accordo con me medesimo e con la realtà», e inizia un percorso che per tre lustri somiglia a una inarrestabile marcia di conquista: il patto con Laterza, il completamento del sistema, i saggi su Hegel e Vico, la polemica (purtroppo) vittoriosa contro l’epistemologia...
Il Contributo segna il culmine di questa marcia, rallentata poi da guerra e fascismo. Lo spettacolo che offre è invidiabile; eppure il lettore non può non sentir salire da queste pagine compatte un involontario umorismo. Perché l’autore, malgrado le dichiarazioni di sobrietà e le ombre che già gli offuscano il panorama, sprizza soddisfazione da tutti i pori. L’insolita nudità del testo evidenzia il rapporto tra le sue compiaciute pose giovesche e la rimozione del lato notturno dell’esistenza: la soluzione genialmente semplificatrice di molte questioni sfiora la tautologia, e ogni domanda fastidiosa è liquidata come un problema mal posto (se «il pensiero vero è semplicemente il pensiero», il pensiero falso è solo «il non-pensiero (...) il non-essere»). Anziché diventare leopardiano, il ragazzo che ha sperimentato sulla sua pelle la crudeltà della Natura cicatrizza le ferite convincendosi che la Storia consiste nel dispiegarsi di una verità ascendente «a claritate in claritatem», ed esibendo il sublime filisteismo goethiano che sarà di Lukács e Thomas Mann.
È questo superiore equilibrio a indisporre i letterati giovani, quelli che in forme più esili hanno reagito come lui al positivismo: il romantico refoulé Cecchi, lo scettico Serra, e il teppista Papini, secondo cui il nuovo maestro d’Italia sogna una nazione «composta di tanti bravi figlioli (...) lettori assidui del Giannettino». Dal clima “decadente” e agitatorio nel quale si muovono questi giovani, il filosofo tiene presto a smarcarsi. Prende le distanze da D’Annunzio, ma anche dall’hegelismo. Eppure, questi distinguo non cancellano alcune affinità cruciali. Cecchi nota che sia l’idealista sia l’imaginifico pongono l’arte sull’infimo gradino della scala intellettuale, e tacciono sulle angosce che derivano all’uomo da un’esistenza sempre incompiuta e da una natura irriducibilmente estranea.
Quanto a Hegel, è vero che Croce ne rigetta la mitologia; ma proprio negli anni Dieci fa a sua volta della necessità storica un mostro autorizzato a nutrirsi di corpi umani. In realtà, il culto hegeliano del fatto compiuto e l’arte pura costituiscono gli esiti logici della cultura da cui Croce proviene: perciò, quando il filosofo li rifiuta, appare incoerente con le sue premesse.
L’estetica crociana si accorda col detestato Pascoli, non con l’amato Carducci. Quanto alla Storia, l’autore del Contributo ricorda di aver appreso dal suo Marx, sciacquato nell’Arno machiavellico, che ha tutto il diritto di «schiacciare gl’individui». Ma solo nel ventennio diventa evidente, oltre allo iato tra “teoria” e “pratica”, anche la marcia indietro ideale: all’assoluto lirico si affianca allora la funzione civile della letteratura, e lo Stato Leviatano sfuma nell’etica liberale.
A questo proposito, nelle note più tarde, Croce ammette di aver sottovalutato il valore della libertà, e di essere stato poco accorto davanti al fascismo in ascesa. Nel ’15, però, prevale ancora la tendenza a far coincidere intuizione ed espressione, volontà e azione. Come altri pensatori contemporanei, Croce cerca così di superare i dualismi ottocenteschi tra spirito e materia, vita e scienza.
Di Hegel lo attrae appunto il suo organicismo; ma gli ripugna la sua brutale omogeneizzazione dei fenomeni. Perciò, nel proprio sistema introduce la dialettica degli opposti, ma si preoccupa che non distrugga i distinti. Vuole tenere insieme il circolo dello Spirito e lo sviluppo dialettico della Storia: Vico e Kant da una parte, Hegel dall’altra. Tuttavia, nell’idealista del primo ’900 vince la giustificazione dell’esistente. Per questo Croce la Storia procede di bene in meglio, e l’irrazionale è appena l’ombra del razionale. Di questa rimozione ci ha dato un’ottima parodia Paolo Vita-Finzi, in un apocrifo crociano dove il pontefice di Palazzo Filomarino, con logica macabra e gioconda, spiega che il male include «germi di bene» come un cannibale «può includere un missionario».
A un passo dalla Grande Guerra, insomma, il filosofo crede ancora che il pensiero possa governare dall’alto la realtà. Appena licenziato il Contributo, fa il suo dovere di suddito in un conflitto a cui non crede, ma evita ogni nazionalismo culturale: all’adesione pratica corrisponde un orgoglioso rifiuto teoretico. È l’abito della distinzione col quale si opporrà sempre alle ideologie che tendono a travolgere tutti gli argini. Ma inutilmente: perché la vocazione del ’900 è appunto quella di cancellare ogni limite, bellico e sofistico. E alla fine Croce ne prenderà atto, trasformando la categoria dell’«utile» nella vitalità «selvatica» che buca le forme dello spirito. Il vecchio filosofo sfiorerà così l’esistenzialismo, ma non farà il passo che l’avrebbe costretto a lasciare del tutto le sponde civili del suo ’800: sensibilissimo alla cronaca, resterà tuttavia convinto di poter incarnare una figura di filosofo ancora classicista.
Questa figura, però, non va confusa con la maschera del pensatore pompier che ci ha proposto tanto ’900, e a cui manca completamente il gusto della concretezza che costituisce la lezione più feconda dello «storicismo assoluto». «La perfezione di un filosofare sta (...) nel pensare la filosofia dei fatti particolari, narrando la storia», dice Croce nel Contributo: perciò «l’astrazione è morte». In questo senso, molta fenomenologia si è rivelata assai più astratta dell’idealismo che intendeva superare, perché mancava di un reale intuito ermeneutico di fronte alla vita, ed era dunque destinata a smarrirsi in un farraginoso gergo pragmatistico che predica l’andata «alle cose stesse» ma non la pratica mai. Lo stesso vale per le suggestioni insieme esoteriche e terragne criticate da Croce prima in Gentile e poi in quell’Heidegger che secondo lui disonorava la loro disciplina. Queste filosofie, finte mistiche intimidatorie e velleitarie, confermano la convinzione crociana secondo cui il purus philosophus è un purus asinus. Croce considerava una delle sue maggiori vittorie la ridicolizzazione del Filosofo tutto occupato dall’Essere: e niente infatti testimonia meglio la sua successiva sconfitta della restaurazione di questo mito, in varianti improbabilmente sacerdotali o pedantesche.
Il culto americano
di Gaetano Pecora
Cosa ne pensereste di un codice penale che esordisse così: «Chiunque adorerà un altro Dio che il Signore, sarà messo a morte»? Tutto potreste pensarne. Tutto. Tranne che lì gorgogliano sentimenti proclivi alla libertà religiosa. Eppure, di fatto, è precisamente questa la tesi di coloro che si sviscerano di amore per i puritani e che coccolano le loro prime comunità - quelle che essi allestirono nel Nuovo Mondo all’alba del XVII secolo - come altrettanti germogli dell’odierna tolleranza. Come se quella disposizione che letificava gli abitanti del Cunnecticut proprio non esistesse. E mille altre norme non esistessero dove il dio neroniano del Vecchio Testamento tempestava con altrettanta spietata iracondia.
Ben venga, dunque, questo libro di Nunziante Mastrolia e Luciano Pellicani i quali per tabulas (il volume raccoglie scritti inediti di Franklin, Jefferson, Madison e Paine) dimostrano che ben altra fu la tempera da cui uscì riscaldata la libertà di coscienza e di culto, e che né gli Stati Uniti nacquero assistiti dallo spirito della modernità né che a tale modernità abbia mai sorriso l’esclusivismo dei puritani.
Certo, più tardi contribuirono pure essi a costruire il «muro di separazione» (così Jefferson) tra lo Stato e le chiese, che poi è la pietra angolare di ogni architettura costituzionalistica; ma solo perché premuti da circostanze avverse che ricacciavano loro in gola l’hussitico grido di guerra contro i rinnegatori di Dio, del loro Dio si capisce. Frantumati come erano in mille piccolissime congregazioni, tutte pure, tutte infallibili, tutte fanaticamente convinte di riuscire esse sole gradite all’Eterno perché esse sole inflessibili depositarie dei suoi insegnamenti dogmatici, proprio per questa polverizzante debolezza di scomposizione, i puritani di ogni colore mancarono della forza necessaria per piegare lo Stato alla loro fede. Sicché non potendo, per il tramite del l’apparato pubblico, "purificare" gli altri si acconciarono all’unico sistema - quello separatistico - che se non altro impediva agli altri di "inquinarli" e di perderli con la loro contaminazione.
Ha ragione perciò Pellicani quando nella sua lucida introduzione scrive che «in America si erano formate le condizioni oggettive per garantire la massima libertà religiosa». Condizioni oggettive, badiamo bene, non soggettive. Fosse dipeso da loro, presbiteriani, quaccheri, episcopaliani, anabattisti e altri ancora, mai avrebbero avallato un regime giuridico per il quale non avevano ragione di spendersi in troppo tormentate vigilie.
Assai diversa la posizione dei Padri Fondatori, i quali muovevano incontro al separatismo correndo sulla linea diritta dei loro convincimenti, che per essere diritta non conosceva né le rientranze né le obliquità delle chiese cristiane. E, alla stretta finale, tali convincimenti giravano tutti nel cerchio di una un’unica fondamentalissima verità: che Dio aveva fatto dono agli umani del regalo più bello, quello della libera ragione. Sicché solo ciò che superasse il vaglio dell’indagine razionale andava raccolto nel deposito della fede. Niente miracoli, dunque, nessuna profezia e soprattutto nessun dogma («ordigni», come li trafiggeva Jefferson, che mutano il cristianesimo in un «semplice mattatoio»).
Cristiani, i Padri Fondatori? Sia pure. Ma a patto di slargare i confini del cristianesimo, fino a tirarvi dentro il «razionalismo sopranaturale» (così venne definito) degli antichi sociniani che ne furono i lontani progenitori e dei quali non a caso Jefferson raccomandò la ristampa americana dei loro scritti. E poiché, come notava Francesco Ruffini, nei sociniani «riviveva il principio della libertà religiosa quale era stato vagheggiato dai filosofi pagani», ecco che salendo per li rami non è improprio traguardare i Padri Fondatori come altrettanti «cristiani paganeggianti». Che è forse un intreccio di termini mal maritati e, addirittura, mal maritabili tra loro. Chissà però che proprio questa spuria contaminazione non li renda, se non più grandi, certo più vicini alla nostra sensibilità.
Il pensiero di Vico restituito dal manoscritto
di Armando Torno (Corriere della Sera, 07.02.2014)
La nuova edizione critica delle opere di Giambattista Vico era in corso dal 1982 presso Guida di Napoli. Da poco è passata alle Edizioni di Storia e Letteratura. Questa benemerita editrice ha riproposto i volumi già usciti e ha avviato la pubblicazione dei nuovi. A cura di Paolo Cristofolini e Manuela Sanna vede la luce La scienza nuova, 1744 (pp. 376, e 52; presentazione di Fulvio Tessitore).
Vico pubblicò la celebre opera in prima edizione nel 1725, ne seguì una seconda, rivista, nel 1730 (il testo critico di essa, con i medesimi curatori, uscì nel 2004 da Guida e ora è nelle Edizioni di Storia e Letteratura) e, infine, con ulteriori modifiche apparve l’ultima nel 1744. Quella che Cristofolini e Sanna definiscono «il momento culminante nell’attività di pensatore di Giambattista Vico». Il lavoro si può così riassumere: i curatori hanno collezionato il manoscritto autografo dell’opera (conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli) con l’editio princeps del 1744, uscita nella città partenopea dalla Stamperia Muziana «a spese di Gaetano e Steffano Elia».
La necessità di riprendere il manoscritto per qualche emendamento risale a Fausto Nicolini, che un secolo fa pubblicava nella compianta collana degli «Scrittori d’Italia» di Laterza un’edizione delle opere di Vico. Ma soprattutto, ricordano Cristofolini e Sanna, «sono già stati resi pubblici risultati di perizie ecdotiche più puntuali e circoscritte che dal testo fornito dal Nicolini hanno preso le distanze e hanno formulato nuove letture». D’altra parte, la stampa del 1744 offre qualche passo «di scarsa attendibilità».
I curatori dunque, partendo dal manoscritto considerato testimone fondamentale, hanno tenuto poi conto delle edizioni ottocentesche di Giuseppe Ferrari, di quella del Nicolini (che è stata la base per quasi tutte le novecentesche) nonché del lavoro di Andrea Battistini (curò una scelta di opere di Vico per i «Meridiani» Mondadori nel 1992).
Il risultato è questa nuova edizione con varianti a piè di pagina. Un testo più sicuro dei precedenti, che si avvale di oltre due secoli di ricerche e consente di ritrovare un’opera che Adorno consigliava di leggere e rileggere. In essa Vico espone una scienza umana a fondamento delle cui certezze pose la possibilità di considerare il «fatto», vale a dire quanto si compie o si produce, come «vero». Avviava in tal modo una polemica notevole con il razionalismo scientifico e metafisico di René Descartes. Filosofo che egli amava tradurre con la locuzione «Renato delle Carte»