di Federico La Sala
«Ho cominciato a considerare con attenzione il concetto di bisessualità e considero la tua idea in proposito come la più significativa per il mio lavoro, dopo quella di "difesa"» (S. Freud a W. Fliess, 04.01.1898).
Proseguendo nel suo «viaggio attraverso la psicanalisi, e oltre»[1], Fachinelli è giunto finalmente dinanzi al mare. «Sulla spiaggia», questo è il titolo del primo e più originale scritto [2] de La mente estatica[3]. Dopo aver tentato, con coraggio e decisione, di passare di qua e di là, sembra che abbia trovato un passaggio decisivo, e riconquistato - al di là di una psicanalisi entrata concettualmente in irrimediabile crisi - la posizione originaria di Freud (come di ogni grande scienziato) di fronte all’inconscio e all’ignoto: «La rinuncia alla sopravvalutazione della qualità della coscienza diventa condizione prima indispensabile per qualsiasi visione esatta dello svolgimento dello psichico. Secondo l’espressione di Lipps, l’inconscio è il cerchio maggiore, che racchiude in sé quello minore del conscio [...] L’inconscio è lo psichico reale nel vero senso della parola, altrettanto sconosciuto - sottolinea Freud - nella sua natura più intima quanto lo è la realtà del mondo esterno, e a noi presentato dai dati della coscienza in modo altrettanto incompleto, quanto il mondo esterno dalle indicazioni dei nostri organi di senso»[4].
Con La freccia ferma [5], ma soprattutto con Claustrofilia[6], egli si era posto il problema di abbandonare la strada del "padre", ma molte erano ancora le resistenze e le paure. Lo sguardo era ancora quello di Freud: «Per indicare al lettore la via in cui mi muovo, vorrei citare - egli scrive - le parole di John Locke nell’Introduzione al Saggio sull’intelletto umano: «È di somma utilità al marinaio di conoscere la lunghezza della sua fune, anche se con essa egli non può scandagliare tutte le profondità dell’oceano. È bene che egli sappia che essa è abbastanza lunga per raggiungere il fondo in quei luoghi che sono necessari per dirigere il suo viaggio e per avvisarlo delle secche che potrebbero rovinarlo. Il nostro compito non è quello di conoscere tutte le cose, ma solo quelle che concernono la nostra condotta». Questo passo stupendo - egli prosegue - coglie il nucleo del sapere scientifico in generale. Se non presumo troppo, mi piacerebbe che esso fosse anche l’emblema di quel particolare sapere - sulla fune e sull’oceano, come si vedrà - che qui cerco di sviluppare»[7].
Tuttavia fatti nuovi accadevano e nuove idee prendevano corpo: nel corso del lavoro analitico, un paziente lo butta e lo trattiene. nella linea d’ombra - e la "nave" resta immobile [8] - ma, poi, ne viene fuori e giunge a definire un’area dello sviluppo precoce - una zona in cui Freud non s’era mai avventurato - che chiama, appunto, area claustrofilica[9]. Con questa nuova acquisizione, e con la decisione di affrontare i problemi connessi alla nascita, il suo instabile equilibrio con Freud, con la psicanalisi, e, non ultimo, con l’oceano, si modifica profondamente.
Nel 1985, sulla spiaggia di san Lorenzo a mare, in un pomeriggio ventoso di settembre, guardando affascinato il nastro del mare, «dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario» emerge e lo conquista: «Dopo lo squarcio iniziale, la psicanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di difendersi, controllare, stare attenti, allontanare... Ma certo, questo è il suo limite: l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno. Bardato, corazzato [...] Ma se questo è vero bisogna rovesciare la prospettiva, mettersi dall’altro lato (della barricata, mi viene da scrivere: ma usando questa parola, resto nell’ambito dell’arte militare). Non inibizione, rimozione, negazione, eccetera: i diversi stratagemmi, le difese parziali di un’impostazione difensiva generale»[10].
La suggestione lockeana viene lasciata cadere. La fune-coscienza, «come misura di tutto lo psichico»[11], è riconosciuta per quello che è - uno strumento funzionale a vecchie strategie, una metafora inadeguata per le nuove prospettive che si intravedono.
La questione, infatti, ora è decisamente un’altra: non si tratta solo di cambiare strada, si tratta soprattutto di cambiare "casa". Si tratta di ristrutturare la coscienza: trasformare una coscienza chiusa in una coscienza aperta [12], o, detto altrimenti, "passare" da una monade con porte e finestre sbarrate (o, addirittura, inesistenti - come la concepiva Leibniz) a una monade con porte e finestre aperte, sul mare. E il fulcro di questo movimento è individuato in una disposizione della coscienza caratterizzata dall’accoglimento e non dalla vigilanza, dall’intrepidezza, «atteggiamento infinitamente più ricco e alla fine forse più efficace» della paurosa prudenza di chi edifica ed innalza barriere e muraglie: «Quest’idea dell’accettare e della sua importanza - scrive Fachinelli -mi è venuta in forma pura, astratta, nel momento in cui assonnato, ho accettato e direi quasi ascoltato ciò che mi veniva da non so dove»[13].
Sembra un’indicazione di Heidegger [14], o, più generalmente, di qualche mistico, ma non è così. La ricerca di Fachinelli, invece, ha una densità specifica e una tensione tutta propria: si colloca all’interno di un orizzonte critico-’dialettico’ (per capirsi) e apre la strada a percorsi nuovi, verso una soluzione inaudita e (per molti versi) impensabile dell’oltrepassamento della metafisica e, insieme, dell’uomo da esso "prodotto".
Sulla spiaggia, dinanzi al mare. Una situazione banalissima può metaforizzarci in tutte le direzioni e in tutti i sensi. Chi viene proiettato a due passi e chi addirittura nell’universo. Chi nel più alto dei cieli e chi all’inferno. A ciascuno secondo la sua sapienza e a ciascuno secondo la sua capienza. Infiniti livelli. E tutto dipende dalla propria disponibilità ad accogliere. La cosa è concessa, non voluta - egoistamente.
Non si tratta né di arroganza, né di aristocraticismo, come potrebbe apparire a chi guarda superficialmente o, peggio, dall’alto del suo turrito castello: «E che volete far, Signor Sarsi, se a me solo - scrive Galilei nel Saggiatore - è stato conceduto di scoprir tutte le novità celesti, ed a niun altro nissuna?».
Ai miei occhi - scriveva Newton (e la considerazione vale anche per Galilei) - «appaio essere stato null’altro che un ragazzo intento a giocare sulla riva del mare, distraendomi di tanto in tanto con la scoperta di un ciottolo più liscio o di una conchiglia più aggraziata delle altre, mentre il grande oceano della verità si estende, del tutto sconosciuto, dinanzi a me»[15].
È vero che «gli uomini furono condotti allo studio della filosofia, come in realtà lo sono ancora oggi, dalla meraviglia»[16], ma è anche vero che questo vale per chi ha occhi per vedere, orecchie per sentire. A parità di condizioni, ciò che decide è la disponibilità ad accogliere, ad accettare, ad ascoltare, a vedere, quanto ci viene incontro o quanto ci sorprende e stupisce.
Siamo immersi in un oceano di luce (E=mc2), ma chi mai (fisico o no) ha avuto il coraggio di accogliere e allevare pensieri simili: «Che aspetto avrebbe il mondo se io mi trovassi a cavallo di un raggio di luce?»[17]. Einstein aveva sedici anni ed era studente di ginnasio, quando aprì la "porta" della sua coscienza a tali idee; ne aveva 26, nel 1905, quando in poche settimane scrisse il suo primo saggio - non solo sulla luce o, come dice il titolo, Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento - sulla teoria della relatività speciale (o ristretta) e aprì la strada a «un intero continente di nuove idee» (J. Thomson). Ricordando con piacere questo periodo, molto tempo dopo, Einstein ebbe a dire a Leo Szilard: «Sono stati gli anni più felici della mia vita. Nessuno s’aspettava da me che fossi la gallina dalle uova d’oro»[18].
L’ "avventura" di Fritjof Capra non è iniziata diversamente: «In un pomeriggio di fine estate, seduto in riva all’oceano, osservavo il moto delle onde e sentivo il ritmo del mio respiro, quando all’improvviso ebbi la consapevolezza che tutto intorno a me prendeva parte a una gigantesca danza cosmica. Essendo un fisico, sapevo che la sabbia, le rocce, l’acqua e l’aria che mi circondavano erano composte da molecole e da atomi in vibrazione, e che questi a loro volta erano costituiti da particelle che interagivano fra loro creando e distruggendo altre particelle. Sapevo anche che l’atmosfera della Terra era continuamente bombardata da una pioggia di raggi cosmici, particelle di alta energia sottoposte a urti molteplici quando penetrano nell’atmosfera. Tutto questo mi era noto dalle mie ricerche nella fisica delle alte energie, ma fino a quel momento ne avevo avuto esperienza attraverso grafici, diagrammi e teorie matematiche. Sedendo su quella spiaggia, le mie esperienze precedenti presero vita; vidi "scendere" dallo spazio esterno cascate di energia, nelle quali si creavano e si distruggevano particelle con ritmi pulsanti; "vidi" gli atomi degli elementi e quelli del mio corpo partecipare a questa danza cosmica di energia; percepii il suo ritmo e ne "sentii" la musica; e in quel momento seppi che questa era la danza di Siva, il Dio dei Danzatori adorato dagli Indù»[19].
Sulla spiaggia. Tenere aperta la coscienza sull’orizzonte marino: una preziosa indicazione, da coniugare con quest’altra - «l’accoglimento non è simmetrico alla difesa». Qui non si parla di un banale capovolgimento (tipo, al posto dell’io l’es) o di azzeramento di uno dei due poli della relazione (riduzionismo e hybris-dismo, in un senso o nell’altro). Si indica e si parla di una metamorfosi connessa alla scoperta e all’utilizzo di un altro piano (sempre negato e rimosso) della "casa", che da sempre abitiamo: «c’è un funzionamento diverso, un’altra logica»[20]. Non si tratta più né di barricarsi, vigilare, difendersi, né di armarsi e andare all’attacco; si tratta di accogliere. Accogliere: femminile ... un altro "raggio di luce". Si tratta di capire, di rendersi conto che il femminile è «nel cuore, il cuore di molte esperienze», «anche di questa - precisa Fachinelli - mia esperienza»[21].
Senza equivoci e senza serrate. Il messaggio non è per soli uomini o per sole donne (per uomini soli o per donne sole). Né è ai soli travestiti che egli pensa [22]. Si parla e si tratta del venir fuori dalla trappola (o dalla gabbia) in cui tutti siamo. È a W. Reich che occorre pensare: «Fondamentalmente la vita è semplice. La complica solo la struttura umana, quando è caratterizzata dalla paura di vivere».
Fachinelli ha ripreso le indicazioni di Reich [23] e le "stravolge": l’attenzione deve essere spostata, non si tratta né di demolire né di saltare oltre le barriere, ma «piuttosto di lasciar affluire, lasciar defluire», e, così, «i paletti della difesa finiranno, forse, per scendere alla deriva»[24]. Non servono né i carri armati né gli astuti r-aggiramenti: quando si lasciano affluire e si lasciano defluire le cose, le cortine di ferro cadono da sole. Accogliere, si tratta di ripartire da questo punto di vista nuovo: «Le cose che vengono da un’altra parte: come un accento imprevisto che muta, che sposta l’intera figura. Da questo punto di vista, limiti ben evidenti della psicanalisi. E limiti ben evidenti dell’antropologia fondata su di essa»[25].
Né demonizzare, né omologare [26]. Accogliere: femminile... qui la questione non è solo e più psicanalitica. L’indicazione è più profonda di quanto non sembri. Non solo mette in discussione la psicanalisi e l’antropologia fondata su di essa (nel senso attivo e passivo), ma offre elementi preziosi per focalizzare meglio il vortice che muove il più generale processo di riorientamento gestaltico che è attualmente in corso in molti e diversi campi del sapere contemporaneo [27].
È, per dirla in breve, una "chiave" decisiva per aprire finalmente le porte e le finestre della coscienza dell’intera storia occidentale: svegliarsi dal sonno della ragione narcisista e imperialista, che sogna il «Dov’era l’Es, deve divenire l’Ego» (Freud), e di riconoscere i molteplici, infiniti, altri modi di essere e di creare; e liberarsi sia di quelle concezioni astoriche e asociali, pessimistiche e catastrofiche, che ci vogliono porcospini o lupi («Homo homini lupus: chi ha il coraggio - scrive Freud ne Il disagio della civiltà - di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?»), sia della malattia delle catene (Nietzsche) che esse comportano. Per uscire dalla preistoria (Marx), molte sono le chiavi di cui abbiamo bisogno. Ma questa fornita da Fachinelli, sembra essere tra le più importanti - riguarda noi, il soggetto.
È in questa direzione che Fachinelli sollecita a pensare: «Al momento di diventare sciamani, si dice, gli uomini cambiano sesso. È così posta in rilievo la profondità del mutamento necessario. Il femminile come atteggiamento recettivo non abolisce però il maschile, gli propone un mutamento parallelo»[28]. A tal punto, però, inoltrandosi e inoltrandoci nel «mare aperto» (l’espressione è nietzscheana), si aprono prospettive vertiginose e problemi a non finire: venir fuori «da interi millenni di labirinto» (Nietzsche) è impresa non disperata, ma delicata - è un sogno d’amore, ad occhi aperti [29].
Arianna offre a Teseo il filo, ma non lo fa per dar vita a un’altra thalassocrazia. Fachinelli guarda a Creta -«Cnosso, Pesto, le potenze aperte sull’orizzonte marino»[30] - ma non è lì il luogo per nascere o, se si vuole, per passare. Né «Nausicaa, Ulisse», né «le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese»[31]. Qui siamo nel regno di Edipo, entro cui è rimasto prigioniero lo stesso Freud [32]. A Creta c’è Minosse, Pasifae, il Mino-tauro e il labirinto. Arianna abbandonata da Teseo salirà sul carro di Dioniso-Ade, Teseo uccide (fa morire) il padre e andrà (con Giasone, il monosandalos) alla conquista del vello d’oro (la madre): c’è il vicolo cieco, per entrambi. E’ la tragedia dell’eterno ritorno della volontà di potenza - un gioco sisifoideo [33].
Idea dell’accettare e sua importanza: questa è la "piccola porta" [34] attraverso cui Fachinelli esce dall’orizzonte freudiano. E grazie all’aiuto dello stesso Freud: "Il sogno osa generalmente di più di quanto si permetta il sognatore da sveglio. Di qui, l’idea di Freud di trasferire questo oltrepassamento alla coscienza vigile, nella cura dei nevrotici. Il sogno testimonia ciò che vuoi essere - ciò che puoi essere, allora" [35]. Il pensiero, invero, è alquanto oscuro e criptico, ma cerchiamo di capire e chiarire.
La cosa è importante. Da essa dipende - se è bene impostata la "reazione" - la "fusione nucleare" della coscienza, "a freddo".
"Traduciamo" e generalizziamo. Chi entra nello stato di sonno e sogna, nel sogno si comporta diversamente da come si comporta nello stato di veglia. Freud, avendo capito che "lo stato di sonno rende possibile la formazione del sogno, in quanto riduce la censura endopsichica»[36], ha cercato di trasferire e ottenere - nello stato di veglia - il tipo di coscienza propria del sogno. Egli non vi è riuscito: le ragioni sono proprio nelle modalità ("a caldo") che egli sceglie, soluzioni prevalentemente figlie di una intelligenza armata e astuta - quella di Ulisse e della sua dea protettrice, Atena.
Fachinelli si rende ben conto di tutto questo ma, sopravvivendo in lui ancora toni venatorii e thalassocratici (Creta, Ulisse, cacciatori, tagliole e «altre immagini di taglio»), non riesce a comprendere a pieno tutta la portata dell’idea dell’accettare. Ad ogni modo la "fusione" è avvenuta ed egli ha fatto passi da gigante in questa direzione.
Raccogliendo ed esplicitando, possiamo dire che la coscienza - facendosi accogliente - "fonde" e libera energie come prospettive in tutte le direzioni, sia nello stato di veglia sia nello stato di sonno, e sia in direzione dell’inconscio sia in direzione dell’ignoto.
Contemporaneamente, scompare l’assolutezza e l’onnipotenza di quella modalità della coscienza che «conferisce un privilegio generalmente sovrano alla difesa»[37] e si autopone come coscienza tout court, ed emergono dal buio (anche del tempo) altri modi di "abitare" (non esistono solo le casematte o i castelli), che soltanto superficialmente possono essere accostati a quelli concepiti secondo la logica della difesa: «Diminuzione della vigilanza, allentamento della difesa. Allentamento nel sogno, nel fantasticare, nell’inventare, nell’usare droghe - insomma in quella phantastica umana dove, a tratti, passa un messaggio inatteso»[38].
Sulla spiaggia, dinanzi al mare... riaffiora la domanda di Galilei: «Chi vorrà asserire, già essersi saputo tutto quello che è al mondo di scibile?».
L’orizzonte si ristruttura, si arricchisce, si allarga e si illumina - vertiginosamente. Oltre Aristotele. Oltre Freud: «II concetto di difesa definiva all’inizio le difficoltà e le impasses di un comportamento alterato; rapidamente è diventato normativo, capace di stabilire leggi e criteri, anche per il comportamento non alterato. E questo perché si è presupposta implicitamente una continuità tra l’uno e l’altro. L’anormale è diventato, con qualche differenza quantitativa, il normale»[39].
Oltre la psicanalisi - lettino di Procuste: «Miseria incurabile della teoria della sublimazione, che tenta di spiegare ciò che, se è sublime, è sublime sin dal principio. La psicanalisi dischiara: ecco un letterato chiaramente nevrotico; un filosofo ossessivo; un matematico quasi psicotico, un musicista autistico... Ma la legna da ardere non spiega di per sé il divampare del fuoco»[40].
Oltre Freud... riappare Nietzsche. Non c’è più un sopra e un sotto, un alto e un basso: «Chi può stabilire che cos’è essenziale e non essenziale, importante e non importante? Chi può giurare: questo è il centro e quella la periferia?»[41]. Ritroviamo questioni vitali di politica dell’esperienza [42]: «E oltre, il territorio della mistica. Non la religione istituita. Ma la mistica come zona irriducibile, inassimilabile, refrattaria alla religione stessa. Apex mentis. Mistica che è nello stesso tempo rapporto percettivo, percezione possibile ad alcuni, se non comune a tutti. Molte mistiche? evitare i codici che, invariabilmente, da sempre rifiutano o sequestrano questi tipi di esperienze»[43].
La ridefinizione del rapporto tra veglia e sonno è nel programma di Freud: «[...] lo stato di sonno rende possibile la formazione del sogno, in quanto riduce la censura endopsichica. Certo, siamo tentati di considerare questa conclusione come l’unica possibile in base ai dati di fatto dell’oblio dei sogni, e di sviluppare partendo da essa altri corollari sui rapporti energetici tra sonno e veglia. Ma per ora intendiamo fermarci qui [...] Qui interrompiamo per riprendere più oltre»[44]. Ma oltre, egli non è mai andato. Resterà per lo più confinato entro le coordinate cartesiane, a riguardo. La sua attenzione rimarrà fissamente legata alla censura e non verrà mai più fuori dalla logica oppositiva di una intelligenza armata ed astuta. Cercherà di vincere le resistenze, di sorprendere il "nemico", di abbattere le difese, ma l’impresa si fa interminabile e ... fallimentare [45]. Anzi, l’effetto sarà solo quello di caricare la coscienza sempre più di armi e di chiuderla entro un grande sistema di fortificazioni: «Dentro il suo castello dalle sette mura, la principessa non riesce più a muoversi»[46].
Come Kafka - davanti alla legge, Freud ha "visto" la porta aperta e non ha capito, non è entrato: «La resistenza al fatto che i pensieri del sogno divengono coscienti può forse essere aggirata anche senza dover subire in sé una riduzione»[47]. La paura del guardiano della soglia (il padre) lo ha bloccato e, passato l’attimo, la porta si è richiusa. Per tutta la vita, poi, tenterà ancora e insistentemente di entrare, cercherà di abbattere o di aggirare la porta, ma non ci riuscirà. Edipo abbatte il primo ostacolo (uccide il padre), abbatte il secondo ostacolo (la sfinge - madre cattiva), ma finisce sempre per sposare la madre e prendere il posto del padre. Un tentativo impossibile. Dal cerchio non si esce, il complesso edipico non è risolvibile [48]; e la sconfitta personale viene teorizzata ed elevata a legge - per tutti, dappertutto e per sempre. Girando, girando, alla fine, il Conquistador (così Freud si definiva: «niente altro che un conquistador per temperamento - un avventuriero, se volete tradurre il termine») -realizzata la sua «accumulazione originaria» (Il Capitale) - si da ad innalzare la sua Piramide (Teoria) e la sua Sfinge (Istituzione) intorno alla "sua" proprietà: «La psicanalisi - scrive nel 1914 - è una mia creazione».
Su questa strada, progressivamente, identificazione dopo identificazione, egli finisce per assumere la maschera del più terribile nemico della storia del suo popolo: non avendo vinto Roma (Annibale), non essendo giunto nella terra promessa (Mosè), si fa egiziano e diventa il Faraone con il cuore di pietra [49]. Chi osa pensare diversamente è subito espulso dal suo regno. Egli nega, rimuove, cancella le tracce ed ediphica. In un circolo vizioso si tengono insieme la Sfinge e la Piramide: l’una a salvaguardia dell’altra. Platone andò a scuola dai sacerdoti egiziani (Nietzsche), «Freud e Ferenczi si rifecero esplicitamente per fondare l’istituzione» alla Repubblica di Platone [50]. Il trionfo dell’ istinto di morte è garantito in "eterno"...
Ma con la morte non si scherza - «il deserto cresce: guai a colui che nasconde in sé dei deserti»[51]. Nella notte più buia, nessuna maschera può aiutare a nascondersi e nessun lampo di genio può aiutare a vedere - come Dante sapeva (Inf., III, v. 9), ogni egoica speranza e ogni motto di spirito (WITZ) debbono essere lasciati fuori (AUS-CH). Forse, dinanzi alla prova più tragica che il suo popolo (nonostante tutto) ed egli stesso stava per affrontare, Freud, infine, avrà capito e deposto le armi della sua intelligenza, e si sarà piegato («la più scottante mortificazione») a quella verità da lui stesso acquisita nel corso dell’indagine, «che non solo egli [l’Io] non è padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene»[52].
«Segnale dell’avvenire»[53]. Nella comunicazione presentata al Convegno Internazionale su «Psicanalisi Psichiatria Antipsichiatria», tenutosi a Milano nel 1969, e intitolata significativamente e provocatoriamente «Che cosa chiede Edipo alla sfinge?», l’analista «dissidente» interroga la psicanalisi e gli stessi psicanalisti. E contro quella che è divenuta ormai solo una «psicanalisi della risposta»[54], Fachinelli riafferma tutto il valore - e tutta la centralità - dell’«ascolto analitico», e sollecita i suoi colleghi a «un lavoro senza fissa dimora, per così dire», a costituire anche «in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica»[55]. Sicuro di sé, egli annuncia sviluppi futuri. Tra le righe, qui, già si legge una tensione profonda a ripensare il discorso epistemologìco dalle radici, al di là della tradizione baconiana e kantiana [56]: alla base e all’inizio del lavoro scientifico, c’è l’ascolto - o, per dirlo con la consapevolezza sopraggiunta, l’accoglimento - non l’interrogazione; l’interrogazione viene dopo.
Fiducioso, egli così conclude il suo intervento: «Mi sembra chiaro che in queste direzioni ci incontreremo con altri ricercatori - sociologi, psichiatri, psicologi, antropologi - non certo in vista di una eclettica collaborazione interdisciplinare, come si usa dire e fare, ma perché avremo scoperto un luogo di base da cui partire per ricerche differenziate e molto spesso divergenti, se non in aperta polemica fra loro. Soprattutto però mi sembra chiaro che reincontreremo, sulla strada di Tebe, una sfinge senza più maschera, e un soggetto, di cui non conosciamo ancora il nome col quale potremo forse scambiare giuste domande e giuste risposte»[57].
Andando avanti e riemerso dal gorgo claustrofilico si ritrova davanti questioni decisive, fondamentali, non più annullabili, né rinviabili: Istinto di morte e conoscenza; Psicoanalisi della nascita e castrazione umana; La marionetta e il burattino [58]... È in gioco la vita, la vita o la morte «dell’Io in un senso non psicologico» [59], soltanto.
Giunto «sulla spiaggia», Fachinelli ritrova se stesso, e, al contempo, non trova più il Conquistador, ma lo scienziato, l’uomo accogliente e creativo - il Freud che sapeva del mare [60]. E, così, il dialogo come la discussione si riapre e si reimposta, correttamente.
Con Freud, oltre - in una nuova direzione e in modo nuovo: contro le sfingi e contro l’imbalsamazione degli uomini come delle teorie. Di fronte a Freud Fachinelli, finalmente, si pone come Galilei dinanzi ad Aristotele, come un ricercatore dinanzi a un altro ricercatore: «Aristotele fu un uomo, vedde con gli occhi, ascoltò con gli orecchi, discorse col cervello. Io sono un uomo veggo con gli occhi, e assai più che non vedde lui: quanto al discorrere, credo che discorresse intorno a più cose di me; ma se più o meglio di me, intorno a quelle che abbiamo discorso ambedue, lo mostreranno le nostre ragioni, e non le nostre autorità»[61].
Sulla spiaggia, davanti al mare, tutto acquista un’altra dimensione e appare nella sua luce più propria: «Progetto infantile: svuotare il mare con un secchiello! O setacciarne la sabbia. Anche il progetto di Freud - prosciugare l’inconscio, come la civiltà ha prosciugato lo Zuiderzee - è infantile»[62]. I libri di Aristotele stanno al gran libro dell’universo, come i libri di Freud stanno al mare: una proporzione preziosa e tuttavia incolmabile.
Di fronte all’inconscio come di fronte all’ignoto, non c’è hybris che duri. Accogliere: femminile... non è cosa di poco conto. Comporta un radicale rivolgimento del nostro atteggiamento di pensiero. Ed è, forse, una delle condizioni essenziali per concepire diversamente la storia...
Già solo quella della psicoanalisi è tutta da riscrivere. Da questo nuovo punto di vista, accolto,il contributo e il ruolo sponsale di Breuer e di Fliess prima, e di tanti altri "eretici" dopo, rispetto alla «straordinaria fecondità»[63] di Freud, è tutto da riconsiderare. Il non accettare la propria femminilità - fino a scambiarla e a ridurla a omosessualità - ha portato direttamente Freud e la psicanalisi nel buio più nero.
Aprendo la Piramide e accogliendo la luce, si potrebbe riprendere il cammino dall’inizio - con Breuer, con Fliess e con Freud, insieme. È l’unico filo che ci è rimasto, per uscire dal labirinto - non quello di Arianna, ma quello di Bloch: la Speranza [64]. Ricominciare proprio dall’idea abbandonata, dalla "figlia" di Fliess e Freud: «E ora la cosa più importante! Il mio prossimo libro, per quanto posso vedere, si intitolerà La bisessualità nell’uomo; investigherà la radice del problema e dirà l’ultima parola, che mi sarà permesso di dire, sull’argomento; l’ultima e la più profonda... L’idea stessa è tua. Ricorderai che ti dicevo anni fa, quando tu eri ancora specialista del naso e chirurgo, che la soluzione risiedeva nella sessualità. Anni dopo tu mi correggesti e dicesti bi-sessualità, e vedo che hai ragione. Probabilmente dovrò prendere a prestito ancora di più da te e forse sarò spinto dall’onestà a chiederti di apporre la tua firma al mio libro; ciò significherebbe un’estensione della parte anatomico-biologica, che a me riuscirebbe assai scarsa. Per parte mia dovrei occuparmi dell’aspetto mentale della bi-sessualità e della spiegazione del lato nevrotico. Questo dunque è il mio prossimo progetto che spero ci unirà ancora nella ricerca scientifica»[65].
Su questa strada, poi, non potremmo non riaprire la questione dellafecondità, e ripensarla in tutta la sua portataeintuttalasuaimportanza-come una decisiva categoria ontologica, secondo l’indicazione di Lévinas.
In tale direzione - tenendo presente che «l’origine biologica di questo concetto non neutralizza in alcun modo il paradosso del suo significato e delinea una struttura che va al di là dell’empiria biologica»[66] - forse, potremo comprendere (finalmente e meglio) che «la fecondità fa parte del dramma stesso dell’io», che «la fecondità attesta un’unità che non si oppone alla molteplicità, ma, nel senso preciso del termine, la genera»[67], e così aprirci a nuove possibilità e nascere a un avvenire che non sia - ancora una volta e sempre - «un avvenire del Medesimo»[68].
L’accogliere: femminile... mina alla radice il «narcisistico godimento» di quel soggetto che «vuole signoreggiare in sé e intorno a sé e sentirsi padrone», che «possiede la volontà di ridurre il molteplice all’unità» e, «subordinato un impulso apparentemente antitetico», una «erompente risoluzione all’ignoranza, al volontario isolamento, un serrar le proprie finestre, un intimo dir di no a questa o quella cosa, un non lasciarsi avvicinare, una sorta di condizione difensiva contro quel molto che può essere conosciuto, un contentarsi dell’oscuro, dell’orizzonte che rinchiude, un dir di sì e un consentire all’ignoranza»[69]; e pone all’ordine del giorno - in modo inedito - la realizzazione del sogno illuministico: l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso[70].
NOTE
1 E. Fachinelli, Il bambino dalle uovo d’oro. Brevi scritti con testi di Freud, Reich, Benjamin e Rose Thè, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 9.
2 Questo scritto era già apparso in «Lettera Internazionale», 6, 1985.
3 E. Fachinelli, La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989.
4 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Torino, Boringhieri, 1973, p. 553.
5 E. Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Milano, edizioni L’Erba Voglio, 1979.
6 E. Fachinelli, Claustrofilia. Saggio sull’orologio telepatico in psicanalisi, Milano, Adelphi, 1983.
7 E. Fachinelli, Claustrofilia, cit., p. 12.
8 J. Conrad, La linea d’ombra, Torino, Einaudi, 1989. A riguardo, cfr. la bella recensione di A. Asor Rosa, La nave è immobile, «La Repubblica», 22.3.1989.
9 E. Fachinelli, Claustrofilia, cit., p. 11.
10 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 15-6. "
11 Ibid., p. 18.
12 In analogia, cfr., già, le riflessioni su «Gruppo aperto o gruppo chiuso?», in E. Fachinelli, Il bambino..., cit., pp: 114-141.
13 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 23.
14 M. Heidegger, L’abbandono, Genova, II melangolo, 1983.
15 La citazione, notissima, è ripresa da: J. Bronowski, L’ascesa dell’uomo. Storia dell’evoluzione culturale, Milano, Fabbri Editori, 1976, p. 234.
16 Aristotele, Metafisica, Libro I, 982 b, 10.
17 J. Bronowski, op. cit., pp. 245-7. A riguardo, cfr. anche E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 69.
18 J. Bronowski, op. cit., pp. 252-254.
19 F. Capra, Il Tao della fisica, Milano, Adelphi, 1982, pp. 11-12. «La scoperta del parallelo fra i koan zen e i paradossi della fisica quantistica [...] stimolò grandemente il mio interesse per il misticismo orientale e acuì la mia attenzione [...] La scoperta di queste somiglianze non fu dapprima nulla più di un esercizio intellettuale, anche se molto stimolante, ma poi, in "un tardo pomeriggio dell’estate del 1969, ebbi un’esperienza molto intensa che mi fece considerare con molta maggiore
serietà i paralleli tra fisica e misticismo» (cfr. F. Capra, Verso una nuova saggezza. Conversazioni con Gregory Bateson, Indira Gandhi, Werner Heisenberg, Krishnamurti, Ronald David Laìng, Ernest F. Schumacher, Alan Watts e altri personaggi straordinari, Milano, Feltrinelli, 1988, pp. 26-27). Altri noti lavori sono: F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Milano, Feltrinelli, 1984, e, F. Capra - C. Spretnak, La politica dei verdi, Milano, Feltrinelli, 1986.
20 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 23.
21 Ibid., p. 21.
22 Su questo, cfr. la coraggiosa e importante prefazione al libro di fotografìe di Lisetta Carmi, I travestiti, Roma, Essedì Editrice; e l’articolo Travestiti, «L’erba voglio», 11, 1973, ripreso poi in: E. Fachinelli, Il bambino..., cit., pp. 202-211. Qui, anche, già si "covano uova" che saranno deposte poi «Sulla spiaggia».
23 Su W. Reich, cfr. E. Fachinelli, Il bambino..., cit., pp. 52-70.
24 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 21.
25 Ibid., p. 24.
26 L’espressione è ripresa da quell’interessante e coraggioso libro che «cerca di muoversi nello spazio etico che si trova tra demonizzazione e omologazione sulla base dell’idea che entrambi gli atteggiamenti vivano male la trascendenza dell’altro» di F. Cassano (Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro, Bologna, II Mulino, 1989, p. 8). Il tema centrale della sua riflessione è molto prossimo al tema dell’accogliere: si tratta di «deporre l’elmo» (p. 9) dell’intelligenza astuta e armata, quello di Atena-Metis. L’invito a non demonizzare e a non omologare è rivolto, per quanto riguarda la ricerca di Fachinelli (ma la cosa vale anche per quella di Cassano, come qualcuno ha già fatto), a S. Vegetti Pinzi, che chiude una sua recensione de La mente estatica (cfr. Dalla psicoanalisi all’estasi un viaggio della conoscenza, «Corriere della sera», 30.4.1989) con la seguente considerazione: «Si tratta, come è evidente, di una indagine ad alto rischio dove la psicoanalisi, sganciata dalla pratica clinica e dalla referenza teorica, esplora i territori dell’immaginario e le potenzialità della suggestione».
27 Uno per tutti, cfr. il testo di F. Capra, Verso una nuova saggezza..., cit., nota 19.
28 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 21-22.
29 II primo riferimento è a M. [Lea] Melandri, Come nasce il sogno d’amore, Milano, Bompiani, 1988; il secondo è a uno dei temi centrali dei lavori di M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza; La marionetta e il burattino; Psicoanalisi della nascita e castrazione umana, Roma, Armando Editore, rispettivamente del 1972, 1974, e 1975. I due richiami, ovviamente, non sono affatto casuali, rispetto alla ricerca portata avanti in questi anni da Fachinelli. Di M. Melandri ricordo ancora l’altro suo importante lavoro, L’infamia originaria, Milano, edizioni L’Erba Voglio, 1977.
30 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 23.
31 Ibid., p. 16.
32 «Freud è interamente compreso nella rete del complesso di Edipo» (cfr. E. Fachinelli, II bambino..., cit., p. 154).
33 Su questi problemi, cfr. F. La Sala, Le "regole del gioco" dell’Occidente e il divenire accogliente della mente [di seguito, in La mente accogliente...cit., pp.162-189].
34 Ogni secondo, nel tempo, "era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia" sono le ultime parole delle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin (cfr. W. Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962, p. 63). Il richiamo è voluto. Fachinelli, infatti, ha sempre posto e dedicato molta attenzione all’opera di Benjamin, cfr. Il bambino... cit., pp. 158-168, e La mente estatica, cit., p. 42 e nota. e pp. 90-92.
35 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 20.
36 S. Freud, L’interpretazione..., cit., p. 477.
37 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 19-20.
38 Ibid., p. 20.
39 lbid., pp. 23-24
40 Ibid., p. 24.
41 Ibid., p. 23.
42 R.D. Laing, La politica dell’esperienza, Milano, Feltrinelli, 1968;e, ancora, R.D. Laing, Nascita dell’esperienza, Milano, Mondadori, 1982.
43 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 24.
44 S. Freud, L’interpretazione..., cit., p. 477.
45 «Un’analisi basata sistematicamente sullo smantellamento delle difese incontra ad ogni passo quel pericolo che le ha fatte erigere. [...] L’analisi assume allora il senso di un decondizionamento ad infinitum. Interminabilità, eccetera» (cfr. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 20-21).
46 Ibìd., p. 22.
47 S. Freud, L’interpretazione..., cit., p. 477.
48 S. Freud, Il tramonto del complesso edipico, in: S. Freud, La vita sessuale, Torino, Boringhieri, 1970, pp. 209-217.
49 Nota è la costante attenzione e ambivalenza di Freud nei confronti di Mosè. Dal 1934 al 1938, Freud lavora a L’uomo Mosè e la religione monoteistica (Torino, Boringhieri, 1977), e in quest’opera egli avanza e fa sua l’ipotesi che «Mosè è un egiziano probabilmente di origine nobile che il mito ha fatto ebreo».
50 E. Fachinelli, Il bambino..., cit., p. 243.
51 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte IV, «Tra le figlie del deserto».
52: S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Torino, Boringhieri, 1969, p. 258.
53 Questo è il titolo della sezione che comprende «Che cosa chiede Edipo alla sfinge?» e il «Programma per un teatro proletario di bambini» di Walter Benjamin, cfr. E. Fachinelli, Il bambino..., cit., p. 143.
54 Op. cit., p. 152.
55 Ibid.,p. 155.
56 Essa è condensata e condensabile nella considerazione kantiana, secondo cui «la ragione deve accostarsi alla natura, certo per venire ammaestrata da questa, non però nella qualità di uno scolaro, che si fa suggerire tutto ciò che vuole il maestro, bensì nella qualità di un giudice
investito della sua carica, il quale costringe i testimoni a rispondere alle domande che egli propone loro» (cfr. I. Kant, Critica della ragione pura, Prefazione alla seconda edizione, trad. it. di G. Colli, Milano, Adelphi, 1976, p. 21).
57 E. Fachinelli, Il bambino..., cit., p. 157.
58 Sono richiamati, ancora una volta, contro il generale e diffuso stile ediphicatorio, i lavori di M. Fagioli (espulso dalla Società Psicoanalitica Italiana, insieme ad A. Armando, agli inizi del 1976).
59 La citazione è ripresa da: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1968, p. 181. La questione a cui si allude non è affatto da sottovalutare, è cruciale per Freud, per lo stesso Wittgenstein, come per noi: «L’Io, l’Io è il mistero
profondo!» (op. cit.). Questo è il nodo da sciogliere per uscire dallo «stato di minorità» edipico.
60 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 23.
61 G. Galilei, Il Saggiatore, in Opere, Edizione Nazionale, a cura di A. Favaro, 20 voll., Firenze 1929, voi. VI, p. 538. Sulla centralità di questo "atteggiamento" nel lavoro e nella ricerca di Galilei, cfr. U. Curi, Schemi logici e forme reali del sapere in Galilei, in: U. Curi, La linea divisa. Modelli di razionalità e pratiche scientifiche nel pensiero occidentale, Bari, De Donato, 1983, pp. 135-156.
62 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 21.
63 Ibid., p. 180.
64 E. Bloch, Il princìpio Speranza (1954-1959). A riguardo, si tengano anche presenti le considerazioni di E. Paci sul tema «Modalità e novità in Bloch», in: E. Paci, Idee per una enciclopedia fenomenologica, Milano, Bompiani, 1973, pp. 576-586. In tale dirczione, forse, si potrà elaborare un nuovo percorso che non porti né tra le braccia del Freud conquistador, né tra le braccia dello Jung «mago-pastore, Seel-sorger» (cfr. E. Fachinelli, «A proposito di Jung», in Il bambino..., cit., p. 74), e né tra le braccia dello Hillman discepolo di Dioniso (cfr.
J. Hillman, Il mito dell’analisi, Milano, Adelphi, 1979, tutta la terza parte «Sulla femminilità psicologica», e, particolarmente, le pp. 279-307).
65 S. Freud, Le origini della psicoanalisi: lettere a Wilhelm Fliess 1887-1902, Torino, Boringhieri, 1968, pp. 254-256 (lettera del 7 agosto 1901). - Per problemi e suggestioni connessi a tale linea di ricerca, cfr. F. La Sala, Le due metà del cervello, «Alfabeta», 17, 1980, p. 11, recensione del lavoro di P. Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento, Milano, Feltrinelli, 1980. [Si cfr., inoltre AA.VV., I gemelli. Il vissuto del doppio, a cura di Liana Valente Torre, Firenze, La Nuova Italia, 1989].
66 E. Lévinas, Totalità e Infinito, Milano, Jaca Book, 1980, p. 286. Polemizzando sia con l’empirismo sia con l’idealismo, Feuerbach già ne aveva intuito le ricche potenzialità: «Le idee scaturiscono soltanto dalla comunicazione, solo dalla conversazione dell’uomo con l’uomo. L’uomo si eleva al concetto, alla ragione in generale, non da solo, ma insieme con l’altro. Due uomini [esseri umani, fls] occorrono per creare l’uomo, sia l’uomo spirituale, sia quello fisico [...]» (cfr. L. Feuerbach, Prìncipi della filosofia dell’avvenire, Torino, Einaudi, 1971, 126).
67 E. Lévinas, op. cit., p. 282.
68 Ibid., p. 276.
69 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, af. 230, Milano, Adelphi, 1976, voi. VI, t. II, pp. 139-140.
70 I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
"MENTE ESTATICA" E "SCHIZOFRENIA DELLA SALUTE":
RITORNARE A HÖLDERLIN.
Una ipotesi-chiave per reinterpretare «“Pallaksch”, la parola magica di Hölderlin». *
In memoria di Elvio Fachinelli e di Rubina Giorgi...
*
"LA PAROLA MAGICA DI HÖLDERLIN: [...] Come nota Christoph Theodor Schwab nel suo diario del 1841, il #poeta malato aveva escogitato, e usava con predilezione, l’espressione #pallaksch, che si poteva prendere per un ‘sì’ o per un ‘no’ e che gli serviva come espediente per evitare l’affermazione o la negazione.
FriedrichHölderlin s’inchina e entra nella “torre” del falegname Ernst Zimmer nel 1807. Due anni prima lo avevano dichiarato ipocondriaco, “la sua #follia è diventata furiosa”, scrive il dottor Müller, a cui, da Homburg, è chiesta una perizia medica. In particolare, annota il #dottore, “i suoi discorsi paiono incomprensibili, parte in tedesco, parte in greco e in latino”. La fatale follia di Hölderlin si celebra in linguaggio, catabasi nell’incomprensibile. Hölderlin resta nella “torre” più di trent’anni, morirà nel giugno del 1843. [...]
Nello studio su «Hölderlin. «L’arte della parola» (IL Melangolo, 1979), Roman Jakobson ci porge la parola #pallaksch. “Una volta, mentre gli si facevano parole pressanti, Hölderlin fu preso da movimenti convulsi e si ebbe da lui solo ‘un terribile, confuso profluvio di parole senza senso’. Oppure Hölderlin preferisce semplicemente rifiutare la risposta... Alla continua contraddizione fra sì e no nel modo di parlare di Hölderlin, Waiblinger ha ‘innumerevoli volte’ prestato attenzione”. Il poeta non vuole rispondere perché non ammette la logica umana, non vi appartiene: sì e no accerchiano in scelte innaturali - non certo esclusive, escludenti, piuttosto -, che concimano morte. Non esiste ragionevolezza né opposizione nel mondo autentico, dove le “parole senza senso” sono la sola poesia possibile. Pallaksch è una specie di amuleto, una parola magica, il passepartout per tutte le visioni, da sbandierare di fronte a chi pensa per superfici piane e progressive, per convenzioni. A te, che ragioni in trapezi e rettangoli, la risposta: io resto sconfinato, opto per tutte le direzioni, dice il poeta. [...].
(cfr. «“Pallaksch”, la parola magica di Hölderlin. Il poeta si fionda nell’indicibile», Pangea, 03 Novembre 2020).
Federico La Sala
IL QUINTO PRIVILEGIO DELL’INCONSCIO (ELVIOFACHINELLI) E "LA MENTE ORIENTALE" (CHRISTOFER BOLLAS): ELVIO FACHINELLI, SIGMUND FREUD, E GEORG GRODDECK ... *
QUALCHE PAROLA IN MEMORIA DI GEORG GRODDECK
di Hermann Keyserling *
Il 10 giugno 1934 morì a Zurigo, all’età di sessantasette anni, il medico di Baden-Baden Georg Groddeck, il solo autentico e qualificato continuatore della scuola di Schweninger. Con lui è scomparso uno degli uomini più straordinari che io abbia mai incontrato. È l’unica persona di mia conoscenza che mi abbia sempre fatto pensare a Lao-Tse: il suo non-fare era creativo, a un grado addirittura magico.
Egli si atteneva al principio che il medico nulla sa, nulla può fare, e pochissimo deve fare: dovrà soltanto, con la sua presenza, risvegliare le forze risanatrici insite nel paziente. Naturalmente, questa tecnica del non-sapere e del non-fare non gli avrebbe permesso, da sola, di mantenere in vita la sua clinica di Baden-Baden. Perciò egli guariva facendo uso di una combinazione di psicoanalisi e di massaggi, in cui aveva una parte non trascurabile l’infliggere dolore: dalla reazione di difesa contro il dolore sorgeva nei suoi pazienti (a Groddeck ricorrevano soltanto coloro che avevano delle affinità con lui) la volontà di guarire; e, allo stesso tempo, dall’acuto dolore che certe domande miravano a provocare gli veniva sempre qualche idea utile per la cura. Fu così che Groddeck mi guarì, in meno di una settimana, di una flebite ricorrente che, secondo il parere di altri medici, avrebbe dovuto affliggermi per molti anni, se non per tutta la vita.
Ma l’essenziale in Groddeck, era la sua silenziosa presenza. Quando eravate con lui, ed egli non vi domandava nulla, vi venivano in mente più idee che non di fronte al più abile analista. Tuttavia, in Georg Groddeck, io non tanto rispettavo e amavo il medico quanto il saggio paradossale. Egli non apparteneva ad alcuna scuola: su ogni cosa aveva le opinioni più strettamente personali, e spesso le più eretiche. Ed erano tutte, se intese nel senso giusto, cioè non troppo alla lettera, opinioni profonde.
Non conosco nessun filosofo della natura che come lui abbia esaltato la condizione dell’infanzia; si potrebbe addirittura dire che il suo ideale fosse l’uovo, perché nessun organismo già formato sa fare ciò di cui esso è capace. Nell’amoralità delle sue concezioni egli non era secondo a nessuno. Era un eccentrico all’ennesima potenza. Ma aveva un contatto così diretto con l’«Es» creatore che era in lui (è stato Groddeck a coniare il termine tecnico «Es», in contrapposizione all’«Io») che tutte le sue idee, anche se espresse nella forma più bizzarra, riflettevano sempre delle profonde verità.
Nei suoi libri apparsi a tutt’oggi (Lo scrutatore d’anime e Il libro dell’Es) non è facile, per chi non lo abbia conosciuto personalmente, cogliere questo aspetto essenziale di Groddeck. Ma per alcuni anni egli ha pubblicato privatamente una rivista così interessante, «Die Arche» («L’arca»), che io spero molto che i suoi eredi ne raccoglieranno e ripubblicheranno l’importantissimo contenuto.
Durante il suo ultimo anno di vita egli lavorò a un volume che intendeva fare uscire dopo la sua morte. Ma, come accade per tutte le persone più ricche di vita, la presenza personale di Groddeck contava molto, molto più di quel che egli esprimeva nelle parole e nelle teorie. Hanno potuto accorgersene, talora, i partecipanti ai seminari della «Scuola della saggezza» a Darmstadt: molte volte Groddeck vi prese la parola, ma era soprattutto la sua semplice, viva presenza a fare di Groddeck un partecipante insostituibile di quelle riunioni: ora provocando, ora esasperando, ora affascinando, egli costringeva ognuno a pensare con la propria testa. La sua scorza era ruvida: la sua anima, troppo vulnerabile, aveva bisogno di questa protezione. Ma, nell’intimo, era uno degli uomini più caldi, più affettuosi, più preoccupati del bene altrui, e più grandi che io abbia mai incontrato.
* Georg Groddeck, "Il libro dell’Es", Postfazione di Hermann Keyserling, Adelphi, Milano 1971 (V ed.).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA MENTE ORIENTALE. Psicoanalisi e Cina (Christofer Bollas, Milano 2013). "La tesi di fondo di Bollas è che la psicoanalisi ha operato una integrazione inconscia tra la struttura della mente orientale e quella occidentale. Il silenzio intenso dell’“ordine materno”, quel “conosciuto non pensato” che rimanda a un Sé preedipico fondamentale per la psicoanalisi, rappresenta la stessa modalità orientale di essere e di relazionarsi, non basata sulla “autorappresentazione” del linguaggio, ma piuttosto sulla “autopresentazione”: sull’essere e sulla forma come modalità di comunicazione. Quell’“ordine materno”, per quanto rimosso a favore di un “ordine paterno” decisamente più affidato al mondo simbolico del linguaggio, è il regalo che l’Oriente ha fatto alla psicoanalisi, non inventata ma trovata da Freud (Luciana Sica, Se l’inconscio è made in Cina, la Repubblica, 15 settembre 2013).
FLS
POESIA E ANTROPOLOGIA. CAMBIAMENTO "CLIMATICO": IL PUNTO DI SVOLTA...
Note a margine del poema ("quattro") di Italo Testa:
CI SONO TUTTI GLI ELEMENTI. Riaffioramenti di antiche vie di ricerca antropologica e psicoanalitica. Nel lontano gennaio del 1898, il giorno QUATTRO, Sigmund Freud così scriveva al suo amico, il dr. Wilhelm Fliess: «Ho cominciato a considerare con attenzione il concetto di bisessualità e considero la tua idea in proposito come la più significativa per il mio lavoro, dopo quella di "difesa"». Il programma di Kant è messo all’ordine del giorno? O no?! Boh..... Federico La Sala
Riprendere il filo dal "quattro" di Italo Testa, ripartendo dalla lettera di Freud a Fliess del "quattro" gennaio del 1898, con il richiamo al programma di Kant, vuol essere un’indicazione di lavoro di "filosofia a venire" (J.-L. Nancy), al di là dei "Quattro" di Heidegger (cfr. "In cammino verso il Linguaggio": il commento a "Una sera d’inverno" di Georg Trakl), accogliendo il contributo di Elvio Fachinelli, una sollecitazione a ri-pensare il "nexologico" rapporto tra soggetto-oggetto, tra realtà-realtà (esterna) e realtà psichica, e venir fuori con Freud dall’orizzonte dialettico hegeliano e lacaniano!
Qualche giorno fa, sul filo di una ri-segnalazione di un libro dello psicoanalista Christopher Bollas, ("Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia", 2016), non a caso, parlavo di una OTTIMA SEGNALAZIONE che sollecita non solo a leggere e rileggere le opere del brillantissimo Christofer Bollas, ma anche a ricordare uno dei primi psicoanalisti, appunto Fachinelli, che ha messo a fuoco il nodo della "coppia freudiana" (cf. Pietro Barbetta, "Prenderli al volo prima che precipitino, 22 Ottobre 2016") e su cui (a mio parere) ancora c’è da riflettere (FACHINELLI E FREUD NELLA NAVE DI GALILEI : LA CONVERSAZIONE CONOSCITIVA...). O no?! Federico La Sala
PSICHIATRIA, ARCHEOLOGIA DELLE SCIENZEUMANE, E CREATIVITÀ! Prima di scrivere RELATIVITÀ, nella nota precedente, avevo scritto ARCHEOLOGIA ma, volendo e dovendo dare giusto rilievo alla portata rivoluzionaria del "primo principio della dinamica" e ricordare la relatività di Galilei, ho sostituito l’uno con l’altro. Ora, un ricordo-commento ’veloce’ di un’amica ha favorito la sovrapposizione del titolo dell’opera di Michel Foucault ("Le parole e le cose. Archeologia delle scienze umane") per dire del titolo dell’opera di John L. Austin ("Come fare cose con le parole") e ha "riportato" il "racconto" al punto da dove il filo è partito: il legame tra il "quattro", il progetto di Italo Testa, la rivista elettronica "Le parole e le cose", ove il testo è apparso, e il quattro gennaio 1898, il giorno dell’invio della lettera di Sigmund Freud a Wilhelm Fliess: all’origine stessa della psicoanalisi. Che dire? Due passi avanti e uno indietro, per saltare meglio... “quattro”! Federico La Sala
ARCHEOLOGIA DELLE SCIENZE UMANE. SICCOME ITALO TESTA ha "rotto le acque" e, finalmente, in "quattro" e "quattro" (otto, la "gravidanza" è partita intorno al 2013), ha portato alla luce il suo poema (Oèdipus, 2021) e ha osato mettere il dito nella piaga, che non è solo una piaga, ma anche una "finestra" su un altro mondo ( per chi è incredulo, Caravaggio "in-segna"),
PER FESTEGGIARE al meglio l’evento (che coincide anche con i DIECI ANNI di "Le Parole e Le Cose"!) e sottolineare il "sorprendente" valore della sua ricerca poetica e antropologica, mi sia lecito,
CONSIGLIO di riconsiderare, alla luce del tempo pandemico presente che ha indotto e prodotto un gigantesco ed epocale lockdown (un confinamento esteso e prolungato, come di una "analisi interminabile"), i «rituali» nella «Wunderkammer» psicoanalitica (cfr. l’ intervista: "Sanguineti incontra Sigmund Freud" del 1974, in "Le interviste impossibili. Ottantadue incontri d’autore messi in onda da radio Rai", Donzelli 2006), e
INVITO a riandare (ancora e di nuovo) non solo "alle origini della psicoanalisi" (e alle discussioni tra Freud e Fliess: in particolare, al "quattro" gennaio 1898), ma anche a riprendere le indicazioni di sul tema ("La Freccia Ferma", 1979; "Claustrofilia", 1983) e cercare di venir fuori dall’orizzonte della città di Edipo.
Dalla città di Dite?! Sì!
In “quattro”, dal labirinto claustrofilico uscire si può.
DANTE 2021! Dante e Virgilio ce l’hanno fatta (Inf. XXXIV, 90) e hanno visto Lucifero a gambe all’aria! Federico La Sala
Gioie eccessive /
Recalcati lettore di Fachinelli. L’oceano al di là dell’Edipo
di Rocco Ronchi (Doppiozero, 18 novembre 2020)
Elvio Fachinelli ha avuto il grande merito di portare la psicoanalisi dentro il dibattito politico e culturale dell’Italia degli anni ’60 - ‘80, quando il vento del rinnovamento soffiava forte sulla società italiana. Psicoanalista eterodosso, ma non dissidente, sospettoso delle dinamiche autoritarie dei gruppi, anche quando questi erano fondati su buone cause, si era sottratto all’invito formulatogli da Jacques Lacan di rappresentarlo in Italia, preferendo mantenere una posizione da libero battitore. A trent’anni dalla prematura scomparsa, uno dei maggiori “eredi” italiani di Jacques Lacan, Massimo Recalcati, gli ha dedicato un piccolo densissimo volume, articolato in tre saggi e in una Appendice, dal titolo significativo e assai impegnativo: Critica della ragione psicoanalitica.
Di Fachinelli, il suo esegeta condivide non solo una matrice intellettuale lacaniana, che è certamente più sfumata nel caso di Fachinelli, ma anche quella che si potrebbe definire una comune vocazione all’“impegno”. Per entrambi, infatti, la psicoanalisi è una prassi interamente calata nell’attualità, che non teme di sporcarsi le mani con il conflitto. Certamente diversissimi sono gli sfondi nei quali prende rilievo la loro riflessione. La temperie sociale, politica e culturale che caratterizzava gli anni di Fachinelli non ha quasi più rapporto con quella attuale. Le urgenze sono altre, anche se non meno drammatiche. Comune a entrambi è tuttavia la persuasione che la psicoanalisi, che nella sua pratica resta sostanzialmente una faccenda privata, sia, quanto al suo senso, parte integrante del discorso pubblico. Essa deve fungere da criterio di orientamento nel reale e da principio della sua trasformazione.
Ecco allora che la deriva ossessiva che Fachinelli denunciava nella logica gruppale dell’estrema sinistra degli anni ‘70 diventa, nella rilettura che ne offre Recalcati una diagnosi della pulsione securitaria che attraversa la contemporaneità, a riprova del fatto che il fascismo, per la psicoanalisi, non è qualcosa di contingente, ma si inscrive nella logica dell’inconscio. È un fatto degno di nota che quando la psicoanalisi si fa “ontologia del presente”, come avviene in modi diversi in Fachinelli e in Recalcati, il fascismo bussi sempre alle sue porte, presentandosi come il fantasma che assilla la compagine sociale. Lo si può verificare scorrendo a volo d’angelo la storia di questa disciplina: con sistematica puntualità - dal Freud della Psicologia delle masse al Reich della Psicologia di massa del fascismo fino alla schizoanalisi di Deleuze-Guattari - ogni incursione nel sociale della psicoanalisi fa emergere una “ricerca del chiuso” che, come scrive Recalcati, sembra appartenere “alla forma umana della vita” (il corsivo è mio). La “necessità” di questo libro di Recalcati è, dunque, immediatamente politica.
Senza lo spettro del fascismo, che si ritrova nelle nuove forme del populismo sovranista, non si spiegherebbe il ritornare dello psicoanalista di oggi alle pagine del suo collega di ieri. Il primo capitolo ha infatti un titolo “programmatico”, Uscire dal chiuso, ed è tutto costruito sulla fenomenologia schizzata da Fachinelli (in La Freccia ferma del 1979) di quella ossessione che porta il soggetto a trovare riparo presso “un padrone assoluto”, “una istanza superiore esterna (Dio, una Causa, o altro) che possa ribadire il suo affidamento regressivo all’Altro”.
Uscire dal chiuso è allora qualcosa di più di un titolo descrittivo: è la parola d’ordine di una psicoanalisi che accetta la sfida del tempo storico, pagando il prezzo del proprio impegno con i sarcasmi di chi la vorrebbe invece confinata nella penombra di un comodo appartamento borghese, appannaggio di una ristretta cerchia di privilegiati, e ne irride il tentativo di rendersi comunicabile e condivisa.
Accanto all’urgenza politica, ma connessa ad essa, vi è poi un’urgenza schiettamente teorica. Bisogna andare all’Appendice del libro (Il mare della formazione) per trovarla enunciata. La questione che viene sollevata in quelle pagine concerne la formazione dello psicoanalista in un contesto, quello lacaniano, dove l’osservanza della “lettera” del Maestro sembra costituire il solo valore al quale attenersi: formazione come conformazione, dunque. Nel caso poi l’esperienza non si lasciasse ricondurre al Libro, tanto peggio per l’esperienza.
Ciò che conta, infatti, è impratichirsi in una neolingua inaccessibile ai più che funziona come setaccio al cui vaglio passare il reale, trattenendo solo ciò che conferma la premessa del sillogismo lasciando perdere tutto il resto. “Viene alla mente - scrive sconsolato Recalcati - una tesi di Fachinelli: la psicoanalisi si è progressivamente costituita come una difesa fobico-ossessiva nei confronti dell’aperto”. Si ripete, anche nel caso di Lacan, quello che era già avvenuto con l’insegnamento freudiano, non solo presso i post-freudiani, sempre preoccupati di ricucire gli strappi procurati da Freud al dominio dell’Io, ma già in Freud stesso, che Fachinelli amava presentare come spaventato rispetto agli effetti prodotti dalla sua stessa veggenza: la scoperta dell’inconscio come causa.
Vi è, insomma, una naturale tendenza della psicoanalisi a (ri)costituirsi terapeuticamente come un discorso della padronanza, replicando un antico modello, quello del soggetto che è padrone del possibile, che ne dispone sovranamente come di una capacità, e che perciò argina (“ottura”, diceva Fachinelli) tutti quei “buchi” dai quali può passare un reale che si sottrae alla sua misura, un reale che è in eccesso sulla possibilità di accoglierlo, di farlo proprio, di digerirlo, un reale che non si lascia metabolizzare e trasformare in alimento utile alla autoconservazione del soggetto. Vi sono, scriveva Fachinelli, “gioie eccessive”, dalle quali la psicoanalisi, in quanto discorso della padronanza, si guarda come se fossero minacce. Queste gioie, che rinviano al grande tema lacaniano di una jouissance “al di là” del principio di piacere, “aprono”, strappandoci all’“umidiccia intimità gastrica” del nostro Io (l’espressione, potentissima, la mutuo dal giovane Sartre polemico con l’“idealismo” del suo maestro Husserl; ricordo che senza passare da Sartre poco si comprenderebbe del lacanismo di Recalcati).
Esse ci mettono in comunicazione con un Altro che non è l’Altro del Simbolico, della Legge, dell’Edipo. Per Fachinelli è un Altro molto più antico, ben poco “umano”, dal momento che ciò che c’è di “umano, troppo umano” è proprio l’ossessione per la chiusura, vale a dire quella sordida inclinazione al fascismo che accompagna, come uno spettro, ogni processo di soggettivazione.
Per questo Altro deve essere convocato un “sentimento oceanico”, come aveva fatto, in una celebre lettera a Freud, il suo amico Romain Rolland. La sua figura - che, come vedremo, non è affatto una metafora - è il “mare”. L’Altro assume qui il volto della natura, colta però non nel suo aspetto pietrificato di mosaico di fatti retto da leggi meccaniche, bensì in quello che aveva di mira Spinoza quando coniava per l’attività generativa della natura il neologismo latino naturans e che Henri Bergson, un altro spinoziano, aveva chiamato “durata creatrice di imprevedibili novità”.
È impressionante, anzi, la concordanza tematica e, addirittura, lessicale che c’è tra le tesi esposte da Fachinelli in saggi come La mente estatica e La Freccia ferma e la metafisica bergsoniana, soprattutto se si tiene presente l’ultima grande opera del filosofo francese: Le due fonti della morale e della religione. La grammatica concettuale di Fachinelli, fondata sulle coppie antinomiche aperto/chiuso, statico/dinamico, durata /spazio, concetto/ estasi, è infatti la stessa di Bergson. Ne è quasi un calco fatto con il linguaggio psicoanalitico.
Si pensi solo alla critica bergsoniana delle religioni statiche, territoriali, identitarie, al suo rifiuto delle morali chiuse, basate sul dualismo amico-nemico, al suo invito incessante ad aprire ciò che tende naturalmente a cristallizzarsi, a rendere dinamica l’esperienza che l’intelletto astratto invece reifica in una molteplicità disgiunta di stati immobili.
Si consideri, poi, il suo appello alla mistica, differente per natura da ogni religione tramandata anche se è costretta ad esprimersi nella retorica di una religione determinata. La mistica, afferma Bergson, non è contemplazione, ma azione trasformatrice, praxis generatrice di comunità libere. Solo come “grande politica” l’estasi era per il filosofo francese qualcosa di efficace. Altrimenti è solo un nuovo capitolo della storia della ideologia. Difficile trovare una tesi più “fachinelliana” (e sessantottina) di questa...
Ma Bergson, ai tempi in cui Fachinelli scriveva, era da tempo un corpo estraneo nel dibattitto intellettuale italiano e non solo. Ad occupare la scena era piuttosto l’hegelo-marxismo, vale a dire una visione del reale tutta storica, impregnata di un irriducibile umanismo, incrollabilmente fondata sulla tesi dell’eccezione umana rispetto al piano della natura. Lo stesso vale evidentemente per l’insegnamento lacaniano, anch’esso vittima della stessa congiuntura intellettuale, sebbene Lacan fosse filosoficamente assai più attrezzato del suo allievo italiano.
Degno di nota è allora il fatto che proprio oggi, nel tempo in cui la crisi prodotta dall’antropocene è sotto gli occhi di tutti (ne è segno tangibile la mascherina indossata ad ogni latitudine), il maggiore tra gli psicoanalisti italiani senta la necessità di riaprire la pratica Fachinelli. Non solo per areare la casa della psicoanalisi, nella quale da troppo tempo ormai si soffoca per i miasmi prodotti da settarismi, piccole invidie e da una scolastica autoritaria, ma perché forse si fa incalzante la questione della crisi del paradigma antropologico che sottende la psicoanalisi mainstream.
Già un altro psicoanalista, Sergio Benvenuto, ha sottolineato in un recente articolo l’aspetto “dionisiaco” latente nell’esperienza del suo antico amico Fachinelli evidenziando la distanza che lo separava dall’umanismo storicistico della sinistra italiana del tempo. Recalcati procede cautamente perché vuole evitare di gettare il bambino con l’acqua sporca. Diffida della retorica dell’impersonale, delle facili fascinazioni per il neutro.
Chi, come Recalcati, fa della clinica la cartina di tornasole per giudicare la bontà di una ipotesi teorica, non può agire diversamente. Se è vero che l’aspetto restaurativo della psicoanalisi è storicamente rappresentato dal suo essere un esorcismo nei confronti dell’aperto, è altrettanto vero che senza una difesa dal reale non c’è soggettivazione e che la psicoanalisi è una teoria e una prassi del soggetto ed è rivolta al soggetto. Non al suo “bene” - che, ricorda Recalcati, è la pretesa foriera di ogni possibile male - ma sicuramente al suo “essere”. Le vie della desoggettivazione e della desublimazione secca, le vie dionisiache, possono semmai essere percorse dagli artisti, perché a difenderli dal reale è il velo “apollineo” dell’immaginario; sono invece non solo impraticabili, ma, direi, eticamente irresponsabili per lo psicoanalista.
Tuttavia chi abbia seguito lo svolgersi nel tempo del pensiero di Recalcati non può non notare come in alcune sue recenti dichiarazioni teoriche, e in queste pagine in particolare, l’aperto promesso al soggetto da una psicoanalisi non reazionaria prenda sempre di più un aspetto “oceanico” e sempre meno “umano, troppo umano”, fino al punto da riabilitare - in modo apparentemente distratto, ma proprio per questo ancora più significativo - la grande tesi di Ferenczi, secondo la quale non è l’oceano il simbolo della madre, ma la madre uno dei simboli di quell’al di là dell’Edipo che è l’oceano.
In psicoanalisi l’oceano, il mare, l’onda, sono metafore che, come ha scritto una volta Bergson, parlano al senso proprio. Se il rumore delle onde funziona per il soggetto come il canto delle Sirene per Ulisse è, insomma, perché rammenta una provenienza e una destinazione. Siamo fatti di quella stessa stoffa. Certo, per Recalcati è sempre “sulla scala del desiderio” che va ricalcolato questo al di là dell’Edipo. Recalcati non viene mai meno a questo assioma sul quale ha articolato tutta la sua impresa teorica, ma questo non significa che il desiderio ricucia lo strappo del godimento sul modello del discorso della padronanza.
In passato Recalcati è stato spesso vittima di questa interpretazione riduttiva, non senza una qualche sua responsabilità, ma il passaggio attraverso le “gioie eccessive” di Fachinelli serve proprio a dissipare l’equivoco. La psicanalisi, scrive Recalcati esegeta di Fachinelli, è un’avventura e non un programma. Il suo metodo è la navigazione a vista: mappe e cartografia (il Libro) sono funzionali al processo, lo accompagnano ma non lo dirigono. L’essere dell’uomo è certamente la preoccupazione della psicoanalisi, ma Fachinelli ci ha insegnato che preservarlo vuol dire esporlo, cioè riconsegnarlo, “per quanto è possibile”, al suo elemento estraneo: alla potenza non umana del mare.
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI, E "DIVINA COMMEDIA": PRIMA IL "MEMENTO NASCI" E, POI, IL "MEMENTO MORI"!
Trasformare se stessi /
Vivere la filosofia: Pierre Hadot
di Moreno Montanari *
L’idea di fondo che permea tutta la sua filosofia, ed emerge da uno studio profondo delle fonti antiche, ruota infatti attorno al condimento che il suo sapere “non consiste nell’insegnamento di una teoria astratta e meno ancora in un’esegesi di testi, ma in un’arte di vivere, in un atteggiamento concreto, in uno stile di vita determinato, che impegna tutta l’esistenza. L’atto filosofico non si situa solo nell’ordine della conoscenza, ma nell’ordine del «Sé» e dell’essere: è un progresso che ci fa essere più pienamente, che ci rende migliori. È una conversione che sconvolge la vita intera e che cambia l’essere di colui che la compie. Lo fa passare da uno stato di vita inautentica, oscurata dall’incoscienza, rosa dalla cura, dalle preoccupazioni, allo stato di vita autentica, dove l’uomo conosce la conoscenza di sé, la visione esatta del mondo, la pace e la libertà interiori” (Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, 1981, tr. it. Einaudi, 1998, pp. 31-32). Questo tipo di condizione alla quale la filosofia lavora non si guadagna, dunque, studiando i testi di maestri, che certamente sono oggetto di un’attenta e meditazione e talvolta di un vero e proprio culto, ma sottoponendosi a una vasta gamma di pratiche filosofiche, che definirà esercizi spirituali “perché opera non solo del pensiero, ma di tutto lo psichismo dell’individuo” (ibid, p. 30).
Il loro principale compito è insegnare a trascendere le abituali categorie attraverso le quali siamo soliti organizzare l’esperienza offrendo così all’individuo la possibilità di sperimentare, in forma particolarmente viva, partecipata e intensa, una diversa percezione e concezione di sé, come parte vivente del tutto che è anche un impegno etico a riorientare la propria vita alla luce di questa presa di coscienza:
L’esercizio in questione va sotto il nome di “esercizio spirituale della fisica”, praticato in particolare dagli stoici e dagli epicurei, ma probabilmente già presente nella tradizione pitagorica (ve ne sono tracce nei Versi aurei), e viene effettuato non solo adottando uno sguardo su se stessi e sui fenomeni del mondo a partire da un punto di vista assoluto che li ingloba e li svela nella loro irriducibile interconnessione (punto di vista che accomuna, pure nelle diverse concezioni, tutte le filosofie antiche) o riflettendo sulla natura ultima di tutte le cose (la physis e l’arché che la organizza), ma sperimentando un diverso modo di percepire se stessi come espressione di tutto ciò. Ce ne offre una testimonianza biografica lo stesso Hadot:
Hadot scoprirà poi che l’esperienza biografica che segna il suo ingresso nella filosofia va sotto il nome di “sentimento oceanico”, concetto coniato da Roman Rolland per connotare ogni autentico sentimento religioso in cui Freud, inizialmente scettico, riconoscerà la possibilità di “rovesciare i normali rapporti tra i territori della psiche, così da poter cogliere eventi profondi dell’Io e dell’Es altrimenti inaccessibili” (S. Freud Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino, 1932, p.190) - il che è particolarmente consonante con l’idea hadotiana che questo tipo di esperienza chiami in causa l’intero psichismo dell’individuo.
Uno dei principali meriti di Hadot consiste del resto nell’aver sottratto alla religione il monopolio della spiritualità rivendicandolo, in forma laica, per ogni filosofia che ricerchi un contatto con il tutto, ma anche di aver spiegato che per quanto forte ed intenso possa essere l’insight al quale si perviene quando si riesce a pervenire a questo genere di esperienze - affidate agli esercizi spirituali della filosofia antica, prima ancora che della tradizione cristiana - tocca poi all’individuo amplificarne il senso in chiave comunitaria:
È evidente che questa rilettura della filosofia antica, che qui posso solo accennare, modifica profondamente la concezione che ne abbiamo e mina alle sue fondamenta il pregiudizio, duro a morire, che la filosofia costituisca una forma di sapere puramente astratta, magari affascinante ma incapace di incidere concretamente sulla vita di tutti i giorni. La ricaduta esistenziale degli esercizi spirituali filosofici appare chiarissima; si pensi, solo per limitarci ad alcuni esempi, all’esame di coscienza dei pitagorici e degli stoici, svolto la sera prima di dormire per misurare e ridurre il più possibile la distanza tra il proprio stile di vita e i principi filosofici che lo ispiravano, con l’impegno a progredire nel giorno seguente; alla meditazione dello sguardo dall’alto, praticata in particolare dagli stoici per apprendere a relativizzare l’importanza dell’io rispetto al cosmo e provare a ricollocarsi, anche dal punto di vista politico, nella prospettiva del Tutto; al memento mori epicureo e stoico come esercizio per ricordarsi di vivere appieno, divenendo particolarmente presenti a se stessi e alla vita, nella consapevolezza della caducità dell’esistenza; all’esercizio di contemplazione della fisica cosmica quale paradigma esistenziale che predispone a una diversa percezione di sé nel mondo e disvela la vasta trama di relazioni che ci intessono e che ci rendono interdipendenti gli uni dagli altri, in Marco Aurelio e Seneca; allo sforzo quotidiano, comune a tutte le scuole filosofiche, di esercitarsi a condurre una vita esaminata, maggiormente consapevole e autentica, volta alla promozione della piena fioritura del proprio e dell’altrui potenziale umano, nella ricerca di un ideale di saggezza che si sa irraggiungibile ma che si considera, non di meno, irrinunciabile.
Inquadrata alla luce di queste pratiche, la filosofia palesa il suo desiderio di liberare gli individui dalle loro superstizioni, dalle loro paure e dai loro pregiudizi, per instradarli verso la possibilità di una vita più autentica perché capace non solo di interrogarsi sul proprio senso, alla luce dei concetti di verità, giustizia, collettività e cosmo, ma di creare le condizioni per un diverso modo di vivere, personale e collettivo, che incarni i valori a cui s’ispira, creando le premesse per un mondo più giusto, saggio e realizzato.
La sua forza eversiva - ben nota a chi studi la vita dei suoi principali protagonisti - si attenua radicalmente nel medioevo, quando viene confinata nelle università e ridotta a mero arsenale concettuale e argomentativo al servizio della teologia, e subisce, seppur con rare ma significative eccezioni, un ulteriore ridimensionamento nella modernità, allorché si inizia a considerare filosofi pensatori, per lo più docenti universitari, che non sentono più l’esigenza di testimoniare con il proprio stile di vita la bontà delle teorie che insegnano e di cui sono riconosciuti specialisti. Questi, agli occhi di Hadot, non sono filosofi ma studiosi di filosofia, in taluni casi straordinari architetti o ingeneri del pensiero che offrono un prezioso contributo al nostro modo di pensare e intendere le cose ma che non sentono alcuna esigenza di indicare, testimoniandolo, un diverso modo di vivere.
La scommessa di Hadot è che, opportunamente ripensata, la filosofia possa invece tornare ad essere intesa e praticata come una proposta di vita un po’ più consapevole, giusta, armoniosa e saggia incentrata proprio su questi esercizi che hanno lo scopo di facilitare e consolidare il cambiamento, a partire da se stessi ma pensandosi come ponte per gli altri e per un mondo a venire al quale si apre il passo. Esercitarsi ad essere all’altezza delle esperienze di verità e bellezza che si è vissuto o che si è compreso, dando vita a una maniera di vivere che resti loro consonante, è l’impegno etico al quale la filosofia di Hadot richiama, nel segno dello sforzo, comune a tutte le scuole antiche, di promuovere la piena fioritura o espressione dell’umanità, paradigmaticamente incarnata dall’ideale del saggio.
Certo il nostro tempo richiede di ripensare questo antico ideale in forme meno esemplari e superogatorie che sappiano valorizzare, rispetto all’antichità, le differenze di genere, di età e di cultura e che si arricchiscano dei contributi offerti dal sapere della contemporaneità alla comprensione dei fenomeni umani e cosmologici, come invita a fare nel corso di tutta la sua opera filosofica Romano Màdera che si concentra in particolare sulla possibilità di arricchirla alla luce del sapere della psicologia del profondo, di una pedagogia del corpo che tenga conto delle pratiche delle diverse tradizioni spirituali d’Oriente e Occidente, antiche e moderne, con l’apertura ad un orizzonte di senso mitobiografico e ai contributi più fecondi di uno sguardo sistemico sulla realtà.
La sua prospettiva ha tra l’altro il merito di ampliare lo spettro di quello che Hadot chiama “l’intero psichismo” alla dimensione inconscia, aprendo la strada a un’ulteriore pista di trascendenza, che permette di tesaurizzarne in chiave analitica quella funzione terapeutica che la filosofia antica si riconosceva. Ad ogni modo, che si voglia ripensarla alla luce di questa proposta o meno, la possibilità di tornare a concepire la filosofia come una maniera di vivere tesa a custodire la sensazione di meraviglia per l’esistenza, a ricercare il senso delle cose e del nostro stare al mondo in una prospettiva non più egocentrica ma ecocentrica, a perseguire una vita più vera e autentica che, nell’aristotelica consapevolezza che siamo “animali sociali”, provi a realizzarsi prendendosi cura delle relazioni che la innervano, vivendole come risorse e opportunità anziché come impedimenti o limiti è ancora possibile. Essa, tuttavia, richiede una particolare forma di coraggio che è in fondo una forma di fedeltà alla vita e a se stessi:
In definitiva, il mondo è forse splendido, spesso atroce, enigmatico. L’ammirazione può diventare stupore, stupefazione, persino terrore. Lucrezio, parlando della visione della natura rivelatagli da Epicuro, esclama: “Di fronte a questo spettacolo si coglie una sorta di piacere divino e un brivido di sgomento. Sono proprio le due componenti del nostro rapporto al mondo, insieme piacere divino e sgomento (...). Questo brivido sacro non si produce volontariamente, ma nelle rare occasioni in cui ci coglie, non dobbiamo cercare di sottrarci, perché si deve avere il coraggio di affrontare l’indicibile mistero dell’esistenza”.
* Doppiozero, 24 maggio 2020 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
NICODEMO O DELLA NASCITA: DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
Federico La Sala
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI. Al di là del "paradosso della ripetizione" ... *
TROVO MOLTO INTERESSANTE l’indicazione di FRANCESCA (vedi - sopra) di mettere i piedi a Terra e guardare la Luna. Al di là dei limiti del percorso di Fachinelli, mia opinione, di ciò che resta fondamentale del suo lavoro è la decisiva messa in evidenza di quanto - antropologicamente - sta al fondamento della rivoluzione (e pratica!) psicoanalitica: "La mente estatica" (1989)! Si possono chiudere porte e finestre all’infinito, ma ora non solo dalla caverna platonica ma anche dall’isola di Creta ("Sulla spiaggia", 1985) si può uscire (cfr. Fachinelli e Freud nella "nave" di Galilei), riprendere la navigazione e guardare dall’Oceano, terrestre e celeste, la Terra ...
IL "GIARDINO" DEVASTATO E LE PIANTE. "Lo sciovinismo antropologico/antropocentrico (e più generalmente zoo-logico/zoo-centrico) che impera su gran parte della filosofia morale e politica dall’antichità ai giorni nostri non ammette un valore delle piante in quanto tali. Per gli esseri umani è molto più facile identificarsi con gli animali che con le piante, la cui fisiologia risulta difficile da comprendere (l’antropomorfismo e lo zoomorfismo vanno facilmente insieme). L’apparente immobilità delle piante, la loro apparente mancanza di differenziazione, il loro essere apparentemente inermi e inette, rendono le piante poco salienti per i sensi degli esseri umani - facilitando così anche la scomparsa della vita vegetale dall’orizzonte dell’etica e della politica.
Quest’oblio è ingiustificato in sé e costituisce anche un problema urgente per l’etica dell’ambiente. Se non si dà valore alle piante, perché le si ritiene prive delle caratteristiche necessarie a generare valore (come l’autocoscienza, l’intelligenza, la capacità di provare sensazioni ed emozioni, di agire, di esercitare la volontà), allora non si potrà dare valore alla natura inanimata, cioè agli ecosistemi e al mondo naturale nel suo complesso, dichiarando così il fallimento di ogni tipo di etica dell’ambiente non fondamentalmente antropo- o zoo-centrica.
Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore. Una buona quota della attuale crisi ecologica, possibilmente la più subdola e insidiosa, potrebbe risultare riconducibile a questa incapacità o rifiuto, e spiegabile attraverso il prisma delle nostre relazioni irrisolte con le piante.
Se si dà valore alle piante si è sulla buona strada per dare valore alla natura tutta, inclusa tutta quella inanimata; e non solo come un insieme indistinto, ma come un ricettacolo di diversità e di specificità e particolarità inesauribile. Una visione del genere terrà conto, per esempio, del fatto che gran parte della natura è roccia, acqua, e piante: la vita animale si attesta, in proporzione, solo al quarto posto - la “nazione delle piante”, come la battezza Stefano Mancuso, è di gran lunga la più popolosa [...]"(dal volume "Etica e politica delle piante", di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, e con contributi di Simone Pollo e Alessandra Viola).
*
Scienza e spiritualità
Oltre il reale
di Federico Ferrari (Doppiozero, 08.10.2019)
Nell’arco della vita può capitare di imbattersi in esperienze in cui il percetto, l’oggetto della percezione, supera il concetto, quell’insieme di percorsi razionali che l’intelletto elabora e mette in opera per dare un significato al vissuto. I concetti sono, in fondo, una serie di risposte che, astraendo dal contingente e riducendo l’esperienza al conoscibile, se non al conosciuto, la rendono gestibile. Nella moderna neurobiologia si è individuato nel DMN (Default Mode Network) una rete, presente nel cervello, che svolge questa funzione. Quando questa rete cerebrale va in crisi, quando il concetto non riesce a gestire il percetto, quando appare una mancata coincidenza tra la ragione e l’esperienza, ci troviamo di fronte a qualcosa che resta inspiegabile, se non indicibile. Con un linguaggio più aulico e spirituale, potremmo dire che appare l’ineffabile o, come chioserebbe uno studioso delle religioni, appare il numinoso. Ci troviamo, infatti, di fronte a qualcosa che va oltre l’esperienza del reale, così come siamo abituati a conoscerlo nella vita quotidiana. Si dà, in queste rarissime occasioni, un’eccedenza o una sproporzione che mette in discussione la certezza stessa di cosa sia reale.
Come cambiare la tua mente di Michael Pollan è un poderoso e avvincente resoconto di esperienze di questo genere; esperienze che lasciano una sensazione di spaesamento perturbante, non solo nel racconto di coloro che le hanno compiute, le decine di personaggi che appaiono nel testo di Pollan, ma anche nel lettore che, senza tregua, altalena tra lo stupore di scoprire la possibilità di accedere a dimensioni ulteriori della mente e del reale e la sensazione di trovarsi di fronte a una sorta di allucinazione collettiva in cui la follia diviene norma. Pur su tutt’altro registro linguistico, la lettura di Pollan fa sorgere inquietudini simili a quelle che emergono leggendo la Trilogia di Valis di Philip K. Dick nell’intreccio indissolubile tra biografia e narrazione che si moltiplica nei tre romanzi dickiani in una labirintica proliferazione di piani tra finzione, realtà e ultrarealtà. Dick, come Pollan, narra di un’esperienza “mistica”, esperienza che lo aveva portato oltre la dimensione spazio-temporale ordinaria mostrandogli dettagli di un mondo assai prossimo a quello descritto dalla tradizione gnostica.
All’interno dell’atmosfera onirica, eppur straordinariamente realistica, del romanzo di Dick, che assume connotati davvero inquietanti se letta parallelamente al diario di quegli anni, uscito con il titolo di L’esegesi, più volte viene da chiedersi cosa sia la realtà e se la fiction dickiana non sia piuttosto una parola profetica capace di mostrare, al di là delle apparenze abitudinarie del senso comune, il reale nella sua essenza abissale e vertiginosa. Altrettanto inquietante e gravido di domande analoghe è il libro di Michael Pollan. E anche per Pollan e le sue enigmatiche esperienze di passaggio attraverso il muro della percezione e della realtà vale la frase icastica di Valis: “la realtà è quella cosa che quando smetti di crederci non svanisce”. Sì, in fondo, sia in Dick sia nei personaggi descritti da Pollan, ci si trova di fronte ad esperienze di oltrepassamento del reale che non necessitano più di una fede. È, potremmo dire, quel che resta della realtà mistica quando non c’è più fede, quando non si crede più. Ci troviamo al cospetto del resto, di quel che resta della tensione verso l’aldilà, in un mondo che non crede più in nulla al di fuori dell’efficacia dei risultati.
Di quali esperienze tratta il libro dell’autore di fortunate opere sulla consapevolezza alimentare, come Il dilemma dell’onnivoro e In difesa del cibo? Il libro di Pollan credo possa essere definito come il resoconto di un cammino iniziatico, quello dello stesso autore, alle sostanze psichedeliche. Aristotele, per descrivere l’esperienza iniziatica, sottolineava che, più che come un insegnamento (didaskómenos), la si dovesse intendere come un’impronta (typoúmenos), un qualcosa che si imprime sull’anima e sul corpo dell’iniziato. E, leggendo i resoconti dei “viaggi” riportati da Pollan, si ha la netta sensazione di assistere proprio a questo tipo di esperienza, un’esperienza che si rivela, per l’appunto, come un’oscura sapienza, che si imprime nella mente di colui che la sperimenta. Non c’è nulla di didascalico in Pollan, ma tutto appare come vivo, come reale, come impossibile da eludere e da dimenticare: un sapere impresso nella carne.
Non è raro che le esperienze psichedeliche raccontate da Pollan abbiano un carattere catabatico, cioè di contatto e scambio con il mondo dei morti. Molto emozionanti sono le pagine dove Pollan descrive l’incontro con il teschio del nonno o l’identificazione dei genitori con due alberi davanti al suo studio, a cui segue la percezione, anzi la certezza, di una continuità indissolubile tra i vivi e i morti, tra la nascita e la morte. Anche qui si ha la netta sensazione del ripresentarsi di momenti canonici dell’esperienza misterico-iniziatica nella quale alla katábasis, alla caduta nelle tenebre, segue l’inesorabile ascesa verso la luce, l’anábasis.
Di pagina in pagina, attraverso una scrittura brillante e coinvolgente, non esente da un’ironia sferzante che fa coppia con una rara capacità di creare empatia tra il lettore e i personaggi (personaggi che, in realtà, sono persone in carne ed ossa, quasi tutte viventi e dotate di nomi e cognomi), Pollan non si limita al proprio percorso, ma ci accompagna tra i più avanzati laboratori di ricerca del mondo, mostrandoci come la ricerca scientifica abbia oggi un estremo interesse a studiare l’efficacia degli psichedelici in moltissimi campi di applicazione. E poi, in un alternarsi di situazioni e di colpi di scena, ci trascina al cospetto di misteriosi mediatori che, confinati nell’illegalità e in un’atmosfera magico-sacrale, fanno vivere a uomini e donne, del tutto normali e alla ricerca di un senso per la propria fin troppo “sensata” esistenza, “viaggi” oltre le porte della percezione, là dove il confine tra l’io e il Tutto vacilla.
Pollan ricostruisce, in questo modo, con grande precisione e dovizia di particolari, le tappe principali della storia di queste sostanze dalla fine degli anni trenta, anni della scoperta accidentale da parte di Albert Hofmann della molecola dell’LSD, sino, nei primi anni del 2000, al loro “rinascimento” (questa l’espressione di Pollan) ad opera di alcuni dei principali centri di ricerca medica e farmacologica del mondo, passando ovviamente per tutta la leggendaria sperimentazione degli anni sessanta da parte di un’intera generazione di hippy ed esponenti della controcultura americana, senza dimenticare l’uso di queste sostanza da parte delle élite del jet set internazionale in una rete di personaggi, più o meno inquietanti, dietro i quali si intravedono le ombre minacciose della CIA e di ancor più discrete società segrete.
Si viene così a delineare, nelle oltre 400 pagine del libro, un composito e sorprendente affresco che narra le sorti, più o meno note, di queste sostanze: dalla loro recente riabilitazione, non solo e non tanto per la cura di patologie resistenti ai farmaci in commercio e alle terapie comuni (patologie come l’alcolismo, le dipendenze o la depressione per le quali gli psichedelici hanno dimostrato, nei primi studi pubblicati, straordinarie percentuali di efficacia terapeutica), per giungere al loro utilizzo per una più vasta e complessa comprensione della mente e delle sue frontiere. Ricerche, queste ultime, che impongono alla scienza perturbanti sconfinamenti nelle dimensioni del misticismo e della fuoriuscita dal sé, spostando i confini del conosciuto alle soglie della scomparsa dell’individualità egoica a favore di una coscienza universale o cosmica.
È su queste ultime dimensioni di sconfinamento tra scienza e mistica che, io credo, sorgono gli interrogativi più interessanti in una più vasta e generale ricognizione sul ritorno di una dimensione spirituale nelle moderne società del tecnocapitalismo avanzato. Adelphi aveva già pubblicato, nel 2018, un interessante testo di Mark O’Connell dal titolo Essere una macchina, nel quale veniva investigato un inaspettato cortocircuito tra lo sviluppo tecnologico e la ricerca di nuove forme spirituali. In quel caso si trattava dei progetti transumanisti di resurrezione dei corpi attraverso le macchine o, nel peggiore dei casi, di trasmigrazione della coscienza in una macchina. In fondo, O’Connell ci mostrava la risorgenza, sotto nuove spoglie, quasi totalmente secolarizzate, della novella cristica dell’avvento del Regno in cui la morte è vinta. Pollan compie un gesto analogo a quello di O’Connell andando ad indagare, attraverso i più avanzati studi scientifici attualmente in corso, la possibilità di un ampliamento delle frontiere della mente e della coscienza.
E, in questa sua indagine, ci porta in terre di confine in cui la scienza, e i suoi derivati tecno-farmaceutici, si trovano ad intersecare il misticismo e antichissime sapienze, rimandando, in modo più o meno consapevole, al rapporto tra l’ātman e il Brahman della tradizione hindu o al Noûs aristotelico e tutte le sue derivazioni averroistiche, secondo le quali vi sarebbe una mente unica, senza forma e senza soggetto, a cui le singole menti non farebbero che connettersi. È ancora a questa mente unica che Aldous Huxley si riferiva quando, parlando proprio delle sostanze psichedeliche, in Le porte della percezione, ipotizzava l’esistenza di un “Intelletto in Genere” più vasto di quello individuale. Si tratta, in fondo e di nuovo, tornando alle pagine di Pollan, della ricomparsa dell’antica necessità umana di oltrepassamento della sfera del quotidiano per accedere a una dimensione altra o, comunque, più vasta della realtà. Non solo della realtà esterna, che la fisica e la chimica contemporanee hanno già dilatato all’inverosimile, tanto verso l’infinitamente piccolo quanto in direzione dell’infinitamente grande, ma anche della realtà cosiddetta interiore, quella della mente e della coscienza. Gli psichedelici appaiono, oggi, alla scienza, come prima erano apparsi a molti sacerdoti e sciamani o, in tempi più recenti, a scrittori e visionari di un mondo alternativo, una possibile via d’accesso per questa espansione dei confini della mente. Gli psichedelici, non più come droghe ricreazionali, ma come potenti mezzi tecnici utili per dare avvio a nuove ricerche e scoperte, allo stesso modo in cui lo furono, per la chimica e la biologia, il microscopio e, per l’astronomia, il telescopio. Quel che davvero sorprende, uscendo dalla lettura di Pollan, è come la scienza si confronti, oggi, con questioni che secondo lo scientismo positivista sarebbero state messe definitivamente “fuori gioco” proprio dall’evoluzione del pensiero scientifico, pensiero che le avrebbe bollate come irrazionali e fondate sulla superstizione e sull’ignoranza.
Così, quando nel 2006 un’equipe della Johns Hopkins University guidata da un neuroscienziato come Roland Griffiths, pluripremiato per il suo rigore e le sue ricerche nell’arco di una lunga carriera, pubblica su “Psychopharmacology” (una delle più importanti e serie riviste scientifiche di settore) uno studio dal titolo Psilocybin can occasion mystical-type experiences having substantial and sustained personal meaning and spiritual significance comprendiamo che si stanno aprendo per la ricerca strade fino ad alcuni anni orsono impensabili. La scienza che certifica l’esperienza mistica! Non a caso, le sostanze psichedeliche - le più note delle quali sono l’LSD, la mescalina, la psilocibina, la MDMA, più conosciuta come ecstasy - vengono oggi spesso chiamate endeogene, cioè che “hanno Dio al proprio interno”.
Il dettagliato racconto di Pollan ci pone, quindi, davanti a una domanda inaspettata: le sostanze psichedeliche che, anche secondo protocolli scientifici, danno accesso a esperienze mistiche ci mostrano che la mistica diventa scientifica o che la scienza diviene mistica? Può sembrare una domanda sofistica ma non credo lo sia. Credo, anzi, che nella risposta che noi, nei prossimi anni, daremo a questa o altre simili domande sia contenuto il destino della futura civiltà umana. Una civiltà che potrebbe portare a una rivitalizzazione dell’esigenza mistico-spirituale dell’uomo all’interno dell’alveo della scienza (una mistica manipolata dalla scienza) oppure a una dissoluzione o ibridazione del metodo scientifico in una miriade di anti-metodi o contro-metodi, per parafrasare il filosofo della scienza Paul Karl Feyerabend.
Se infatti noi riuscissimo a stabilire, cosa che la scienza attualmente sembra in grado di fare o si accinge a fare, che l’esperienza mistica sia dovuta a una inibizione della rete DMN (inibizione causata da processi chimici innescati, tra gli altri elementi possibili, dagli psichedelici) che conclusione dovremmo trarre? La più plausibile è che se l’intero processo dipendesse e fosse causato da principi chimici e fisici allora la mistica sarebbe spiegabile come un fenomeno chimico-fisico e non avrebbe nulla di soprannaturale. Il mondo a cui accederemmo in un’esperienza mistica dipenderebbe in maniera univoca dall’inibizione di flussi ematici e di ossigenazione di alcune parti del cervello. Nulla di più, nulla di misterioso. Verrebbe così a cadere l’idea misterica di un’illuminazione e di un sapere visionario e profetico su una realtà più profonda e vera che l’esperienza mistica mostrerebbe. Non si avrebbe, cioè, una misticizzazione della realtà scientifica ma una scientificazione della realtà mistica, spiegabile secondo regole di causa effetto, al pari di ogni altro processo chimico-fisico. La scienza, in qualche modo, assumerebbe il controllo anche della vita spirituale. Non sarebbe più costretta a relegarla nella sfera della superstizione. Potrebbe, più semplicemente e scientificamente, manipolare lo spirituale, come tutto il resto della natura.
Questa sembra l’ipotesi più plausibile, ma resterebbe insoluto un ulteriore quesito. Ammesso, infatti, che la coscienza sia frutto di un particolare equilibrio chimico-fisico e che una volta messo in crisi questo equilibrio la coscienza si dissolva avendo accesso a una realtà ulteriore, chi stabilisce se sia più “vero” lo stato di equilibrio o quello di disequilibrio generato dall’uso degli psichedelici? E, ancora più radicalmente, chi stabilisce che la realtà espansa generata dal disequilibrio psichico sia meno reale di quella percepita in una fase di equilibrio? O, detto ancora diversamente, per quale ragione il prodotto di più composti chimici dovrebbe essere più vero di un altro o dei molti altri possibili partendo dagli stessi elementi di base? E infine, per quale ragione la coscienza del sé dovrebbe essere più vera o spiegare meglio il reale della coscienza diffusa di cui parlano i mistici e che può essere generata attraverso un uso specifico di sostanze psichedeliche? Non si tratterebbe solo di due approssimazioni alla pluralità del reale, allo stesso modo in cui cambia la visione del reale se io lo osservo a partire dai campi magnetici che lo costituiscono o dalle lunghezze d’onda della luce percepibili dall’occhio umano? È, per noi, dell’ordine dell’ovvietà che la realtà del campo magnetico di un corpo e la sua realtà visibile sulle frequenze luminose percepibili da un occhio umano siano esattamente la stessa realtà. Ma, a seconda che l’organo percipiente si sintonizzi su una o sull’altra, si generano mondi, visioni del mondo, pratiche di mondo radicalmente diverse. Cosa sarebbe dunque la visione della scienza una volta scoperto - in realtà da millenni e da decine di tradizioni e civiltà disseminate sul globo, ma ora anche dalla scienza - che vi sono altri possibili accessi al reale e altre innumerevoli possibili visioni del cosmo, interno ed esterno, che ne determinano un ampliamento pari a quello dell’espansione dell’universo?
Nel moltiplicarsi di queste domande, e di altre ancora, è probabilmente contenuta la realtà del mondo che verrà. Forse la realtà dell’umanità del futuro si trova tra le pieghe di un’interrogazione, sull’universo e sulla coscienza che lo riflette, non più fideistica né puramente razionale, ma che si inoltra nell’oscuro sapere di una gnosi, arcana e sempre a venire, le cui frontiere sono al di là di ogni dominio e di ogni certezza: una conoscenza in viaggio...
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
Federico La Sala
In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud) *
Un libro su Santa Teresa d’Avila, una serenata in forma di fiction
Lacan e Kristeva come godono i santi
Un’analisi dedicata alla beata spagnola e alla sua estasi. Come interpretare questa forma sublime di rapimento? Perché il sesso non spiega tutto
di NADIA FUSINI (la Repubblica, 27.01.2009) *
Teresa, mon amour è non solo il titolo dell’ultimo libro di Julia Kristeva (tradotto da Alessia Piovanello per Donzelli Editore, pagg.628, euro 35,00); è il ritornello che l’attraversa, quasi il libro tutto fosse una canzone, una lunghissima serenata che l’autrice dedica alla santa spagnola, alla sua estasi. In copertina, of course, la Transverberazione di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Subito comprendiamo che lacaniano sarà il corteggiamento, debitore al medesimo fremito barocco che scioglie perfino il marmo della famosa scultura.
E non a caso Jacques Lacan sceglieva lo stesso gruppo marmoreo a copertina del suo seminario Encore dell’anno accademico 1972-73. Dove nel capitolo sesto a chi volesse intendere l’amore divino e il godimento mistico si raccomandava di andare a Roma a contemplare la statua del Bernini. Guardatela e vedrete, affermava Lacan, vedrete che lei gode! Non c’è dubbio. E di che cosa gode? Di che cosa godono i mistici, le mistiche? Fino al secolo scorso, fino a Charcot, fino a Freud si sarebbe detto che era una faccenda puramente sessuale, energia libidica repressa, e così via.
No, dice Lacan, non è una questione di fottere, o meno. C’è di più. In quell’attacco c’è un vero e proprio passaggio all’ ex-sistenza, un passaggio in quell’"ex", in quel "fuori" che fa da prefisso alla parola ex-stasi.
In mille variazioni Julia Kristeva riprende il motivo lacaniano, intrecciando il delirio mistico alla dimensione immaginativa e alla scrittura, e in quest’ultima versione, in quanto scrittrice, fa "sua" la santa. Letteralmente se ne appropria. Si identifica. Una volta adottata questa chiave - la vera estasi è la scrittura - non ci vuole molto a stabilire una stretta affinità tra la santa e la scrittrice. Tanto più che Teresa, oltre che santa e scrittrice e fondatrice, fu interprete e analista dell’anima.
A dare più brio alla serenata, l’inno a Teresa viene affidato a un alter ego, tale Sylvia Leclercq, psicoterapeuta, ossessionata, invasata dalla santa, intorno alla quale monta la sua fiction; fiction postmoderna, più che letteratura vera e propria, perché solo nel registro di una bulimica assimilazione, che procede per scorci temporali e incroci spaziali, pare a Sylvia di riuscire ad afferrare la vita della santa. Se Sylvia legge con passione le opere di Teresa, è per comprendere se stessa, le donne di oggi che incontra in terapia. E si esalta a certe affinità che intravvede. E’ meno sensibile alle differenze.
Il termine fiction piace alla dotta dottoressa di Linguistica e Semiotica Julia Kristeva, che in questa sua opera si sforza al massimo di rendere contemporaneo il suo soggetto anche grazie a una scrittura che si vuole veloce, gergale. E si concede vezzi modaioli che per via di slang ci presentano Teresa come "un big-bang fatto donna" (p.588); mentre per descrivere la sua religiosa confidenza con Dio si ricorre all’ espressione: "fare una Tac al mistero del Signore (p.274). Abbondano allusioni all’idea della rete. Internet, default sono termini che tornano. E i corsi di Derrida e di Kristeva alla Columbia University vengono citati come occasioni uniche per i pochi privilegiati che li frequentarono per penetrare, o meglio decostruire i misteri della rete che per l’appunto connetterebbe i mistici e i kamikaze.
La nebulosa mistica si espande così in nebbia religiosa, e si aprono a ventaglio nel libro scottanti temi di attualità, tra cui sovrani i problemi del fanatismo e della fede: con Teresa sempre al centro, al crocevia di pensieri e concezioni di sé e del mondo che cambiano, che la vedono accanto a Montaigne, a Spinoza, a Cervantes. Teresa esponente sublime del Siglo de Oro. E ragazza d’oggi, runaway girl. Come Louise Bourgeois. Come Julia Kristeva. Tutte donne capaci di darsi un altro padre, un’altra patria. E di farsi un nome!
In questo senso, Teresa mon amour è una "installazione" (p.577). E forse proprio tale termine meglio descrive questo strano libro troppo lungo, interessante quando si presenta come "una avventura nel cuore del credere" (p.565). Meno, quando riduce quell’avventura a una spiegazione della vita umana tutta - sia barocca sia contemporanea sia mistica sia mondana - in chiave di parafrasi attualizzante tradotta in termini psicoanalitici della vita medesima. A proposito della scrittura teresiana Kristeva parla di "una scrittura fuori genere, perché li mescola tutti" (p.311). Così fa lei qui; trasportata non dall’estasi, ma da una specie di hybris intellettuale che di certo non le manca, si fa una e trina: autrice, narratrice, protagonista del racconto, che è insieme una biografia, una autobiografia, un saggio, una fiction; alla fine, un monumento alla diva Julia.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud)
INTERVISTA A JULIA KRISTEVA. Anche chi non crede in Dio, crede nell’amore e ciò mi pare oggi il più grande elemento di persistenza della nostra civiltà cristiana. Ma, detto questo, la studiosa ri-cade nelle braccia dell’autorità paterna (della versione cattolico-romana del cristianesimo ... ancora edipica)
Federico La Sala
MAGGIO 68. LA BRECCIA. E. Morin: «una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro ... una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo...»
Edgar Morin
Torno a raccontare il Sessantotto. La rivoluzione non è finita
dii Mario Baudino (La Stampa, 13.05.2018)
Edgar Morin pubblica per Cortina una raccolta di scritti sul ’68 e la intitola La breccia. È la metafora che il grande sociologo francese usò fin da subito, cronista in diretta del Maggio, antropologo della rivolta studiata dall’interno, in due lunghi articoli su Le Monde. Ora, a distanza di cinquant’anni, lui che nato Edgard Nahoum nel 1921 ha vissuto adolescente il ’36 e la esaltante vittoria delle sinistre nella Francia pre-bellica, ha combattuto nella Resistenza (trasformano il suo nome di battaglia in cognome anagrafico), ha partecipato ai movimenti che contestavano la guerra d’Algeria e soprattutto non ha mai smesso di studiare le dinamiche sociali e culturali, è convinto che quella breccia non si è ancora chiusa.
In che senso, professore?
«Nel senso che il Maggio francese non fece certo crollare la società borghese e forse non la cambiò di molto, ma aprì una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro. La nave della società pareva solidissima, e invece scoppiò una rivolta generazionale. Gli adolescenti rivendicarono un’utopia libertaria, che contagiò tutti, gli operai, i borghesi, gli intellettuali. Finì presto, con la ricomposizione del vecchio sistema sociale e la deriva marxista leninista, ma quel che accadde fra il 3 e il 13 maggio rappresenta una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo, nessuno va da più dallo psicanalista o dal medico, nessuno ha più problemi nervosi».
Una sospensione improvvisa, ludica e fragilissima, del freudiano disagio della civiltà?
«Le cui tracce, oggi, si vedono però nel volontariato, nel mondo dell’economia solidale, nella volontà di una vita migliore senza inquinamento e senza sopraffazione. Questa è la breccia ancora aperta, la vera eredità, anche se la società è cambiata da allora. Pensi al mito del progresso».
In quel momento, non solo in Francia ma un po’ in tutto il mondo, una generazione di giovanissimi cominciò a dubitarne.
«Negli Anni Sessanta si era formata una bio-classe, con una cultura comune, valori condivisi, persino un certo modo di vestire. La loro fu una rivolta contro gli adulti, che coinvolse e trascinò con sé gli adulti. Il fenomeno non si è più ripetuto. E oggi, in tutti i Paesi, sappiamo che la legge del progresso non è più vera. Il futuro non significa automaticamente un miglioramento, ma semmai incertezza e angoscia. Le conquiste sociali di un tempo non esistono più, il dubbio coinvolge persino l’idea di democrazia e dei suoi valori. Tutto questo, senza che i più ne avessero la percezione, è cominciato allora».
Nostalgia?
«No, nostalgia mai. Ma ricordo la prima delle giornate del Maggio, il clima di festa, di libertà, di originalità. Il Super-Io dello Stato e della società si erano paralizzai, erano spariti. Sono momenti speciali, rarissimi. Ne ho vissuti anche altri: la liberazione di Parigi nel ’44, la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel ’74, la caduta del Muro nell’89»
Le primavere arabe?
«Nei primi giorni, anche se poi, a differenza di questi altri momenti storici, si sono drammaticamente trasformate nel loro contrario».
Una lettura in prospettiva dal ’68 a oggi sembra dirci che l’utopia libertaria è destinata a essere sconfitta dal ritorno della politica e dell’ideologia.
«Oggi c’è la necessità di ripensare la politica, di lavorare alla ricostruzione di un pensiero politico: guardi i nostri due Paesi. Macron, con la sua avventura personale, ha decomposto la vecchia politica, ma non è riuscito nella ricomposizione di un pensiero nuovo. In Italia siete alla compiuta decomposizione dei partiti storici, e anche qui la necessità di una ricomposizione è evidente, anche se al momento non se ne vede la prospettiva. In gran parte dell’Europa trionfano forze di destra, revansciste, nazionaliste, populiste».
Nel suo Insegnare a vivere (uscito due anni fa sempre per Cortina) lei punta sull’insegnamento. Non su una ennesima riforma della scuola o dell’Università, ma su un nuovo orizzonte che superi la barriera tra saperi tecnologico-scientifici e formazione umanistica.
«Ci sono molte vie d’uscita dalla nostra attuale situazione, ma questa resta per me la principale».
Anche contro chi rivendica la propria ignoranza come un valore?
«Viviamo in una società di illusioni, come quella che ha appena citato. Un solo fatto è certo: la vera educazione per vivere non esiste ancora. Neppure io so quale sia. Ho scritto un libro. Spero che la si scopra insieme».
UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO. Al di là della paura della "gioia eccessiva" ....
Il corpo che gode
di FELICE CIMATTI *
La psicoanalisi è morta, o comunque moribonda. È morta perché, nonostante il suo “successo”, ormai è stato largamente rimosso il suo nucleo bollente, che è fatto di godimento autistico e di sessualità. Gli psicoanalisti, oggigiorno, scrivono di “amore”, “legge”, “desiderio”, “relazione”, “oggetto”, “maternità”, “intersoggettività”, “empatia” (elenco che potrebbe essere allungato ancora molto): parlano di tutto, ma proprio di tutto (talvolta anche di come votare), ma non parlano più di sesso e di inconscio. Ma una psicoanalisi che non parla di questo, di che cosa può propriamente parlare? Da questo punto di vista il prezzo che la psicoanalisi ha dovuto pagare per il suo “successo” sembra essere stato di rimuovere la propria stessa ragion d’essere. Per non parlare della sempre più forte tentazione moralistica.
Facciamo un solo esempio, ma illuminante: la questione della gestazione per altri (GPA), al centro di accese discussioni nella società contemporanea, perché rimette in questione assetti ritenuti eterni della famiglia borghese eterosessuale e mononucleare (sulle tante varianti storiche di quell’entità che noi chiamiamo “famiglia” ha scritto un libro esemplare Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa). Si prenda il caso dell’articolo apparso sul quotidiano di sinistra “Liberation” nell’estate del 2015, scritto da una figura significativa della psicoanalisi francese, Marilia Aisenstein; un intervento che già dal titolo ci fa capire quanto tempo sia passato da Freud: “Un enfant à quel prix?”. Aisenstein scrive, sul quotidiano fondato fra gli altri da Jean-Paul Sartre, che «trop souvent, le désir d’un enfant “à tout prix” me paraît, lui, marqué par la collusion entre une forte pression sociale et un désir personnel anachronique de la petite fille qui veut un bébé pour elle, doublée d’un déni du temps qui passe».
Non si rendono conto, queste quarantenni che si ostinano a volere un figlio, che sono vecchie e che il loro desiderio “collude” con la pressione sociale? E che cos’è questa negazione «du temps qui passe»? Memento mori, si sente sullo sfondo. Dopodiché la psicoanalista francese ci spiega anche che cos’è «un véritable désir d’enfant»: ovviamente «le résultat de l’amour qui unit deux êtres». E se si vuole un figlio da sola/o? Aisenstein non soltanto ci ricorda compiaciuta che il tempo passa, ma anche come dovremmo passarlo, quel tempo, se volessimo un figlio. Ma in nome di chi parla, Marilia Aisenstein? Nell’articolo, subito sotto il titolo e accanto al nome dell’autrice, è ben evidenziato «membre de la Société psychanalytique de Paris». È la voce della psicoanalisi. Ma sembra quella di un prete. Tanti cari saluti all’ateo Freud.
In un articolo che compare sul sito ufficiale della Società Psicoanalitica Italiana, lo psicoanalista Pietro Rizzi, commentando e riprendendo l’articolo di Aisenstein, scrive: «Se il desiderio di un figlio, e la sua nascita, può legittimamente far sentire alla neo-madre di aver realizzato il compito immemoriale di proseguire la specie, esso può anche produrre, nella odierna temperie di negazione/oblio della storia, un’esperienza di auto-creazione narcisistica, a metà tra la fantascienza e la magia».
L’articolo di Rizzi è pieno di interessanti osservazioni, tuttavia si pone per lui lo stesso problema che si pone per Aisenstein: qual è il titolo “scientifico” - per non parlare di titolo “morale” - della psicoanalisi per giudicare se un desiderio è “legittimo” oppure no, se è “narcisistico” oppure no? E chi stabilisce che alla donna spetta il «compito immemoriale di proseguire la specie»? Se un giorno alla riproduzione pensassero delle macchine (uno scenario neanche troppo futuribile, esplorato nell’interessantissimo La fine del sesso e il futuro della riproduzione umana, scritto dal giurista e genetista Henry Greely)? E non poteva mancare, infine, un classico del discorso psicoanalitico contemporaneo, il mortifero riferimento al lutto; infatti è «il lutto, [la] necessaria premessa di una maternità consapevolmente scelta, creata dall’amore tra due esseri umani, dove un figlio è desiderio di un “altro” da sé e non appendice del proprio sé».
E il divertimento, il sesso, e il godimento “narcisistico”, e soprattutto, l’inconscio? Si parla di tutto, anche del lutto («un lutto, non necessariamente così doloroso»), pur di non parlare del godimento. Vengono in mente le parole di Gilles Deleuze: «il fatto è che la psicoanalisi ci parla in continuazione dell’inconscio, ma in un certo modo lo fa sempre per ridurlo, distruggerlo, scongiurarlo» (Deleuze 2000, p. 59).
In questo desolante panorama spicca al contrario la figura di Sergio Benvenuto, psicoanalista e filosofo che negli anni ha costruito un proprio autonomo e originale profilo teorico. Una originalità che Benvenuto collega proprio al dimenticato e rimosso Freud. Quel Freud, e così torniamo al nucleo originario della psicoanalisi, che nella Vienna fin de siècle mette sotto gli occhi di tutti quel che è sempre stato evidente e proprio per questo si è sempre voluto nascondere: «la sessualità» - scrive in Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi (2017) - «per Freud, è questo bordo tra il linguaggio e il puro grido; un bordo di per sé impresentabile, di cui non possiamo vantarci, a meno che non siamo in una posizione critica proprio nei confronti del mondo della decenza e della rispettabilità» (p. 13).
La psicoanalisi non si occupa del godimento sessuale per dargli una forma, fosse anche la forma della meta-psicologia freudiana; se ne occupa perché la psicoanalisi freudiana nasce dalla scoperta di questo oggetto, tutto il resto già si sapeva: «se, come accade spesso, l’analisi viene vista come una relazione tra due soggetti, un modo di definirsi di un essere-con, allora l’inconscio svapora, e con esso anche la sessualità come esperienza che eccede la parola, che ne esula e la rende insufficiente» (p. 15). Si tratta di una precisazione rilevante, perché smonta la tentazione, a cui troppi psicoanalisti non riescono a resistere, di credere che l’analisi serva a dare parole all’inconscio. L’onnipresente tentazione di pensare la psicoanalisi come esperienza di comprensione e interpretazione, come dialogo e scambio intersoggettivo.
Al contrario, per Benvenuto «l’inconscio è sacrilego» (p. 14). Non rispetta nulla, e non vuole nessuna comprensione.
La psicoanalisi si occupa piuttosto di quel lato dell’umano che sfugge al calcolo e alla ragione, alla mente ma anche al corpo. L’inconscio, infatti, non è al servizio né della mente, ma nemmeno del corpo animale, quello che condividiamo con tutti gli altri mammiferi: «insomma, la psicoanalisi si orienta a occuparsi della parte non adattativa dell’essere umano» (p. 193). Nonostante Darwin, la natura specie-specifica dell’umano è profondamente disadattativa, se non direttamente anti-biologica.
La psicoanalisi di cui ci parla Benvenuto ci offre una immagine dell’umano agli antipodi con quella corrente, sia quella offerta dalle scienze cognitive (il mainstream ideologico della contemporaneità) che quella offerta dall’economia (che ha preso il posto un tempo occupato dal Catechismo): un essere umano abitato e attraversato da forze che non controlla, da desideri che non hanno alcuna funzione biologica (la sessualità umana è normalmente perversa, come scopre Freud nel suo capolavoro, i Tre saggi sulla teoria sessuale), naturalmente scisso al suo interno: «quella di Freud non è una teoria dell’individuo, ma del “dividuo”. Non dell’Io come indivisibile, ma del soggetto come diviso. E rispetto a questa visione dell’essere umano in quanto dividuo che possiamo misurare la portata della restaurazione cognitivista, che consiste nel ristabilire l’unità dell’individuo in quanto essere sostanzialmente razionale e calcolatore» (p. 141).
Una psicoanalisi che proprio per questo non pretende di essere una scienza, come invece prova a fare affannosamente e vanamente la psicoanalisi del nostro tempo “cognitivo”, del tutto subalterna all’ideologia scientista contemporanea, che ammette come unico criterio di validità quello scientifico (o presunto tale). Si tratta di un punto rilevante dell’analisi di Benvenuto, perché rivendica l’autonomia della psicoanalisi, che ha valore non perché sia una (pseudo) scienza, bensì perché dà spazio alla natura intrinsecamente e radicalmente irrazionale dell’animale umano, non perché sia appunto una scienza, al contrario, perché è materialista e quindi volgare: «molti parlano di “rivoluzione psicoanalitica” - io invece direi che la psicoanalisi è stata un Ritorno riabilitativo al popolare» (p. 22). Nei sogni si parla di escrementi, di buchi, di carne e passione. Di questo è fatto l’inconscio. Questa è la psicoanalisi:
La psicoanalisi di Benvenuto è così radicalmente scomoda, perché parla non tanto di quello che non ci piace di noi, piuttosto dice la nostra radicale subordinazione a pulsioni che ci attraversano, e parlano per noi, al nostro posto. Freud, l’intransigente materialista Freud, ci ricolloca al nostro posto, quello di primati parlanti, che però credono a quello che si dicono (Homo sapiens è l’unico animale che pensa di sé di non esserlo). È troppo cruda, e sconsolante, questa immagine, per questo la rimozione della psicoanalisi è cominciata nello stesso momento della sua comparsa. Ma questo, ancora una volta, significa che l’animale umano, per Freud, non smette di essere un primate, una scimmia, anche se si tratta di una scimmia con la testa piena di parole e pensieri che pensano per lei, che ha bisogno di sentirsi amata, e di credere che un senso, da qualche parte, c’è.
La psicoanalisi non crede al senso, neanche a quello biologico (che, ammesso che sia un senso, è del tutto privo di senso, è cieco e autistico, come mostrò in modo esemplare, sebbene sgradevole, il biologo Richard Dawkins ne Il gene egoista). La psicoanalisi non è ottimista, non propone una soluzione, soprattutto non ci e si racconta storie: «si ha voglia di rigirare la frittata, ma se si è freudiani si crede nella pulsione di morte, e quindi nell’impossibilità costitutiva di una società Buona e Felice» (p. 129).
Ma attenzione, Benvenuto non è dalla parte del “lutto”, tutto al contrario, la psicoanalisi è dalla parte del godimento e della liberazione del corpo dall’Io, che infatti - qui Benvenuto è affatto lacaniano - «è a un tempo solo sé stesso, ma anche l’Altro che l’io stesso ha assunto come il proprio» (p. 140). La psicoanalisi non rafforza l’Io, che non esiste, o meglio esiste solo come introiezione dello sguardo dell’Altro.
Da questo punto di vista la grande e rimossa figura della psicoanalisi è, insieme allo stesso Freud, è quella del suo allievo rinnegato, eretico ed eccessivo, Wilhelm Reich, che cercò in modo pazzo e fallimentare di coniugare comunismo e psicoanalisi, sessualità e rivoluzione, libertà e godimento. Non è un caso che il suo nome non compaia più fra quelli citati dalla psicoanalisi “scientifica” (nemmeno nel libro di Benvenuto, per la verità; la sua storia dimenticata si può leggere in un libro di qualche anno fa di Paul Robinson, La sinistra Freudiana - Wilhelm Reich, Geza Roheim, Herbert Marcuse), e che sia morto nel 1957 in un penitenziario negli Stati Uniti. La psicoanalisi è eccessiva, anche se le piace presentarsi sotto le luci soffuse di un accogliente ed elegante studio borghese, è esagerata, è intrattabile. Insistiamo su questo punto, la libertà della psicoanalisi. Una libertà che per essere “libera” deve liberarsi, per prima cosa, da quello stesso soggetto, l’Io, che per Freud è il riflesso interno delle forze sociali esterne.
Benvenuto è esplicito su questo punto, in cui cade buona parte della psicoanalisi contemporanea: «l’analista teorizza come se in realtà egli stesse dicendo al suo analizzante: “Io so scientificamente, medicalmente, il tuo questo, quel self che tu sei”. [...] Questo analista, nell’istante in cui teorizza, crede che il soggetto sia qualcosa. Per l’analista praticante invece ogni essere “qualcosa” è un’alienazione» (p. 89).
Per questa ragione, per Benvenuto, «l’abilità dell’arte psicoanalitica consiste nel mostrare a un soggetto l’altro sogno, quello dentro al quale egli non suppone di vivere» (p. 100). Il problema del sogno, in fondo, è che appunto è soltanto un sogno, un sogno che qualcun altro sogna per noi. La psicoanalisi, per Benvenuto, è invece una pratica di radicale individuazione: «di fatto, è il lavoro di ogni psicoanalisi riuscita: aiutare ciascuno di noi a individuarsi, a soggettivarsi, ovvero a raccontarsi la storia giusta delle proprie origini in modo di “svincolarsi dal gruppo”» (p. 151). Si va in analisi non per stare meglio con gli altri, tantomeno per adattarsi ad un mondo che non si sopporta, ma per fare a meno del bisogno di essere guardati, dagli altri e da sé stessi. E questo non è narcisismo, questa si chiama libertà.
Riferimenti bibliografici
S. Benvenuto, Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi, Orthotes, Nocera Inferiore (SA) 2017.
G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste. 1975-1995, Einaudi, Torino 2000.
H. Greely, La fine del sesso e il futuro della riproduzione umana, Codice, Torino 2017.
F. Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008.
* Fata Morgana, 12 febbraio 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
IL PUNTO DI SVOLTA. Proseguendo nel suo «viaggio attraverso la psicanalisi, e oltre», Fachinelli è giunto finalmente dinanzi al mare. «Sulla spiaggia», questo è il titolo del primo e più originale scritto de "La mente estatica".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LA PSICOANALISI, LA LEGGENDA DI "COLAPESCE", LA "LEZIONE" DI FREUD A ROMAIN ROLLAND.
Una nota
di Federico La Sala
All’interno di un lavoro portata avanti da più Autori, sul tema “L’India della psicoanalisi. Il subcontinente dell’inconscio” (IPOC, Milano 2014), Livio Boni, a conclusione del suo contributo specifico, dedicato a “Freud e l’India: un percorso ermeneutico lungo/un itinerario mancato”, e, in particolare, allo sforzo di fornire chiarimenti sul “dialogo con Romain Rolland” e sulla “equazione freudiana: India = misticismo”, scrive:
LA PAURA DELLA "GIOIA ECCESSIVA". Alla luce di un “vecchio” lavoro di Giampaolo Lai (“Due errori di Freud”, Boringhieri, Torino 1979), di Elvio Fachinelli (“La mente estatica”, Adelphi, Milano 1989) e, mi sia consentito, di una altrettanto mia “vecchia” analisi della “provocazione” fachinelliana di portarsi oltre Freud (si cfr. “La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 138-161), pur volendo accogliere l’opinione della lettura di Boni (2002/2014) sul valore della “soprendente” testimonianza di Goetz relativa alle dichiarazioni di Freud sull’India, con tutte le implicazioni che esse hanno anche sul dialogo con Rolland, è da dire che nel testo di Goetz c’è un elemento, che sollecita attenzione e invita non a semplificare (“Questo riduzionismo - scriveva Fachinelli - non ci serve: ci serve piuttosto un adduzionismo”) ma ad “approfondire” ulteriormente la lettura della “lezione” di Freud a Goetz, proprio per fare possibilmente più chiarezza sul “percorso ermeneutico lungo" e su "l’itinerario mancato".
L’elemento è la citazione ripresa dalla ballata di Schiller - un vero e proprio “iceberg” del “mare” interno di Freud: “La Bhagavadgita è un poema grande e profondo che apre però su dei precipizi. E ancora giace sotto di me celato nella purpurea tenebra afferma "il tuffatore" di Schiller, che mai rivenne dal suo secondo temerario tentativo” (sul tema, si cfr. la brillante tesi di laurea di Malvina Celli, "La simbologia di Friedrich Schiller nella ballata "Der Taucher": amore o ambizione?", Università di Pisa "014/2015).
Tale elemento illumina con molta forza un “impensabile” ancora da pensare: esso non è affatto “in aperto contrasto con tutto ciò che Freud afferma altrove” ma, al contrario, esprime solo e già tutto “il disagio della civiltà”, quella occidentale, nei confronti dell’altra civiltà, quella orientale in questo caso e, in particolare, dell’India.
Nel 1904-1905, a pochi anni dalla pubblicazione della Interpretazione dei sogni, avvenuta nel 1899 (con la data “1900”), e con la consapevolezza che la sua autoanalisi - interminata e interminabile - non è affatto finita, egli sa bene in quale impresa si è “tuffato”! Il motto virgiliano, “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” («Se non posso muovere gli dei superiori, muoverò quelli degli inferi»), posto ad esergo dell’opera, già dice bene a se stesso di quali e quanti pericoli e difficoltà dovrà affrontare il “conquistador” nel suo cammino.
Un’ombra lo seguirà fino alla fine: è quella di Josef Popper-Lynkeus (1838-1921), ingegnere, filantropo, e scrittore, che con le sue “Fantasie di un realista”, opera pubblicata a Vienna nel 1899, contemporaneamente a “L’interpretazione dei sogni”, che lo "tormenterà" a non rassegnarsi (“I miei rapporti con Josef Popper-Lynkeus”, 1932) e ... a non perdere il coraggio degli inizi!
Nel 1929, nel “Disagio della civiltà”, «un’opera essenziale, di primo piano per la comprensione del pensiero freudiano, nonché il compendio della sua esperienza» (J. Lacan), nella parte finale del primo capitolo, a Romain Rolland, chiudendo con modi da “animale terrestre” la porta in faccia al “suo amico oceanico” (così dalla dedica sulla copia del libro inviatagli), ripete la “lezione” data a Goetz nel 1904-1905, con altri versi dalla stessa ballata: -“(...) ancora una volta sono indotto ad esclamare con le parole del Tuffatore di Schiller: “... Es frue sich, / Wer da atmet im rosigten Licht. [...Gioisca, / Chi qui respira nella luce rosata.]” (S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, p. 208).
A ulteriore precisazione, per chi ancora possa avere qualche dubbio sul senso del suo discorso e del suo percorso, alla fine del capitolo 7 del "Disagio", richiama alcuni versi dalla canzone dell’arpista nel “Wilhelm Meister” di Goethe e commenta:
Il Conquistador comincia a deporre le armi e ammette: “(...) mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai mei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti” (op. cit., p. 280).
Nel 1930, a Freud viene conferito l’ambito “Premio Goethe”. Il riconoscimento segnava per lui, come dichiarò, la vetta più alta della sua vita. Nel “Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte”, (S. Freud, Opere, XI, Torino 1979, pp. 7-12), egli scrive: “Io penso che Goethe, a differenza di tanti altri nostri contemporanei, non avrebbe respinto di malanimo la psicoanalisi”. Certamente non si sbagliava, ma forme di immaginario “prometeico”, condiviso sia con Goethe sia con gli “altri nostri contemporanei”, lo accecano ancora. I suoi “sogni” personali erano più le “fantasie” di un idealista (platonico-hegeliano ), che di un realista, alla Popper-Lynkeus e alla Rolland!
Nel 1931, alla fine dell’ultimo capitolo del “Disagio della civiltà”, dopo l’ultima frase: “Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo [...]. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale.”, aggiungerà: “Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito” (op. cit., p. 280).
Nel 1938, con grandissime difficoltà, a stento riesce a lasciare Vienna e a raggiungere, sognando "Guglielmo il Conquistatore", l’Inghilterra - un’isola in mezzo all’oceano! Morirà a Londra il 23 settembre 1939.
A sua memoria e gloria, è da ricordare che, se il suo primo lavoro "L’interpretazione dei sogni" richiama alla memoria la figura di Giuseppe, e il suo lavoro di interpretatore dei sogni del Faraone, l’ultimo lavoro risollecita a riflettere su “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e a proseguire il suo lavoro, quello di interpretatori e interpretatrici dei sogni dell’intera umanità. Uscire dallo Stato di minorità è possibile, non è “l’avvenire di un’illusione”. Non dimentichiamo di «coltivare il nostro giardino»!
Sul tema, nel sito, si fr.:
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
VITA, FILOSOFIA, STORIA E LETTERATURA...
BENEDETTO CROCE, LO SPIRITO DI "COLAPESCE", E LA VITA DI UN "PALOMBARO LETTERARIO". Una brillante ricognizione di Luisella Mesiano
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Domande scientifiche e pulsione mistica.
Wittgenstein, Freud e Lacan al di là del principio di piacere
di Stefano Oliva[1] («Studi di estetica», 2017, 1, pp. 97-110)
1. Insoddisfazione epistemica
Una lunga tradizione, che va da Aristotele a Martin Heidegger, attribuisce alla scoperta scientifica una connotazione emotiva positiva, pur declinata secondo uno spettro di possibilità ampio. Nelle pagine iniziali della Metafisica la scaturigine della filosofia, intesa come scienza dei principi, viene rintracciata nel sentimento di meraviglia provato dagli uomini di fronte alla complessità della realtà. Meraviglia e non necessità pratica, dice Aristotele, dal momento che “quando ormai possedevano quasi tutte le cose necessarie e quelle occorrenti per un’esistenza confortevole e piacevole, gli uomini cominciarono a esercitare questo tipo di intelligenza” (Met. 982b, 20-25).
Nella Critica del giudizio, invece, Kant parla di uno specifico tipo di piacere, derivante dall’accordo tra la natura e il nostro bisogno di trovare principi universali in base ai quali comprendere i fenomeni. In particolare, “la scoperta della combinabilità di due o parecchie leggi empiriche eterogenee della natura sotto uno stesso principio è fonte di un notevolissimo piacere: spesso anzi di un’ammirazione, la quale non cessa quando anche l’oggetto sia abbastanza conosciuto” (Kant 1790, VI: 45). Ancora, in Essere e tempo la situazione emotiva (Befindlichkeit) viene indicata come una delle determinazioni esistenziali dell’Esserci, il quale è già da sempre immerso in una tonalità sentimentale (“autosentimento situazionale”, Heidegger 1927: 168). Originaria e pervasiva, la Befindlichkeit non riguarda alcune circostanze piuttosto che altre, e infatti “anche la θεωρία più pura non è del tutto scevra di tonalità emotiva” (Heidegger 1927: 171). La Stimmung fondamentale della contemplazione teoretica viene individuata nell’imperturbabilità (impalpabile ma non per questo emotivamente irrilevante) che caratterizza la conoscenza dell’oggetto inteso nella sua semplice presenza.
Meraviglia, piacere, imperturbabilità sono solo tre delle possibili declinazioni della tonalità emotiva, positivamente connotata, connessa tradizionalmente alla ricerca scientifica e alla speculazione teorica. Ma una simile situazione emotiva può esaurire in modo soddisfacente lo spettro di sentimenti connessi all’interrogazione scientifica? In un’annotazione datata 25 maggio 1915 Wittgenstein scrive:
Nell’appunto di Wittgenstein il sentimento mistico si presenta come un impulso dovuto all’insoddisfazione di fronte alle risposte fornite dalla scienza. In accordo con quanto stabilito dal Tractatus logico-philosophicus, opera che era ancora in gestazione nel momento in cui viene scritta l’annotazione presa in esame, la scienza si compone della totalità delle proposizioni vere (Wittgenstein 1922: 4.11). Per “vero” si intende qui “corrispondente a uno stato di cose sussistente”: la proposizione non è altro che un’immagine (non materialmente somigliante) della realtà, un modello, e il suo valore di verità deriva dal confronto con il fatto cui si riferisce[2].
Da quanto detto risulta chiaro che l’ambito della scienza, costituito dall’insieme delle proposizioni vere, coincide perfettamente con l’ambito della fattualità: come a dire che la scienza non fa che descrivere la realtà raffigurando i fatti che la compongono. Leggiamo infatti all’inizio del Tractatus che “il mondo è tutto ciò che accade [Die Welt ist alles, was der Fall ist]” (Wittgenstein 1922: 1) e che “il mondo è la totalità dei fatti” (Wittgenstein 1922: 1.1). L’impresa scientifica comporta pertanto una modellizzazione dei fatti che compongono il mondo; ma che ne è di quest’ultimo? Qual è il senso del mondo, quale la sua realtà? Simili domande metafisiche, secondo la teoria del Tractatus, travalicano i confini della scienza[3] poiché eventuali risposte oltrepasserebbero l’ambito dei fatti (e dunque delle proposizioni sensate). Abbandonando il terreno dei fatti, le risposte ai quesiti metafisici si spostano sul piano dei valori, ai quali tuttavia non possono corrispondere espressioni linguistiche sensate. Per questo motivo “uomini, cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbî, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso” (Wittgenstein 1922: 6.521). Il linguaggio, disancorato dall’ambito dei fatti, gira a vuoto o al limite si impantana in pseudo-proposizioni, suggestive ma insensate.
Questa constatazione non sembra però scalfire il dato di fatto per cui l’essere umano si interroga cercando risposte al di là della sfera della fattualità: “Noi sentiamo che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppur toccato”. Di qui l’insoddisfazione nei confronti della scienza e delle sue risposte, che sembrano eludere problemi vitali come il senso del mondo e dell’esistenza. All’indagine scientifica si accompagna dunque un sentimento di costante insoddisfazione, un’emozione negativa che, lungi dal diminuire con il progresso del patrimonio di conoscenze, proprio a questo progresso si riconosce estranea.
L’“impulso al Mistico” non è dovuto a un generico senso di insufficienza delle conoscenze scientifiche in nostro possesso, né può attendere una qualche soddisfazione dall’aumentare delle nostre cognizioni. Ciò che esso mette in mora è proprio il principio di corrispondenza tra proposizioni (vere) e fatti (sussistenti). Come a dire: quand’anche si potessero enumerare tutte le proposizioni vere - scrivendole, per esempio, in un grande libro, capace di contenere un’esauriente e definitiva descrizione del mondo (Wittgenstein 1965) -, non troveremmo in un simile elenco altro che resoconti di fatti. Nessun giudizio di valore vi potrebbe trovare spazio, nessuna affermazione metafisica o religiosa, nessuna valutazione etica o estetica.
La corrispondenza tra proposizioni e fatti, su cui si basa la teoria presentata dallo stesso Wittgenstein nel Tractatus, genera un sentimento di insoddisfazione che, come un negativo fotografico, costituisce il rovescio emotivo dell’impresa scientifica. Tale insoddisfazione proviene dalla frustrazione - inevitabile - del desiderio umano di oltrepassare l’ambito della fattualità, sottoposto all’esame del vero e del falso; è questa insoddisfazione che genera l’“impulso al Mistico”.
Quello che nel Tractatus verrà chiamato “sentimento mistico”[4] viene indicato nell’annotazione presa in esame come Trieb, traducibile con “impulso”, ma anche con “pulsione”, nell’accezione data a questo termine da Sigmund Freud. La proposta teorica che si proverà ad articolare consiste dunque nel cercare di chiarire la natura del Trieb rivolto al mistico cercando in esso i tratti della pulsione, così come presentata in sede psicoanalitica. Questa lettura verrà messa alla prova tramite un confronto con la dialettica che, in Al di là del principio di piacere, si instaura tra pulsioni di vita e pulsioni di morte. Infine, attraverso l’interpretazione di Freud offerta da Jacques Lacan, si farà ritorno alla pulsione mistica come spinta ad andare incontro al reale.
2. Pulsioni di vita, pulsioni di morte
Il dualismo tra pulsioni di vita e pulsioni di morte è un’acquisizione della tarda riflessione freudiana. Il concetto di Trieb viene in verità introdotto nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) per indicare il processo dinamico per cui, a fronte di una tensione, l’organismo è spinto ad allentare lo stato di eccitazione. Nel saggio Pulsioni e loro destini questa spinta ad allentare la tensione viene individuata come “concetto limite tra lo psichico e il somatico” (Freud 1915: 17), da distinguersi rispetto all’istinto, inteso come determinazione essenziale e innata del comportamento animale (Cimatti 2015: 55-9).
Ne I disturbi visivi psicogeni nell’interpretazione psicoanalitica (1910) Freud contrappone le pulsioni sessuali (rette dal principio di piacere) alle pulsioni di autoconservazione (pulsioni dell’Io, rette dal principio di realtà) e, usando una formulazione mutuata da Schiller, individua in esse il contrasto emblematico tra “amore” e “fame”. Con l’Introduzione al narcisismo (1914), la contrapposizione tende ad affievolirsi, dal momento che le pulsioni di autoconservazione (o pulsioni dell’Io) vengono ad essere parzialmente ricomprese nella libido dell’Io, una delle due declinazioni delle pulsioni sessuali insieme alla libido oggettuale. A superare questa sorta di monismo pulsionale, per cui tutte le pulsioni sono in ultima analisi pulsioni sessuali, interviene un nuovo dualismo, quello appunto tra pulsioni di vita e pulsioni di morte (Laplanche, Pontalis 1967: 481).
Introdotta nel saggio Al di là del principio di piacere (1920), la contrapposizione tra pulsioni di vita e pulsioni di morte riassorbe in una certa misura il dualismo tra pulsioni sessuali e pulsioni dell’Io. Freud è indotto a formulare l’ipotesi relativa alle pulsioni di morte sulla scorta di alcuni fenomeni, primo fra tutti la coazione a ripetere, apparentemente non riconducibili al principio di piacere. La ripetizione, nel gioco come nel sogno, di episodi spiacevoli della vita pare infatti inspiegabile, se si considera il principio di piacere come regola aurea del comportamento umano. D’altra parte, se il piacere coincide con lo scaricarsi di una tensione, la pulsione a tornare allo stato inorganico rappresenta l’estrema applicazione del principio di piacere: “In realtà ciò che Freud cerca di esplicitare con il termine pulsione di morte è ciò che vi è di più fondamentale nella nozione di pulsione, il ritorno a uno stato precedente e, in ultima analisi, il ritorno alla quiete assoluta dell’inorganico” (Laplanche, Pontalis 1967: 489).
Da quanto detto risulta che l’introduzione delle pulsioni di morte (presentata da Freud in base a motivazioni essenzialmente speculative e accolta a fatica o, per motivi clinici, rifiutata da numerosi analisti) non comporta una vera novità teorica ma, al contrario, conduce alle estreme conseguenze quanto viene già affermato dal principio di piacere. Per questo Freud può affermare: “sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte” (Freud 1920: 100). La pulsione di morte porta sotto gli occhi la verità della pulsione stessa, intesa come spinta alla scarica di tensione, e mostra il principio di piacere come estinzione del desiderio umano, vale a dire come “principio di Nirvana” (Freud 1920: 90). Se così è, la vera novità introdotta da Freud con il saggio del 1920 - ciò che veramente va “al di là del principio di piacere” - non è tanto la pulsione di morte (di cui il principio di piacere sarebbe il servo sciocco) quanto la pulsione di vita: “Come si vede, anche sul piano economico, la pulsione di vita non calza col modello energetico della pulsione come tendenza alla riduzione delle pulsioni” (Laplanche, Pontalis 1967: 493).
Ricapitoliamo: in deroga al principio di piacere (scarica della tensione), Freud è indotto ad ammettere l’esistenza di pulsioni di morte, vale a dire di spinte che contravvengono alla finalità del mantenimento di una tensione costante (principio di costanza). La finalità della pulsione di morte, infatti, coincide con il ritorno a uno stato inorganico. In questa prospettiva però la pulsione di autoconservazione, retta dal principio di piacere, viene ricompresa all’interno delle finalità della pulsione di morte, dal momento che servirebbe a garantire “che l’organismo possa dirigersi verso la morte per la propria via” (Freud 1920: 64). Ne segue che la pulsione di morte - correttamente intesa - non si oppone al principio di piacere ma, incarnando la tendenza a riportare l’organismo allo stadio inorganico precedente alla sua individuazione, si presenta come il “mandante” del “suicidio” cui conduce il principio di piacere stesso. -Spiegando in questo modo la pulsione di morte, ciò che risulta difficilmente spiegabile è la tendenza dell’organismo a legarsi ad altri organismi, a “fare gruppo”, a saldarsi con altri in strutture via via sempre più ampie. Questa pulsione a creare nuove tensioni, ad aumentare la complessità, ad interpolare un “frattempo” tra sé e la morte è Eros (Benvenuto 2013). A questo punto, ciò che risulta veramente difficile da procurare è una spiegazione scientifica delle pulsioni di vita, in apparenza non riducibili all’alleanza tra principio di piacere e pulsioni di morte:
Con queste parole Freud introduce il mito dell’androgino, narrato nel Simposio di Platone da Aristofane. Stante la definizione di pulsione come spinta a tornare a uno stadio di sviluppo precedente, la spiegazione mitologica propone l’idea di una originaria unità dei sessi, che l’unione sessuale mirerebbe a ripristinare. Freud propone ma non sposa questa teoria, non le dà il suo assenso ma decide di fermarsi, riconoscendo a queste riflessioni il valore di una pura speculazione. È il caso tuttavia di osservare che il ricorso al mito è motivato dall’insoddisfazione per le risposte offerte dalle teorie scientifiche, che sanno dire “così poco" rispetto a ciò che spinge gli organismi a legarsi tra loro e a procrastinare il momento della morte.
Riguardo alla “condizione che noi cerchiamo di soddisfare” la scienza non ha nulla da offrire, poiché il problema posto dalle pulsioni di vita riguarda non i fatti, i fenomeni, ma la loro finalità. E la finalità è presente qui al modo di una mancanza: se la morte è la meta della vita, come è possibile che vi siano pulsioni che non si risolvono, che esorbitano dallo scopo, che si oppongono a qualunque soddisfazione?
3. Tyche e godimento
Nella sua rilettura della teoria freudiana, Jacques Lacan arriva a indicare ciò che si trova al di là del principio di piacere con il termine godimento (Chaumon 2004: 69). Data la premessa, il godimento non è in nessun modo assimilabile al piacere: quest’ultimo è un abbassamento della tensione, mentre riguardo al godimento Lacan può domandarsi: “di che cosa godere se non del prodursi di una tensione?” (Lacan 2005 [1971]: 110). Il luogo proprio del godimento è il corpo, ma non il corpo significato dal linguaggio, né il corpo che si esprime attraverso codici comunicativi non verbali. Il corpo di cui parla Lacan è proprio ciò che non arriva all’espressione, che rimane ai margini della rappresentazione come un resto intraducibile ed enigmatico. In questo senso, il registro in cui si muove il corpo è quello del Reale, che insieme al Simbolico (legge, linguaggio, relazione triadica) e all’Immaginario (rappresentazioni, relazione duale e speculare) costituisce la triade lacaniana dei registri entro cui si svolge la vita dell’animale parlante. Se il Simbolico è l’Altro (maiuscolo), vale a dire un ordine preesistente che impone regole sociali e norme di comportamento, il Reale ha a che fare con l’altro (minuscolo), con quell’a piccolo che Lacan indica come scarto, resto, osso non digeribile della psicoanalisi.
Dunque: godimento, corpo e Reale costituiscono per Lacan altrettante figure dell’al di là del principio di piacere. Un altro modo di presentare la questione è quello di riconoscere la solidarietà tra linguaggio umano e pulsione di morte: è il linguaggio che, tramite il potere della negazione, “rende ogni cosa come evanescente e mortale” (Cimatti 2015: 62) e, in quanto dispositivo computazionale autonomo rispetto ai parlanti, coincide con la coazione a ripetere. Pertanto il corpo che gode, in quanto non riducibile al registro del Simbolico, dischiude un’esperienza del Reale che sfugge al principio di piacere[5].
Per cercare di incontrare il Reale (che, ricordiamo, non è alternativo ma coesistente rispetto agli altri due registri), Lacan utilizza la distinzione tra tyche e automaton, che nella Fisica di Aristotele sta a indicare una duplice declinazione della nozione di caso. Identificando il Reale come tyche, Lacan afferma che esso “è al di là dell’αυτόματον, del ritorno, del ritornare, dell’insistenza dei segni a cui ci vediamo comandati dal principio di piacere” (Lacan 1973 [1964]: 52). In Aristotele la distinzione è motivata dal carattere non intelligente o inanimato di quanto avviene nell’automaton (per esempio una pietra che cade colpendo accidentalmente qualcuno), contrapposto al coinvolgimento di attori capaci di deliberazione nella tyche (per es. l’incontro fortuito di un creditore con il proprio debitore). Lacan trascura questo aspetto e mette invece in risalto la dimensione necessitata e coattiva dell’automaton[6], contrapposta al carattere aleatorio e fatale della tyche. In quest’ultima il Reale si presenta come incontro fortuito e come trauma, cui il principio di piacere dovrà rispondere stabilendo un equilibrio omeostatico e soggettivante (prima del trauma, cioè, non vi è soggetto). La connessione della tyche con il corpo sta proprio nella natura del trauma, che si incide nella carne di quello che, per mezzo di questa stessa incisione, diviene un soggetto. Ma ciò che qui compare è un soggetto costitutivamente mancante, privato di quell’“oggetto privilegiato, sorto da qualche separazione primitiva, da qualche automutilazione indotta dall’avvicinarsi stesso rispetto al reale, il cui nome, nella nostra algebra, è oggetto a” (Lacan 1973 [1964]: 82).
Il Reale si presenta nella veste di un incontro fortuito capace di segnare una discontinuità rispetto alla ripetizione propria della pulsione di morte. Incidendo il corpo esso produce una “falla beante” (Lacan 2005 [1971-72]: 110) che non si può riempire tramite la soddisfazione del piacere ma che domanda un godimento, un aumento di tensione senza limite. Nel Seminario XX Lacan scrive: “Quanto al godimento - godimento del corpo dell’Altro -, esso resta una questione, perché la risposta che può costituire non è necessaria. Di più: non è nemmeno una risposta sufficiente, perché amore domanda amore. Non cessa di domandarlo. Lo domanda... ancora. Ancora è il nome proprio della faglia da dove nell’Altro parte la domanda d’amore” (Lacan 1975 [1972-73]: 5-6). Si noti però come in Lacan il godimento abbia una duplice declinazione: esso si presenta come godimento fallico, che ricade cioè nell’ordine simbolico, o alternativamente come godimento femminile (Di Ciaccia, Recalcati 2000: 110). Se nel primo caso l’“ancora” lascia intravedere l’avvio di una ripetizione, e dunque di un godimento coattivo e mortifero, nel secondo caso Lacan individua la posizione dei mistici, di coloro che si sottraggono al principio di piacere in nome di un godimento supplementare: “È chiaro che la testimonianza essenziale dei mistici consiste appunto nel dire che provano il godimento, ma che non ne sanno nulla” (Lacan 1975 [1972-73]: 72). Più che un “ancora”, in questo caso si assiste a un’estinzione dello stesso meccanismo ripetitivo per cui Lacan può parlare di un “godimento al di là del fallo” (Lacan 1975 [1972-73]: 70).
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CONTINUAZIONE DEL POST PRECEDENTE
4. Conclusioni
L’ipotesi da cui eravamo partiti era quella di leggere l’impulso al mistico di Wittgenstein nei termini pulsionali propri della teoria psicoanalitica[7] o, in altri termini, di vedere nell’insoddisfazione di fronte alle risposte fattuali offerte dalla scienza l’indice di una specifica pulsione a spingersi oltre il gioco della corrispondenza tra fatto e proposizione, unica forma di linguaggio sensato ammessa dal Tractatus logico-philosophicus. La lettura di Al di là del principio di piacere ha posto la dialettica tra pulsioni di morte e pulsioni di vita: se il principio di piacere conduce a un azzeramento della tensione nella scarica, ciò che veramente contraddice la regola cui secondo Freud è sottoposta la vita psichica non è Thanatos, bensì Eros, ovvero la pulsione a stringere legami e a deviare dalla traiettoria più breve che conduce alla soddisfazione propria del piacere. Il passo ulteriore è stato rintracciare nella lettura lacaniana di Freud l’al di là del principio di piacere come godimento, vale a dire come apertura di una falla non colmabile nel corpo inciso dall’incontro con il Reale, inteso come caso fortuito e traumatico.
Alla luce di queste incursioni psicoanalitiche, come può arricchirsi la comprensione del Trieb al mistico? In primo luogo, il sentimento mistico può essere assimilato alle pulsioni di vita a motivo della sua irriducibilità al principio di piacere. L’insoddisfazione nei confronti delle risposte scientifiche non è dovuta infatti a una contingente insufficienza delle conoscenze in nostro possesso, né potrà essere placata da uno sviluppo sperimentale delle nostre cognizioni. Quella del mistico è una protesta permanente nei confronti della fattualità, una messa in mora dello stesso meccanismo per cui una proposizione si risolve nel fatto che raffigura. Pertanto il suo deviare dalla soddisfazione, contravvenendo al principio di piacere, rappresenta un impulso inestinguibile. Si pone però il problema di una duplice lettura dell’insoddisfazione, dovuta al dualismo tra godimento fallico e godimento femminile (mistico), in parte riconducibile alla strutturale ambiguità del binomio pulsioni di vita/pulsioni di morte[8]. L’alternativa, una volta che non si sia trovata risposta, è domandare ancora o, più semplicemente, smettere di domandare. In Wittgenstein infatti il mistico coincide con una “rinuncia al desiderio che ci spinge a cercare”, ovvero con un “esser contenti” che “vuol dire aver messo un termine al sentimento d’insoddisfazione” (Soulez 2016: 198). Il mistico, puntualizza Wittgenstein, proviene dall’insoddisfazione ma non si risolve in essa; piuttosto, costituisce una dissoluzione della domanda, “e appunto questa è la risposta”[9].
In secondo luogo, la pulsione al mistico coincide con un movimento che, lungi dall’acquietarsi nell’aderenza del linguaggio al mondo, raccoglie la totalità dei fatti in unità. Come le pulsioni di vita sono pulsioni al legame, aggreganti, paragonabili all’immagine mitica del ricongiungimento dei sessi nell’androgino, così l’impulso mistico tende a una visione globale del mondo, in cui collassano tutti i dualismi: “Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico” (Wittgenstein 1922: 6.45). In una simile visione unitaria cade la distinzione tra soggetto e oggetto, tra Io e mondo; quest’ultimo termine, d’altra parte, contiene in maniera potremmo dire analitica l’idea di totalità compiuta (Virno, 2015).
Infatti, e veniamo al terzo punto, “Il mondo è tutto ciò che accade [Die Welt ist alles, was der Fall ist]”, nulla escluso. Tenendo a mente l’idea lacaniana di Reale come tyche, incontro fortuito, si potrebbe tradurre (in senso letterale, quindi stupido e saggio al tempo stesso) questa proposizione: “Il mondo è tutto ciò che è il caso”. Ne risulta che il contenuto “mistico” del Tractatus non va cercato alla fine dell’opera, magari nell’invito al silenzio della proposizione 7; piuttosto, il mistico è vedere il mondo, la totalità dei fatti, come un incontro fortuito e decisivo, traumatico e al contempo fonte dell’unico godimento possibile, quello che non trova soddisfazione in nessun fatto particolare.
Ciò che lega Wittgenstein, Freud e Lacan appare qui nei termini di un’insoddisfazione strutturalmente connessa alle risposte fornite dalla scienza. La strategia di Wittgenstein consiste nel mostrare come il sentimento mistico, correttamente inteso, riesca a mettere a riposo lo stesso gioco della domanda e della risposta, di cui la scienza è intessuta. Una volta che si sia data risposta a tutte le domande scientifiche, il nostro problema non è ancora stato toccato; così però non rimangono più domande e questa è appunto la risposta: l’interruzione dell’interrogazione, l’abbandono del terreno linguistico in cui a una proposizione corrisponde un fatto.
Con Freud, potremmo indicare in questo movimento di abbandono l’al di là del principio di piacere: si tenga presente però che l’insoddisfazione derivante dalle risposte della scienza all’enigma delle pulsioni di vita conduce, per quanto in via ipotetica, a una risposta dal sapore mitologico (la tensione all’unità originaria dell’androgino). Ma, appunto, qui si tratta di nuovo di mito, vale a dire di parole, discorsi, spiegazioni ipotetiche: il passo più coerente con il Trieb al mistico è piuttosto quello che si risolve in un arresto (la rinuncia di Freud a proseguire sulla via indicata dall’ipotesi dell’unità originaria).
La riflessione di Lacan, infine, porta alla luce l’aspetto modale della pulsione in questione: individuando nel godimento posto al di là del principio di piacere il luogo proprio dell’incontro con il Reale, la lettura lacaniana consente di negare il carattere possibile di ciò che accade. Il Reale, come il mondo del Tractatus, è così non-possibile, nel duplice senso di impossibile (da raffigurare, da simbolizzare, da pensare) e di necessario (non sottoposto alla biforcazione di vero e falso). Non vero (né falso), il mondo è appunto reale: è questo ciò che nella pulsione mistica giunge ad essere sentito.
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© 2017 The Author. Open Access published under the terms of the CC-BY-4.0.
[1] oliva.fil@gmail.com.
[2] È necessario precisare che l’insieme delle proposizioni vere non esaurisce la totalità delle proposizioni sensate: una proposizione può infatti raffigurare uno stato di cose possibile ma non sussistente, può essere dunque sensata ma falsa (Soleri 2003).
[3] “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore - né, se vi fosse, avrebbe un valore” (Wittgenstein 1922: 6.41).
[4] “Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico [Das Gefühl der Welt als begrenztes Ganzes ist das mystische]” (Wittgenstein 1922: 6.45).
[5] Come notano Antonio Di Ciaccia e Massimo Recalcati, a partire dal Seminario VII “non c’è un’omologia tra l’al di là del principio di piacere e l’ordine significante, quanto piuttosto una discontinuità radicale” (Di Ciaccia, Recalcati 2000: 200). Ciò significa che il Simbolico risulta retto dal principio di piacere, mentre il Reale pare così situarsi al di là di esso. Il fatto che corpo, godimento e Reale sfuggano al principio di piacere può però essere letto in vari modi. Si vedano, a tal proposito, anche (Cosenza 2003: 28) e (Žižek 2008: 398).
[6] Nell’automaton è facile riconoscere i tratti della coazione a ripetere e della pulsione di morte. Quando Lacan invita a cercare il Reale come tyche al di là della ripetizione dell’automaton, egli indica una polarità che non è necessariamente da leggere come una contrapposizione. Vale a dire che, se “il reale è ciò che giace sempre dietro l’automaton” (Lacan 1973 [1964]: 52-3), ciò non significa che esso escluda la ripetizione. Al contrario, il Reale può trovarsi dietro l’automaton e costituirne l’al di là proprio perché non gli è del tutto estraneo. Si può ad esempio immaginare l’incontro con il Reale come un cogliere l’aspetto “tychico” che si nasconde nella più trita ripetizione automatica. In questa prospettiva non bisogna necessariamente identificare coazione a ripetere e pulsione di morte: è possibile cioè immaginare una ripetizione non tanto attiva quanto vitale (espressione cioè delle pulsioni di vita), che rimandi un inevitabile esito, come la principessa Sherazade rimandava la sua morte raccontando un’altra storia, ancora una volta (Procaccio 2016). La ripetizione mostra in questo caso il suo aspetto vitale e la sua spinta a costituire legami, a unificare, a “coprire tutte le pertinenze [...] vale a dire a toccare, radunare sotto un unico grande ombrello, meglio ancora convocare, chiamare a raccolta, far convergere, chiamare a sé con cura e gustare l’esperienza che ne deriva” (Vizzardelli 2014: 115).
[7] Nell’opera di Freud la dimensione mistica figura frequentemente come obiettivo polemico, rappresentando un ambito di credenze irrazionali, superstiziose e non fondate scientificamente rispetto al quale la psicoanalisi stessa sente la necessità di differenziarsi. In particolare, l’idea del mistico come sentimento oceanico, suggerita da Romain Rolland in una lettera di commento alla critica della religione svolta da Freud nel saggio L’avvenire di un’illusione (1927), viene discussa e criticata dal padre della psicoanalisi in Il disagio della civiltà (1930). Sebbene Freud affermi di reputarsi estraneo a un simile sentimento, la psicoanalisi non ha però cessato di confrontarsi con il tema del misticismo. Oltre alla già citata riflessione di Lacan, l’opera di W. Bion ha contribuito a illuminare il rapporto tra questi due ambiti: si veda a tal proposito il lavoro di Michael Eigen (1998). L’analogia tra mistica e psicoanalisi è riscontrata anche da Michel de Certeau: entrambe le pratiche, nella tensione tra parola e ineffabile (o tra parola e inconscio), pongono “una problematica dell’enunciazione [...] che sfugge alla logica degli enunciati” (de Certeau 1982, tr. it.: 8) e si presentano come paradossali “scienz[e] del parlare” (de Certeau 1987: 189). In un’altra prospettiva, i fenomeni tradizionalmente associati alla mistica sono stati più volte analizzati in termini psicopatologici: sulla relazione tra esperienza mistica e fenomeni psicotici si veda ad esempio il recente lavoro di Ricardo Torri de Araújo (2015). Accogliendo l’indicazione di un referee anonimo, segnaliamo che un’articolata riflessione su queste tematiche si ritrova anche nell’opera di Elvio Fachinelli, e in particolare nel saggio La mente estatica (1989).
[8] Si tenga presente, come sottolinea S. Benvenuto (2013: 59), che pulsioni di vita e pulsioni di morte si fronteggiano in una “falsa opposizione”, sono cioè due aspetti del medesimo al di là del principio di piacere. In questo sta la sostanziale solidarietà di Eros e Thanatos.
[9] La strategia wittgensteiniana che consiste nel porre come termine della filosofia la dissoluzione stessa dei problemi filosofici viene individuata da J.-A. Miller (2004-2005) in contrapposizione alla strategia di Lacan, per il quale il problema dell’esistenza, sebbene insolubile, non può non esser posto.
Sentimento oceanico: nostalgia d’infinito?
A partire dalla Giornata di studio presso il Centro Psicoanalitico di Bologna.
Report per il sito SPI
a cura di A. Cusin e L. Fattori (SPIweb, 30 settembre 2017).
Freud, nella sua professione di ateismo, aveva preso le distanze non solo dalla religione, ma anche da quel senso di eternità e di infinitezza, il Sentimento Oceanico, che l’amico Rolland gli aveva proposto come esperienza universale dell’uomo e come base del sentire religioso (Freud, 1929). Freud infatti sosteneva che il Sentimento Oceanico poteva essere semplicemente inquadrato all’interno del narcisismo primario e ricondotto alla mancanza di confini che l’Io esperisce nell’originaria fusionalità con il padre delle origini il quale, come egli specificò in L’Io e l’Es, è in realtà un padre-madre, cioè un genitore sessualmente indifferenziato (Freud, 1922).
La giornata di studio su “Nostalgia d’infinito e fede: esplorazioni psicoanalitiche intorno al sentimento oceanico”, si è tenuta presso il Centro Psicoanalitico di Bologna il 30 settembre 2017, ed è stata organizzata dal gruppo “Psicoanalisi e fede”. Dopo il benvenuto della segretaria scientifica del Centro, Luisa Masina, e la lettura di un messaggio di saluti del rappresentante dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia -Romagna, ente che ha dato il patrocinio all’evento, si sono aperti i lavori.
Il discorso ha preso le mosse da una serie di interrogativi sul Sentimento Oceanico e sul vissuto di infinitudine ad esso collegato. Tale vissuto si avvicina ad esperienze particolari e non facilmente descrivibili come quelle provate dai mistici o quelle intense e talora perturbanti di certe fruizioni estetiche: il Sentimento Oceanico , insomma, appare come qualcosa di articolato e complicato; e questo sia a livello fenomenologico sia per quanto riguarda il suo statuto metapsicologico.
I lavori della mattinata sono stati introdotti da Maria Stanzione, del Centro Napoletano di Psicoanalisi, che ha esordito spiegando la motivazione della giornata di studio e del titolo che è stato scelto per essa, titolo che comprende i termini nostalgia, infinito, fede, sentimento, oceano. “Tutte queste parole da sole, o in relazione tra loro, mostrano non poche complessità concettuali”- afferma Stanzione. Il desiderio è quello di tentare di esplorare assieme, nel corso della giornata, le zone d’ombra accantonate, trascurate e mai oggetto di trattazione sistematica, ma presenti nelle pieghe del discorso freudiano. Stanzione sottolinea come anche al di là del professato positivismo, Freud riconosca che molte sono le cose che non possiamo sapere. Anticipando Bion egli scrive a Lou Salomè: “ci dobbiamo accecare artificialmente fino a intravedere una fiaccola di luce nell’oscurità”(Grotstein, 2010, nota n.7 p.324), riconoscendo come “ le intuizioni della mistica possano fornire elementi preziosi per una embriologia della psiche” (Freud, 1930), e che “certe pratiche mistiche possono rovesciare i normali rapporti tra i territori della psiche, così da poter cogliere eventi profondi dell’Io e dell’Es altrimenti inaccessibili” (Freud, 1932, p.190).
Stanzione ci ricorda come Roman Rolland introduca per primo il termine Oceanico quando in una sua lettera rimprovera a Freud di non aver preso in considerazione “il sentimento religioso spontaneo, più esattamente, la sensazione religiosa, che è differente dalle religioni propriamente dette... cioè il fatto semplice, diretto della sensazione dell’Eterno (che può non essere eterno, ma semplicemente senza confini percettibili e come oceanico)” (Cornubert, 1966).
Stanzione elenca alcune possibili declinazioni dell’esperienza di infinito: non solo il dissolversi dell’Io nell’esterno, ma anche il flusso- riflusso continuo (“una sorta di ritmo dove le frontiere dell’Io e del non- Io si spostano continuamente) o ancora l’oltrepassamento del tempo, come “effetto di una rottura all’inizio e alla fine dell’esperienza”. Comunque in molte testimonianze, afferma Stanzione, quello che predomina è l’elemento sensoriale, l’emozione e l’immaginario.
Sophie de Mijolla, psicoanalista, membro del Quarto Gruppo, professore emerito presso l’Università Paris 7, porta a sua volta le proprie riflessioni sul Sentimento Oceanico, considerato come traccia del pensiero arcaico, sviluppando ulteriormente quanto già proposto nel saggio pubblicato in Psicoanalisi e fede: un discorso aperto ( Fattori, Vandi, 2017). Il concetto viene arricchito con alcuni spunti sulla tematica del prenatale. Vengono riferiti gli studi sulla sensibilità del neonato relativi all’ipotesi di una globalizzazione delle diverse forme di presa sensoriale che transiterebbero fondamentalmente attraverso il tatto. Inoltre de Mijolla ipotizza un secondo livello in cui il Sentimento Oceanico si esplicherebbe, e che corrisponderebbe a quello stato felice di non-integrazione che Winnicott descrive come tappa nella formazione del Sé. Infine introduce un terzo livello, più sul versante nevrotico, in cui compare la nostalgia come tensione dolorosa, che da desiderio per la madre assente virerebbe verso il desiderio del padre. Dice de Mijolla: “la nostalgia mirerebbe non tanto a recuperare un oggetto quanto piuttosto ad assicurarsi della sua assenza, processo che permette alla libido di ricevere una conferma al proprio movimento desiderante.” e conclude con la seguente domanda: “Questa prospettiva non mette così in luce la dialettica della perdita nel movimento che spinge il credente verso Dio?” Cita a tale proposito il paradosso di Pascal: “Tu non mi cercheresti se non mi avessi prima trovato”...
Su tutte queste tematiche si è aperta poi una ricca discussione con cui si sono chiusi i lavori della mattinata.
Al pomeriggio si è svolta una Tavola Rotonda sul tema dell’ “Oltre“, coordinata da Luigi Boccanegra, del Centro Veneto di Psicoanalisi, il quale ha sottolineato come l’ “Oltre” sia strettamente connesso con il tema della fede e costituisca un argomento che ha da sempre interessato gli psicoanalisti, benché se ne sia parlato poco perché questa problematica è stata coltivata individualmente e tutt’al più la si è discussa con il gruppo dei colleghi più vicini, più amici.
A proposito di “Oltre” Boccanegra cita dei significativi passi del poeta svizzero Philippe Jaccottet nei quali questo autore propone un altro tipo di infinito, rispetto a quello spaziale o a quello temporale, un infinito insito nelle potenzialità, infinite appunto, di ogni cosa. “Quegli alberi mi parevano, senza peraltro cessare di essere alberi, risplendere anche al di là di loro stessi; disegnavano, insieme a ciò che li accompagnava ( un ruscello, delle pietre, erba), una figura che mi intrappolava; salvo che quella trappola, invece di imprigionarmi, sembrava rendermi più libero”. ( Jacottet, 2006, p.69). In un passo successivo, sempre Jaccottet scrive: “attraverso quel fiore... che dura così poco, posso immaginare che il mondo non sia finito, che ogni cosa sia più di ciò che pare essere, che oltrepassi non si sa come i propri limiti apparenti”. ( ibidem, 73)
Alla Tavola Rotonda sono stati invitati a partecipare Rita Corsa e Cesare Secchi per una riflessione su cosa si possa intendere per “Oltre”: oltre il percepibile, oltre le nostre emozioni e i nostri affetti, oltre lo stesso infinito? E che cosa di tutto ciò entra nella stanza di analisi e come quello che eventualmente emerge viene affrontato dagli analisti?
Rita Corsa, del Centro Milanese di Psicoanalisi, affronta il tema della speranza, sentimento che ci fa vivere una dimensione che va “oltre” il presente: “Specialmente nella visione cristiana, la speranza si coniuga al bisogno di credere e all’esercizio della fede[...] La psicoanalisi, che di certo ha partecipato alla decostruzione del postmoderno, sembra oggi riconoscere a sua volta il bisogno di credere e di sperare come componenti fondamentali dell’esperienza umana[...]. Il pensiero junghiano si è avventurato in queste regioni estreme, valicandone coraggiosamente i confini, sin dalle sue origini. La posizione di Freud di «decisa ripulsa» (Freud, 1990) nei riguardi della religione ha marcato una cesura piombata sulla questione, riavvicinata con impavida visionarietà dall’ultimo Bion. Si è così aperto uno squarcio attraverso cui la psicoanalisi contemporanea sta cominciando a transitare. I tempi sono maturi affinché ci si interroghi sulle proprie radici nell’ottica di tale problematica. Va forse disegnata una nuova cartografia del mondo interno e di quello relazionale che permetta di superare gli antichi bastioni che, dogmaticamente, impedivano l’accesso ai territori maledetti del trascendente. Una mappa inedita, non delimitata dai medioevali hic sunt leones [...]”.
Anche per la psicoanalisi la speranza è un fattore propulsivo che alimenta la vita psichica e le cui radici affondano nella relazione primaria e, ancor prima, nell’essere tutt’uno con la madre nella vita intrauterina. È in quello spazio illusionale, magistralmente descritto da Winnicott, che comincia ad accadere l’imperscrutabile e unico processo di traduzione del caos iniziale nella fiducia che permette di vivere, di crescere e di immaginare il futuro.
Tutto ciò senza negare che la speranza in analisi oltre ad essere un sentimento necessario, sia anche un terreno pieno di trappole. L’ambiguo processo di trasformazione in speranza del dolore psichico, teso a preservare dalla scissione e dal collasso, fa sì che l’eccesso di speranza, che è intimamente correlato all’onnipotenza, come rilevano molti autori, trascini il soggetto in territori ambigui dell’Io dove è seriamente danneggiato il senso di realtà.
Corsa conclude con un interrogativo: in un contesto sociale pervaso da molteplici situazioni di disperazione e da acuti conflitti che insidiano la convivenza civile e il sapere, qual’è la speranza che può accendere la psicoanalisi odierna?”. Corsa non ha e non dà risposte, ma si chiede, parafrasando Nietzsche (aforisma 125,1882), come mai l’analista che si interroga sull’enigma universale della dimensione trascendente dell’esistenza umana, diventi talora “un viandante da deridere”.
L’intervento di Cesare Secchi, del Centro Psicoanalitico di Bologna, è centrato sull’ accenno a toccanti casi clinici in cui si manifesta il cosiddetto “timore reverenziale” descritto come un aspetto fenomenologico che si riferisce allo stato d’animo provato di fronte alla distesa immensa del mare di superficie e all’abisso del mare profondo, metafore del sentimento di infinito, colto però in un suo aspetto particolare: il soggetto nel contemplare l’infinitamente grande, la distesa delle acque, come pure il cielo stellato, percepisce, per contrasto, la propria piccolezza e insignificanza, la propria fragilità. Analogamente Bion descrive questo stato d’animo quando parla della propria fascinazione, provata durante l’infanzia, verso il buio della giungla indiana. Questa esperienza gli permetterà, in seguito da adulto, di descrivere sia la “O” che quelle condizioni mentali primitive lontane dalla logica e all’unisono con aspetti ‘altri’, e ‘oltre’, dell’essere umano. Si tratta di quelli stati mentali di stupita meraviglia, carica di aspetti estetici e misteriosi, densi di angoscia e paura, stati in cui non c’è solo commozione o piacere, ma anche un essere sgomenti e spaventati. Stati in cui il soggetto sembra chiedersi: “ma cosa mi è capitato?”, mentre vive un senso di perdita, di separazione e il vissuto di un Io troppo riempito dall’esperienza percettiva che egli cerca di integrare dentro di sé, senza riuscirci. In definitiva vengono evocati sentimenti di ammirazione e soggezione davanti a qualcosa di solenne, un immensamente grande che, invece di essere legato ad una sensazione di fusionalità, come accade per il Sentimento Oceanico così come viene solitamente inteso, sottolinea piuttosto la differenza e quindi la separatezza: una scoperta da parte del bambino della irraggiungibile alterità del genitore (Andresen,1999,517). Il timore reverenziale sarebbe dunque, al fondo, un’esperienza di verità, verità della piccolezza e della fragilità dell’essere umano.
A seguito di questi due interventi e dei commenti di Boccanegra si apre una lunga, variegata e profonda discussione con molteplici contributi. Essi verranno riportati in dettaglio, insieme a quelli della mattina, negli Atti che saranno quanto prima disponibili.
Trieste-Padova, 27 ottobre 2017
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Recensione
Hulin, Michel, La mistica selvaggia. Agli antipodi della coscienza
Milano, IPOC, 2012, pp. 246, euro 20, ISBN 9788896732748.
di Marco Cirillo (16/10/2012)*
La mistica è un fenomeno sostanzialmente unitario, “non esiste da un lato una piccola mistica, marginale, incompleta, nebulosa, e persino degenerata o patologica, e dall’altro una Grande Mistica, l’unica autenticamente religiosa, la strada maestra che condurrebbe alla conoscenza di Dio” (p. 245). Questa è la tesi che sorregge il libro di Michel Hulin, che ha il merito di aiutare il lettore ad avvicinarsi a questa realtà posta “agli antipodi della coscienza” e a pensare le differenze religiose e ideologiche a riguardo come al prodotto di un’opera interpretativa secondaria, anche se inevitabile.
La comprensione dell’esperienza mistica, è stata a lungo impedita a causa di una “scissione delle ricerche in due filoni che, fondamentalmente, si ignorano e si disprezzano a vicenda” (p. 15): un approccio “dall’alto”, proprio degli storici delle religioni, dei filosofi e degli ecclesiastici, che porta avanti un’esplorazione dall’interno delle varie manifestazioni spirituali; un altro invece, “dall’esterno e dal basso”, considera e analizza le testimonianze dei o sui mistici secondo paradigmi estrinseci, in primis quello della patologia mentale.
Conseguenza di questa scissione è “il carattere rovinoso che ne consegue per l’intelligibilità stessa del fenomeno mistico” (p. 17) poiché in entrambi i casi l’esito è l’impossibilità di andare oltre il già noto, limitandosi a fornire prove e supporti alle proprie opinioni, metafisico-teologiche o positivistico-scientistiche che siano. E tuttavia si può trovare una “terza via”, magari più tortuosa ma che arriva al cuore del problema. Per questo “cercheremo di mostrare il valore proprio del fenomeno mistico, ovvero il suo potere di rivelazione, indissociabile da quell’elemento “patologico” che il riduzionismo invoca allo scopo di demistificarlo [...] Il che porta a osservare, d’altra parte, come determinate strutture dell’essere-al-mondo “normale”, “”sano di mente” o “non alterato”, contengano di fatto un significato negativo, e come la distruzione di queste strutture, attraverso la disorganizzazione mentale che annuncia l’estasi, riceve lo statuto di una “negazione della negazione”, riportando così alla luce una positività latente” (p. 23).
L’autore tratteggia, nel primo capitolo, una critica del riduzionismo freudiano, partendo dal carteggio (che copre l’intero arco degli anni Venti) tra il padre della psicanalisi e lo scrittore francese Romain Rolland, che aveva descritto il tema qui designato come “mistica selvaggia” nei termini di un “sentimento oceanico” o “sensazione oceanica”. L’espressione di Rolland viene criticata da Freud nelle prime pagine del Disagio della civiltà ma in maniera piuttosto ambigua, “come se Freud, pur proclamandosi estraneo all’Oceanico, si fosse tuttavia sentito intimamente toccato, forse minacciato, da tale tema, al punto di accendere una sorta di controfuoco con cui proteggere la propria costruzione teorica e le proprie scelte di vita” (p. 35). Questa minaccia con cui Freud è chiamato a confrontarsi, è rappresentata da quel particolare stato modificato di coscienza che è appunto l’esperienza mistica spontanea. Le testimonianze, pur riportando casi soggettivi, e diversificati, consentono tuttavia di individuare una forma ed un contenuto unico. La morfologia è quella di “una frattura, uno strappo nella trama ordinaria dei giorni e delle ore: accade qualcosa che non è stato ricercato, né previsto, e nemmeno presentito” (p. 50). Quanto all’oggetto, esso, nonostante “l’inadeguatezza congenita e definitiva del linguaggio umano rispetto ad un certo ordine di realtà [...] può essere associato alla parola Gioia” (p. 51).
L’analisi dell’estasi nella sua forma spontanea serve a Hulin per sostenere l’impossibilità di accettare la risposta freudiana alla domanda circa l’essenza della gioia mistica, la sua origine e la sua destinazione: “Freud è naturalmente portato a renderne conto in termini di sopravvivenza di elementi precedenti [...] I soggetti esposti all’esperienza mistica sarebbero dunque prima di tutto coloro che, in funzione delle circostanze particolari della loro storia individuale, avrebbero preservato nel proprio intimo alcune tracce di quel solipsismo originario della coscienza infantile” (p. 53-54).
Se il narcisismo viene posto come il senso originario dell’esistenza individuale, l’estasi non può che essere concepita, regressivamente, come un ritorno ad una “libido autoerotica” che riporta la totalità del reale al principio di piacere, secondo una concezione riduzionistica e meccanicistica del funzionamento della psiche.
La critica alla spiegazione psicologista della mistica conduce l’autore sulle tracce di un’ulteriore lettura naturalizzata del fenomeno, quella dell’indianista americano J. Moussaieff Masson, il quale offre una rilettura della teoria freudiana che, sebbene resti nel solco del riduzionismo, ha comunque il merito di superare Freud nel sottolineare tutte le ambiguità e le zone d’ombra di un fenomeno che non è possibile liquidare sbrigativamente come una sorta di déjà-vu patologico.
Il secondo capitolo è dedicato quindi all’approfondimento del fenomeno mistico e del suo contenuto di beatitudine, che deriva dall’abbandono delle dicotomie bello/brutto, nobile/vile, puro/impuro, importante/insignificante, cui il pensiero è costantemente legato. Servendosi del contributo delle neuroscienze, Hulin critica la pretesa opposizione tra le vie ascetiche che conducono all’estasi e quelle chimiche, ossia l’utilizzo di stupefacenti e allucinogeni: “le pratiche ascetiche, considerate in sé stesse, si presentano come tecniche psicofisiologiche fra le altre, manipolazioni dell’organismo con effetti in via di principio individuabili, se non misurabili. Da questo punto di vista non esistono fra le droghe e le altre tecniche differenze di natura, ma soltanto differenze per quanto riguarda le modalità d’azione” (p. 92).
Se le sostanze psichedeliche presentano un lato oscuro che consiste in una straordinaria crescita del grado di vulnerabilità del soggetto agli stimoli esterni, il lato “glorioso” di tale esperienza mostra quattro temi dominanti, vale a dire una condizione di serenità che oltrepassa le vicende dell’esistenza, la sensazione della fondamentale interconnessione esistente tra tutti i viventi, e della loro intrinseca bontà, la percezione di un ritorno ad uno stato primordiale, in un certo senso “di natura”, ed infine la considerazione del precedente stato di coscienza come condizione essenzialmente povera e deludente. A questo punto “risulta difficile sospingere l’esperienza della droga fuori dal campo della mistica, per lo meno nella sua versione selvaggia” (p. 116).
E tuttavia la stessa esperienza della droga conferma il suo lato oscuro già citato in precedenza, che Hulin accosta al ruolo di un attore, il quale pur potendo interpretare sulla scena il ruolo del santo, riuscendo addirittura ad incarnarne l’anima, una volta tornato nella vita reale deve tornare a fare i conti con la consapevolezza della propria esistenza banale: il balzo in avanti temporaneo che la droga consente di compiere a chi ne fa uso non consiste in un reale progresso della vita spirituale, piuttosto è un modo allucinato per intravedere ciò che, solo una costante pratica ascetica potrebbe portare a raggiungere in maniera libera e in un certo senso, meritata.
Se è dunque potere della droga ottenere il duplice effetto di generare esperienze mistiche e, al contempo, disturbi psichici, “la parentela fenomenologica fra questi due tipi di universo si manifesta in tutta la sua chiarezza” (p. 138). Hulin ci accompagna così lungo le pagine del libro di Pierre Janet De l’angoisse à l’extase: non esiste, è questa la tesi centrale del suo studio, una soluzione di continuità tra le manifestazioni mistiche tradizionalmente accettate ed i fenomeni considerati patologici, ma “la ripartizione dei devianti in psicopatici e mistici riflette prima di tutto l’accoglienza che la società riserva loro, a seconda che essa sia sensibile o meno al loro discorso, ne favorisca o intralci l’inclusione sociale” (p. 153).
La discussione sulla mistica selvaggia, a questo punto, rivela tutta la profondità della sua dimensione filosofica. “Mettere fra parentesi i codici teologici delle grandi religioni implica che il loro immenso valore sarà pienamente percepito solo dopo una preliminare deviazione. Questa deviazione rimanda a un’analisi fenomenologica che si sforzi di riafferrare allo stato nascente il senso vissuto, immanente, della gioia mistica, dunque innanzitutto della gioia tout court e, per il suo tramite, dell’esperienza affettiva in generale” (p. 162).
Prima di soffermarsi sulle considerazioni finali, Hulin passa in rassegna quindi due grandi temi della riflessione sull’uomo: l’affettività e la coscienza.
“La libido sciendi non è che una forma particolare, certamente privilegiata, della libido in generale, e la coscienza intellettuale, lungi dal poter ambire a una qualche autonomia di principio, poggia sulla coscienza affettiva come sua condizione di possibilità” (p. 165). La stessa dimensione della temporalità si costituisce a partire dalla dicotomia fondamentale piacevole/spiacevole funzionale all’autoconservazione; infatti è proprio in vista di un interesse, di un attenzione nei confronti di ciò che può risultare un vantaggio o un pericolo per l’esistenza, che gli oggetti dell’esperienza possono essere trattenuti nel ricordo o rappresentati in anticipo, che cioè l’uomo può guardare in avanti o indietro dispiegandosi così nel tempo. Al contrario, un individuo immaginato privo di ogni legame con la dimensione, affettiva e intellettuale al tempo stesso, del piacevole e dello spiacevole, non potrebbe essere considerato come situato ancora nel tempo. “Riassumendo, la proprietà di successione degli oggetti dell’esperienza non si presenta mai alla coscienza sotto forma di un semplice dato esterno che essa si limiterebbe a registrare. La proprietà di successione non è che la proiezione all’esterno di un’insoddisfazione essenziale che abita la coscienza” (p. 187).
La panoramica sulle dimensioni costitutive fondamentali dell’esser-ci umano, porta Hulin a concludere che: “la coscienza morale rimane necessariamente una coscienza incarnata e desiderante, incapace in quanto tale di trascendere l’orizzonte di esperienza definito dalle reazioni positive e negative dell’organismo nei confronti dell’ambiente” (p.194). Da ciò deriva come corollario il fatto che “gli oggetti dell’esperienza non possiedono in sé stessi nulla di attraente o ripulsivo, ma sono costituiti come tali dall’atteggiamento (di accoglienza o di rifiuto) della coscienza che giunge ad incontrarli” (p. 197), ed è su questa base che si innesta una visione essenzialmente pessimistica della condizione umana. Così come afferma la dottrina buddhista infatti “dukka non è tanto la sofferenza quanto l’alternanza di pene e gioie, la loro inestricabile mescolanza, il loro contrasto, il loro reciproco condizionamento” (p.204).
A conclusione del libro Hulin cerca di mettere in luce, attraverso il concetto di “ascesi”, la possibilità che l’uomo ha di superare tale dialettica. La mistica in generale, come fenomeno unitario, supera di gran lunga gli aspetti pscicopatologici cui è pur sempre legata come attesta l’esperienza. Ma essa supera altresì i diversi tipi rintracciabili in base alle spiegazioni e alle interpretazioni, pur necessarie ed inevitabili, che vengono date a posteriori ai singoli vissuti. “L’estasi resta uguale sotto tutti i cieli e in ogni tempo. Ma se mai si potesse incontrare un vissuto mistico allo stato puro, è vero che esso sparirebbe dal nostro campo di rappresentazione qualora lo lasciassimo sussistere, volatile com’è, vergine di interpretazione [...] Selvaggia può diventare allora, l’interpretazione del fenomeno mistico, non il fenomeno stesso” (p. 246).
Indice
Prefazione
Introduzione
1. I. L’oceano interiore
1. Freud, Romain Rolland e il sentimento oceanico
2. L’esperienza mistica spontanea
3. Una embriologia della psiche?
4. Estasi e meccanismi di difesa
1. II. Dall’estasi all’angoscia
1. L’esperienza mistica indotta
2. Paradisi e inferni artificiali
3. Estasi e psicopatologia
1. III. Affettività e assoluto
1. L’enigma dell’assoluto
2. Sentire e comprendere
3. Sofferenza e temporalità
4. Al di qua del bene e del male
5. Ascesi e vita mistica
1. IV. Conclusione
Il ’68 di Michel de Certeau
di Mario Porro (Doppiozero, 17 Maggio 2019)
“Lo scorso maggio, la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”, scrive Michel de Certeau nel vivo degli eventi del 1968. La liberazione della parola rappresenta la conquista che assume valore di fondamento, coincide con il “diritto di essere uomo e non più un cliente destinato al consumo o uno strumento utile all’organizzazione anonima della società”. Nelle assemblee studentesche il principio per cui “Qui tutti hanno il diritto di parlare” è riconosciuto soltanto a chi parla a nome proprio, mentre viene rifiutato a chi si fa portavoce di un gruppo o si identifica con una funzione. De Certeau, nato nel 1925 ed entrato nel ’50 nella Compagnia di Gesù, pur avendo scelto di non avere figli - sarà per scelta anche maestro senza discepoli -, appartiene alla generazione dei padri, quella che ha vissuto nell’adolescenza la vergogna della disfatta nel ’40 e il collaborazionismo. I giovani hanno buoni motivi per aderire allo slogan “ribellarsi è giusto”, per rifiutare le ipocrisie celate dietro la maschera dell’amor di patria; nella “presa della parola” si esprime anche la rivolta contro i silenzi di Stato sulle torture in Algeria e le miserie della grandeur colonizzatrice.
“Tutto ciò che non parlava si è messo a parlare e, attraverso le barricate, i fumi, una grande festa si è dispiegata dentro Parigi”, scriveva Edgar Morin, un altro partecipe osservatore delle rivolte giovanili. Al di sotto della dimensione politica del maggio, egli scorgeva l’emergere di aspirazioni antropologiche profonde, del bisogno rimosso e represso di un’altra vita: nella prima settimana di maggio tutti si parlano per strada, si svuotano gli studi di medici e psicologi, le malattie psicosomatiche sembrano scomparse. Il carattere antico e nuovo del maggio ’68 “trova la sua radice nella rivolta arcaica - cioè primordiale fondamentale - che apre una breccia profonda nella diga che reprime e smorza le energie umane per trasformarle in lavoro e obbedienza” (La breccia, Raffaello Cortina, 2018). La “comune giovanile” rappresenta un’esplosione di fraternità comunicativa, è un modo per porre fine alla desolazione, al senso di abbandono all’interno di una società atomizzata. Una creatività selvaggia si esprime nella sfilata euforica per le vie di Parigi, scandita dal gioco-guerriglia sulle barricate, si traduce in musica e canti, in seminari autogestiti, in momenti di ricerca e dialogo. Mai si è ascoltato tanto, mai si è parlato tanto: “Non ho niente da dire, ma lo voglio dire”, recita una scritta murale. Stagione breve, presto si annunciano segnali di degenerazione: il terrorismo intellettuale dei cultori dell’ortodossia sbraita vecchie parole d’ordine, termini idolatrici della vulgata marxista diventano dogmi intimidatori.
Le analisi di De Certeau della rivolta studentesca, composte fra il maggio e il settembre, appaiono su Études, la rivista dei Gesuiti, e su Esprit, legata alla cultura cattolica più innovativa; saranno poi raccolte in La presa della parola nell’ottobre ’68 e ripubblicate, insieme a scritti successivi, nel ’94 da Luce Giard, collaboratrice di de Certeau e responsabile dell’edizione critica delle sue opere (la traduzione italiana risale al 2007, Meltemi).
Dal 1969 l’attività del Gesuita esce dall’ambito delle ricerche di storia erudita, la sua lucida apertura verso il Maggio ne fa una presenza costante nei dibattiti con gli intellettuali della sinistra, ma gli costa irriducibili contrasti nella gerarchia cattolica. Nell’inquietudine di una generazione che rimetteva in discussione i lasciti dei padri, inclusa l’eredità cristiana, nelle richieste impazienti, confuse ma legittime, di giovani insoddisfatti di ridursi a funzionari del “sistema”, De Certeau aveva scorto i segni di una “rottura instauratrice” (come era stata quella del Vaticano II), lo schiudersi di un’avventura che spargeva semi di rinnovamento umano e spirituale.
Appartiene alla formazione del gesuita De Certeau, e non solo al clima culturale dell’epoca dominato dalla semiotica e segnato dalla svolta linguistica del pensiero novecentesco, l’attenzione preminente alla “parola”. Degli Esercizi di sant’Ignazio di Loyola, Roland Barthes diceva che il loro oggetto era “l’invenzione di una lingua”, la ricerca di contenuti e modi con cui parlare a Dio, affinando la preghiera con le armi della retorica. De Certeau aveva esordito con ricerche erudite sui primi secoli della Compagnia di Gesù, a partire dalla pubblicazione documentata del Diario di Pierre Favre (1506-1546), membro della prima cerchia dei collaboratori di sant’Ignazio, e dell’opera dispersa del mistico Jean-Joseph Surin (1600-1665), l’esorcista che dalla vicenda delle possessioni di Loudun era uscito scivolando nella follia.
Nel ’68 De Certeau comincia il suo insegnamento all’università di Parigi VIII, passa poi a Parigi VII negli anni Settanta, all’Ecole des Hautes Études e in California. Studioso di storia, antropologia e psicoanalisi, attratto dalle novità dell’Occidente modernizzato come dalle lacerazioni contraddittorie dell’America latina, De Certeau si è trovato ad attraversare le discipline senza pretendere di legittimare il suo discorso con l’appartenenza a un’istituzione. “Sono soltanto un viaggiatore”, ha scritto di sé: aver viaggiato fra letteratura mistica, studi storici e ricerche antropologiche lo ha reso modesto, gli ha insegnato che “in mezzo a tante voci, la mia poteva essere soltanto una fra le altre” nel tracciare gli itinerari dell’esperienza spirituale (Lo straniero o l’unione nella differenza, 1969, Vita e pensiero, 2010).
Fin dall’apertura di Fabula mistica (1982, tradotto nel 1987 dal Mulino, che ha edito il secondo volume nel 2016), De Certeau non rivendica il prestigio di un discorso accreditato in quanto membro di un cenacolo mistico, “autorizzato a parlare perché ritenuto a conoscenza della sua essenza”: “ritenuto a conoscenza”, formula che rimanda alla posizione dell’analista, “soggetto presunto sapere”, secondo la lezione di Lacan.
L’intento di De Certeau è porsi all’ascolto di quella musica di parole che, all’alba della modernità, ha dato voce al dolore dell’assenza dell’Unico, nel momento in cui si avverte che l’Altro con cui si insegue l’unione esistenziale è proprio colui che continua a mancare. A muovere il desiderio del mistico è un oggetto perduto per sempre, che non rientra più nel dicibile; da Meister Eckart a Teresa d’Avila, da Giovanni della Croce a Surin, per cercare un varco verso l’inaccessibile si forzano i limiti del linguaggio, si percorre lo spettro delle metafore, fino a toccare il silenzio. La scena religiosa si è intanto trasformata in scena erotica: il Verbo parla sempre di meno, si limita a lasciare tracce di impervia lettura su un corpo inciso dai dolori amorosi. Ma quel corpo scritto si fa scena muta di un paese perduto, e il mistico è costretto ad essere sempre in viaggio, a spingersi sempre più lontano, coltivando l’ebbrezza di ciò che non possiede. Alla metà del Seicento, Angelo Silesio ha ormai la sola consolazione di strofe musicali che ripetono una speranza mentre cullano un lutto.
Se la mistica è “una maniera di parlare”, la parola dal XVI secolo, rileva De Certeau, diviene Fabula, a indicare nel medesimo tempo l’oralità e la finzione: il termine si riferisce ai racconti che hanno il compito di simboleggiare, ma per l’Illuminismo, se la fabula parla (fari), non sa però quel che dice, maschera il senso che custodisce e il sapere di quanto dice a sua insaputa dobbiamo attenderlo dall’interprete. Raccogliendo la sfida della parola, i mistici si fanno solidali con le lingue che ancora parlano - il bambino, la donna, il folle -, ma ormai il luogo del loro dire è quello dell’inautentico. “Non sono colui che parla in me”, “sono parlato da un altro”, dice il mistico, in forma simmetrica a quanto accade alle suore di Loudun, nelle quali è un altro a parlare in loro.
Nelle fonti su cui De Certeau sviluppa l’indagine sulle Possedute di Loudun (1970, Clueb, 2012), la parola dell’indemoniata è doppiamente perduta: in lei è il diavolo a parlare e quel che dice viene “riformato” dai pareri dei teologi, dai consulti dei medici, dalle sentenze dei giudici. L’esorcista chiede “chi è là?” e risponde con i nomi propri dei demoni che hanno preso possesso dei diversi organi; il medico chiede “che cos’è?” e risponde con i nomi propri di una malattia (ipocondria, malinconia, isteria). Dalla confessione della posseduta, l’esorcista chiede una conferma alla verità che agisce in lei a sua insaputa, come poi lo psichiatra chiederà al malato di riconoscere la verità di quanto ha rilevato in lui. “La voce della posseduta incosciente e il corpo della malata muta sono là unicamente per dare un consenso al sapere che è il solo a parlare”.
L’esperienza dei mistici, enunciare il desiderio di un Altro che resta nascosto e tace e quindi elaborare la narrazione di una perdita, si rinnova nell’operazione storica: la sparizione di ciò di cui lo storico parla è la condizione di possibilità del suo discorso, spiega De Certeau in La scrittura della storia (1975, Jaca Book, 2006). L’altro è l’assente a cui il discorso storico conferisce visibilità, il revenant di cui la scrittura celebra il lutto. Certo, grazie alla storia le ombre tornano meno tristi alle tombe in cui il discorso le ha deposte, i morti che incombono sul presente sono placati dall’offerta di sepolcri scritturali. Ma comprendere l’Altro rischia di nascondere, con il senso che gli viene attribuito, l’alterità dell’estraneo; la scrittura della storia fa parlare il corpo che tace, ma questo presuppone uno scarto fra l’opacità silenziosa della realtà e il luogo da cui si produce il discorso che mira ad appropriarsi dell’altro nel nome del quale parla.
Anche la riflessione sui “selvaggi” si regge sulla spaziatura tra quanto dice il sapere e il corpo muto che ignora quel che dice. La scena inaugurale della colonizzazione vede il conquistatore portare con sé le armi europee del senso, con le quali scrive sul corpo dell’Altro, del continente ancora indifferenziato, le tracce della propria storia. La scrittura conquistatrice usa il Nuovo Mondo come una pagina bianca sulla quale comporre l’espansione del proprio potere (La scrittura dell’Altro, Cortina, 2004). Ogni impresa scientifica si traduce così in produzione di discorsi autonomi che, al pari dell’ordine del discorso di Foucault, trasformano i corpi dell’indagine. Nel XVI secolo l’organizzazione etnografica della scrittura si rapporta all’oralità selvaggia, nel XVII e XVIII si trasformano le scritture cristiane, sul finire del Settecento si avvia la lotta di una razionalità scritturale illuminata contro le fluttuazioni idiomatiche delle oralità dialettali, come De Certeau mostra in Une Politique de la Langue: La Révolution Française et les Patois del ’75 (in collaborazione con Dominique Julia e Jacques Revel).
La cultura occidentale instaura la propria intelligibilità modificando ciò di cui fa il suo altro, passato, selvaggio, folle, popolo, infanzia, ecc. Le discipline che ne scrivono, le scienze che diciamo umane, sviluppano un saper-dire su ciò che l’altro tace. Anche Freud ha fondato un sapere con cui si è istituita una nuova forma di alterità assente, l’inconscio: anche se parla (ça parle), possiamo costruirne solo la narrazione che ne mette in scena gli effetti. È possibile dar voce all’altro senza compiere la violenza di ridurlo alla grana della propria voce, senza separare il sapere-potere che tiene il discorso e il corpo muto che lo sostiene? Si tratta per De Certeau di costruire una eterologia che non sia annullamento dell’Altro, di creare un pensiero dell’alterità in grado di essere rispettoso e ospitale nei confronti di ciò che fa segno verso l’indicibilità del desiderio. È il nodo con cui deve confrontarsi anche la cristianità che vive ormai l’esperienza di vedersi ridotta ad essere solo “il linguaggio particolare di una verità” un tempo universale.
Al cuore della riflessione condotta in Lo straniero sta la scoperta compiuta dal missionario: fuggite le città cristiane dove la fede si regge sulla comodità delle tradizioni, partito per la terra straniera, egli lascia tutto per annunciare la Parola di Dio a coloro che la ignorano, viaggia nelle culture dove Dio parla una lingua non ancora decodificata. Ma è dagli stranieri che il missionario impara chi è e da dove viene, è la voce degli altri che gli spiega interiormente alcune delle parole sacre che ripeteva senza comprenderne il significato. “Fiori chiusi, da tempo presenti nel suo giardino cristiano, certe espressioni del Vangelo - quelle che dicono la fecondità della vita divina o la misteriosa connivenza dell’Altissimo con i poveri - si schiudono nel mattino di una fraternità nuova e gli mostrano un segreto che finora non aveva percepito. E mentre viene accolto dai suoi fratelli, nello stesso tempo viene introdotto nella sua ‘anima’, cioè nel paese del suo Dio”. Partito per far conoscere la sua verità, il missionario scopre infine, non solo la verità degli altri, ma che sono questi ultimi a rendergli comprensibile la verità della parola che lo aveva indotto a partire.
È nella mistica che trovano il loro “correlativo storico” i progetti che, sul finire degli anni Sessanta, mirano a “dar parola” al rimosso, all’alienato e al represso, alla part maudite della storia. Nei giorni gioiosi e violenti del Maggio, ridotti al silenzio i discorsi a verità garantita, i giovani abbandonano la corazza metallica dell’automobile e la fascinazione solitaria della Tv. Scrive De Certeau: “Voci mai sentite ci hanno trasformato - originate in un luogo ignoto, riempiono improvvisamente le strade e le fabbriche, circolano tra noi, diventano nostre senza essere più il rumore soffocato delle nostre solitudini. Perlomeno, avevamo questa sensazione. Quanto si è prodotto di inaudito è questo: ci siamo messi a parlare. Sembrava fosse la prima volta. Da ogni dove uscivano tesori, addormentati o silenziosi, di esperienze mai nominate”. Certo, la presa della parola si è espressa quasi solo in forma di protesta, come rifiuto delle istituzioni e delle autorità, ma è dalla scelta di parlare che si traggono le implicazioni conseguenti: “l’esperienza diretta della democrazia, la continuità della contestazione, la necessità di un pensiero critico, la legittimità di una partecipazione creatrice e responsabile di tutti, la rivendicazione dell’autonomia e dell’autogestione, e anche la festa della libertà - potere dell’immaginazione e festività poetica ...”.
Sembrava trovare conferma quel che il Marcuse di Eros e civiltà aveva annunciato nel ’55: l’avvento della civiltà del gioco e dell’Eros, il tempo di Orfeo e Narciso, dietro i quali aleggia l’ombra di Dioniso, poneva fine alla civiltà prometeica della prestazione, alla logica del profitto e del consumo. “La poesia d’ora in avanti è nella strada”, recitava una scritta sui muri nel maggio, ed un volantino alla Sorbona aggiungeva “Il poeta ha schiodato la parola”. De Certeau si dice testimone per avervi partecipato del fatto che la folla stessa è diventata poetica. “Finalmente ci si è messi a discutere di cose essenziali, della società, della felicità, del sapere, dell’arte, della politica”. Un chiacchiericcio permanente contagiava tutti i luoghi, “immensa terapia nutrita da ciò che liberava”; varcata la barriera degli specialismi gli spettatori si trasformavano in attori, l’apprendimento di “conoscenze” apriva discussioni appassionate riguardanti direttamente l’esistenza. Lo storico può interpretare il ’68 richiamandosi alle leggende delle rivoluzioni, alle barricate del 1848, all’esperienza dei soviet o all’utopia fourierista, ma agli occhi di De Certeau l’effettiva novità concerne “la relazione pedagogica” in senso lato; non solo quella scolastica, ma ogni situazione in cui la relazione con altri (allievi, dipendenti, governati, ecc.) si effettui nel campo di un linguaggio comune, ma in cui il senso è attribuito da chi si trova in posizione di forza. Non era tanto la concezione della cultura a cambiare, quanto l’esperienza che se ne aveva. “Il luogo del sapere passava nelle mani dei suoi ‘oggetti’; una coniugazione sacra scavalcava l’incomunicabilità tra universitari e lavoratori; il ‘blasfemo’ desacralizzava un certo patriottismo; il teatro (ogni società lo è in qualche modo) trasformava gli spettatori in attori e lo spettacolo in creazione collettiva”. Si trattò per De Certeau di una rivoluzione simbolica, che si traduceva nel prendere il sapere a rovescio, come attesta quanto accaduto nelle “scienze umane”, luogo originario della contestazione: un sapere che organizzava delle relazioni al servizio di una società del consumo si è visto “ripreso” secondo modalità differenti, “occupato” da coloro che volevano esprimersi per conto proprio.
De Certeau, insieme ad altri due Gesuiti, vincendo il discredito del mondo cattolico verso la psicanalisi, fece parte della Società Freudiana dalla fondazione alla chiusura (1964-1980). Quando utilizza il termine “simbolico” ha ben presente la tripartizione di Lacan, non accosta dunque il ’68 al registro dell’immaginario, come suggeriva lo slogan di matrice surrealista “l’immaginazione al potere”, neppure al registro del reale, come voleva l’empirismo radicale di Deleuze. Ma l’accesso al simbolico impone un prezzo, la storia non obbedisce alla parola che le lancia una sfida; l’etica del soggetto parlante non ignora la formula lacaniana “Ti chiedo di rifiutare ciò che ti offro perché non si tratta di questo”, ricorda De Certeau nel saggio composto nel 1981 in occasione della morte del fondatore della Società Freudiana (Lacan: un’etica della parola, in Storia e psicanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, 2006).
Per la richiesta travolgente di totale autenticità, di verità irriducibile alle norme e alle gerarchie sociali, indifferente persino alla sua concreta attuabilità politica, si è ricordata l’esigenza che trova espressione nella parrhesia, quella franchezza, quella corrispondenza fra dire e vivere, di cui Michel Foucault nel 1983 avrebbe rintracciato le premesse nel comportamento dei cinici greci (Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, 2005). Ma il dovere della verità significa per De Certeau anche riconoscere il potere che sorregge la parola ed è questa la lezione di Lacan: l’esercizio psicoanalitico si fonda su un duplice inganno, l’analista è ritenuto conoscere dai pazienti e questi chiedono quel che non desiderano sapere, cioè il segreto del loro male, auspicando piuttosto di trovare un orecchio che ascolti i loro sintomi.
La verità a cui Lacan mira, sulla scia dello sconfinamento freudiano verso la narrazione, è quella della pratica letteraria, perché è la letteratura a esplorare il territorio entro il quale si svolge il viaggio umano, cioè il regno dell’inganno. L’analista deve accettare la finzione di rappresentare quel che non sa; il principio che fonda la sua parola è il ritrarsi, una retorica della sottrazione, una presa di distanza dal discorso stesso con cui i suoi discepoli credono di tenerlo.
L’etica della parola equivale a riconoscere che non si dà autorità che garantisca la realtà del discorso, che l’oggetto a cui si volge il desiderio non è mai “questo”. La parola deve dar vita ad un corpo, il verbo deve farsi carne, cioè tradursi in un’istituzione, ma questa non mantiene mai la parola. La contestazione non poteva che essere tradita, non poteva trovare espressione nelle istituzioni, sia pur riformate; ma era questo il rischio che andava necessariamente corso per promuovere un altro modo di stare nel mondo.