Identificazione infantile, adulta e senile di Benedetto Croce nella figura di Cola Pesce
di Luisella MESIANO (1)
Benedetto Croce avvia nell’anno 1915 «una sorta di “liquidazione del passato”, che era indirizzata a prepararmi la tranquillità di animo per continuare e intensificare l’opera già da me iniziata intorno agli studi storici» (Croce 1989: 69). Riserba infatti quell’anno «a rivedere, ordinare e correggere» tutta la sua produzione giovanile con la consapevolezza che di quei lavori:
Coevo a questo lavoro di «liquidazione», inteso come pratica del «rivedere, ordinare, correggere», è quello di «ricapitolazione di se stesso» nel Contributo alla critica di me stesso, l’autobiografia intellettuale stesa tra il 5 e l’8 aprile 1915 che accoglie come epigrafe una frase interrogativa di Goethe: «Perché ciò che lo storico ha fatto agli altri, non dovrebbe fare a se stesso?» (Croce 1989: 13).
Risale sempre al 1915 la riscrittura della Leggenda di Cola Pesce, pubblicata nel 1919 all’interno del volume Storie e leggende napoletane, e precedentemente narrata da Croce nel 1885 e nel 1896. In questo testo, l’indistricabilità tra «cronaca» di vita e «cronologia» e «bibliografia» dei propri lavori letterari diviene emblematica. La leggenda di Cola Pesce appare non solo inscritta come cosa viva nell’oralità e nella topografia della città di Napoli, ma, soprattutto, tra le tante rievocazioni delle «immagini del passato», frutto di «assidue e faticose ricerche», essa porta il segno dell’identificazione infantile, adulta e senile di Benedetto Croce nella figura del mitico palombaro.
Croce pubblica una prima versione della leggenda di Cola Pesce nel 1885, in un fascicoletto di 16 pagine estratto dal Giambattista Basile. Archivio di Letteratura Popolare, a. III, n.7, pubblicato a Napoli, nello Stabilimento tipografico di Vincenzo Pesole. La leggenda è inserita in un più ampio discorso che tocca i «racconti ancora vivi sulle bocche del popolo napoletano» e le notizie sul «rozzo bassorilievo che ancora si vede nel sedile di Porto in Napoli, e che il popolo giudica immagine di Nicola» (Graf 1885: 264)2.
Nel 1896 Croce pubblica su Napoli nobilissima. Rivista di topografia e arte napoletana un lungo studio che riprende e arricchisce quello del 1885, e lo intitola «Il bassorilievo del Sedile di Porto e la leggenda di Niccolò Pesce» (la I e II parte nel vol. V, fasc. V, maggio 1896, pp. 65-71; la III e la IV parte nel vol. V, fasc. VI, giugno 1896, pp. 85-89):
Segue il resoconto, «detto di passaggio», delle vicende dello stesso bassorilievo, determinate dai mutamenti della città di Napoli; ed è la storia della sopravvivenza, o della persistenza, del simulacro nel luog o demolito e nuovamente edificato:
Il resoconto della leggenda che segue è sostanzialmente identico a quello del 1885, e sempre dichiaratamente fedele alla tradizione orale:
Dopo aver citato gli studi fecondi di Giuseppe Pitrè, Croce introduce anche un curioso inserto autobiografico ch e rappresenta anche la presa diretta di uno scorcio di vita napoletana:
Ricapitola infine la fortuna critica della sua Leggenda di Niccolò Pesce del 1885, oltrepassando il piano della bibliografia per entrare in quello dell’autobiografia, là dove riconosce il fatale legame che salda insieme la propria figura di uomo e di studioso alla figura del palombaro:
(qualche cosa di simile, come vedete, alla famosa lettera del mandarino cinese: Medico Boerhave - Europa!) per chiedermene una copia. Gliela mandai, e l’avvertii di ricorrere a preferenza allo scritto del suo compaesano Ullrich, ch’era più completo ed esatto. Ma che? Lo Hertslet ha stampato un libro: Treppenwitz der Weltgeschichte, di cui si son fatte quattro edizioni, e, in tutte e quattro, il mio nome figura trionfalmente accanto a Niccolò Pesce! -Qualche anno dopo, nel 1888, Costantino Nigra, nei suoi Canti popolari del Piemonte, illustrando il canto La pesca dell’anello, si riferiva al mio opuscolo per ciò che riguarda la leggenda di Cola Pesce... Non vi pare che io sia stato abbastanza punito? Chiudo la parentesi.
Ora il tema è capitato in buone mani, perché prepara su di esso un libro Giuseppe Pitrè, dalla cui larga erudizione e temperanza ed acume di giudizio è da aspettare un lavoro definitivo. Del materiale raccolto, il Pitrè ha dato già un saggio in alcuni fascicoli dell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari (Croce 1896: 68).
Sempre nel vol. V, fasc. IX di Napoli nobilissima, settembre 1896, alle pp. 141-143, Croce pubblica «La storia po polare spagnuola di Niccolò Pesce», ovvero il resoconto dei trecentosessanta versi della Relación spagnola, «raro cimelio bibliografico, [che] dopo infinite ricerche, poté per opera del Croce rivedere le stampe» (Pitrè 1904: 55) 3.Ricordate sinteticamente le ragioni storiche che hanno permesso il diffondersi della leggenda dalla Sicilia all’Andalusia - «Si dovrebbe dunque ammettere che sulla fine del s. XV o i principii del XVI, nell’Andalusia, si raccontassero popolarmente le avventure di Niccolò Pesce. Ciò non farà meraviglia, quando si ripensi alle antiche e strette relazioni della Spagna con l’Italia meridionale, e specialmente con la Sicilia» (Croce 1896: 85)-, Croce passa ad illustrare la vicenda del ritrovamento dell’opuscolo:
Questa disposizione di Croce alla ricerca non può non rievocare la metafora di Cola Pesce «ardito esploratore» e «palombaro letterario» viva in quegli anni nella cultura partenopea, come dimostrano alcune lettere di Vittorio Imbriani. In particolare, in una lettera a Gaetano Amalfi, inviata da Pomigliano d’Arco il 25 agosto 1885, Imbriani segnala di voler inserire nel «terzo di frontespizio» dell’ Agamennone di Francesco Mario Pagano una «xilografia di Niccolò Pesce», aggiungendo che sotto la effigie di Niccolò Pesce andrebbero stampati, ne’ più minuti tipi, che la stamperia Morano offre, i seguenti tetrastici:
Tornando al resoconto della Relación, composta in versi e suddivisa in tre romances, Croce avverte che anche per quanto riguarda la materia, essa può distinguersi in tre parti:
Lasciando questa evocazione di un Cola Pesce sirena maschio, è interessante tornare alla riscrittura della leggenda napoletana del 1896, dove prende corpo un movimento singolare: lo spostamento della versione vivente della leggenda in direzione autobiografica. Emblematico è, per esempio, che Croce racconti di aver interrogato la donna seduta sotto il simulacro, e che la interroghi su un argomento di cui, poco oltre, dichiara di essere «dotto», non per necessità di informazioni, quindi, ma per raccogliere appunto una «versione vivente».
Ancora più curioso è il fatto che la donna venga anticipata nella risposta da «un vecchio, che aveva tutta l’aria di un antico cocchiere appadronato». Questo cocchiere ricompare nella Leggenda di Cola Pesce del 1915, inserita da Croce all’inizio del capitolo XI, Leggende di luoghi ed edifizi di Napoli, delle Storie e leggende napoletane (1919), ma qui diviene «il cocchiere di casa», non più un vecchio sconosciuto di cui si intuisce soltanto «che aveva tutta l’aria di un antico cocchiere appadronato». Non è importante stabilire l’identità dell’uomo che “pare” un antico cocchiere oppure “è” l’attuale cocchiere di casa Croce, non è importante uscire dai testi. Di fatto il narratore popolare, il depositario della «versione vivente napoletana» della leggenda si colloca via via in una sfera più intima e familiare.
I testi radunati nel capitolo Leggende di luoghi ed edifizi di Napoli sono preceduti da una premessa che si apre sulla domanda: «Perché tanta amorosa sollecitudine nel raccogliere le leggende, e persino i più piccoli rimasugli e vestigi di leggende popolari?» (Croce 1993: 295). Dopo aver affermato che «le leggende popolari hanno un significato che va oltre la loro fallacia storica» (Croce 1993: 296), Croce mette in rilievo la gioia della scoperta e le «impressioni della fanciullezza» proprie del ricordo autobiografico rispetto alle «gonfiature della boria scientifica»:
La versione della leggenda del 1915 in cui Cola è un fanciullo maledetto dalla madre, è infatti seguita dalla descrizione del bassorilievo di Cola Pesce additato dal cocchiere di casa:
In questo caso il narratore è, come si diceva, il cocchiere di casa, ma forse in questa e in altre occasioni può essere stata la madre stessa a farsi voce narrante, poiché Croce, nel Contributo alla critica di me stesso, leggendo i Casi della vita e vita interiore nella topografia stessa della sua città, afferma:
A questo punto Croce non legge più Cola Pesce come una «persecuzione», una figura di identificazione impostagli quasi dall’esterno, come ancora aveva fatto nel 1896; recupera invece «in un cantuccio dell’anima» molto simile ai recessi del «cuore nel cuore», e non si dimentichi che quel cuore era in fondo materiato di letteratura e storia, la storia della sua identificazione infantile nella figura di Cola Pesce:
Questo passaggio di luogo e il “localizzarsi ” della leggenda in una vecchia pietra scolpita, preesistente, quasi la «versione vivente», facendosi da siciliana napoletana, avesse trovato qui «il suo elemento», come Cola lo aveva trovato nel mare, è la migliore descrizione figurata di ciò che sta accadendo a Croce stesso: la leggenda di Cola Pesce, a partire dal 1885, si “localizza” nella sua persona, e questo processo si instaura prima ancora del consapevole riconoscimento della sua identificazione infantile e adulta, i cui primi segnali si leggono nella versione del 1896 e poi nel 1915, quando il processo di «liquidazione del passato» lo porta a “localizzare” stabilmente, alle radici del proprio essere, la figura di Cola Pesce.
La frase interrogativa di Goethe premessa come epigrafe al Contributo, «Perché ciò che lo storico ha fatto agli al tri non dovrebbe fare a se stesso?» (Croce 1989: 13), sembra trovare risposta in più direzioni, non solo nella forma dell’autobiografia intellettuale, ma anche nell’identificazione, o meglio nella localizzazione, della figura di Cola Pesce in Benedetto Croce. Quest’azione di identificazione non poteva che portare a una vera e propria mutazione del ritratto del filosofo, e non importa, ai fini dell’accertamento della sua realtà, se essa è tutta giocata sul piano della letteratura. L’identificazione senile di Benedetto Croce in Cola Pesce è in questo senso esemplare nel romanzo L’orologio di Carlo Levi dove è narrato il sogno dell’orologio e del tribunale, luogo detto simile a un bagno turco o a un mercato coperto:
Il riconoscimento avviene in fondo proprio perché qui Croce è un vecchio Cola Pesce, ma con i tratti temibili della sirena maschio della Relación. Cola è invecchiato insieme a Croce, non è più un fanciullo o un giovane palombaro che, semplicemente, partecipa della natura dei pesci: la lunga frequentazione dei fondali marini ne ha fatto un mutante, è ormai «scaglioso egli stesso come un pesce». In una Napoli percorsa come se si camminasse «nell’interno di un enorme animale», «nello stomaco di un gran pesce», il bassorilievo di Cola sostituisce ormai la targa col nome accanto alla porta di casa Croce:
NOTE:
___
Riferimenti bibliografici
CROCE, Benedetto (1885): «La le ggenda di Niccolò Pesce». Giambattista Basile, vol. III, n. 7.
CROCE, Benedetto. (maggio 1896): «Il bassorilievo del sedile di Porto e la leggenda di Niccolò Pesce I e II». Napoli nobilissima. Rivista di topografia e arte napoletana, vol. V, fasc. V.
CROCE, Benedetto. (giugno 1896): «Il bassorilievo del sedile di Porto e la leggenda di Niccolò Pesce III e IV». Napoli nobilissima. Rivista di topografia e arte napoletana, vol. V, fasc. VI.
CROCE, Benedetto (settembre 1896): «La storia popolare spagnuola di Niccolò Pesce». Napoli nobilissima. Rivista di topografia e arte napoletana, vol. V, fasc. IX.
CROCE, Benedetto (1919 [1993]): Storie e leggende napoletane, a cura di Giuseppe Galasso. Milano, Adelphi.
CROCE, Benedetto (1926 [1989]): Contributo alla critica di me stesso, a cura di Giuseppe Galasso. Milano, Adelphi.
GRAF, Arturo (1885): «Recensione a Benedetto Croce, “La leggenda di Cola Pesce”». Giornale Storico della Letteratura Italiana, vol. VI, fasc. 16-17.
IMBRIANI, Vittorio (1964): Carteggi di Vittorio Imbriani. Gli hegeliani di Napoli, a cura di Nunzio Coppola. Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano.
LEVI, Carlo (1950): L’orologio. Torino, Einaudi.
PITRÈ, Giuseppe (1904): Studi e leggende popolari in Sicilia e nuova raccolta di leggende siciliane. Torino, Clausen.
SAVI-LOPEZ, Maria (1894): Leggende del mare. Torino, Loescher.
IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA. La punta di un iceberg.
CROCE “CRISTIANO”, VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
VENI, CREATOR SPIRITUS: LO SPIRITO DELLA VERITA’. Lo Spirito "costituzionale" di Benedetto Croce, lo spirito cattolico-romano di Giacomo Biffi, e la testimonianza di venti cristiani danesi (ricerca scientifica)
CARLO LEVI: IL CORAGGIO E LA LIBERTA’ DI UN FILOSOFO E DI UN ANTROPOLOGO.
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala (20.04.2018)
Universiadi: De Luca, mascotte? Partenope
Scelta una sirena per la manifestazione che prende via 3 luglio
di Redazione ANSA NAPOLI *
(ANSA) - NAPOLI, 20 MAR - "La Sirena Partenope è uno dei simboli gentili, belli e storicamente significativi di Napoli. Mi pare che abbiamo imboccato la strada giusta". Lo ha detto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, annunciando la scelta come mascotte per l’Universiade di Napoli della sirena che per la leggenda sarebbe morta nelle acque in cui oggi sorge Castel dell’Ovo, uno dei simboli del capoluogo partenopeo. La scelta dopo che nei mesi scorsi erano state bocciate diverse soluzioni, tra cui quella di un Pulcinella.
* ANSA NAPOLI 20 marzo 2019 (ripresa parziale - senza immagine).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MELUSINA: RITROVAMENTO DI SIRENE (E SIBILLE) NELLA CITTÀ DI CONTURSI TERME (SALERNO). Un’occasione per ripensare tali figure della tradizione culturale europea.
LA PSICOANALISI, LA LEGGENDA DI "COLAPESCE", LA "LEZIONE" DI FREUD A ROMAIN ROLLAND.
Una nota
di Federico La Sala
All’interno di un lavoro portata avanti da più Autori, sul tema “L’India della psicoanalisi. Il subcontinente dell’inconscio” (IPOC, Milano 2014), Livio Boni, a conclusione del suo contributo specifico, dedicato a “Freud e l’India: un percorso ermeneutico lungo/un itinerario mancato”, e, in particolare, allo sforzo di fornire chiarimenti sul “dialogo con Romain Rolland” e sulla “equazione freudiana: India = misticismo”, scrive:
LA PAURA DELLA "GIOIA ECCESSIVA". Alla luce di un “vecchio” lavoro di Giampaolo Lai (“Due errori di Freud”, Boringhieri, Torino 1979), di Elvio Fachinelli (“La mente estatica”, Adelphi, Milano 1989) e, mi sia consentito, di una altrettanto mia “vecchia” analisi della “provocazione” fachinelliana di portarsi oltre Freud (si cfr. “La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 138-161), pur volendo accogliere l’opinione della lettura di Boni (2002/2014) sul valore della “soprendente” testimonianza di Goetz relativa alle dichiarazioni di Freud sull’India, con tutte le implicazioni che esse hanno anche sul dialogo con Rolland, è da dire che nel testo di Goetz c’è un elemento, che sollecita attenzione e invita non a semplificare (“Questo riduzionismo - scriveva Fachinelli - non ci serve: ci serve piuttosto un adduzionismo”) ma ad “approfondire” ulteriormente la lettura della “lezione” di Freud a Goetz, proprio per fare possibilmente più chiarezza sul “percorso ermeneutico lungo" e su "l’itinerario mancato".
L’elemento è la citazione ripresa dalla ballata di Schiller - un vero e proprio “iceberg” del “mare” interno di Freud: “La Bhagavadgita è un poema grande e profondo che apre però su dei precipizi. E ancora giace sotto di me celato nella purpurea tenebra afferma "il tuffatore" di Schiller, che mai rivenne dal suo secondo temerario tentativo” (sul tema, si cfr. la brillante tesi di laurea di Malvina Celli, "La simbologia di Friedrich Schiller nella ballata "Der Taucher": amore o ambizione?", Università di Pisa "014/2015).
Tale elemento illumina con molta forza un “impensabile” ancora da pensare: esso non è affatto “in aperto contrasto con tutto ciò che Freud afferma altrove” ma, al contrario, esprime solo e già tutto “il disagio della civiltà”, quella occidentale, nei confronti dell’altra civiltà, quella orientale in questo caso e, in particolare, dell’India.
Nel 1904-1905, a pochi anni dalla pubblicazione della Interpretazione dei sogni, avvenuta nel 1899 (con la data “1900”), e con la consapevolezza che la sua autoanalisi - interminata e interminabile - non è affatto finita, egli sa bene in quale impresa si è “tuffato”! Il motto virgiliano, “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” («Se non posso muovere gli dei superiori, muoverò quelli degli inferi»), posto ad esergo dell’opera, già dice bene a se stesso di quali e quanti pericoli e difficoltà dovrà affrontare il “conquistador” nel suo cammino.
Un’ombra lo seguirà fino alla fine: è quella di Josef Popper-Lynkeus (1838-1921), ingegnere, filantropo, e scrittore, che con le sue “Fantasie di un realista”, opera pubblicata a Vienna nel 1899, contemporaneamente a “L’interpretazione dei sogni”, che lo "tormenterà" a non rassegnarsi (“I miei rapporti con Josef Popper-Lynkeus”, 1932) e ... a non perdere il coraggio degli inizi!
Nel 1929, nel “Disagio della civiltà”, «un’opera essenziale, di primo piano per la comprensione del pensiero freudiano, nonché il compendio della sua esperienza» (J. Lacan), nella parte finale del primo capitolo, a Romain Rolland, chiudendo con modi da “animale terrestre” la porta in faccia al “suo amico oceanico” (così dalla dedica sulla copia del libro inviatagli), ripete la “lezione” data a Goetz nel 1904-1905, con altri versi dalla stessa ballata: -“(...) ancora una volta sono indotto ad esclamare con le parole del Tuffatore di Schiller: “... Es frue sich, / Wer da atmet im rosigten Licht. [...Gioisca, / Chi qui respira nella luce rosata.]” (S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, p. 208).
A ulteriore precisazione, per chi ancora possa avere qualche dubbio sul senso del suo discorso e del suo percorso, alla fine del capitolo 7 del "Disagio", richiama alcuni versi dalla canzone dell’arpista nel “Wilhelm Meister” di Goethe e commenta:
Il Conquistador comincia a deporre le armi e ammette: “(...) mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai mei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti” (op. cit., p. 280).
Nel 1930, a Freud viene conferito l’ambito “Premio Goethe”. Il riconoscimento segnava per lui, come dichiarò, la vetta più alta della sua vita. Nel “Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte”, (S. Freud, Opere, XI, Torino 1979, pp. 7-12), egli scrive: “Io penso che Goethe, a differenza di tanti altri nostri contemporanei, non avrebbe respinto di malanimo la psicoanalisi”. Certamente non si sbagliava, ma forme di immaginario “prometeico”, condiviso sia con Goethe sia con gli “altri nostri contemporanei”, lo accecano ancora. I suoi “sogni” personali erano più le “fantasie” di un idealista (platonico-hegeliano ), che di un realista, alla Popper-Lynkeus e alla Rolland!
Nel 1931, alla fine dell’ultimo capitolo del “Disagio della civiltà”, dopo l’ultima frase: “Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo [...]. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale.”, aggiungerà: “Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito” (op. cit., p. 280).
Nel 1938, con grandissime difficoltà, a stento riesce a lasciare Vienna e a raggiungere, sognando "Guglielmo il Conquistatore", l’Inghilterra - un’isola in mezzo all’oceano! Morirà a Londra il 23 settembre 1939.
A sua memoria e gloria, è da ricordare che, se il suo primo lavoro "L’interpretazione dei sogni" richiama alla memoria la figura di Giuseppe, e il suo lavoro di interpretatore dei sogni del Faraone, l’ultimo lavoro risollecita a riflettere su “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e a proseguire il suo lavoro, quello di interpretatori e interpretatrici dei sogni dell’intera umanità. Uscire dallo Stato di minorità è possibile, non è “l’avvenire di un’illusione”. Non dimentichiamo di «coltivare il nostro giardino»!
Sul tema, nel sito, si fr.:
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
VITA, FILOSOFIA, STORIA E LETTERATURA...
BENEDETTO CROCE, LO SPIRITO DI "COLAPESCE", E LA VITA DI UN "PALOMBARO LETTERARIO". Una brillante ricognizione di Luisella Mesiano
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala