METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
L’Inconscio è ancora come lo «vide» Freud?
La Spi a congresso
A Taormina, da oggi al 30 le discussioni degli psicoanalisti *
Il XV Congresso della Società psicoanalitica Italiana (Spi) si apre oggi a Taormina sul caposaldo della psicoanalisi: l’Inconscio. «Scoperto» da Freud è il fulcro e il motore della teoria che il padre della psicoanalisi elaborò. Il nostro inconscio è rimasto lo stesso che «vide» Freud o i cambiamenti sociali, culturali, ambientali lo hanno modificato? I lavori e la discussione che animeranno il congresso fino al 30 maggio saranno il punto di arrivo di un lungo lavoro di rivisitazione del concetto di inconscio che la società psicoanalitica, presieduta da Stefano Bolognini, ha compiuto in questi ultimi anni.
Nel congrersso verrà posto l’accento non tanto sull’inconscio come «calderone ribollente», realtà ontologica, o regione della mente, ma sull’esplorazione dell’inconscio e del suo operare, tramite gli strumenti che la psicoanalisi si è data e con i quali si cimenta con la sofferenza umana: un metodo specifico di osservazione, una tecnica, una teoria. Siamo in pieno ambito della clinica e della ricerca a partire dalla clinica, dentro il lento e paziente lavoro nell’intimità dello spazio analitico come osservatorio privilegiato anche sulle trasformazioni sociali.
Nel percorso del convegno si parlerà di persone con un funzionamento inconscio che risente della difficoltà dell’uomo di oggi a soffermarsi sulla propria realtà psichica. L’uomo di oggi rimuove meno, non tanto perché la rimozione non esista più, ma perché, stretto nell’illusione di una felicità rapidamente conquistabile, fatica ad avere accesso alla propria realtà psichica in cui fa capolino, non invocata, l’idea del proprio limite e quindi della propria morte.
A sviluppare e confermare questa linea di ricerca e di discussione, i molti lavori dedicati all’espressione corporea del disagio psichico; si richiede all’analista di oggi un atteggiamento capace di accogliere, sviluppare e trasformare gli stati emotivi. Ampiamente rappresentata nel congresso la psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti, a testimonianza di un interesse crescente del mondo psicoanalitico rispetto al costituirsi del soggetto e delle identità.
* l’Unità, 27.05.2010
Popper Lynkeus. Chi era costui?*
Popper-Lynkeus, la vista lunga di un «ingegnere sociale»
Dai cavi elettrici all’elicottero, dalla psicanalisi a una sorta di comunismo liberale. Idee profetiche del grande austriaco
di Daniele Abbiati (Il Giornale - Ven, 22/12/2017)
Era un intellettuale a tutto tondo, poliedrico e dai mille interessi. E lo era grazie al suo essere quadrato, irreggimentato nella disciplina di uno studio matto e disperatissimo come quello di Giacomo Leopardi che lo portò a laurearsi ventunenne in Ingegneria al Politecnico di Vienna.
Vedeva lontano, tanto da auto-soprannominarsi Lynkeus, come l’argonauta dall’occhio acutissimo che penetrava i muri. Ma era strabico. Si definiva un «realista». Ma ammantava la sua fame di tecnologia e di scienza con scorribande nelle fantasie spesso veicolate dai sogni.
Josef Popper, nato a Kolín, nell’attuale Repubblica Ceca, da una famiglia ebraica di ceto modesto, il 21 febbraio 1838 e morto a Vienna il 22 dicembre 1921 era molto più che lo zio di Karl Popper, anche se pure lui desiderava una «società aperta», anzi spalancata alle libertà individuali, a patto che fossero inserite nel contesto di un welfare che oggi potremmo definire più che scandinavo.
In ordine crescente, ecco il campionario delle sue idee geniali. Nel 1862 invia all’Accademia delle Scienze di Vienna un progetto per trasportare l’elettricità tramite cavi che però finisce in un cestino (sarà il francese Marcel Deprez, vent’anni dopo, a mettere in pratica ciò che il Nostro aveva preconizzato in anticipo); poi, essendo stato assunto come precettore del figlio da un industriale dello zucchero, con suo fratello brevetta un nuovo tipo di caldaia per l’estrazione dello zucchero (ne ricava un corposo gruzzolo da cui attingerà fin quasi alla tomba); quindi fa studi di termodinamica, di aeronautica (nel 1880 ipotizza, primo al mondo, la realizzazione di «ali rotanti» per il volo, da cui discenderà l’elicottero); e nel 1884, un bel pezzo dopo aver frequentato le lezioni universitarie di Ernst Mach, comincia a interrogarsi sulle relazioni fra materia ed energia, potenzialmente anticipando la relatività di Einstein.
Tuttavia, lui si considerava in primo luogo un «ingegnere sociale». E proprio a questo campo, quello della tecnica al servizio della politica (o viceversa) appartiene il suo capolavoro: il comunismo liberale. Il ragionamento è semplice: al posto del servizio militare obbligatorio (che deve divenire invece volontario) lo Stato, che ha l’obbligo di nutrire, vestire e fornire di un’abitazione chiunque viva sotto la sua autorità, deve istituire un «servizio alimentare universale» per cui tutti i cittadini lavorano, in un periodo dell’anno, per assicurare ai meno fortunati i beni di prima necessità. Dopo di che, una volta fornito a tutti un livello minimo di benessere, l’impresa privata sarà non soltanto tollerata, ma addirittura caldeggiata, onde produrre ricchezza.
Naturalmente il saggio Die allgemeine Nährpflicht, datato 1912, rimase lettera morta, e il riformismo del quadrato Popper-Lynkeus che in linea teorica avrebbe potuto essere la quadratura del cerchio in tema di politiche sociali, oltre che l’inizio di una rinascita post-absburgica, divenne un pezzo da museo o da polverosa biblioteca. Insomma, rimase un sogno.
E, a proposito di sogni, ecco l’ultima genialata di Popper-Lynkeus: l’interpretazione dei sogni. Trattandosi di un viennese contemporaneo di Freud (ma i due non si incontrarono mai) la domanda è d’obbligo: ci è arrivato prima il Nostro oppure herr Doktor? Sta di fatto che L’interpretazione dei sogni di Freud uscì nel 1899, come pure la raccolta di racconti di Popper-Lynkeus Fantasie di un realista (tre dei quali pubblicati ora da Via del Vento in Sogno come veglia, prima edizione italiana di scritti di questo autore), dove i sogni e la loro interpretazione in chiave razionalistica che ne smaschera la «censura» sono appunto il tema centrale di una prosa che ha indotto Jean Starobinski a parlare di Popper-Lynkeus come di un «doganiere Rousseau della letteratura».
Ma sta anche di fatto che Freud, non potendo accusare l’altro di plagio, chiuse la questione così, in un saggio del 1923: «Io credo che ciò che mi ha reso capace di scoprire la causa della deformazione onirica sia stato il mio coraggio morale; nel caso di Popper sono stati invece la purezza, l’amore per la verità e la chiarezza morale del suo essere».
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Popper Lynkeus. Chi era costui? (Bruno Morandi - Ecologia Politica CNS, in Liberazione,domenica 28 gennaio 2001)
L’INCONSCIO, OGGI: FREUD, LA ’SFIDA’ DI POPPER-LYNKEUS, E L’INDICAZIONE DI ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
LA PSICOANALISI, LA LEGGENDA DI "COLAPESCE", LA "LEZIONE" DI FREUD A ROMAIN ROLLAND.
Una nota
di Federico La Sala
All’interno di un lavoro portata avanti da più Autori, sul tema “L’India della psicoanalisi. Il subcontinente dell’inconscio” (IPOC, Milano 2014), Livio Boni, a conclusione del suo contributo specifico, dedicato a “Freud e l’India: un percorso ermeneutico lungo/un itinerario mancato”, e, in particolare, allo sforzo di fornire chiarimenti sul “dialogo con Romain Rolland” e sulla “equazione freudiana: India = misticismo”, scrive:
LA PAURA DELLA "GIOIA ECCESSIVA". Alla luce di un “vecchio” lavoro di Giampaolo Lai (“Due errori di Freud”, Boringhieri, Torino 1979), di Elvio Fachinelli (“La mente estatica”, Adelphi, Milano 1989) e, mi sia consentito, di una altrettanto mia “vecchia” analisi della “provocazione” fachinelliana di portarsi oltre Freud (si cfr. “La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 138-161), pur volendo accogliere l’opinione della lettura di Boni (2002/2014) sul valore della “soprendente” testimonianza di Goetz relativa alle dichiarazioni di Freud sull’India, con tutte le implicazioni che esse hanno anche sul dialogo con Rolland, è da dire che nel testo di Goetz c’è un elemento, che sollecita attenzione e invita non a semplificare (“Questo riduzionismo - scriveva Fachinelli - non ci serve: ci serve piuttosto un adduzionismo”) ma ad “approfondire” ulteriormente la lettura della “lezione” di Freud a Goetz, proprio per fare possibilmente più chiarezza sul “percorso ermeneutico lungo" e su "l’itinerario mancato".
L’elemento è la citazione ripresa dalla ballata di Schiller - un vero e proprio “iceberg” del “mare” interno di Freud: “La Bhagavadgita è un poema grande e profondo che apre però su dei precipizi. E ancora giace sotto di me celato nella purpurea tenebra afferma "il tuffatore" di Schiller, che mai rivenne dal suo secondo temerario tentativo” (sul tema, si cfr. la brillante tesi di laurea di Malvina Celli, "La simbologia di Friedrich Schiller nella ballata "Der Taucher": amore o ambizione?", Università di Pisa "014/2015).
Tale elemento illumina con molta forza un “impensabile” ancora da pensare: esso non è affatto “in aperto contrasto con tutto ciò che Freud afferma altrove” ma, al contrario, esprime solo e già tutto “il disagio della civiltà”, quella occidentale, nei confronti dell’altra civiltà, quella orientale in questo caso e, in particolare, dell’India.
Nel 1904-1905, a pochi anni dalla pubblicazione della Interpretazione dei sogni, avvenuta nel 1899 (con la data “1900”), e con la consapevolezza che la sua autoanalisi - interminata e interminabile - non è affatto finita, egli sa bene in quale impresa si è “tuffato”! Il motto virgiliano, “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” («Se non posso muovere gli dei superiori, muoverò quelli degli inferi»), posto ad esergo dell’opera, già dice bene a se stesso di quali e quanti pericoli e difficoltà dovrà affrontare il “conquistador” nel suo cammino.
Un’ombra lo seguirà fino alla fine: è quella di Josef Popper-Lynkeus (1838-1921), ingegnere, filantropo, e scrittore, che con le sue “Fantasie di un realista”, opera pubblicata a Vienna nel 1899, contemporaneamente a “L’interpretazione dei sogni”, che lo "tormenterà" a non rassegnarsi (“I miei rapporti con Josef Popper-Lynkeus”, 1932) e ... a non perdere il coraggio degli inizi!
Nel 1929, nel “Disagio della civiltà”, «un’opera essenziale, di primo piano per la comprensione del pensiero freudiano, nonché il compendio della sua esperienza» (J. Lacan), nella parte finale del primo capitolo, a Romain Rolland, chiudendo con modi da “animale terrestre” la porta in faccia al “suo amico oceanico” (così dalla dedica sulla copia del libro inviatagli), ripete la “lezione” data a Goetz nel 1904-1905, con altri versi dalla stessa ballata: -“(...) ancora una volta sono indotto ad esclamare con le parole del Tuffatore di Schiller: “... Es frue sich, / Wer da atmet im rosigten Licht. [...Gioisca, / Chi qui respira nella luce rosata.]” (S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, p. 208).
A ulteriore precisazione, per chi ancora possa avere qualche dubbio sul senso del suo discorso e del suo percorso, alla fine del capitolo 7 del "Disagio", richiama alcuni versi dalla canzone dell’arpista nel “Wilhelm Meister” di Goethe e commenta:
Il Conquistador comincia a deporre le armi e ammette: “(...) mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai mei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti” (op. cit., p. 280).
Nel 1930, a Freud viene conferito l’ambito “Premio Goethe”. Il riconoscimento segnava per lui, come dichiarò, la vetta più alta della sua vita. Nel “Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte”, (S. Freud, Opere, XI, Torino 1979, pp. 7-12), egli scrive: “Io penso che Goethe, a differenza di tanti altri nostri contemporanei, non avrebbe respinto di malanimo la psicoanalisi”. Certamente non si sbagliava, ma forme di immaginario “prometeico”, condiviso sia con Goethe sia con gli “altri nostri contemporanei”, lo accecano ancora. I suoi “sogni” personali erano più le “fantasie” di un idealista (platonico-hegeliano ), che di un realista, alla Popper-Lynkeus e alla Rolland!
Nel 1931, alla fine dell’ultimo capitolo del “Disagio della civiltà”, dopo l’ultima frase: “Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo [...]. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale.”, aggiungerà: “Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito” (op. cit., p. 280).
Nel 1938, con grandissime difficoltà, a stento riesce a lasciare Vienna e a raggiungere, sognando "Guglielmo il Conquistatore", l’Inghilterra - un’isola in mezzo all’oceano! Morirà a Londra il 23 settembre 1939.
A sua memoria e gloria, è da ricordare che, se il suo primo lavoro "L’interpretazione dei sogni" richiama alla memoria la figura di Giuseppe, e il suo lavoro di interpretatore dei sogni del Faraone, l’ultimo lavoro risollecita a riflettere su “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e a proseguire il suo lavoro, quello di interpretatori e interpretatrici dei sogni dell’intera umanità. Uscire dallo Stato di minorità è possibile, non è “l’avvenire di un’illusione”. Non dimentichiamo di «coltivare il nostro giardino»!
Sul tema, nel sito, si fr.:
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
VITA, FILOSOFIA, STORIA E LETTERATURA...
BENEDETTO CROCE, LO SPIRITO DI "COLAPESCE", E LA VITA DI UN "PALOMBARO LETTERARIO". Una brillante ricognizione di Luisella Mesiano
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..... *
Chi dice che è morta? Prima che terapeutica l’invenzione freudiana è una rivoluzione etica. E la scommessa più ardita si chiama “desiderio”. Da assecondare così
di Massimo Recalcati (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Che cosa resta della grande lezione di Freud? Cosa resiste della esperienza sovversiva dell’inconscio? Cosa della grande rivoluzione culturale rappresentata dalla psicoanalisi è destinato a non essere cancellato? Il progresso delle neuroscienze, l’affermazione delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, la potenza chimica dello psicofarmaco, la promessa di terapie brevi ed efficaci centrate sul cosiddetto “ sintomo bersaglio”, sembra abbiamo messo definitivamente all’angolo la psicoanalisi riducendola a uno spettro condannato a circolare solo nel museo delle cere del Novecento. Lo si grida da più parti e ormai da molto tempo: la psicoanalisi è morta, le sue categorie teoriche irrimediabilmente compromesse da un irrazionalismo di fondo che rifiuta di confrontarsi con la valutazione scientifica, la sua efficacia terapeutica dubbia, la proverbiale lunghezza delle sue cure assolutamente sfasata rispetto al ritmo performativo richiesto dallo spirito del nostro tempo e indice di una fumisteria epistemologica e clinica priva di fondamenti.
Perché allora dovremmo insistere nel difendere tenacemente l’invenzione di Freud? Il nucleo di questa invenzione è etico prima che terapeutico. Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certamente della natura borghese dell’Io o dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità assai più ampia che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità. Certamente questo riguarda la sessualità umana che
Freud rivela essere sempre parzialmente contaminata da quella infantile e pregenitale come se non esistesse una sessualità cosiddetta “matura”, “genitale”, perché essa vive e si nutre di fantasmi che provengono dalle esperienze infantili del corpo pulsionale.
Ma la prima vera e grande sovversione etica imposta da Freud è quella che ci costringe a modificare la nostra ordinaria concezione della malattia e della sofferenza psichica. Questo è un contributo ancora attualissimo e nevralgico della psicoanalisi: l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto - tra coscienza, preconscio e inconscio, tra Es, Io e Super- io - ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro stesso essere, della nostra più propria intimità.
L’inconscio freudiano è infatti “uno stato nello stato” - un “territorio straniero interno” - che obbedisce a una legislazione che eccede radicalmente quella che governa il funzionamento normativo dell’Io. Nei sogni, nelle nostre più quotidiane sbadataggini, nei lapsus, nei sintomi di una singolarità eccedente l’Io parla, manifesta la propria voce dissonante disturbando il funzionamento diurno della coscienza e del pensiero. Ne deriva, appunto, un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto. Se queste procedure egoico-narcisistiche di esclusione si rafforzano, se il soggetto persegue una rappresentazione solo ideale di sé stesso finalizzata a scongiurare l’esistenza di quelle parti di sé giudicate “incompatibili” con questo stesso Ideale, la vita si atrofizza e si ammala. È un principio clinico che riguarda tanto la vita individuale quanto quella collettiva: i confini che disegnano la nostra identità devono essere plastici, capaci più di integrare lo straniero interno che di scindere e segregare. La psicoanalisi incoraggia una politica anti-segregativa.
La prima grande lezione etica della psicoanalisi consiste nel favorire una concezione indebolita della soggettività che consenta il transito e l’apertura in alternativa a ogni sua illusione identitaria di padronanza che finisce per irrigidire i propri confini contribuendo alla loro chiusura.
Quale è il volto dello straniero che si tratta di accogliere? Innanzitutto quello del desiderio che esprime la dimensione radicalmente insacrificabile della singolarità. Si tratta di un’altra grande e ardita scommessa della psicoanalisi: non contrapporre la ragione al desiderio - come la luce all’ombra - ma fare della “ voce del desiderio” la voce stessa della ragione. È questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce la sua attitudine, la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio - assimilato kantianamente da Freud alla “voce della ragione” - non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà. La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni tentativo di assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale.
È il tratto, se si vuole, irriducibilmente “femminista” della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare, per la sua differenza assoluta, per l’incomparabile, per la vita non nel suo statuto generico e biologico ma nel suo nome proprio, nel suo volto unico e irriproducibile. Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio - la vita della singolarità - è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra, anomala.
La psicoanalisi opta per l’accoglienza di questo “straniero interno” come condizione di possibilità per l’accoglienza della vita in tutte le sue forme più divergenti. Essa contrasta politicamente ogni conformismo del pensiero, ogni attitudine all’adattamento passivo, ogni ideale moralistico di normalità. Non esiste infatti mai un “rapporto giusto col reale”, affermava Lacan. Ciascuno ha il compito di trovare la propria misura della felicità.
La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario. La sua vocazione è antifascista nel senso più radicale e militante del termine: veglia affinché la tentazione autoritaria che spinge l’uomo verso il padrone o verso il suo carnefice che promette la tutela autoritaria da ogni rischio che la libertà della vita fatalmente impone, sia avvistata per tempo.
La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che, in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. È la dimensione “fascista” della psicologia delle masse che costituisce un grande capitolo della ricerca sociale e politica della psicoanalisi oggi più che mai attuale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Schnitzler, Klimt, Loos
Così Sigmund irruppe nel biennio della svolta
di Claudia Provvedini (Corriere della Sera, 23.01.2018)
Lo spostamento della data di uscita dell’«Interpretazione dei sogni» dal 1899 al 1900 fu un desiderio del suo autore, Sigmund Freud. Quella, per così dire, rimozione era però in lui tutt’altro che inconscia: volle che il suo nome aprisse il ‘900.
«È impressionante la consapevolezza che Freud aveva del valore epocale di quel libro», rileva Mara Fazio, docente di Teatro e Spettacolo moderno e contemporaneo alla Sapienza di Roma, che con «La Vienna di Freud» ha aperto gli incontri attorno alla nuova produzione del Piccolo Teatro.
«E in quel punto di svolta tra i due secoli, si addensarono ingegni e opere tali da rendere la capitale dell’impero austro-ungarico rivale di Parigi e Londra. Non mi pare si possa dire altrettanto dell’Europa nel passaggio tra XX e XXI secolo, se non per la tecnologia».
Fu a Vienna, il ‘99-00 un prodigioso biennio. «Nello stesso anno scelto da Freud, il 1900, un altro ebreo viennese, Schnitzler, che aveva studiato alla Scuola di medicina ed era stato medico prima che scrittore, nel racconto I l Sottotenente Gustl introduce nella letteratura di lingua tedesca il monologo interiore, poi ripreso nella Signorina Else , ragazza nevrotica e forse isterica».
Tra i due ci fu rivalità? «Piuttosto si trattò di sintonia intellettuale e condivisione di uno stesso clima culturale che stimolava la curiosità scientifica nei confronti della mente e delle emozioni. L’anno 1900 vide anche completate da Otto Wagner le stazioni ferroviarie». Quelle che i viennesi, non amandole per la struttura nuda, chiamavano «le gabbiette». «E un altro architetto, Adolf Loos, scrisse Ins Leere gesprochen , Parole nel vuoto, in cui attaccava la Neue Secession, corrispettivo dell’Art Nouveau».
Se invece Freud avesse lasciato come data il 1899... «Si sarebbe trovato a condividerla con il quadro Nuda Veritas di Klimt, nudo femminile con chioma rossa trapunta di margherite. E con la IV Sinfonia in Sol maggiore di Mahler che a Vienna aveva appena diretto la II. E ancora con Verklaerte Nacht, Notte trasfigurata di Arnold».
In quell’anno però si manifestarono anche attacchi alla psicoanalisi. «Quelli di Karl Kraus sulla sua rivista satirica Die Facke l». E già nel 1901, contro la «grande scienza dei segni» si rivoltò Hofmannsthal: nella «Lettera di Lord Chandos» dubita della possibilità della parola di trascrivere il preverbale, oggetto del lavoro analitico. Forse il desiderio di Freud di scegliere l’anno 1900 scaturì da un sogno premonitore .
Freud
Il dottore lotta con noi
Debutta stasera la nuova produzione del Piccolo Teatro di Milano
Tiezzi porta in scena l’inconscio i suoi sogni e quelli dei pazienti
Il regista spiega la chiave per rappresentare antichi e nuovi dolori, successi e fallimenti
di Maurizio Porro (Corriere della Sera, 23.01.2018)
La vita è fatta della materia di cui son fatti i sogni, diceva Shakespeare senza smentite. Ma i sogni sono fatti della materia di cui è fatto il teatro, soprattutto quelli offerti dall’inconscio di Freud. Così il cerchio si chiude. Federico Tiezzi è il regista di «Freud o l’interpretazione dei sogni» di Stefano Massini, grande produzione del Piccolo Teatro, gioco di illusioni al quadrato che passa attraverso antichi e nuovi dolori, successi e fallimenti.
«Quest’estate mi sono recato alla casa-museo Freud al 19 della Bergasse a Vienna, piena di pezzi d’arte africana. Suonando il campanello un giorno, solo, ho sentito a caldo il dolore e la ferita di chi andava a consultare il professore, passava il cortile col grande albero, saliva la scala al primo piano e si trovava davanti la targa “Dottor Sigmund Freud”. Ma la nostra non è la biografia di un dr. Freud riappacificato e realizzato, ma di uno che pensa e lotta: i rapporti con i pazienti sono come su un ring».
Tiezzi pensa a uno spettacolo molto cinematografico («credo sia il mio primo film»), con tanti setting e del resto, mentre i Lumière esordivano il 28 dicembre 1895, Freud analizzava il primo sogno.
Ma l’arte del cinema, a lungo disprezzata dal professore che rifiutò lauti guadagni, è coeva a quella dell’interpretazione dei sogni. Già nel 1933 un magnifico incubo cartoon, «Topolino e il dottore matto», contiene Hitchcock, Fellini, Lynch e Buñuel. «A questi registi e ad altri ho molto pensato. Il nostro lavoro - dice Tiezzi - è come si svolgesse nella testa di Freud: Massini usa i sogni citati dei pazienti nei libri, ma anche quelli del professore, assai turbato dai rapporti col padre, di cui metto in scena il funerale. Quando lessi Freud da liceale imparai che esiste sempre una scrittura manifesta e una latente, una tesi confermata da Pirandello. La verità è che Freud, amico di Schnitzler e del filosofo Ludwig Biswanger, smascherò i desideri e gli impulsi inconfessabili, mentre Vienna viveva il suo grande Rinascimento».
Si apre il vaso di Pandora. Quando apparve «L’interpretazione dei sogni», il 4 novembre 1899, ecco, in quel momento si spense l’eco dell’ultimo valzer ed iniziava il dolore straziante lancinante del Novecento che doveva per forza trovare rifugio in metafora onirica. «Stop Strauss: Schoenberg compone a soli 25 anni la “Notte trasfigurata” di cui sentiremo alcune note in sala. La Vienna della Belle époque getta la maschera, così si capirà che molti dolori sono allevati in famiglia, perché non sempre l’uomo riesce a stare al passo con le richieste della società».
Il prof. Freud rivoluzionario o reazionario? Rimandiamo il tema alla prossima puntata, ma vediamo il poster culturale che ha in testa il regista per uno spettacolo che, forse, sarà esso stesso un sogno vagante, acchiappato in platea come nel Nolan di «Inception». Allora, calendario alla mano: nel 1899 Schnitzler e Klimt hanno 37 anni, Richard Strauss 35, Von Hofmannsthal e Kraus 25, Musil 19; aggiungerei, altre latitudini, che Poe era morto da 50 anni, Joyce aveva 17 anni e Proust, amatissimo dalla «setta» Tiezzi-Lombardi, ne aveva 28 e solo nel ’13 apparirà la «Recherche», anche quello un immenso sogno.
«Lo spettacolo sarà la scoperta del linguaggio che ha rivoluzionato la vita e l’arte fornendo la chiave dell’interpretazione del mondo; ma anche un romanzo di formazione e la conferma che cinema e teatro vivono di una drammaturgia onirica, tanto che Freud studiò Ibsen e “Rosmersholm”. I sogni sono di Sigmund, citati da Freud, ma anche di Stefano Massini, egittologo consapevole che l’onirocritica è antica quando il mondo: i sogni sono nostri, è un patrimonio comune». Tra questi, quelli doc, del prof., riguardano la moglie Martha e il padre, suoi nervi scoperti. In uno poi c’è un uomo che si trova al gelo con alcune lucertole (i suoi pazienti?) e le sfama coi frutti di un albero di cui conosce chissà come il nome latino... ma a tutto c’è spiegazione. Lo sapeva Hitchcock che, nella «Donna che visse due volte», conta sul tronco gli anni della vecchia quercia. Lo sapeva Huston, che incaricò Sartre di scrivere la sceneggiatura del film sul professore: lo scrittore visse in empatia con Freud, si battè a lungo contro se stesso, però alla fine non se ne fece nulla, ma «I sequestrati di Altona» saranno poi il vero risultato freudiano.
«Così gli attori-pazienti, in analisi allo Strehler fino all’11 marzo anche nei week end, lottano con Freud, si riflettono in lui in una polifonia di allucinazioni, voci, tormenti, estasi di uomini senza qualità e senza maschera. Il teatro è sollievo, cura e non guarigione». Tutti in costume storico, ma attaccati all’àncora della contemporaneità: Fabrizio Gifuni, seduto sul titolo, è Freud, lui che sa accendere campi magnetici in platea, ma c’è un cast formidabile, 14 attori con Elena Ghiaurov, Marco Foschi, la Toffolatti, Maccagno, Ceriani e Giovanni Franzoni che, reduce dall’en plein nevrotico di Oscar Wilde, vive un atroce complesso di colpa per la morte dei fratelli.
Ma chi sarà il Freud di Tiezzi, di cui è uscito un volume Ubu con tutti i pezzi di Franco Quadri, che ha cominciato con lo spettacolo «Crollo nervoso» e voleva laurearsi con tesi su Bosch? «Sarà uno di noi che interpreta, riflette, pensa, trascrive sul taccuino, fa sdraiare sul lettino; ma anche un cercatore, un pellegrino sempre in dubbio sugli esiti della ricerca che boxa con i suoi pazienti».
Freud
La sua ricerca ideale per il cinema
Lo psicanalista Lingiardi: «I film oggi sono complementi didattici»
Ma il prof disse no a Hollywood
di Giuseppina Manindi (Corriere della Sera, 23.01.2018)
Sapeva che sarebbe stato un viaggio «pericoloso». Si trincerava dietro la paura delle malattie, del clima, ma in realtà Roma lo angosciava per ben altro, qualcosa che riguardava il profondo. E difatti Roma, in quei miti giorni di fine settembre del 1907, aveva in serbo per Sigmund Freud due incontri fatali: con il bassorilievo di Gradiva, che lo spinse a indagare nuovi baratri della psiche, e con quella nuova arte chiamata cinema. In piazza Colonna, su uno schermo all’aperto Freud vide i primi filmini, comiche del muto che lo lasciano «ammaliato».
Non a caso, cinema e psicoanalisi sono fratelli gemelli. Nati lo stesso anno, il 1895, quando a Vienna Freud pubblica i primi studi sull’isteria e a Parigi i fratelli Lumière mostrano in pubblico il primo film, 45 secondi in bianco e nero tremolante sull’uscita delle operaie dalle officine Lumière. Un doppio sogno costruito su evidenti affinità - immagini in movimento, oscurità, voyeurismo - destinato a infiniti intrecci futuri. La rassegna di psico-film curata da Maurizio Porro, dal 5 febbraio al 12 marzo all’Anteo, offrirà occasioni per meditarci su.
Ma se Freud restò incantato alla sua prima visione romana, non altrettanto accadde quando Hollywood lo interpellò. Nel 1924, pur trovandosi in ristrettezze economiche, rifiutò i 100mila dollari offerti dalla MGM per collaborare alla stesura di copioni su storie d’amore tra personaggi famosi, a partire da Antonio e Cleopatra. Due anni dopo altro invito, altro rifiuto. Sebbene stavolta la richiesta fosse più sensata, supervisionare la sceneggiatura de I misteri dell’anima di Pabst, primo film sulla psicanalisi, Freud si ritrasse indignato. «Non voglio aver nulla a che spartire con storie del genere» scrisse a Karl Abrahm, presidente della Società Psicanalitica, che prima tentò di convincerlo e poi accettò di collaborare lui stesso al film. E questo provocò la rottura tra i due.
«Freud non odiava il cinema, la sua diffidenza era verso un cinema che voleva raccontare la psicoanalisi - assicura Vittorio Lingiardi, psicanalista appassionato del grande schermo -. Ma detta con il senno di poi, aveva torto. Vera “fabbrica dei sogni”, il cinema tra tutte le arti visive ha dimostrato di essere la più adatta a raccontare la vita psichica».
Tanto che oggi alcuni film vengono adottati come complemento didattico nelle università. «Se una volta si portavano gli studenti a vedere le isteriche alla Salpêtrière, oggi si mostrano i meccanismi della psiche attraverso i paesaggi del cinema». Per esempio? «Se voglio parlare della fragilità analitica proietto Blue Jasmine di Woody Allen, mentre Natural Born Killer è un trattato sulla personalità antisociale. E niente come l’ Inquilino del terzo piano di Polanski spiega, complice Topor, come nasce il delirio psicotico».
E poi viene Hitchcock. « Psyco per me è il primo vero film psicanalitico. Hitch semplifica molto, ma sa trattenere i tre elementi chiave della psicanalisi: il trauma, la rimozione, la catarsi. Capisce che la psicanalisi al cinema è un successo, la usa per costruire il plot».
Altro discorso per Woody Allen: «Maestro nel raccontare le nevrosi quotidiane, meglio le sue, con quel tocco di ironia necessaria per trasformare il dramma in commedia». Ma se Hitch piega la psicologia al cinema e Allen stende il cinema sul lettino, che fa Cronenberg? «La affronta dal punto di vista del paziente, dentro i più oscuri pertugi della mente».
Impossibile scordarsi di Bergman e Buñuel. «Il primo usa la psicanalisi per sfiorare la metafisica, il secondo ne recupera la forza eversiva originaria». Ma il più psy di tutti resta Fellini. «Il più visionario. Jung, “lo scienziato veggente”, è il suo compagno di viaggi onirici». Ne resta ancora uno, Lars von Trier.
«Melancholia è il poema della depressione, Nymphomaniac il film impossibile sulla sessualità femminile. Due buchi neri della psiche illuminati dalla forza emotiva del cinema».
Essere giusti con Freud
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 23.04.2016)
Fabio [Elvio, fls] Fachinelli è stato una figura significativa della Società Psicoanalitica Italiana tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Pensatore elegante e originale, era poco incline all’ortodossia. La sua morte prematura privò la psicoanalisi del nostro paese di una voce «fuori dal coro». Massimo Recalcati, analista lacaniano, gli ha tributato recentemente un giusto riconoscimento. Nel farlo, ha sottolineato la sua presa di distanza dalla concezione freudiana dell’inconscio. La critica di Fachinelli a Freud, che Recalcati condivide e rilancia, seppure colga una prospettiva importante, lo fa a spese di una valutazione giusta del criticato. Questo non è privo di conseguenze: la critica che non coglie bene il suo bersaglio, non coglie bene neppure la propria prospettiva.
Dire che l’inconscio non è una minaccia, ma il luogo di un’apertura dell’essere che può trasformare il soggetto, è giusto. L’affermazione che secondo Freud l’uomo deve difendersi dal suo inconscio, arginarlo come pericolo interno, è infondata. Freud aveva una concezione omeostatica dell’apparato psichico: privilegiava la capacità della psiche di mantenere l’equilibrio del suo lavoro (la rappresentazione della realtà sul piano affettivo e ideativo) al variare delle condizioni esterne. Delle spinte pulsionali, alloggiate nell’inconscio, non aveva una percezione paranoica, considerava insidioso il loro conflitto con la realtà esterna. Nel suo modo di pensare l’essere umano è sano quando riesce a tener conto della realtà senza reprimere troppo le spinte vitali che vengono dal suo corpo.
Nella prospettiva freudiana l’Io, l’istanza dell’apparato psichico preposta all’autoconservazione, deve prevenire «un soddisfacimento pulsionale immediato e senza riguardi per nulla e nessuno» che rovinerebbe il rapporto con il mondo esterno, mettendo in discussione sia l’appagamento del desiderio sia quello del bisogno e quindi anche la sopravvivenza fisica del soggetto. Nello svolgere questa funzione l’Io non si comporta nei confronti delle pulsioni come se dovesse sbarrare l’accesso a un invasore. Nella metafora che Freud ha usato per rendere chiara la sua asserzione che “L’Io non è padrone in casa propria”, l’Io è il Re, la coscienza è il primo ministro e le forze pulsionali e i processi inconsci ad esse associate sono il popolo. L’Io è un monarca costituzionale che governa in nome e per il bene del suo popolo. Non ascolta solo il primo ministro.
Con la sua celebre asserzione «Dove era l’Es, l’Io deve avvenire», Freud non intendeva affatto dire che l’Io dovesse «bonificare» l’Es (l’inconscio pulsionale) come sostiene Recalcati, sulla scia di un accostamento tra Fachinelli e Lacan. L’Io era visto da Freud come prodotto di una differenziazione dell’Es che tiene conto delle condizioni oggettive dell’esistenza umana: deve crescere nel luogo dell’Es, come la casa si innalza sulle sue fondamenta. Tra l’Io e le forze pulsionali Freud non ha immaginato una divisione insormontabile, una barriera di difesa contro un nemico. Ha visto il loro rapporto in termini di continuità nella discontinuità, come processo di trasformazione perenne della materia umana. Questo processo è la matrice della nostra reale apertura al mondo, che alle sue radici è inconscia.
Il limite vero nel discorso di Freud deriva dal suo percepire l’apertura prevalentemente come rischio e dall’inclinazione conseguente a interpretare il piacere come ritorno dell’organismo a uno stato di equilibrio precedente. Ancorando, tuttavia, i processi trasformativi nel rapporto con la realtà, egli si allontanò da una concezione metafisica dell’inconscio.
Pierre Janet (1859-1947)
Un fantasma in casa Freud
di Vittorio Lingiardi (Il Sole Domenica, 23.03.2014)
L’opera di Pierre Janet può essere paragonata a una «grande città sepolta sotto le ceneri, come Pompei. Il destino di una città sepolta è incerto: può restare sepolta per sempre; può rimanere nascosta per essere saccheggiata dai predoni. Ma è anche possibile che un giorno sia dissotterrata e riportata in vita». La profezia di Ellenberger (La scoperta dell’inconscio, Boringheri) si è avverata: negli ultimi vent’anni i testi dello psicologo francese sono stati riportati in vita e molte delle sue idee alimentano le riflessioni di importanti clinici contemporanei.
Uno di questi, Philip Bromberg (Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina), arriva ad affermare che la posizione anti-Janet assunta da Freud «ci ha portato indietro di quasi cento anni», e paragona la «Janet renaissance» a un romanzo gotico a puntate dove il fantasma senza pace di Janet, scacciato dal castello da Freud cent’anni fa, oggi ritorna per tormentare i suoi discendenti.
Per quelli italiani, l’ultimo tormento, a pochi mesi dalla pubblicazione di L’automatismo psicologico del 1889 (Cortina, a cura di Francesca Ortu, postfazione di Giuseppe Craparo, recensito su queste pagine il 24 febbraio 2013 da Chiara Pasetti) è la traduzione della conferenza londinese dell’agosto del 1913 (pubblicata l’anno successivo sul Journal de Psychologie Normale et Pathologique). Si tratta di La psychoanalyse de Freud, in italiano semplicemente La psicoanalisi, che Bollati Boringhieri affida alla cura di Maurilio Orbecchi, che la introduce con un argomentato e combattivo j’accuse antifreudiano.
Se nei suoi primi scritti Freud fa riferimento ai lavori di Janet, riconoscendo l’importanza di alcune sue concettualizzazioni, successivamente gli muove critiche sempre più serrate, sottolineando le divergenze tra la sua «psicoanalisi» e l’«analisi psicologica» janetiana, fino a disconoscere ogni somiglianza tra i due approcci. E così, continua Ellenberger, «mentre su Janet cadeva il velo di Lesmosine, sul suo grande rivale, Sigmund Freud, si alzava il velo di Mnemosine».
Le belle pagine della conferenza di Janet ci restituiscono non solo le sue idee, ma anche le emozioni del suo conflitto col collega viennese. Parole a prima vista rispettose e cordiali si fanno ironiche e graffianti. Per tradire infine il dolente stupore di chi si è sentito privato non tanto, o non solo, del riconoscimento del proprio lavoro, ma di quel confronto che è al cuore di ogni percorso scientifico e intellettuale.
«Con mia grande vergogna», afferma nel commentare la natura apparentemente rivoluzionaria delle scoperte freudiane, «devo confessare che all’inizio non ho per nulla compreso l’importanza di questo sconvolgimento e, ingenuamente, ho pensato che i primi studi di Breuer e Freud altro non fossero che una conferma dei miei lavori più interessanti». E aggiunge: «Freud e i suoi allievi sono partiti dai miei primi studi sull’esistenza dei fenomeni subconsci nelle isteriche e sulle loro caratteristiche, senza criticarli: mi dispiace un po’, perché queste ricerche avrebbero bisogno di conferme e di critiche».
L’obiettivo della conferenza di Janet è mettere in luce le differenze tra la sua proposta e quella di Freud. Lo fa attraverso tre argomenti principali: i ricordi di avvenimenti traumatici (reali, non fantasmatici) e il loro ruolo nel determinare i sintomi; i meccanismi sottesi alla loro azione sul funzionamento mentale; la discussione sulla natura sessuale di queste memorie.
La sua lettura apre una finestra su un ambito di studio in costante evoluzione.
Le considerazioni di Janet sulla psicoanalisi vertono su tre punti fondamentali, a mio avviso ancora in grado di sfidare alcune posizioni e atteggiamenti contemporanei.
Primo, mette in dubbio l’originalità di Freud, il quale, più che aver «scoperto» l’inconscio, avrebbe rielaborato il sapere del tempo, attingendo in gran parte al collega francese: «Potei constatare con piacere che le loro osservazioni erano simili alle mie. (...) Questi autori si limitavano a cambiare qualche termine nella loro descrizione psicologica», ma allo stesso tempo accettando «tutti i concetti fondamentali, per quanto ancora al vaglio della discussione».
Secondo, mette in guardia dalla generalizzazione, dall’arbitrarietà e dalla semplificazione eccessiva dei metodi e dei principi tecnici analitici. Per non parlare dei limiti del linguaggio: «vago e metaforico». Molta psicoanalisi, afferma Janet, usa i pazienti per dimostrare le sue teorie: un caso eclatante è quello dell’interpretazione dei sogni, che l’analista metterebbe al servizio della dimostrazione delle sue teorie/dogmi.
Terzo, insinua che la psicoanalisi tende a vestirsi di misticismo e religiosità, tanto da praticare pratiche di scomunica o espulsione degli «eretici».
Le ultime battute di questo scritto ci colgono di sorpresa. Con un colpo di teatro Janet capovolge la prospettiva affermando che «saranno dimenticate le spavalde esagerazioni e i simbolismi rocamboleschi» della psicoanalisi e «soltanto una cosa sarà ricordata: la psicoanalisi ha reso enormi servizi all’analisi psicologica», giacché ha portato l’attenzione su temi ingiustamente trascurati dalla ricerca. La storia non gli ha dato ragione.
Dopo questo intervento, Janet sarà tacciato di eresia, emarginato e lentamente dimenticato. Alla sua morte, nota Orbecchi, dieci anni dopo quella di Freud, poteva essere considerato un sopravvissuto. Oggi, però, i più grandi esperti di trauma e dissociazione, da van der Kolk a van der Hart, da Nijenhuis a Liotti, non perdono occasione per ringraziarlo del suo lavoro e tributargli onori teorici e clinici. Janet, dicono, è il padre del disturbo da stress post-tramatico, il primo a studiare la dissociazione come processo psicologico fondamentale con cui l’organismo reagisce a esperienze soverchianti. Il primo a mostrare che le memorie traumatiche possono essere espresse come percezioni sensoriali, stati affettivi e ripetizioni di comportamenti. Il fantasma scacciato dal castello della psicoanalisi è tornato in circolazione e si sta togliendo qualche soddisfazione.
INTERVISTA
André Green parla del ruolo degli affetti
Il lungo viaggio di Freud nelle province psichiche
di Francesca Borrelli (il manifesto, 27.05.2010)
Quando ha scritto di sé nel volume tradotto da Borla nel ’95 con il titolo Uno psicoanalista impegnato André Green ha attribuito il suo gusto per l’indipendenza al fatto di essere un immigrato: arrivò infatti a Parigi dal Cairo sul secondo battello che collegava l’Egitto all’Europa, nel 1946, e proprio in virtù del suo sradicamento gli fu agevole guardare a quelli che sarebbero stati i suoi maestri da una distanza critica che ne ha fatto uno tra i maggiori interpreti del pensiero psicoanalitico contemporaneo.
Agli esordi della sua carriera, la duplice passione per la filosofia e per le scienze biologiche lo spinse verso la psichiatria, che esercitò durante l’ internato al famoso ospedale Sainte-Anne: erano i primi anni ’50, anni ricordati come «straordinari» per la fecondità delle persone provenienti da diverse discipline che si incrociavano in quell’ospedale; intanto, venivano scoperti i neurolettici e il dibattito tra gli organicisti e i sostenitori delle cause morali della follia animava opposte fazioni di ricercatori.
Della lunga parabola percorsa da Green fa parte l’incontro burrascoso con Lacan, il fascino esercitato dai suoi seminari e poi la diffidenza causata dal fatto che ogni esperienza emotiva sembrava esiliata dalle teorizzazioni dell’estroso psicanalista, una diffidenza approdata al rifiuto di seguirlo nella scissione che aveva portato alla nascita della Società francese di psicoanalisi. Gli affetti avevano invece un ruolo di primo piano negli scritti dei due inglesi che più influenzarono Green - Winnicott e Bion - di cui ancora oggi parla con devozione.
Ma l’autore dal quale lo psicoanalista francese riconosce di essere stato più influenzato nel corso di tutta la sua esistenza resta Shakespeare, che ha esercitato su di lui - dice - «un ruolo di analista», ossia un contatto privilegiato con il suo incoscio. Proprio di Amleto è tornato a parlare alla biblioteca Delfini di Modena, dove ha incontrato il semiologo Paolo Fabbri e prima ancora ha risposto alle domande che seguono.
Il tema del prossimo congresso della società psicoanalitica italiana riporta in primo piano l’inconscio, tema quanto mai generico, sul quale sarebbe utile una messa a fuoco.
C’è in effetti un certo misconoscimento dell’incoscio, da parte degli stessi psicoanalisti, che usano il termine in una accezione volgarizzata, senza preoccuparsi della distinzione introdotta in questo concetto da Freud dopo il 1920, ossia dopo la stesura di Al di là del principio di piacere. Due anni più tardi, infatti, inaugurerà il concetto di Es: «un pronome impersonale - scrive - che sembra particolarmente adatto a esprimere il carattere precipuo di questa provincia psichica, la sua estraneità all’Io». Sorprendentemente, molti psicoanalisti sostengono che tra le formulazione dell’inconscio e quelle dell’Es non c’è praticamente differenza, perché le parole impiegate sarebbero più o meno le stesse: una lettura rapida, questa, dunque falsante. Infatti, bisognerebbe intanto notare che Freud non riprende più il concetto di rappresentazione, lo lascia cadere, non lo fa rientrare nelle sue definizioni dell’Es. La psicoanalisi era cominciata con l’interpretazione dei sogni, che è appunto un sistema di rappresentazioni, ma poi, - mentre avanza nelle sue teorizzazioni - Freud critica i postulati più antichi, e si ritrova obbligato a accordare agli affetti un ruolo molto più importante di quello che aveva previsto. Già nel 1914, in un articolo titolato «Ricordare, ripetere e rielaborare», aveva sottolineato elementi che la sua prima organizzazione dell’apparato psichico - quella in cui aveva distinto l’inconscio, il preconscio e il conscio - non era stata in grado di abbordare. Ora, quando descrive ciò che si svolge nel setting analitico, dice che il paziente «ripete invece di ricordare». Ossia, piuttosto che fare riaffiorare alla memoria quanto aveva dimenticato o rimosso, lo traduce in azione: e questo passaggio all’atto a sua volta mostra «le sue inibizioni, i suoi atteggiamenti inservibili, i tratti patologici del suo carattere». È questo il cambiamento a partire dal quale Freud esprime le sue critiche verso l’inconscio, rendendosi conto di avere accordato troppa attenzione alle percezioni e alle rappresentazioni, e non abbastanza agli affetti e alle emozioni.
Lei ha riconosciuto a Lacan il merito di avere riportato all’attenzione degli psicoanalisti, che lo avevano dimenticato, il ruolo del desiderio, recuperandolo dalla tradizione filosofica...
L’ho scritto sì, ma in un contesto in cui la psicoanalisi ufficiale mostrava la sua decadenza e dunque Lacan sembrava avere il ruolo di chi raddrizza la rotta. Ma c’è un Green degli esordi, uno di mezzo, e uno della fine. Perciò, più tardi dirò che né la psicosi né tutte le patologie che esorbitano le nevrosi hanno a che vedere con problemi che investono la sfera del desiderio. Lacan non ha mai voluto sentire parlare di questo, tutto ciò che lui non aveva teorizzato semplicemente non esisteva: era un uomo molto intellegente ma disonesto. Una o due volte ha citato Winnicott ma non ha mai riflettuto sulle articolazioni dei suoi concetti, né ha mai preso in considerazione Bion, analisti che per me - invece - hanno avuto una importanza capitale. Lacan parlava davanti a un pubblico acquisito, che prendeva appunti ai suoi seminari senza capirne nulla, lo dico perché ne ho avuto alcune testimonianze.
Come interpreta la diffusione così capillare della depressione nella società contemporanea?
È vero che la si incontra più spesso, ma bisogna prestare attenzione a alcune distinzioni necessarie: la depressione è una dimensione dell’esistenza prima ancora di essere una malattia. Non è corretto parlare di depressione, per esempio, quando si tratta della perdita di una persona cara, perché il lutto fa parte della vita. Da una parte gli psichiatri hanno fatto progressi, ma dall’altra si è arrivati a mio avviso a una dissoluzione del concetto di depressione, nella quale va a finire di tutto, dal surmenage alle questioni genetiche, che di certo non spiegano nulla. La depressione resta un enigma, un immenso problema sul quale bisogna ancora molto lavorare.
Lei ha scritto che la parola psicoanalitica scioglie dal lutto il linguaggio. Cosa intendeva dire?
Quando il linguaggio normale, quello della comunicazione, procede verso un movimento luttuoso, ossia si impoverisce affettivamente, la parola psicoanalitica finisce per ritrovare una certa vitalità che permette agli affetti più antichi di recuperare la loro carica spenta. E così anche il linguaggio esce dal lutto.
L’inconscio ALLO SPECCHIO
QUANDO I NOSTRI PENSIERI DIVENTANO CORPI E AZIONI
di Fernando Riolo *
Anticipiamo lo stralcio introduttivo di una tra le relazioni principali del XV congresso nazionale, che riunirà la Società psicoanalitica italiana da oggi a Taormina. Tra gli obiettivi degli eredi di Freud, quello di leggere e interpretare le forme più recenti con cui si manifesta il disagio psichico *
Una teoria scientifica, diceva Karl Popper, funziona come un faro: mette in luce le cose che descrive e che senza di essa non avremmo mai visto; ovvero ci consente di vedere quelle dimensioni sottostanti alle cose, che pur essendo determinanti per la loro realtà, non sono osservabili perché non possono essere viste. L’inconscio è un esempio di una realtà che essendo all’origine della coscienza non può essere cosciente: lo vediamo solo dai suoi effetti sulla coscienza e attraverso il filtro della teoria. La teoria è dunque strumento essenziale per l’osservazione. Non avanziamo di un passo se una teoria non ci conduce.
L’indagine sulla genesi inconscia dei contenuti della coscienza fu resa possibile dalla teoria di Freud e questa sta a fondamento del nostro metodo clinico. La legittimità di questo metodo si basa sul presupposto che l’inconscio, in sé irrappresentabile e ineffabile (a-phané), continuamente irrompe nel territorio della rappresentazione con le sue manifestazioni, le sue fanìe ; e attraverso queste diviene suscettibile di essere indagato e di pervenire alla «effabilità». Ne consegue che l’inconscio che possiamo indagare è prevalentemente, anche se non esclusivamente, un inconscio rappresentazionale, le cui forme sono - nei termini di Freud - Vorstellungen, Darstellungen, Entstellungen: idee, figurazioni, de-formazioni.
Ma il limite fin dove queste espressioni ci assistono è continuamente travalicato dal confronto con i fenomeni drammatici e incomprensibili con i quali ci cimentano i nostri pazienti di oggi e la cultura del nostro tempo; fenomeni che sconfinano in un territorio che è al di là della rappresentazione. Io penso che i modi in cui questo territorio si declina nel suo rapporto con lo psichico, costituiscano per la psicoanalisi una sfida cui siamo chiamati a rispondere: l’ho chiamata la sfida della rappresentabilità. Cercherò di inoltrarmi oggi nell’esplorazione di quel territorio, tramite una storiella da me inventata.
Sir Wilfred si avvicinò alla finestra e aprì la busta. Ne estrasse un rullino fotografico. Iniziò a srotolarlo: strano, l’immagine impressa era sempre la stessa. Osservando meglio vide che i fotogrammi rappresentavano la traiettoria di un proiettile; la traiettoria lo colpì, perché la curva si impennava rapidamente in un’iperbole, quasi a voler uscire dalla pellicola. Questa osservazione gli suscitò una certa inquietudine: che significa? È un messaggio cifrato? Una minaccia? Si rammentò che in alcuni paesi del Sud la malavita usava inviare alla vittima predestinata un proiettile come avvertimento. Ma qui non siamo nel Sud pensò; e poi la fotografia di un proiettile non è un proiettile. La distinzione gli era familiare per via dei suoi studi di logica; sapeva bene la differenza che c’è tra una cosa e la rappresentazione di una cosa. Dopo tutto non c’era proprio lì davanti a lui, sulla parete, quella famosa riproduzione di una pipa con su scritto «Cette pipe n’est pas une pipe»? Sorrise della propria ingenuità: un’immagine alla fine non ha mai ucciso nessuno. Ma non potè completare quel pensiero, perché nello stesso momento srotolò l’ultimo fotogramma e si accasciò fulminato sul pavimento con un forellino rosso sulla tempia. Il proiettile aveva bucato la rappresentazione. «L’inconscio si rivela dallo scontro - dice una paziente - come le particelle della materia: le vediamo solo facendole scontrare; sono gli urti che le fanno essere.»
Un’analisi è continuamente colpita da particelle che attraversano il tessuto della rappresentazione rischiando di lacerarlo. Ciò che sembrano essere parole, immagini, o sogni, possono rivelarsi proiettili e, a dispetto della loro apparente appartenenza al campo del pensiero, possedere la qualità di «cose».
Di correre questo rischio non possiamo d’altronde fare a meno, poiché alla fine una rappresentazione ci serve perché rinvia alla cosa; e questa deve essere in qualche modo presente se deve essere analizzata. Come sappiamo da Freud, niente può essere trasformato in absentia o in effigie. Ma nemmeno, direi, in absentia di effigie: poiché è la rappresentazione che possiede il significato della cosa per noi; e grazie a questo consente la contemporanea trasformazione di entrambe. Dovremmo perciò riuscire a mettere insieme le rappresentazioni e le cose.
Non si tratta di un problema nuovo. Già Freud, negli Studi sull’isteria, aveva parlato di esperienze e affetti che non sono mai stati formulati in pensieri e per i quali si dà una possibilità d’esistenza solo virtuale; sicché per essi «la terapia consisterebbe nel completamento di un atto psichico precedentemente incompiuto». Freud anticipava qui quello che sarà per l’analisi un nuovo compito: non solo il recupero dei pensieri rimossi, ma il recupero di quegli atti psichici che non sono mai divenuti pensieri: impulsi emotivi, esperienze e affetti non riconosciuti e non rappresentati; e tuttavia psichicamente influenti. E poiché non si esprimono in forma di pensieri, si ripresentano in forma di sensazioni e azioni.
Un ruolo cruciale svolge in questo processo il meccanismo del «rigetto» (Verwerfung), che Freud distinse nettamente dal meccanismo della rimozione: «Esiste una forma di difesa, più energica ed efficace (della rimozione), che consiste nel fatto che l’Io rigetta l’idea incompatibile unitamente al suo affetto e si comporta come se all’Io non fosse mai pervenuta». Per cui il soggetto giunge a un completo rimodellamento del proprio mondo interno e esterno: da un lato il mondo interiore è svuotato dei suoi contenuti, affetti e significati; dall’altro viene creato un nuovo mondo esteriore esente dal conflitto e costruito unicamente in base ai moti di desiderio che la precedente realtà impediva.
Un esempio di questo processo è la realizzazione, nell’anoressia, di un corpo superiore, perfetto, espressione del rigetto della propria effettiva realtà e della contemporanea creazione allucinatoria di un presunto mondo ideale, di cui il corpo superiore è l’incarnazione e l’immagine. La semplice corrispondenza di questa immagine a modelli estetici e culturali diffusi non dovrebbe perciò trarci in inganno. Pure se, a ben vedere, anche quei modelli estetici condividono il medesimo carattere di realizzazioni allucinatorie collettive. In questo senso, il meccanismo del rigetto sarebbe l’operatore privilegiato di una Kultur caratterizzata dalla produzione normalizzata di realtà illusionali e dalla ricerca esasperata di esperienze emozionali e sensoriali, quali modi d’azione finalizzati all’evitamento del riconoscimento di sé e dei limiti di sé.
La portata e le conseguenze del rigetto sono pertanto molto diverse da quelle della rimozione. Qui non si tratta del mancato avvento di determinati contenuti psichici alla coscienza; bensì della loro «abolizione» quali contenuti psichici e della loro sostituzione con oggetti reali: i pensieri diventano corpi, azioni, «cose». In altre parole, in quanto comporta l’evacuazione della realtà interna in quella esterna, il rigetto sfocia in un collasso del mentale nel reale - un processo che è destinato comunque a fallire il suo scopo: poiché, come diceva Freud, ciò che è stato abolito dentro di noi, continuamente a noi dal di fuori ritorna. (...)
* il manifesto, 27.05.2010
Il celebre psicoanalista è morto a Parigi all’età di 84 anni
Addio a André Green, l’anti-Lacan francese
di Luciana Sica (la Repubblica, 24.01.2012)
Ultimo personaggio della stagione psicoanalitica francese, venerato ma anche detestato per quel suo stile più incline al sarcasmo che all’ironia, André Green è morto domenica a Parigi, all’età di 84 anni. Se in molti ambienti era considerato il più grande analista del pianeta, Green disprezzava buona parte dei colleghi come burocrati della psiche privi di ogni passione: "fanno" gli analisti, ne hanno l’aria, ma non lo "sono" - «per lo più - disse una volta in un’intervista - si tratta di aggiungere una piuma al cappello...».
Madre portoghese e padre spagnolo, Green era nato al Cairo nel marzo del ’27 crescendo in una comunità ebraica di segno cosmopolita che lascerà nel ’46 alla volta di Parigi. Dall’esperienza tra i circoli dell’ospedale Saint-Anne all’incontro con Winnicott, dal rapporto conflittuale con Lacan alla frequentazione di Derrida e Deleuze, Green ha attraversato in pieno l’epoca post-freudiana diventando l’incarnazione di una certa psicoanalisi attenta al dibattito filosofico, alla letteratura, al teatro. Non a caso - tra i suoi scritti - quelli sull’Amleto, su Proust e anche su Dostoevskij non sono marginali. Altri suoi titoli sono ormai dei "classici" come Narcisismo di vita narcisismo di morte, Il lavoro del negativo, La psicosi bianca (usciti da Borla), Il discorso vivente (Astrolabio), i saggi sulla "follia privata" e sulle Idee per una psicoanalisi contemporanea pubblicati da Raffaello Cortina: editore anche dell’ultimo libro di André Green. Di quel suo "testamento" bellissimo e spregiudicato sui fallimenti terapeutici che è Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico.