"DI VELLO IN VELLO". COME VIRGILIO PORTA DANTE FUORI DALLA "CAVERNA" DI LUCIFERO: "Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;/ed el prese di tempo e loco poste,/e quando l’ali fuoro aperte assai,//appigliò sé a le vellute coste;/di vello in vello giù discese poscia/tra ’l folto pelo e le gelate croste" (Inf. XXXIV, 70-75).
INTRODUZIONE:
“MITIDEOLOGIA”: MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA ...*
SICCOME “La memoria è ospite del tempo. Viene ricevuta come lui crede e lo accoglie a modo suo” e RICHIAMA attenzione “ai corsi dell’Escorial in Spagna, dove assistemmo, con Giulia Sissa, a un incontro di Sumo!” (cfr. Paolo Fabbri, "Marcel Detienne: memorie felici e concetti indelebili", "Alfabeta-2", 31.03.2019), FORSE, è proprio l’occasione giusta per RICORDARE che “Fu una bella trovata quella di Marcel Detienne e Giulia Sissa di dedicare un libro (edito da Laterza, in Italia) alla «vita quotidiana degli dei greci». Agli dei greci può succedere infatti di ricevere una ferita se si immischiano troppo in una battaglia tra esseri umani. È il caso della divina Afrodite, madre ansiosa di Enea, la quale accorre a difenderlo dal brutale Diomede e da costui viene malmenata e ferita ai polsi, nel quinto libro dell’Iliade. Per non parlare delle risse, passioni, sofferenze, stanchezze di cui questi dei sono partecipi, pur immortali” (cfr. Luciano Canfora, “Quegli dei troppo umani che non avevano la verità. La collera di Posidone, le vendette di Zeus, l’ansia di Afrodite”, Corriere della Sera, 08.06.2009)! E VOLENDO, unitariamente, RILEGGERE qualche “vecchia” pagina di OVIDIO. La tela di Aracne apre il libro sesto delle “Metamorfosi”, la storia di Filomela lo chiude (...) Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare.
P. S. 1 - ALL’ESCORIAL - “UN INCONTRO DI SUMO!” - CON FILIPPO II, NEL 1584:
Il punto esclamativo, posto alla fine della frase del secondo capoverso della nota su “Marcel Detienne: memorie felici e concetti indelebili”, “Alfabeta-2”, 02.04.2019) di Paolo Fabbri dallo stesso Paolo Fabbri (“[...] fino ai corsi dell’Escorial in Spagna, dove assistemmo, con Giulia Sissa, a un incontro di Sumo!”), dice di una sorpresa, che sorprende - a sua volta!
La cosa sollecita non solo a “ricordare - come scrive Spagnoletti a proposito del suo “Filippo II” - che la prima globalizzazione fu quella operata da Filippo, che il nome delle Filippine e la diffusione della lingua castigliana (spagnola?) nell’America del centro-sud e, ormai, anche in parte dell’America settentrionale sono un suo lascito culturale dal quale nessun uomo avvertito può oggi prescindere [...] e che forgiò la storia di tanta parte del Vecchio e del Nuovo Mondo [...]” (op. cit., p. 14), ma anche e ancora a rimeditare il prezioso contributo di Arnaldo Momigliano sui limiti della storiografia europea, a partire da “L’errore dei Greci” (cfr. Id., “Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture”, Torino 1980, pp. 157-174).
P. S. 2 - "VERSAILLES è un ESCORIAL tradotto in francese” (Ernst R. Curtius, 1934).
Se è vero che “nella House Beautiful di «Letteratura europea» non c’è spazio - come ha scritto Corrado Bologna (Alias/il manifesto, 31.01.2016) - “per Kafka e per il suo Don Chisciotte migrante che viaggia lungo l’Europa fino a giungere a Milano. Commenta fulmineo lo spitzeriano Mancini: «Don Chisciotte milanese, come Stendhal»”, è altrettanto vero che “La Francia stessa è stata tributaria a Madrid della sua civiltà fino all’epoca di Luigi XIV, e Versailles è un Escorial tradotto in francese. Soltanto dopo la pace dei Pirenei nel 1659, la Francia comincia ad avere la supremazia in Europa, e da allora questa supremazia si afferma e si radica così potentemente con tutti i mezzi della politica e della cultura, che ancora oggi ha quasi cancellato la vecchia egemonia ispano-austriaca”(Ernst R. Curtius).
Abbiamo dimenticato troppo presto che l’ombra minacciosa del Sacro Romano Impero era giuridicamente ancora in piedi nell’Europa di Napoleone!
Non è male ricordare, come fa Spagnoletti nel suo “Filippo II”, “Al lungo regno di Filippo corrispose quello di tre imperatori: Ferdinando I (1556-1564), Massimiliano II (1564-1576) e Rodolfo II (1576-1612)” (op. cit., p. 190) e, al contempo, rimeditare su quanto scriveva Curtius nel 1934: “Se ancora oggi la scuola d’equitazione spagnola attira i visitatori alla Hofburg di Vienna, si tratta in fondo dell’ultimo, minimo residuo di quella comunione storica e culturale che univa nello stesso splendore imperiale Vienna e Madrid, senza passare per Parigi”!!! Forse, se si tiene a mente che di lì a poco sulla Tour Eiffel sventolerà la svastica (14 giugno 1940), ci si può rendere conto di quanto l’Europa è stata (e per molti versi è) ancora cieca e sorda all’altro dentro di se e all’altro fuori di sé, e quanto e come un sorprendente “punto esclamativo” possa essere decisivo per svegliarsi da un “sonno dogmatico” di lunga durata. O no?!
P.S. 3 - LA STATUA DELLA LIBERTÀ - CON LA SPADA SGUAINATA: “GUAI AI VINTI”!!! LA LEZIONE DI FRANZ KAFKA.
“Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “Statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia.”.
P. S. 4 - EUROPA, STRASBURGO 1770: CON “MARIA ANTONIETTA” IN VIAGGIO PER VERSAILLES.
Nel 1770 a Strasburgo, nei pressi del confine del Sacro Romano Impero con la Francia, Goethe “guarda un arazzo che narra le storie di Giasone, di Medea e di Creusa”, preparato “per le feste in onore dell’arrivo della sposa” di Luigi XVI di Borbone, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena che si stava trasferendo a Versailles, e così commenta: «dunque un esempio del più infelice matrimonio»!
Goethe mostra di avere una conoscenza superficiale della leggenda di Giasone, e della sua nave Argo, e del come e del perché sia arrivata proprio lì, sulle sponde del Reno, in quell’ambiente e per quella occasione, e, colpito, ne resta segnato per moltissimi anni: “era «estremamente» indignato dalla scelta e glien’è restato - commenta Curtius - il ricordo se dopo quarant’anni lo ritiene ancora degno di esser raccontato (Dichtung und Warheit, II, 9)”.
Nel 1950, Ernst R. Curtius, che ha già pubblicato nel 1947 “Letteratura europea e Medio Evo latino”, in un saggio intitolato “La nave degli argonauti” (cfr. Id.,“Letteratura della letteratura”, Saggi critici a cura di Lea Ritter Santini, Bologna 1984, pp. 301-325), quasi a conclusione, dopo aver ricordato che per Dante “il viaggio di Giasone è la più stupefacente impresa di tutti i tempi” e premesso che “il pensiero storico di Dante ha bisogno di prospettive millenarie - come quello di Goethe,” così prosegue e commenta: “A guardarlo oggi, Goethe si avvicina sempre più a Dante, e non solo nel tempo. Come Dante, anche egli rappresentò ancora una volta il Thesaurus della tradizione europea. Anche in lui troviamo il mito degli Argonauti”.
Curtius cosa sta cercando di dire - e di fare con le parole, con queste parole? Cambiata di segno, la sua affermazione appare essere una forma di sollecitazione subliminale volta ad avvicinare sempre più Goethe a Dante, sino a portarci a pensare: «dunque un esempio del più felice “matrimonio”»! Ma qualcosa resiste, sia nella memoria di Goethe sia di Curtius e fa emergere un non-detto del messaggio. Un’ipotesi: forse, e per caso, sono le stesse parole “sussurrate” al cuore e alla mente di Maria Antonietta dalla madre, l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, al momento del suo trasferimento a Parigi: «Rimanete una buona tedesca!», «Rimanete un buon tedesco!»?!
Incredibilmente Curtius - pur sapendo che “Giasone, nel XVIII canto dell’Inferno, compare fra i seduttori e Virgilio glielo presenta con ammirazione”, che “la nobile e bella figura giovanile di Giasone era già piaciuta ad Ovidio” e, ancora, che “Dante va oltre” lo stesso Ovidio e gli attribuisce “i tratti dell’eroe ideale” riservati “ai suoi prediletti” - fa sua la maschera di Goethe (“Der Brautigam” è il titolo di una sua poesia del 1829), divenuto egli stesso un Argonauta (“Linceo è l’Antifaust, Linceo è Goethe, l’argonauta trasformato”) e, nel tentativo di avvicinarsi “sempre più a Dante”, ricorda più il Thesaurus (il “Tresor” e il “Tesoretto”) della tradizione di Brunetto Latini, che quello della “Divina Commedia”, della nuova Argo, la nave del viaggio terrestre e celeste di Dante - più il Vitello (“T-aurus”) d’oro della tradizione egiziana, che il Vello d’oro dell’Ariete di Giasone e del Vello d’oro dell’Agnello di Dante. Che cagliostrosità!
Dopo i “venticinque secoli a la ‘mpresa” di Giasone (Dante, Par., XXXIII, 95), Curtius - ipnotizzato dalla magia di Goethe, che “scherzando” si autodefiniva “un Argonauta”, prende la sua maschera tratta fuori “dall’esatta descrizione storica dei mitologi”, e fa suo “il suo testamento. In ogni età c‘è una Argo, come aveva predetto Virgilio: «Ci saranno ancora un altro Tifi e un’altra Argo a trasportare eroi eletti»”.
Ma per quale destinazione?! Ancora e sempre per Versailles?!
Non è meglio uscire dal “letargo”, svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e uscire “a rivedere le stelle”?!
P. S. - 5 L’EUROPA, DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA.
A commento dei “tratti dell’eroe ideale”, attribuiti da Dante a Giasone, in nota, Curtius così scrive: “Una anticipazione del romanticismo burgundo che circonda Giasone. Filippo il Buono di Borgogna sposò nel 1430 Isabella del Portogallo. In questa occasione - o forse quale omaggio alla popolazione di allora, stupenda nel navigare - fondò l’ordine del Toson d’Oro. I suoi protettori erano Giasone e Gedeone. Anche nella loro storia un vello miracoloso aveva avuto la sua parte (Libro dei Giudici, VI, 36-40). Un auto sacramentale di Calderón si intitola La Piel de Gedeon (1650), stampato nella edizione di Pando y Mier (1717), vol. III; in tedesco in F. Lorinser: Calderóns geistliche Festpiele, vol IX. Sul romanticismo di Giasone: v. Georges Doutrepont, La Littérature Française à la Cour des Ducs de Bourgogne, 1909, pp. 147-176” (cfr. Ernst R. Curtius, Letteratura della letteratura..., op. cit., pp. 317-318).
Benché nella “Letteratura europea” (1947) abbia citato il lavoro dello storico olandese Johan Huizinga (morto nel 1945), in particolare l’opera “L’autunno del Medio Evo” (del 1919), una straordinaria lettura del “secolo della Borgogna”, ove si racconta diffusamente di “ordini e voti cavallereschi”, della nascita dell’ordine del Toson d’oro, ecc - ora, qui, nel saggio “La nave degli Argonauti” (1950), Curtius non ne fa alcun cenno; e, addirittura, delle opere di Calderón cita solo “La Piel de Gedeon” (ma non “El divino Jasón”, “El divino Orfeo”, “El Laberinto del Mundo”, ecc.)!
Cosa è successo?! La “maschera” di Goethe, forse, gli ha giocato un brutto scherzo e lo ha costretto a rimettersi nei panni di Faust? Incredibilmente, già in “Letteratura europea e Medio Evo Latino”, dato per valido il calcolo dei “venticinque secoli” di Dante dall’impresa di Giasone (Par., XXXIII, 95), tre anni prima (1947), egli aveva già scritto: “La letteratura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura europea, comprende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe)”(p. 20).
Che dire? Davvero “Goethe si avvicina sempre più a Dante”?! Boh?! Bah!
P. S. - 6 CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!
Nel 1929, in un breve saggio dedicato a "Hugo Hofmannsthal. In memoriam" (op. cit., pp. 165-176), Curtius scrive: "La regalità era la figurazione più interiore nel rapporto tra Hofmannsthal e il mondo. La funzione di poeta non era per lui che una delle forme in cui essa si manifestava [...] tutte le opere di Hofmannsthal tendono verso la forma ideale di un theatrum mundi, un poema cosmico allegorico-simbolico che eleva il caso dell’esistenza all’ordine delle grandi leggi, che nel temporale, fanno apparire l’eterno. L’allegoria non è qui indebolita ricchezza di vita e la maschera non è apparenza, al contrario, soltanto quando riusciamo a vedere la deformazione, la maschera della nostra esistenza, ne comprendiamo il senso e la verità più profonda".
E poco oltre, condividendo il programma e lo spirito della sua “rivoluzione conservatrice”, così prosegue : "La nostra poesia ha molto sentimento del mondo (Weltgefuhl), ma poco mondo: ha molte visioni del mondo (Weltanschauungen), ma mediocre ne è la sua conoscenza. In Goethe esisteva la possibilità di unire i due aspetti e ristabilire le giuste proporzioni. Ha dovuto condurre il suo Faust alla corte dell’imperatore: era anzi ancora legato all’impero e colorate feste d’incoronazione avevano illuminato la sua infanzia. Non ha sentito più battere il cuore dell’impero [...] L’orizzonte universale del vecchio impero asburgico era stato dato in eredità a Hofmannsthal. Vienna e Madrid non ne facevano meno parte [...]". E, così chiude: “Hofmannsthal ha raccolto nel suo tesoro reale, i beni più preziosi del linguaggio e dell’anima dei paesi latini: noi lo conserviamo come la sua eredità, come «munus Austriacum»”.
Nel 1932 fa il passo “decisivo”: pubblica “Deutscher Geist in Gefahr “ (“Lo spirito tedesco in pericolo”), un libro (una raccolta di articoli di quegli anni), e nella postfazione, confidando nella “metafisica dello spirito”, chiude con il richiamo al “Veni creator spiritus” - “l’inno del franco-renano Rabano Mauro” (“Mille anni più tardi un altro franco-renano, Goethe, ha tradotto questo “splendido canto religioso” e lo ha definito un “appello al genio”) - e con l’auspicio che “sotto questo segno la fede nella Germania e la fede nello spirito possono trovarsi legate e confermate” (cfr. Ernst R. Curtius, “Lo spirito tedesco in pericolo”, in Annamaria Bercini, “Il discorso politico culturale del «Deutscher Geist in Gefahr» di Ernst Robert Curtius”, Bologna 2015)
Le illusioni di Curtius di diventare una guida spirituale della “rivoluzione conservatrice” sono infondate e vengono spazzate via in un baleno: “Il 24 marzo del 1933, subito dopo l’ascesa al Reichstag di Hitler, sul Beiblatt del «Völkischer Beobachter», il giornale ufficiale del partito nazista sin dal 1920, comparve un durissimo articolo di Hermann Sauter (che di lì a qualche anno diverrà direttore della Stadtbibliothek di Monaco), Deutscher Geist in Gefahr?, che era in effetti una stroncatura senza appello del libro di Curtius. L’assenso di Curtius alla missione tedesca è, come si può vedere, in realtà una negazione del nuovo, potente volere tedesco. Ma questo è il nostro credo: che il vero spirito tedesco otterrà nuovamente onore, e sarà capace di avere valenza mondiale, quando sarà ripulito dal peso accumulato nella cosiddetta libertà spirituale del decennio passato. Sauter concludeva con quello che appare un vero avvertimento da mafioso. Curtius può avere ancora un ruolo importante nella nuova Germania, ma a patto di non tentare più di fare il Kulturpolitiker, perché non capisce nulla dei fondamenti autentici - cioè biologici - della cultura tedesca.” (cfr. Carlo Donà, “Lo spirito tedesco e la crisi della mezza età: «Deutscher Geist in Gefahr» (1932)” ).
Dopo la catastrofe della Germania del “Terzo Reich”, Curtius ancora non capisce: continua il suo “sogno” calderonico e la “vacanza” nel suo “illuminato” (contro e) pre-illuministico “stato di minorità” (I. Kant, 1784). E nel 1947, come se niente fosse successo, alla fine del primo capitolo di “Letteratura europea Medio Evo latino”, intitolato “Letteratura europea”, con un “occhiolino” a Benedetto Croce (e alla memoria di Hegel), riprende il lavoro per il “nuovo ordine culturale”, già proposto nel “Deutscher Geist in Gefahr” del 1932, e ricomincia: “Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe. Ciò che questi rappresenta per la Germania lo ha riassunto Hofmannsthal [...] La letteratura del secolo XIX e dell’inizio del XX non è stata ancora scandagliata, in essa non è stato ancora distinto ciò che è vivo e ciò che è morto. Ciò potrà dare materia per molte dissertazioni, la parola decisiva sarà però pronunciata non dalla storia della letteratura, ma dalla critica letteraria. Per questo compito noi, in Germania, abbiamo Friedrich Schlegel - e seguaci” (op. cit., p. 24)!
Purtroppo, per Curtius, che è vissuto e cresciuto all’interno di coordinate storico-culturali da Sacro Impero (romano, spagnolo, e germanico), e nelle cui orecchie risuona ancora l’ordine dato a Maria Antonietta dalla Madre-Imperatrice (“Rimanete un buon tedesco!”), “la vita è sogno” e non c’e alcuna possibilità di riconsiderare critica-mente né il lavoro di Ernst H. Kantorowicz (anch’egli vicino al “cerchio” di Stefan George) sulla figura dell’Imperatore Federico II (1927/1931), né tantomeno “l’autunno del Medio Evo”, il “declino del simbolismo” e la lezione su Dante di Johan Huizinga ("L’autunno del Medio Evo" [1919, 1921, 1928]): “[...] per indicare il rapporto fra l’autorità spirituale e quella temporale il Medioevo si serviva costantemente di due similitudini simboliche [...] La forza del simbolo è tale da intralciare l’indagine sullo sviluppo storico dei due poteri. Dante, avendo riconosciuto la necessità e il valore decisivo di tale indagine, si vede costretto, nel suo Monarchia, a spezzare prima la forza del simbolo, contestando la sua applicabilità, ed aprendosi così la strada alla ricerca storica".
La totale incomprensione del “relazionismo” proposto da Karl Mannheim in “Ideologia e Utopia” (1929), esaminato e rigettato nel capitolo quarto dello “Spirito tedesco in pericolo”, impedisce a Curtius di aprire gli occhi su stesso e sul mondo, di uscire dal relativismo-assolutismo dogmatico in cui naviga, e di smetterla di sognare il “sogno dei visionari” (sul tema, mi sia lecito, cfr.: “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi”).
“Sogno o son desto?”: a che gioco si continua a giocare? Non è meglio cambiare gioco!? Per l’Europa - e per l’intero Pianeta? Boh? e bah!?
ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO. Se Curtius avesse seguito il filo (etico e metodologico) rintracciato nell’analisi dell’opera di Marcel Proust (il "relazionismo", poi, proposto da Mannheim in "Ideologia e utopia" ) e, al contempo, esplorato di più e meglio i "topoi" della «retorica antica» (R. Barthes), forse, avrebbe condiviso con Marcel Detienne "la divertita scoperta che nella Grecia della geometria e della logica, le dicerie avevano una loro dea, «Femé»" (Paolo Fabbri), sarebbe stato molto più critico nei riguardi della "Fama" di Goethe, più attento nei confronti del lavoro di Karl Mannheim e del vincitore del "Premio Goethe" dell’anno 1930 (Sigmund Freud) e meno fiducioso in una prospettiva di "individuazione" (Carl G. Jung) ancora segnata dalla figura di Edipo.
SU COME E QUANTO CURTIUS avesse ragione, però, è da dire che Harold Bloom lo ha ben chiarito nel capitolo dedicato al «Faust: seconda parte di Goethe: il poema controcanonico» nel suo "Canone occidentale", richiamando "[...] la straordinaria fantasticheria su Elena, meravigliosa quanto oltraggiosa trasposizione della Germania in Grecia":
"Con la solita audacia, Goethe - così prosegue Bloom - parodizza Omero e le tragedie ateniesi per offrirci uno dei più singolari poemi mai scritti: la resurrezione di Elena di Troia, la sua unione con Faust, la nascita e morte del loro figlio Euforione, e il ritorno di Elena tra le ombre. Al pari della notte di Valpurga classica, e al pari dei cori celestiali che concludono la «Seconda parte», la Elena che Goethe ci offre è un poema controcanonico, una impensabile revisione di Omero, Eschilo ed Euripide, come se la Notte di Valpurga classica rivoltasse come un guanto le origini della mitologia greca, e i cori conclusivi parodiano il Paradiso di Dante con una verve sottilmente crudele".
CURTIUS - scrive Bloom - "aveva ragione: Goethe ha messo fine a un aspetto della tradizione. [...] è davvero l’ultimo grande scrittore dell’età inaugurata da Dante. Per scrivere un epos controcanonico o un dramma cosmologico come «Faust, Seconda parte», occorre un intimo rapporto con il Canone di cui nessun’altro, dopo Goethe, ha sofferto (o goduto). Ciò conferisce particolare pregnanza al decesso di Faust, perché a morire è ben più che non il personaggio Faust" (cfr. H. Bloom, "Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età", Milano 1996, pp. 208-209).
Sul tema, infine (mi sia lecito), si cfr. -«L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”» di Enzo Paci (dal "Diario fenomenologico") , e le mie note sul suo dialogo "Nicodemo o della nascita".
P.S. 8 - L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della “Preistoria”?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
P.S. 9 - “DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE”: L’AUTOCTONIA, IL MITO DI EDIPO, E L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE-TERRA... *
A) MITIDEOLOGIA. Il cielo della preistoria (Marx) getta ancora le sue terribili ombre sul nostro presente! Cogliere le cose alla radice non è facile. A richiamare tutta l’attenzione sul lavoro di Marcel Detienne è bene ricordare quanto scrive Fabbri: “[...] È il concetto di Autoctonia, antica e moderna, che ha occupato gli ultimi anni dell’antropologo (Essere autoctoni. Come denazionalizzare le storie nazionali, Sansoni 2004). Un problema politico che Heidegger aveva evitato attribuendo a “polis” la falsa etimologia di “essere”. Per Detienne non c’era autoctonia in Atene e in Roma, e il concetto è l’esempio d’una “mitideologia” impiegata nella costruzione dei nazionalismi passati e, purtroppo, presenti e futuri (Paolo Fabbri, “Marcel Detienne: memorie felici e concetti indelebili”, Alfabeta-2, 31.03.2019).
B) LA STRUTTURA DEI MITI: L’AUTOCTONIA. Il problema era già stato posto con grande chiarezza da Claude Lévi-Strauss, nel 1955: “[...] il mito di Edipo [...] esprimerebbe l’impossibilità in cui si trova una società, che professa di credere all’autoctonia dell’uomo (si veda ad esempio Pausania, VII, XXIX, 4: il vegetale è il modello dell’uomo), di passare da questa teoria al riconoscimento del fatto che ciascuno di noi è realmente nato dall’unione di un uomo e una donna. La difficoltà è insuperabile. Ma il mito di Edipo offre una specie di strumento logico che permette di gettare un ponte tra il problema iniziale - nasciamo da uno solo o da due? - e il problema derivato che si può approssimativamente formulare così: il medesimo nasce dal medesimo o dall’altro? [...] Il problema posto da Freud in termini «edipici» non è più probabilmente quello dell’alternativa fra autoctonia e riproduzione bisessuata. Ma si tratta pur sempre di capire come uno possa nascere da due: come avviene che non abbiamo un solo genitore, ma una madre e in più un padre?” (C. Lévi-Strauss, “Antropologia strutturale”, Il Saggiatore, Milano 2015).
C) L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE - TERRA. UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA “EDIPICA” REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO.
* COME NASCONO I BAMBINI (Enzo Paci). Sul tema, mi sia lecito, si cfr. Federico La Sala, “Della Terra, il brillante colore”, pref. di Fulvio Papi, Roma-Salerno, Edizioni Ripostes, 1996 (Milano, Nuove Scritture, 2013), in particolare, il cap. 5° e il cap. 6° della Parte III; e, Federico La Sala, “Freud, Kant, e l’ideologia del superuomo”.
Federico La Sala (20.04.2018)
*
Federico La Sala
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA".
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO --- La politica nobiliare del Regno d’Italia 1861-1946. Actes du colloque de Rome, 21-23 novembre 1985 (Giorgio Rumi)
Disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
FILOLOGIA CRITICA E STORIOGRAFIA EUROPEA. 7 DICEMBRE 2024: L’ «ANANKE» DI "NOTRE-DAME PARIS 1482" (VICTOR HUGO, 1831) E "LA FORZA DEL DESTINO" (GIUSEPPE #VERDI, 1862).
UN OMAGGIO A #PARIGI (A "NOTRE-DAME") E A #MILANO (A "LA SCALA"): #7DICEMBRE2024.
Una #citazione dall’opera di #VictorHugo: "[...] Jean lo perse di vista dietro l’enorme schienale. Per qualche minuto vide solo il suo pugno convulsamente contratto su un libro. Ad un tratto si alzò, prese un compasso, e silenziosamente incise sulla parete a lettere maiuscole questa parola greca:
«ANANKE»
«Mio fratello è pazzo», disse Jean fra sé; «sarebbe stato assai più semplice scrivere "#Fatum". Non sono tutti tenuti a conoscere il greco».
L’arcidiacono andò a sedersi sulla poltrona e posò il capo sulle mani, come fa un malato con la fronte pesante e febbricitante.
Lo studente osservava suo fratello con sorpresa. [...] Lo studente rialzò risolutamente lo sguardo. «Monsignor fratello, vi piacerebbe che vi spiegassi in buon francese quella parola greca che è scritta là sul muro?».
«Quale parola?»
«’𝛢𝛮𝛢𝛤𝛫𝛨» [«ANANKE»]
Un leggero rossore venne a diffondersi sui gialli pomelli dell’arcidiacono, come lo sbuffo di fumo che preannuncia all’esterno i segreti scotimenti di un vulcano. Lo scolaro lo notò appena.
«Ebbene, Jean», balbettò il fratello maggiore sforzandosi, «cosa vuol dire questa parola?».
«#FATALITÀ».
Don Claude si fece di nuovo pallido, e lo studente continuò con noncuranza: «E quella parola che sta sotto, incisa dalla stessa mano, «Ἀναγνέια», significa #impurità. Vedete che conosco il greco?».
L’arcidiacono rimaneva silenzioso. Quella lezione di greco l’aveva reso pensieroso. [...]" (V. #Hugo, "Notre-Dame de Paris 1482", L.VII, cap. IV).
NOTE:
"[...] Don Claude ascoltava in silenzio. All’improvviso il suo occhio infossato assunse
un’espressione astuta e penetrante a tal punto che Gringoire si sentì, per così dire, frugato
fino nel fondo dell’anima da quello sguardo.
«Benissimo, mastro Pierre, ma per quale motivo siete ora in compagnia di quella
ballerina d’Egitto?».
«In fede mia», disse Gringoire, «il fatto è che ella è mia moglie ed io sono suo
marito».
L’occhio tenebroso del prete si infiammò.
«Avresti fatto questo, miserabile?», gridò afferrando con furore il braccio di
Gringoire; «saresti stato a tal punto abbandonato da Dio da mettere le mani su quella
fanciulla?».
«Sulla mia parte di paradiso, monsignore», rispose Gringoire tremando in tutte le
sue membra, «vi giuro che non l’ho mai toccata, se è questo che vi preoccupa».
«E allora, perché parli di marito e moglie?», disse il prete.
Gringoire si affrettò a raccontargli il più succintamente possibile tutto quello che il
lettore sa già, la sua avventura della Corte dei Miracoli e il suo matrimonio con la brocca
rotta. Sembrava del resto che questo matrimonio non avesse avuto ancora alcun esito, e
che ogni sera la zingara gli rifiutasse la sua notte di nozze come il primo giorno.
«È una delusione», disse concludendo, «ma ciò deriva dal fatto che ho avuto la
sventura di sposare una vergine».
«Che volete dire?», domandò l’arcidiacono che si era andato gradatamente
calmando a quel racconto. [...]
[...] nella sua anima e nella sua coscienza il filosofo
non era molto sicuro di essere perdutamente innamorato della zingara. Amava quasi
altrettanto la capra. Era un animale incantevole, dolce, intelligente, arguto, una capra
sapiente. Niente di più comune nel Medio Evo di questi animali sapienti che suscitavano
grande meraviglia e che frequentemente conducevano al rogo i loro istruttori. Comunque
le stregonerie della capra dalle zampe dorate erano malizie molto innocenti. Gringoire le
spiegò all’arcidiacono, che sembrava vivamente interessato a questi dettagli. Nella
maggior parte dei casi, era sufficiente presentare alla capra il tamburello in un modo o in
un altro per ottenere da lei il gioco che si desiderava. Era stata addestrata a far ciò dalla
zingara, che aveva per queste finezze un talento così raro che le erano bastati due mesi per
insegnare alla capra a scrivere con delle lettere mobili la parola Phoebus.
«Phoebus?», disse il prete. «Perché Phoebus?».
«Non lo so», rispose Gringoire. «Forse è una parola che ella crede dotata di qualche
virtù magica e segreta. La ripete spesso a mezza voce quando si crede sola».
«Siete sicuro», riprese Claude con il suo sguardo penetrante, «che è soltanto una
parola e non un nome?».
«Nome di chi?» disse il poeta.
«Che ne so?», disse il prete.
«Ecco quello che immagino, messere. Questi zingari sono un po’ Ghebri e adorano il
sole. Da ciò Phoebus».
«Non mi sembra chiaro come a voi, mastro Pierre».
«Del resto non mi importa. Che borbotti il suo Phoebus quanto le piace. Di sicuro
c’è che Djali mi ama già quasi quanto ama lei». [...]
«Chi è questa Djali?».
«È la capra».
L’arcidiacono posò il mento sulla mano e sembrò per un momento pensieroso.
Tutto ad un tratto si rivolse bruscamente verso Gringoire:
«E tu mi giuri che non l’hai toccata?».
«Chi?», disse Gringoire, «la capra?».
«No, questa donna».
«Mia moglie! Vi giuro di no».
«E tu sei spesso solo con lei?».
«Tutte le sere, per un’ora buona».
Don Claude aggrottò le sopracciglia.
Il pallido volto dell’arcidiacono divenne rosso come la guancia di una fanciulla.
Restò un momento senza rispondere, poi con visibile imbarazzo:
«Ascoltate, mastro Pierre Gringoire. Non siete ancora dannato, che io sappia. Mi
interesso a voi e vi voglio bene. Ora il minimo contatto con questa egiziana del demonio vi
renderebbe vassallo di satana. Sapete che è sempre il corpo che perde l’anima. Guai a voi
se vi avvicinate a quella donna. Ecco tutto».
«Ho tentato una volta», disse Gringoire grattandosi l’orecchio. «Era il primo giorno,
ma mi ci sono punto».
«Avete avuto questa sfrontatezza, mastro Pierre?».
E la fronte del prete si rabbuiò.
«Un’altra volta», continuò il poeta sorridendo, «prima di coricarmi ho guardato
attraverso il buco della sua serratura, e ho visto la più deliziosa dama in camicia che abbia
mai fatto cigolare le cinghie di un letto sotto il suo piede nudo».
«Vattene al diavolo!», gridò il prete con uno sguardo terribile e, spingendo per le
spalle Gringoire tutto stupito, sprofondò a grandi passi sotto le più oscure arcate della
cattedrale. "(Victor Hugo - Notre Dame de Paris).
ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA, MEDICINA, FISICA E METAFISICA:
DIALOGO CON UN AMICO IN OCCASIONE DEL SUO ONOMASTICO NEL GIORNO DELLA MEMORIA DI SAN FRANCESCO SAVERIO:
a) "Messaggio (inoltrato)":
Memoria di san Francesco Saverio, sacerdote della Compagnia di Gesù, evangelizzatore delle Indie, che, nato in Navarra, fu tra i primi compagni di sant’Ignazio. Spinto dall’ardente desiderio di diffondere il #Vangelo, annunciò con impegno Cristo a innumerevoli popolazioni in India, nelle isole Molucche e in altre ancora, in Giappone convertì poi molti alla fede e morì, infine, in Cina nell’isola di Sancian, stremato dalla malattia e dalle fatiche.
è il mio onomastico quindi...
b) Risposta:
Ma "Gesù" non aveva nessuna "Compagnia" ... e la compagnia che lo seguiva lo portava là dove si "va-n-gelo".
Francesco I, per or-goglio, si richiama a Ignazio di Loyola, è un "gesuita" non un "cristiano" né un "francescano". È tempo di rifare il presepe e restituire a Giuseppe e Maria, il loro ", Bambino...
Molti auguri e buon compleanno, a te e ai tuoi genitori, "Giuseppe e Maria" ... E padre di Andrea, ginecologo.
La X dell’Apostolo Andrea richiama X di "IXTHUS", "Christos", non dell’ "Ictus", così la Caritas, da non confondere con "caritas" ("mammona"). Buona ri-nascita e buon onomastico ... Buona giornata.
c) Risposta
Dante aspetta ancora. Dalla tragedia "divina" alla "divina" Commedia
d) Messaggio dell’Amico:
La vita dei continui passaggi, per metterla in filosofia, del continuo divenire di Eraclito. Senza la tragedia( il negativo assoluto) non ammireremmo neanche la Bellezza e la Bontà.
e) Risposta:
infatti! Eraclito era di Efeso ed è suo il principio ripreso e rilanciato dall’ Apostolo Giovanni (non dal Paolo, Saulo di Tarso): il Logos. Il Logos, non è il logo di un’azienda, di una setta,o di un partito: è "l’amore che move il sole e le altre stelle" (Dante Alighieri). Della Terra, il brillante colore...
STORIA #FILOSOFIA #LETTERATURA E #STORIOGRAFIA: DANTE ALIGHIERI.
Una nota a margine della presentazione sull’Editio Princeps della Commedia:
FILOLOGIA E #CRITICA. PARTIRE DALLA #DIVINA COMMEDIA DEL 1472, E’ PROPRIO UN BRILLANTE #SEGNAVIA DI RIFERIMENTO CHE SI "AGGANCIA" ALL’OPERA DI #VICTORHUGO, "NOTRE-DAME DE PARIS 1482" (PUBBLICATA NEL 1831) E ALLA RIAPERTURA DELLA CATTEDRALE DI NOTRE-DAME, L’#8DICEMBRE 2024, ED E’ ANCHE [UN GRANDE AUGURIO A TUTTA L’#EUROPA, AFFINCHE’ SIA CAPACE DI USCIRE DAL #LETARGO (Par. XXXIII, 94) E DALLA "#AIUOLA CHE CI FA TANTO FEROCI" (Par. XXII, 151) E SAPPIA RITROVARE LA #DIRITTA VIA DELLA ##PACE E DEL #RISPETTO CON TUTTE LE GENTI DEL #PIANETATERRA.
NOTE:
DOC.:
#STORIA E #LETTERATURA (#DANTE ALIGHIERI), #FISICA (#GALILEO #GALILEI), "#METAFISICA" (#EINSTEIN), E #COSMOLOGIA #QUANTISTICA:
CON DANTE (E GOETHE) ALLA RICERCA DEL "TEMPO PERDUTO" ("TEMPS PERDU"), E FUORI DAL "BUCO NERO".
"L’ORDINE DEL TEMPO" (ANASSIMANDRO). PUR VOLENDO ACCOGLIERE E CONDIVIDERE LA SEGUENTE MAGISTRALE RIFLESSIONE ESPRESSA da J.W. Goethe, in una lettera a Friedrich #Schiller, il 27 ottobre 1797 :
FORSE, NON E’ MALE RIFLETTERE PRIMA SU UNA BELLA E ILLUMINANTE CHIARIFICAZIONE FILOLOGICA E CRITICA di #Ennio #Flaiano nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia” Divina Commedia": "L’amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galilei”.
ALLA LUCE DELLE ULTIME RICERCHE E DELLE RECENTI SOLLECITAZIONI a cercare di realizzare "una conoscenza sempre più profonda" sia antropologica sia cosmologica sia teologica, forse, è bene riflettere sulla ipotesi di lettura che Carlo Rovelli fa dell’opera di Dante Alighieri, nel suo libro "Buchi bianchi", e, abbandonata una logica egolatrica e cosmoteandrica, capire finalmente che il "re dell’universo", il "signore" che regola il "grande gioco" del "cosmo" non è un "macroantropo" alla "uomo vitruviano" leonardesco, ma il "sator arepo" del famoso e sillogistico "quadrato magico", il #logos eracliteo del #principio, "l’amor che move il sole e le altre stelle" (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, 145).
A PARTIRE DA #AMLETO, CON #PIRANDELLO ED #EDUARDODEFILIPPO: «TE PIACE ’O PRESEPIO?» DEL #PIANETATERRA?!
INTRODUZIONE. Si racconta che Saulo / Paolo di Tarso, un "cittadino romano"(At. 22, 25-28), sia stato portato fino al terzo cielo (2 Corinzi 12:2): va bene! Da ricordare, però, che #DanteAlighieri ("Io non Enëa, io non Paulo sono") è andato ben oltre i cieli di #Aristotele, come racconta l’astrofisico Carlo Rovelli, una volta uscito dal "buco nero" in cui lucifericamente era caduto!
#METATEATRO E #STORIOGRAFIA: UNA DOMANDA #HAMLETICA PER "RE-SHAKESPEARE" BENE. Antropologicamente (e cristologicamente), c’è da chiedersi, se Paolo ha visto “Gesù Cristo”, come mai - contriamente a quanto visto e insegnato da #Francesco di Assisi con il suo “presepe” (#Greccio, 1223) - non ha notato, accanto a “Cristo” che lo “sgridava” («Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?»), “Giuseppe” accanto a “Maria”?! Dov’è finito il "Giuseppe", discendente della "casa del #ReDavide" ("de domo David")?
UNA "#IMITAZIONEDICRISTO" ALLA PAOLO DI TARSO DI LUNGA DURATA: #NICEA (325 -2025). La domanda logico-storica è: come mai alla sua proposta di imitarlo e seguirlo, tutti e tutte si sono sbagliati e sbagliate a tal punto da seguire lui, Saulo (Paolo di Tarso), e non Gesù: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e #capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3)?
"ECCE HOMO" (F. #NIETZSCHE, 1888): QUALE #PRESEPE SI VUOLE CONTINUARE ANCORA A "COSTRUIRE", OGGI? Quello di Paolo di Tarso o quello di #FrancescodiAssisi? #Dante, cosa aveva già capito, come anche Shakespeare, e Pirandello e, infine, #Eduardo De Filippo (1931)?
"#SIDEREUSNUNCIUS" (#GALILEOGALILEI, 1610): QUALE FUTURO PER IL "#DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" (#GALILEO GALILEI, 1632)?
CAMBIARE ROTTA ("#SVOLTADISALERNO", 1944-1948): "NON E’ MAI TROPPO TARDI" (#ALBERTOMANZI, 1924-1997).
ALL’ORIGINE DEL "CONTRORINASCIMENTO" EUROPEO, LA "#SVOLTA DI #SALERNO" (REGNODINAPOLI,1547-1548).
LA "SVOLTA DI SALERNO": L’#IMPERATORE #CARLOV E DON #PEDRODITOLEDO, ALL’INTERNO DI UN ORIZZONTE EUROPEO E MEDITERRANEO BELLICOSO (CADUTA DI #COSTANTINOPOLI,1453) GIUNGONO A METTERE AL BANDO IL PRINCIPE FERRANTE SANSEVERINO (Luca Addante)] E DANNO IL VIA LIBERA ALLA #TEOLOGIA-#POLITICA DELLA #SPAGNA E DELLA #CHIESACATTOLICA #CONTRO LA #RIFORMA DI #LUTERO (1517) E LA RIFORMA #ANGLICANA DI #ENRICOVIII (1534). NEL SEICENTO IL "MARCIO NELLO STATO DI DANIMARCA" CRESCE SEMPRE DI PIU’(#Shakespeare, #Amleto, 1602): LA #GUERRA DEI TRENT’ANNI (1618-1648) E’ ALLE PORTE.
#STORIA D’#ITALIA E #STORIOGRAFIA: "LE COLONNE DELLA #DEMOCRAZIA" (#LUCA #ADDANTE). SCHEDA EDITORIALE (Editori Laterza, 2024): "Negli anni della Rivoluzione francese i giacobini in Francia furono all’avanguardia nel reclamare la libertà e l’uguaglianza, la giustizia sociale e la sovranità popolare. Un programma fatto proprio da moltissimi italiani, confluiti in un movimento unitario che entrò in scena nel Triennio repubblicano (1796-1799), animando la nascita dell’associazionismo e del giornalismo politici.
Il principale obiettivo del movimento era l’unificazione dell’Italia in un unico Stato repubblicano, democratico e costituzionale. Era la prima generazione del Risorgimento che avviava la sua lunga lotta, nel crogiolo politico e ideologico che vide forgiarsi le correnti protagoniste dei due secoli seguenti: il liberalismo, la democrazia, il repubblicanesimo, il socialismo, il comunismo, l’anticolonialismo, il femminismo.
Quel primo movimento politico italiano nascondeva al suo interno una società segreta, le Colonne della Democrazia, da cui sorse la misteriosa Società dei Raggi, la prima società segreta del Risorgimento sul cui tronco ne fiorirono altre, tra cui la più nota è la Carboneria.
Il libro racconta la nascita del movimento che diede avvio al Risorgimento, perseguendo un programma politico avanzatissimo attuato solo in parte con l’Unità d’Italia e più compiutamente - ma non appieno - realizzato dopo la Resistenza al nazi-fascismo e la Costituente." (cit.).
PSICOANALISI, LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA...
"LUCIFERO-AMORE": UN NODO DA RIPENSARE E SCIOGLIERE. IL PROGRAMMA DI RICERCA E DI VITA DI SIGMUND FREUD
CONSIDERANDO CHE il titolo della #rivista di #storia della psicoanalisi, "#Luzifer-#Amor" (https://lnkd.in/darRW_ca ), rinvia consapevolmente a una lettera dello stesso #Freud, al suo amico #Fliess, del 10 luglio 1900, in cui egli scrive con grande lucidità che "I grossi problemi non sono ancora risolti. Tutto ondeggia e albeggia, un #inferno intellettuale, una cosa sopra l’altra, dall’abisso più profondo si profilano alla vista i tratti di Lucifero-Amore", a un anno dalla pubblicazione della "#Interpretazione dei #sogni" (1899), a ben ricordare, forse, è opportuno riflettere ancora su queste parole e ripensare a quelle connesse all’#Acheronta #movebo" (#Eneide VII, 312) in epigrafe all’opera.
L’associazione da parte di Freud, della figura della tradizione ebraico-cristiana di Lucifero e della figura greco-latina di Amore (#Virgilio, #Bucoliche, X. 69: "Omnia vincit Amor, et nos cedamus #Amori"), di #Eros-#Cupìdo, getta inedita #luce sul suo programma di #ricerca e sul suo cammino di #vita. (Sul tema, mi sia lecito, si cfr. FEDERICO LA SALA, "KANT, FREUD, E LA BANALITÀ DEL MALE").
NOTA:
Federico La Sala
PSICOANALISI, LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA...
"LUCIFERO-AMORE": UN NODO DA RIPENSARE E SCIOGLIERE. IL PROGRAMMA DI RICERCA E DI VITA DI SIGMUND FREUD
CONSIDERANDO CHE il titolo della #rivista di #storia della psicoanalisi, "#Luzifer-#Amor" (https://lnkd.in/darRW_ca ), rinvia consapevolmente a una lettera dello stesso #Freud, al suo amico #Fliess, del 10 luglio 1900, in cui egli scrive con grande lucidità che "I grossi problemi non sono ancora risolti. Tutto ondeggia e albeggia, un #inferno intellettuale, una cosa sopra l’altra, dall’abisso più profondo si profilano alla vista i tratti di Lucifero-Amore", a un anno dalla pubblicazione della "#Interpretazione dei #sogni" (1899), a ben ricordare, forse, è opportuno riflettere ancora su queste parole e ripensare a quelle connesse all’#Acheronta #movebo" (#Eneide VII, 312) in epigrafe all’opera.
L’associazione da parte di Freud, della figura della tradizione ebraico-cristiana di Lucifero e della figura greco-latina di Amore (#Virgilio, #Bucoliche, X. 69: "Omnia vincit Amor, et nos cedamus #Amor"), di #Eros-#Cupìdo, getta inedita #luce sul suo programma di #ricerca e sul suo cammino di #vita. (Sul tema, mi sia lecito, si cfr. FEDERICO LA SALA, "KANT, FREUD, E LA BANALITÀ DEL MALE").
NOTA:
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, LINGUISTICA, E PSICOANALISI:
SULLE ALI PARADIGMATICHE DI UN MATRIMONIO, UN "VIAGGIO IN SICILIA" (GOETHE) CON DANTE, SAUSSURE, E FREUD.
A NON SOTTOVALUTARE l’importanza del lavoro di Franco Lo Piparo, "Sicilia isola continentale. Psicoanalisi di una identità" (Sellerio 2024), forse, è opportuno tenere presente il punto di vista (e di partenza) e l’oggetto (il punto di arrivo, il risultato) della ricerca, che riesce a riannodare strutturalmente e magistralmente (senza ricadere dentro lo "strutturalismo") insieme #lingua #istituzioni e #società.
IL SEGNAVIA è una formula di #matrimonio in volgare siciliano scritta in caratteri greci, forse, degli anni 1259/1266, durante il #regno di Manfredi di Svevia. Un percorso illuminante, a mio parere.
Per non sprecare questa occasione "storica", credo che sia opportuno non lasciarsi accecare (edipicamente) dal legame (per lo più giocastico) con la propria "santissima" #Mamma, la "Madre mediterranea", e accogliere al meglio cio’ che appare essere una straordinaria "risposta" di un "alunno" alle lezioni dei suoi "maestri" (a cominciare da Renato Guttuso, da Tullio De Mauro, e da Umberto Eco->), e, in particolare, una sollecitazione (da un "alunno" diventato "maestro", a pieno titolo) a ri-leggere antropologicamente il "Corso di Linguistica Generale" di Ferdinand de #Saussure, riprendendo il filo dal "circuito della #parole": "Siano, dunque, due persone che discorrono: A e B."!.
ANTROPOGENESI FILOLOGIA E FILOSOFIA: CHE GRANDE "PREISTORIA" DELL’INTERA #UMANITA’ DEL PIANETA TERRA!
RIPARTIRE DA CAPO, E IMPARARE A #CONTARE, A #CALCOLARE...
INDIVIDUO E SPECIE: "L’ONTOGENESI RICAPITOLA LA FILOGENESI" (ERNST HAECKEL).
MA QUALE "RICAPITOLAZIONE", COME DA #ANTROPOLOGIA COSMICA, QUALE QUELLA DI #DANTE ALIGHIERI ("L’#AMOR CHE MUOVE IL #SOLE E LE ALTRE #STELLE") O COME QUELLA (DELL’ATTUALE #PRESENTE STORICO) DA #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DA "#CAVERNA" PLATONICA E PAOLINA?!
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1784). NON E’ IL CASO DI CORRERE AI RIPARI E, FINALMENTE, uscire dall’orizzonte della #tragedia e dal #letargo epistemologico e #correggere un’operazione #matematica "sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#Franca Ongaro #Basaglia, 1978)!!!
COSMOTEANDRIA E STORIA. LA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio [ ὅτι παντὸς ἀνδρὸς ἡ κεφαλὴ ὁ Χριστός ἐστιν, κεφαλὴ δὲ γυναικὸς ὁ ἀνήρ, κεφαλὴ δὲ ⸀τοῦ Χριστοῦ ὁ θεός.]"(1 Cor. 11, 1-3).
ANTROPOLOGIA (KANT), TEATRO (#SHAKESPEARE), E #PSICOANALISI (#FREUD):
IL "MOUSETRAP" DI "AMLETO ED OFELIA" ("HAMLET", III.2) E L’ "ONORA IL PADRE E LA MADRE" ANTROPOLOGICO E "BIBLICO".
QUALE "MODELLO" DI #RELAZIONE IN UNA MODERNA SOCIETA’ DEMOCRATICA? QUALE RAPPORTO TRA LE #GENERAZIONI? CITTADINI SOVRANI E CITTADINE SOVRANE, FIGLI E FIGLIE DI ’MARIA’ E ’GIUSEPPE’, O DI ’GIOCASTA’ E ’LAIO’? O, PER CASO E ANCORA, FIGLI E FIGLIE DELLA LUPA (DI REA SILVIA E MARTE)?
LO "SPETTRO" DI "#GIUSEPPE" SI AGGIRA ANCORA PER LA "#DANIMARCA" ..... MA IN VATICANO NON LO SANNO. Vivono tutti ancora a Tebe, nella città del re Edipo! Con un’antropologia preistorica, la Chiesa Cattolica avanza sicura, verso il tremila prima di Cristo E SI PREPARA A FESTEGGIARE #NICEA (325-2025)!
Fino a quando zoppicheremo con i due piedi?: questa è una domanda - già di molti secoli prima di Cristo - del profeta Elia (1 Re: 18, 21), ma - come si sa - rilanciata da #SigmundFreud, nel XX secolo dopo Cristo! A CHE "GIOCO" SI VUOLE CONTINUARE A GIOCARE?
ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI: DANTE ALIGHIERI, LA #DIVINACOMMEDIA, "LA SACRA #FAMIGLIA" (#MARX-#ENGELS), E L’#ANDROCENTRISMO CONTEMPORANEO.
STORIA #LETTERATURA E #FILOLOGIA. CONSIDERANDO CHE il #23settembre richiama anche il giorno della morte di #SigmundFreud, e RICORDANDO, ancora , che all’inizio della sua "#Interpretazione dei sogni (1899) c’è il virgiliano #AcherontaMovebo", personalmente, devo dire che resto sempre più che sorpreso dell’accettazione del #fatto che si accolga acriticamente non solo il "giudizio" di #UmbertoEco ma anche dell’intero mondo accademico delle scienze storiche logiche e filologiche (dopo i #maestridelsospetto), e non si aprino gli occhi sugli innumerevoli #segnavia posti dallo stesso #Dante Alighieri sul suo cammino.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! COME E’ (STATO) POSSIBILE (ADDIRITTURA PER SETTE SECOLI) ACCREDITARE la #madre di #Dante, #Bella (che a #Virgilio così parla:
come la giovane Beatrice ... fino a fare del Poeta una persona incapace di essere spiritualmente fedele alla sua sposa #GemmaDonati, di essere un #padre onesto e leale con i propri figli e, infine, di capire persino la ragione del perché sua figlia Antonia, entrata in convento, prenda il nome di suor #Beatrice? Boh e Bah?! Mistero dell’altro mondo? Chi ha paura di Beatrice?
USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA, CON DANTE E #FREUD: INVERTIRE IL #PRESENTE...
DA DOVE VENGONO I BAMBINI?" (Emma Eckstein) E #COMENASCONOIBAMBINI (Sigmund Freud, 1937)?
Sul piano dell’antropologia, delle tradizioni linguistiche e popolari, e della psicologia (e dell’amletico "marcio nello stato di Danimarca"), partendo dal "#gattonare" dei bambini e delle bambine e, passando dal "#gattaro" e dalla "#gattara", c’è da pensare anche al #verbo "gattare" e, infine, alla simulazione giocosa della "#Mousetrap" realizzata da Amleto e Ofelia nell’opera di #Shakespeare, per smascherare chi ha distrutto la "trappola per topi" realizzata dal "Re Amleto" e dalla "Regina Gertrude" nel loro #giardino e ucciso il Re! Non è meglio rileggere l’opera di Shaespeare e celebrare la #memoria di Santa Gertrude di Nivelles?!
INVERTIRE IL PRESENTE E RIATTIVARE LA MEMORIA (E IL SERVIZIO POSTALE): RIANNODARE LE FILA DELLA #STORIA "LOCALE" E DELLA STORIA "GLOBALE".
Una nota a margine di un evento della seconda metà del 1600 (v. allegato), del #RegnodiNapoli, #Vicerame #spagnolo: l’apertura di un "ufficio postale con procaccia" nella città di #Contursi (nel #PrincipatoCitra: l’attuale città di #ContursiTerme, in #provincia di Salerno).
PER UN SECONDO (E ALTRO) RINASCIMENTO, CONTRO LA "#MALINCONIA BAROCCA", UNA SOLLECITAZIONE STORIOGRAFICA A SVEGLIARSI DAL "#SONNODOGMATICO" E RICONSIDERARE L’IMPORTANZA STRUTTURALE E STRATEGICA DEL #SERVIZIOPOSTALE NELLA #ECONOMIA #POLITICA DELL’IMPERATORE #CARLOV E NELLA VITA DELL’#EUROPA:
“Tutta la storiografia recente converge verso un’idea del rapporto fra Spagna e Italia nel Cinque e nel Seicento assai diversa da quella tradizionale. Gli Asburgo non furono solo i dominatori di gran parte della penisola per due secoli. Il loro impero costituì un importante quadro di integrazione politica che consentì all’Italia una partecipazione non proprio marginale alla grande storia europea” (cfr. #AurelioMusi, "Alla periferia dell’impero (ma non troppo)", L’identità di Clio, 4 Marzo 2020).
NOTE:
MEDEA E ULISSE, IL «POLUTROPOS ANER» DELL’ODISSEA: "IO MI CHIAMO NESSUNO" ("JE M’APPELLE PERSONNE) E IL PROBLEMA DELL’ «ESSERE, O NON ESSERE» (SHAKESPEARE, "AMLETO", III.1).
IL "VELLO D’ORO" DI GIASONE E MEDEA, E LA FIGURA ("TROPICALLY") DELLA "TRAPPOLA PER TOPI" ("THE MOUSETRAP") DI AMLETO E OFELIA (HAMLET, III.2).
ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA. CONSIDERANDO CHE Medea" (in greco antico: Μήδεια, Mḕdeia), a mio parere, richiama... "Ou-tis" (Odissea IX,366: Οὔτις ἐμοί γ’ ὄνομα), "Ne-Homo", "#Nessuno", "Nulla", "Niente" (in greco antico: Mηδείς, Medéis) è una figura "duplice" (allude a Sé e a Nessuno), come quella di Odisseo (di Ulisse con Polifemo), il nodo genealogico resta, e il problema "ontologico" (dell’ essere) della risposta alla questione della Sfinge anche: "Chi" sei?
"METAMORFOSI" E "DIVINA COMMEDIA": "TRASUMANAR" (Par., I. 70). #DanteAlighieri, a quanto risulta, ha ben riflettuto sia su "Ulisse e Penelope" sia su "Giasone e Medea", come su "#Edipo e #Giocasta", e ha saputo trovare l’uscita antropologica dall’orizzonte "olimpico" della "tragedia", dalla "caduta" all’inferno: egli non ha fatto naufragio. Forse è bene tenerne conto.
STORIA (TEATRO), METASTORIA (METATEATRO), LETTERATURA, E STORIOGRAFIA:
"AMLETO IN PURGATORIO" E "NEOSTORICISMO" ("NEW HISTORICISM")?
"SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784; MICHEL FOUCAULT, 1984). Con i "maestri del sospetto" (P. #Ricoeur), #Marx e #Freud e #Nietzsche, e #WalterBenjamin, forse, è bene riprendere la lettura dell’opera di Shakespeare e cercare di uscire dal più che millenario "letargo" (Dante Alighieri).
CULTURA E SOCIETÀ: "NEW HISTORICISM". "WWGD?" ("Cosa farebbe Greenblatt?"). "Cum grano salis": le indicazioni di Kermode, come i lavori di Greenblatt, sono importanti sollecitazioni, ma dicono solo dell’immane "ritardo" storiografico (a tutti i livelli) relativo alle conoscenze della nostra stessa storica realtà (composta di storie di storie di storie...). Già solo i titoli: "Amleto in Purgatorio" ("𝘏𝘢𝘮𝘭𝘦𝘵 𝘪𝘯 𝘗𝘶𝘳𝘨𝘢𝘵𝘰𝘳𝘺") e "Arte tra le rovine" ("Art Among the Ruins"), cosa cercano di far capire?
"THE TIME IS OUT OF JOINT"("Hamlet", I.5). SHAKESPEARE, cosa fa con "Amleto"? A partire dal proprio "presente storico" (dallo "stato di Danimarca"), con ben altra radicalità, non riprende dall’immaginario ereditato il filo del "#principio" (antropologico e teologico-politico), non lo riporta in #luce con la sua "trappola di topi" ("The #Mousetrap"), e non sollecita a portarsi oltre il proprio tempo, un "tempo fuori dai cardini"?! A quale "storicismo" si vuole continuare a "#giocare", oggi?
Nota:
MICHELANGELO, I PROFETI, LE SIBILLE, E LE "STREGHE" DI BENEVENTO: CONTRORIFORMA E CONTRORINASCIMENTO.
ANTROPOLOGIA CULTURALE #ARTE E #STORIA. A lume di #antropologia storica e "#immaginazione sociologica", si può ben pensare che Michelangelo (associandosi al santo patrono di Benevento, all’apostolo Bartolomeo, con la "#sindone" del suo "#autoritratto": ), nel #GiudizioUniversale, protestava "cristianamente", contro la #gerarchia di un #cattolicesimo istituzionalizzato (assetato di potere, all’ombra e al servizio del dio "#Mammona", incapace di accogliere le sollecitazioni della #Riforma Luterana e Anglicana), che aveva rifiutato la proposta di far camminare insieme profeti e sibille, come da chiara indicazione ecumenica e "francescana, nella "Volta" della #CappellaSistina e nel "#presepe" del #TondoDoni) e contro l’equiparazione di #janare e #sibille (come da tradizione "cattolica", delle "streghe", che si riunivano presso l’antico albero di "noce di benevento", per il famoso "concerto" sabbatico.
LETTERATURA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (KANT): QUALE "LEGAME" PER DANTE TRA BERNARDO DI CHIARAVALLE E FRANCESCO DI ASSISI?
CON LA #NAVE DI "#GIASONE" ("#DANTEALIGHIERI") E LA SUA #DIVINACOMMEDIA ("L’OMBRA D’#ARGO"), UN "INVITO" A PORTARSI FUORI DALL’ORIZZONTE DELLA "#CADUTA" E DELLA #TRAGEDIA... *
A MIO PARERE, LA #DIVINA COMMEDIA, IL PERCORSO DELL’ #AUTORE E DEL #PERSONAGGIO, #DANTE ALIGHIERI, E’ LA SUA "SALOMONICA" RISALITA ALLA #SORGENTE DELL’AMORE COSMOLOGICO E ANTROPOLOGICO, E, CON L’AIUTO DELLA #MEMORIA DI "#BERNARDO" ("GIUSEPPE") E "#BEATRICE" ("MARIA"), LA "EVANGELICA" RINASCITA DI SE’ STESSO, COME DI UN "ALTRO #CRISTO" (COME UN ALTRO FRANCESCO DI ASSISI).
OLTRE LA #COSMOTEANDRIA "ADAMITICA" ED "EDIPICA": "ECCE HOMO" ("#ANTHROPOS"). IL "VIAGGIO" DI DANTE E’ UN CHIARIMENTO ANTROPOLOGICO FONDAMENTALE SU COME SI DIVENTA CIO’ CHE OGNI #ESSEREUMANO E’, IL "FIGLIO", IL "CRISTO" (IL "CRISTIANO", LA "CRISTIANA") DEL "DIO" ("DEUS") DELL’AMORE ("CHARITAS") CHE "MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" (Dante, Par. XXXIII, 145): IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS.
NOTA:
TEATRO METATEATRO E PIANETA TERRA:
IL "MULINELLO" DI SHAKESPEARE, LA GLOBALIZZAZIONE CATTOLICO-SPAGNOLA DEL SEICENTO EUROPEO, LA CRISI CONTEMPORANEA DELL’IMPERO AMERICANO, OGGI: "SAPERE AUDE! (KANT, 1784), E LA "RIPENESS" DEL "NOSTRO TEMPO".
CON L’ARTICOLO "Hamlet, Prince of #Denmark: Conspiracy Theorist for Our Times", Paul Adrian Fried propone un’ottima sintesi e un’aggiornata #analogia:
ESSERE, O NON ESSERE: "RIPENESS IS ALL" ("KING LEAR", V.2). A mio parere, tuttavia, la #consapevolezza di #Amleto è da collocarsi (come Shakespeare sembra volere e come sembra che lo stesso autore voglia fare) a un livello più propriamente "biblico", storico e metastorico: vale a dire, sul piano della "#caduta" (antropologica e teologica), e sulla determinazione #critica di portarsi fuori dall’orizzonte teologico-politico del #Mentitore, del "#Serpente" - di uscire dall’infernale "vicolo cieco" e, possibilmente, riprendere la via per recuperare l’orizzonte del "#paradisoterrestre" e celeste (come da indicazione di Dante Alighieri). Si tratta di portarsi, accogliendo i vari "rimandi" evangelici dello stesso Shakespeare, fuori dallo "#stato di #minorità", e, al contempo, aver il #coraggio di servirsi della propria intelligenza" (Kant), non ci sono altre vie: “Che c’è, ancora cattivi pensieri? Gli uomini devono sopportare / la loro uscita dal mondo come la loro venuta; / la #maturità è tutto. Andiamo” (Shakespeare, "#ReLear", V. II).
EARTHRISE (L’ALBA DELLA MERAVIGLIA, IL "SORGERE DELLA TERRA"). Ciò che nel tempo presente, qui ed ora, appare essere importante e urgente (dal punto di vista di un possibile ONU = UNO o dI astronauti e di astronaute che guardano dall’esterno il Pianeta Terra), da una parte, capire che il "serpente" non è altro che un’#anguilla alla #ricerca dell’via di uscita per raggiungere l’#oceano e, dall’altra, comprendere che occorre alimentare al massimo la fiamma del desiderio di "seguir virtute e canoscenza" (Inf. XXVI, 119), di "rivedere le stelle" (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 139), e di riprendere la navigazione nell’oceano celeste (#Keplero a #Galileo #Galilei, 1611).
"X AGOSTO" (10 AGOSTO): "DA COPERNICO IN POI L’UOMO ROTOLA VERSO UNA X" (NIETZSCHE, 1886).
MEMORIA, STORIA E LETTERATURA
Aicune note intorno alla poesia di Giovanni Pascoli:
X Agosto
San Lorenzo, io lo so perchè tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perchè sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole, in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano, in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
ANTROPOLOGIA CHIASMATICA ("NEXOLOGIA") E COSMOLOGIA:
TERRA E CIELO. Nel suo testo, Pascoli tocca corde molto prossime alle riflessioni di Nietzsche sul tema della cosiddetta "morte di Dio" (e dell’Uomo). La questione appare essere personale, ma si contestualizza in un orizzonte universalmente umano, antropocosmico: la "X", posta davanti ad "Agosto", non richiama solo l’incognita e l’ignoto, ma anche e soprattutto la "X" greca (il "Chi" della relazione, della "nexologia" antropologica e cosmologica.
"DA COPERNICO IN POI L’UOMO ROTOLA VERSO UNA X" (NIETZSCHE, 1886). Con Carducci (v. "Pianto antico": Il testo autografo, legato alla morte del figlioletto Dante avvenuta nel 1870, reca la data giugno 1871) e, con Pascoli (v. "X agosto": il testo fu pubblicato il 9 agosto 1896, ma è legato alla morte del padre Ruggero, ucciso mentre tornava a casa dal mercato in circostanze misteriose il 10 agosto 1867, il giorno in cui si celebra san Lorenzo, quando Pascoli ha appena 12 anni), e, volendo, con Nietzsche, si comprende meglio da una parte il senso dell’euforia tecnologica dell’ inno "A Satana" (Carducci, 1863) e, al contempo, l’allarme di Nietzsche, che, riaggiornando la lezione di Diogene di Sinope, ricorda
e, ancora, dello stesso Pascoli, della incapacità epocale dell’uomo del suo tempo (che annuncia già Kafka) di leggere "sotto le stelle, il libro del mistero" (G. Pascoli, "Il libro", 1907).
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA: L’EUROPA E LE OLIMPIADI DI PARIGI 2024.
CON HEGEL (E PAOLO DI TARSO), OLTRE: UN PROBLEMA DI RICONOSCIMENTO, ALL’ORDINE DEL GIORNO DEL PIANETA TERRA.
DOPO IL FORMIDABILE PUNTO FERMO SUL TEMA DELL’#AUTOCOSCIENZA E DEL RICONOSCIMENTO MESSO DA HEGEL NELLA "#FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO" (1807), una rimemorazione "storiografica" epocale (da #Delfi a #Jena, e da Socrate e Platone allo stesso Hegel), arrivati a #Paris2024, c’è ancora da riflettere ancora e ancora proprio sul "ri-conoscere" ("an_erkennen"), e, possibilmente e urgentemente, fare un passo oltre lo storico "#compromesso olimpico" della #cosmoteandria della #tragedia! Come mai dopo millenni (e, dopo Napoleone, dopo Auschwitz, e dopo Hiroshima e Nagasaki), si continua a "cantare" il #ritornello dell’ «aner», dell’«uomo» di Paolo di Tarso, e dell’universale #paolinismo:
#Achegiocogiochiamo? A quali "Giochi" si vuole continuare ad aggiogare l’intero Pianeta, la "nave" Terra, nell’oceano celeste (#Keplero)?! Non è ora di cambiare rotta?! E, con #DanteAlighieri, uscire dall’#inferno?!
NOTE:
ANTROPOLOGIA #CRITICA (#KANT) E #VITAEFILOSOFIA (NIETZSCHE, "ECCE HOMO", 1888): "LA SOCIETA’ APERTA" (KARL POPPER) O LA SOCIETA’ CHIUSA?!
RICORDANDO la frase di #Hugo: "Io sono parigino di nascita e «parrisiano» nel parlare, dal momento che «parrhisia» in greco significa libertà" ("Notre Dame de #Paris", L. I, cap. III), OGGI, NON POSSIAMO NON DIRCI "POPPERIANI" E, AL CONTEMPO, NON DIRCI "CRISTIANI" (CON #BENEDETTOCROCE): SI TRATTA DI CAMBIARE ROTTA E ANDARE #OLTRE "L’UOMO" , OLTRE L’#ANDROCENTRISMO E LA #COSMOTEANDRIA DELL’ANTICA #ALLEANZA DELL’ORIZZONTE DELLA "CADUTA", DELLA TRAGEDIA (#PLATONE ED #HEGEL), E DEL #PAOLINISMO COSTANTINIANO (#NICEA, 325-2025).
RICONOSCIMENTO (ANERKENNUNG): RICONOSCER-SI. Tra "Parresia" (parlare chiaro e liberamente) e - #Parousia ("Parusia", #presenza del "divino" nel mondo, nell’ottica teologico-politica socratico-platonica e paolino-hegeliana), corre un rapporto "metafisico" strettissimo che dice proprio se si sta parlando con lo #spirito critico ed evangelico (di libertà uguaglianza fratellanza e sorellanza, nel rispetto della differenza e delle differenze), all’aria aperta e alla luce del Sole ("#Logos"), o nel recinto ("#Logo") dell’ombra del "dio" di turno (quale #AlessandroMagno di fronte a #Diogene di Sinope) di una "preistoria" di lunga durata.
SORGERE DELLA TERRA (#EARTHRISE): CONSIDERAZIONI IN-ATTUALI (2001). "Intorno a noi, la Terra, c’è il "cielo puro" e il "libero mare" - come scriveva Nietzsche, non ci sono gli extra-terrestri, che ci verranno a salvare o a distruggere. Gli extra-terrestri siamo noi! Cosa vogliamo fare? Forse ci conviene deporre le armi e cominciare a dialogare in spirito di verità" (Cfr. Federico La Sala, "L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, Karol Wojtyla e, p. c., a Nelson Mandela)", Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, p. 48).
PSICOANALISI E LETTERATURA: UNA "STRAORDINARIA" IDEA DI DANTE ALIGHIERI.
SEGUIRE LACAN, PER IMPARE A RI-LEGGERE LA "DIVINA TRAGEDIA".
QUANDO L’INTERA CULTURA ACCADEMICA (LAICA E RELIGIOSA), ANCORA E PER LO PIU’, NAVIGA NELL’ORIZZONTE (v. allegato) DEL "SAPIENTE" (1510) DI BOVILLUS, IN UN ANDROCENTRISMO CHE IGNORA ADDIRITTURA "COME NASCONO I BAMBINI", E’ SEMPLICEMENTE "PANE QUOTIDIANO" LEGGERE DELLA SEGUENTE OPINIONE, TEORICAMENTE "DIMOSTRATA", SULLA VITA DELL’AUTORE DELLA "DIVINA COMMEDIA":
DOPO 700 ANNI E OLTRE DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, COME NON SI PUO’ NON CONTINUARE A DESIDERARE (VIVERE, SOGNARE E RAGIONARE) IN UN MARE DI "TRAGICHE" ED "EDIPICHE" PREMESSE E, NEL CONTEMPO, A PORTARE LO SVILUPPO DEL "MARCIO NELLO "STATO DI DANIMARCA" (SHAKESPEARE, "AMLETO") OLTRE OGNI LIMITE?!
"COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (SIGMUND FREUD, 1937). Contrariamente a quanto la scuola "platonica" di Lacan sostiene, a ben riflettere, non è "un amore senza desiderio [che] è un amore morto", ma è un desiderio ("Eros", "cieco" e "saettante", violento) senza amore ("grazia") che è un desiderio morto: #apriregliocchi, e #amare "sé come un altro", alla luce del sole (e del "padre" e della "madre"), è vietato, come dinanzi a un "padre" edipicamente #morto (#Freud, in movimento autoanalitico, insegna).
UNA "CADUTA" NELLA "PREISTORIA". Solo una "bella" storiografia e, altrettanto, una "bella" #filologia, segnate da un comune e profondo #sonnodogmatico (#Kant), probabilmente, hanno potuto rendere possibile il permanere di questa concezione tragica del desiderio e ri-consegnare la #Commedia di #Dante #Alighieri nella mani di #Socrate e #Platone e "costringere" a ri-leggerla come una "divina tragedia"!
NOTA. Sul tema, per eventuali approfondimenti, si cfr. Federico La Sala, «La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia"», «il dialogo», 2007 ).
RIPENSARE LA "LETTURA DANTESCA E LETTURA UMANISTICA NELL’IDEA DI IMPERO" DI MERCURINO GATTINARA PROPOSTA DA GIUSEPPE GALASSO, RICONSIDERANDO CON ATTENZIONE IL CLIMA TEOLOGICO POLITICO E SOCIALE DELLA NAPOLI E DELLA SALERNO ALL’EPOCA DEL PRINCIPE FERRANTE SANSEVERINO:
A) RICONSIDERARE LA FIGURA DI FERRANTE SANSEVERINO.
B) RIPRENDERE E RIPENSARE L’ANALISI DELLA "Lettura dantesca e lettura umanistica nell’idea di impero del Gattinara" DI GIUSEPPE GALASSO:
"«L’ideale imperiale» del Gattinara -affermó il Brandi- «non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante». II giudizio del Brandi merita una considerazione particolare. E noto che la svolta fondamentale negli studi sul cancelliere di Carlo V è stata segnata dalle ricerche e dai lavori di Carlo Bornate tra la fine del secolo xix e i primi decenni del secolo xx. E anche noto, pero, che «i risultati del Bornate sarebbero passati inosservati, se non fosse stato per le ricerche di Karl Brandi, due decennii dopo, nella preparazione del suo grande studio su Carlo V», il cui primo volume apparve nel 1937 e il secondo, contenente appunto, con le note al primo volume, gli esiti di quelle ricerche, nel 1941. Eppure, l’importanza del Gattinara nell’ entourage di Carlo V fu ben nota agli stessi contemporanei’’. Sarebbe di grande interesse spiegare l’oblio al quale la sua figura storica appare consegnata fino a che, da Bornate e Brandi in poi, egli è riemerso come un punto di riferimento fondamentale nella storiografia su Carlo V per gli anni ’20 del lungo regno dell’Imperatore’. Qui noi ci vogliamo, pero, fermare piuttosto sull’idea di impero, per la quale si ha un consenso generale degli studiosi nel vedere in essa uno dei motivi piü importanti, se non proprio il piú importante, della sua influenza su Carlo V. [...]
[...] attraverso un’acuta riflessione sul mutare delle circostanze secondo il corso degli eventi; é nella centralita della posizione dinastica asburgica, perno di quella tradizione; che Gattinara maturo le convinzioni e le posizioni per cui esercitò su Carlo V, specialmente in alcuni momenti o su alcuni problemi, un’influenza notevole.
Ben poco c’entra, come si è visto, l’idea imperiale di Dante; e ben poco anche
l’Umanesimo, erasmiano o non erasmiano che fosse. Molto, invece, c’entrava il tipo di cultura giuridico-amministrativa, che fu suo; e molto anche O rápido assorbimento dei principii e delle spinte dell’ideologia e della politica asburgica: una restaurazione della maestà imperiale in tutto ñ suo prestigio, vigore, ampiezza, specialmente dacché, grazie ai matrimoni borgognoni e iberici, «la potenza mondiale della casa offriva a questeaspirazioni di dominio sopranazíonale una base moderna e concreta». Ed è, quindi, alla luce di queste considerazíoní che vanno letti anche gli indirizzi di politica italiana e imperiale di cui il Gattinara si fece interprete e propose all’attenzione del suo Imperatore, sulla base di valutazioni molto più realistiche, modeme, pregne di «ragion di
stato» e di Real-politik e molto meno ideologiche e volte al passato di quanto molti studiosi ancora ritengono. " (cfr. G. Galasso, "Lettura dantesca e lettura umanistica nell’idea di impero del Gattinara", pp. 93-114, - ripresa parziale, senza note).
C) RILEGGERE LA MONARCHIA DI DANTE ALIGHIERI, FOCALIZZANDO L’ATTENZIONE SULLA DOTTRINA DEI "DUE SOLI", E, IN PARTICOLARE, SULLA LETTERA DI MERCURINO GATTINARA AD ERASMO DI ROTTERDAM DEL MARZO DEL 1527 PER SOLLECITARLO A PROMUOVERE UNA EDIZIONE DELL’OPERA DI DANTE (cfr. Enrico Castelli, "Machiavellismo e Cristianesimo", in: E. Castelli," I presupposti di una teologia della storia", Padova 1968, p. 217).
Federico La Sala
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO, E LA FILOSOFIA. UNA NOTA PER NON PERDERE DEFINITIVAMENTE LA BUSSOLA TRA I VARI CATTOLICISMI (ATEI E DEVOTI) E PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO", SULLA #HAMLETICA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA (#KANT, 1800).
IN VIAGGIO CON #ULISSE: "CONSIDERATE LA VOSTRA SEMENZA" (INF. XXVI, 118), "COME NASCONO I BAMBINI"?
L’ALLEANZA DI #FUOCO, L’AMORE, E LA "DIVINA COMMEDIA": UN SEGNAVIA PER USCIRE DALLA "PREISTORIA"! UNA NUOVA #ANTROPOLOGIA E UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA: "#MARIA" E "#GIUSEPPE" UGUALI DAVANTI A "DIO" (#AGAPE, #CHARITAS).
RIPARTIRE DAL "#PRESEPE" (#FRANCESCO DI #ASSISI, 1223).
L’AMORE DI "#DUE SOLI" (#DANTEALIGHIERI) E IL
BAMBINO: "ECCE #HOMO" (#CRISTOLOGIA).
NOTE:
FRANZ KAFKA, IL #BAMBINO DI PRAGA, E UNA "ARCHAICA" PREMESSA DI CIVILTÀ.
UNA NOTA di ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT2024), SULLO STORICO PRESENTE DELL’#EUROPA:
"[...] Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia. Milano,20.01.2001 d.C».
NOTE:
IL "SAPERE AUDE" (#ORAZIO), LE "FRUTTIFERE" OPERE DELL’IMPERATORE RODOLFO (ARCIMBOLDO), E LA "PACE PERPETUA" (#KANT): #ARTE, #LETTERATURA, TEOLOGIA-POLITICA E... "PARADISO PERDUTO" (JOHN #MILTON)?!
***
LA LUNGA ONDA DEL #RINASCIMENTO, IL SOGNO "UTOPICO" DEL GIARDINO, E IL "CORPO MISTICO" DELL’IMPERATORE RODOLFO II D’ASBURGO...
LA LEZIONE DI ARCIMBOLDO ( https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Arcimboldo ): UN GRANDE INVITO AD AVERE L’ORAZIANO (E KANTIANO) CORAGGIO DI ASSAGGIARE E A FARE UN BUON USO DELLA PROPRIA FACOLTÀ DI #GIUDIZIO.
NOTE:
QUALE "NESSO"* TRA IL MITO E LA STORIA DELL’EUROPA? UNA IPOTESI DI CHIARIMENTO A MARGINE DEI "SOGNI DI UN VISIONARIO CHARITI CON I SOGNI DELLA METAFISICA".
DEL #PIANETATERRA E DEL SUO BRILLANTECOLORE: IL #CORPOMISTICO DELL’#ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DI PLATONE E COSTANTINO (#NICEA 325-2025) BLOCCA DA MILLENNI LA #NAVIGAZIONE NELL’#OCEANOCELESTE (#KEPLERO, 1611) DEL #GALILEO #GALILEI "CHE HA VINTO" SIA SUL PIANO CELESTE SIA SUL PIANO TERRESTRE E, ancora oggi (#2giugno2024) RENDE DIFFICILE CAPIRE UN’ #ACCA E PORTARSI FUORI DALL’ORIZZONTE DI #MAMMONA ("CARITAS").
"COME NASCONO I BAMBINI": INCARNAZIONE (#MENSCHWERDUNG), ANTROPOLOGIA, E #FILOLOGIA. Riprendendo il filo della "#Charitas" di #GioacchinodaFiore e #DanteAlighieri, forse, è meglio uscire dal "letargo" (Par. XXXIII, 94), e con il #Boehme della "De incarnatione Verbi" riflettere sulla "Charis" (gr. #Xapis") e sul Cristogramma.
NOTA: IL "TRATTATO" DEL "MASTRILLO" (#MAASTRICT), E LA "DIRITTA VIA" (DANTE ALIGHIERI). L’amicizia e l’amore della parola sono decisivi e fondamentali: senza filologia non si va da nessuna parte e non si comprende più il #nesso tra il #prima e il #dopo, si dimentica che "in #principio era il #Logos", e tutti gli erculei esseri umana finiscono per indossare le camicie con il "logo" di #NESSunO.
DIVINA COMMEDIA. Rileggere i "Tre Moschettieri" con Beniamino Placido (1994)... per imparare a ben distinguere il "giglio" di "Milady" dal giglio della Firenze e di (Maria) Beatrice (di Dante Alighieri). *
IL GIGLIO DI MILADY
di Beniamino Placido ["la Repubblica", 8 settembre 1994] **
Ci sono delle buone ragioni per rileggere, d’ estate, I tre moschettieri? Certo che ce ne sono. Tanto per cominciare, non è poi mica così sicuro che l’ abbiamo veramente mai letto (e quindi tantomeno riletto). Non è improbabile che la nostra prima, appassionata ma approssimativa, conoscenza di quei personaggi sia avvenuta per merito (e demerito insieme) di qualche edizione per ragazzi. Dove la traduzione era abborracciata, la vicenda raccorciata, i nomi scarabocchiati male. Non è improbabile che tutto quel che sappiamo di Athos, Porthos, Aramis e d’ Artagnan, sia dovuto al cinema (il film di George Sidney e Gene Kelly, il film di Richard Lester) piuttosto che al romanzo di Dumas.
Il quale romanzo (seconda ragione per affrontarlo) fu pubblicato a puntate su Le Siècle giusto centocinquant’ anni fa: fra l’ undici marzo e l’ undici luglio del 1844. Abbiamo celebrato, ed onorato di scritti commemorativi, tanti anniversari letterari. Sembra giusto celebrare anche questo.
Tanto più (terza ragione) che di buona letteratura si tratta. Si dà il caso che l’ Editore Adelphi abbia ripubblicato quest’ anno La Poesia di Benedetto Croce. Dandoci modo di rileggere il giudizio che il severo, austero don Benedetto ebbe ad esprimere in proposito: "Da parte mia, non provo il rossore di cui altri sentirebbe inondato il volto nel dire che mi piacciono e giudico condotti con grande brio e spigliatezza i Trois mousquetaires di Alessandro Dumas padre. Ancora molti li leggono e li godono senza nessun’ offesa della poesia, ma nascondendo in seno il loro compiacimento come si fa per gli illeciti diletti, ed è bene incoraggiarli a deporre la loro falsa vergogna e il loro congiunto imbarazzo".
La quarta, la quinta, la sesta, l’ ennesima ragione (ci sono anche quelle) aspettano il loro turno, se mai verrà. Ma una ragione addizionale, e tuttavia fondamentale, per una lettura-rilettura estiva va esplicitata subito. Quest’ estate è stata molto calda. Insopportabilmente calda. Informatevene da chi è rimasto in città, voi che eravate invece ai monti o al mare: ve lo confermeranno.
Quando il termometro sfiora i quaranta gradi ci si fa furbi, bisogna pur sopravvivere. Si trova subito una scusa per mettere da parte i faticosi studi progettati, le serissime letture programmate in gennaio, e raccontare a se stessi: sai che ti dico? Adesso mi leggo o rileggo I tre moschettieri. Anche Benedetto Croce me ne dà il permesso.
Così ho fatto. L’ ho affrontato in una ottima edizione francese - peraltro anche economica, anche maneggevole - della "Pocket" (Parigi, 1993) dotata di tutto. Note, contronote, tavole cronologiche, indice dei luoghi, dei nomi, dei personaggi storici. Dossier fotografico e documentario.
Perché in francese? Intanto, per continuare a tentare di imparare quella lingua. In modo da essere in grado di chiedere senza arrossire: "Che cos’ è questo palazzo?" ("Qu’ est-ce que c’ est que cet édifice?") la prossima volta, a Parigi. E poi lo so per esperienza, che c’ è sempre un premio per chi si sobbarca alla fatica di leggere un libro nell’ originale. Per ricompensarti l’ autore - lusingato - ti offre una, due cose in più da capire.
Per esempio. Tutti lo sappiamo che al centro di questo romanzo ci sono loro quattro, i tre moschettieri Athos, Porthos, Aramis, più d’ Artagnan. E il Re Luigi XIII, quel Re fatuacchione, perennemente annoiato (grazie, non faceva niente tutto il giorno); e il Cardinale Richelieu; e la Regina Anna (fedele? infedele?); e il Duca di Buckingham; ed altre persone ancora.
Ma sappiamo che c’ è soprattutto lei, Milady. La seconda parte del romanzo ne è totalmente dominata. Lei l’ angelica (in apparenza) la perfida, la dolce, la seducente, la spietata, la crudele Milady. Degnamente interpretata da Lana Turner nel film di Sidney e Kelly, che è del 1948. Degnamente interpretata da Faye Dunaway nel film di Richard Lester, che è del 1975.
E’ lei che cerca di far morire tutti (quasi tutti) i personaggi maschili e femminili che le capitano fra le mani - dopo averli variamente sedotti - e quasi sempre ci riesce. E pensare che basta guardarle - con la dovuta ammirazione - le bellissime spalle per capire chi veramente è. Sulla spalla sinistra lei porta impresso a fuoco il marchio del disonore, il giglio di Francia. Che la qualifica - malgrado il fascino, le moine, le lusinghe - come una volgare delinquente.
Così per seicento e passa pagine. Finalmente, al capitolo sessantacinquesimo, quello che comincia con la frase proverbiale, celeberrima: "Era una notte buia e tempestosa" ("C’ était une nuit orageuse et sombre") eccola lì smascherata - finalmente! - e condannata, che sta per essere giustiziata sulle rive della Lys.
Ciò che a un italiano non dice niente. Si trattasse delle rive della Senna, sarebbe per noi assolutamente la stessa cosa.
Ma per un lettore francese, per un lettore del testo originale, in francese, no. Non è la stessa cosa. Perché in francese giglio si dice "lis" (scritto a volte anche "lys"). E questo suggerisce una corrispondenza che sa di contrappasso. Tu, marchiata dal giglio ("lis" o "lys") di Francia sulle rive della Lys dovrai morire, brutta mascalzona.
Corrispondenza rafforzata da alte ricorrenze foniche. Il boia incaricato dell’ esecuzione è il boia di Lilla. Il paese che deve attraversare per raggiungere il luogo dell’ esecuzione si chiama Lillers. E poi c’ è tutto un gioco sottilissimo organizzato intorno al verbo "flétrir" ("far appassire" e insieme "macchiare"); intorno al sostantivo "flétrissure" ("appassimento, avvizzimento", e insieme "marchio d’ infamia").
Come a dire: un giglio, tu? Ma tu sarai tutt’ al più un giglio avvizzito, appassito, maleodorante. Il tuo destino è quello di decomporti adesso, sulle rive della Lys. Un destino che è però anche una resa dei conti, una vendetta. Tutti i personaggi del romanzo, e insieme a loro tutti i lettori del medesimo, si vendicano della perfida donna che li ha tanto sedotti. Tanto insidiati. Che ha fatto morire l’ adorabile Constanza Bonacieux, fidanzata di d’ Artagnan. Che ha tentato di far fuori anche d’ Artagnan. Che ci ha - confessiamolo - sedotti e abbandonati (quando non ammazzati): tutti.
Dove si vede che Alessandro Dumas padre è qualcosa di più del romanziere divertente, spregiudicato (e superficiale?) presentato con benevolenza da Benedetto Croce. Non possiede brio e spigliatezza soltanto. Sa anche giocare con corrispondenze ed assonanze significative, in modo raffinato.
Di più: sa giocare - come nessun altro prima, nessun altro prima di lui - con un tema esplosivo, il tema della vendetta. Lo si vede ne Il Conte di Montecristo, scritto nello stesso periodo. Lo si vede ne I tre moschettieri. Di recente lo scrittore Sebastiano Vassalli ha sostenuto proprio su queste pagine (la Repubblica, 27 luglio 1994) che "Odio ergo sum". Che finché ci sarà odio, in questo mondo, ci sarà il romanzo. L’ odio soltanto? E’ sicuro che basti? Non ci vuole anche - per scrivere un romanzo o per raggiungere, da lettore, la pace dei sentimenti leggendolo - anche un certo appagamento dell’ odio, nella forma di una bella vendetta?
Il romanzo I tre moschettieri è una serie ininterrotta di vendette, dal principio alla fine. C’ è una vendetta ad ogni pagina. Ogni tanto, una esaltazione tutta esplicita della vendetta, definita qualche volta come "le plaisir des dieux", il piacere degli Dei. Addirittura.
Il piacere della vendetta - che alberghiamo dentro, evidentemente - è così intenso da consentire ad Alessandro Dumas un clamoroso colpo di mano, un gioco di prestigio spericolato: ai nostri danni. C’ è un momento, un momento cruciale del racconto in cui ci prende in giro, ci mena per il naso. Spudoratamente.
Ho cominciato a sospettarlo verso la fine. Quando più insistente si faceva la pressione del romanziere sul tema del giglio di Francia e sul gioco di parole fra "lis" e "Lys". Dev’ essere stato il caldo, che rende insofferenti e sospettosi. Dev’ essere stata l’ euforia estiva, che ti mette in testa l’ idea di un incontro sorprendente. Nel mio caso l’ idea di un incontro filologicamente sorprendente con un "luogo" testuale trascurato da altri. Che nessuno si spaventi. Si tratta di filologia estiva, stagionale. E provvisoria, come ho doverosamente avvertito nel precedente articolo dedicato alla biblica storia di Giuseppe (la Repubblica, 1 settembre 1994).
Ma tornate con me a metà del romanzo, al capitolo ventisettesimo. Ecco la svolta. Athos racconta a d’ Artagnan la storia tragica della sua vita. Non è mica nato moschettiere, lui. Lui era un gran nobile un tempo. Era il conte de La Fère. Un giorno nel villaggio che le sue proprietà dominavano si affacciò una fanciulla. Capelli biondi, occhi azzurri, ciglia e sopracciglia nere. Bellissima. Un angelo.
Tu mi capisci d’ Artagnan, avrei potuto averla senza sposarla, ero il signore del luogo; ma me ne innamorai perdutamente, volli sposarla. Quand’ ecco che una mattina, andando a caccia, lei cadde da cavallo e svenne. Corsi a soccorrerla, e siccome la vedevo in affanno le lacerai le vesti con la punta del pugnale, le scoprii una spalla e cosa mi apparve? Mi apparve, impresso sulla di lei spalla il marchio del disonore: il giglio di Francia. Quell’ angelo era un demonio; tu mi capisci, d’ Artagnan.
Stropicciatevi pure gli occhi. Rileggete ancora una volta, se lo ritenete necessario. Ma è proprio così. Dumas vuol darci ad intendere, per i suoi biechi interessi narrativi, che quel marito di nome Athos aveva bisogno dell’ incidente di caccia, della caduta da cavallo, della conseguente difficoltà respiratoria della moglie per guardarle - finalmente - le spalle e scoprire che cosa c’ era stampato sopra. E prima, non aveva avuto nessuna occasione di guardarle, di ammirarle (non oso dire: di toccarle) quelle spalle?
Da quel momento in poi è stata un’ estate di fuoco, nel vero senso del termine. Ho preso a tenzonare con i miei amici francesisti, ne conosco di giovani e bravissimi: e dunque, mi sapete spiegare come mai nessun lettore se ne accorge, se n’ è accorto? Siccome questi accalorati seminari di filologia si svolgevano generalmente intorno ad un tavolo di pizzeria, la sera, vi venivano implicate anche le mogli dei francesisti suddetti.
Che pudicamente suggerivano: forse a quel tempo le donne non si presentavano mai completamente svestite, nemmeno ai mariti. Specie le spalle, le coprivano sempre. E promettevano di interpellare - col dovuto tatto - le loro mamme, le nonne, le bisnonne, le trisavole. Le quali mandavano a dire, dopo qualche giorno, che ai loro tempi effettivamente era tutta un’ altra cosa, tutto un altro senso del pudore.
Suvvia, nonne bisnonne trisavole: nemmeno voi ce la contate giusta. E quando andava a ballare, Milady, anche lì con le spalle rigorosamente coperte? E quando faceva il bagno (ne avrà fatto qualcuno) sotto l’ occhio vigile della "femme de chambre" (o cameriera), e quando si vestiva con l’ aiuto della "femme de charge" (o guardarobiera) e quando si svestiva in compagnia della "suivante" (o dama di compagnia, confidente) e quando si faceva pettinare i lunghi capelli biondi dalla "coiffeuse" (o pettinatrice) nessuno, nessuna se ne accorgeva di quel marchio di infamia sulla spalla? Oltretutto, se il Re di Francia gliel’ aveva fatto imprimere addosso era perché facilmente si vedesse, e denunciasse la portatrice: com’ è che è così facile nasconderlo?
Credo che Alessandro Dumas lo sapesse, di avere la coda di paglia. Difatti in un capitolo successivo, il trentottesimo, prova a mettere le mani avanti. Quel fiore di giglio era - chissà, forse - quasi cancellato ("comme effacée") dagli strati di pomata ("les couches de pate") che Milady ci applicava sopra. Quasi cancellato, non proprio del tutto...
Niente da fare. A noi non la si fa, quando leggiamo i libri nell’ atmosfera irritata, sospettosa dell’ estate. Niente da fare. Al centro nevralgico de I tre moschettieri c’ è un vistoso buco logico, un sostanzioso ammanco di verosimiglianza narrativa.
Perché non ce ne accorgiamo? Perché non vogliamo accorgercene. Perché siamo troppo interessati alla storia, vogliamo che continui, malgrado tutto. Vogliamo goderci tutte le perfidie, tutte le diaboliche seduzioni di Milady, fingendo di detestarle. Vogliamo subito dopo, ma non tanto presto, liberarcene. Condannarla alla decapitazione sulle rive di quel fiume ("Lys") che porta il nome del giglio di Francia ("lis") stampato sulla sua sinistra spalla.
L’ autore lo sa. Ci conosce benissimo. "Hypocrite lecteur!" ci dice. So di poterti portare dove voglio, sfruttando le tue viltà, le tue debolezze. Per concludere, e per quanto mi riguarda: con queste letture, accompagnate da filologici sospetti, è stata una bella estate, malgrado tutto. Adesso mi propongo di continuare ad essere un lettore sospettoso anche d’ inverno. Se proprio è necessario, mi aiuterò alzando al massimo il riscaldamento di casa.
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ANTROPOLOGIA FILOLOGIA E PEDAGOGIA: "SAPERE AUDE!" (ORAZIO-KANT). Ripartire dalla Costituzione e dalle lezioni delle 21 "Moschettrici" dell’Assemblea Costituente: "Avere il coraggio di dire ai nostri giovani che sono tutti sovrani" (don Lorenzo Milani).
FILOLOGIA STORIOGRAFIA, E "VITA NUOVA": USCIRE DALL’INFERNO.
Premesso che la “donna mia” di “Tanto gentile” vale “signora” (del cuore)”, come è possibile continuare a pensare, oggi, anche dopo i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud), che Dante ami Beatrice, tradisca Gemma Donati, i figli, e la figlia Antonia, suor Beatrice?
Sul tema, si cfr. L’Arca dell’ Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech. La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”.Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
PER UNA PENTECOSTE IN UN PIANETA TERRA IN FIORE: COME NASCONO I BAMBINI (20MAGGIO2024).
ARTE IMMAGINAZIONE ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA...
"DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021). Flavio Piero Cuniberto, in una nota di commento all’opera di "Andrea Orcagna (e Jacopo di Cione), Pentecoste, 1362-1365; Firenze, Gallerie dell’Accademia" intitolata "La pentecoste fiorentina", scrive e sollecita a pensare:
Ma, una domanda (una "question" hamletica) sorge "spontanea", come mai nella tradizione iconografica dell’altro "Vas d’elezione" (dell’altro «strumento della scelta»), lo sposo di Maria ( la stessa Madre di Gesù e della Chiesa della intera "umanità", la nuova #Eva) quello con l’altro ramo del #giglio, quello "offerto dall’Arcangelo" proprio di colui che è il "Vero_giglio", il "Vir_gilio", l’Uomo ("Vir") con il ramo altrettanto fiorito, il #padre di #Gesù, quel "#Giuseppe", della "casa di Davide" ("de domo David"), e si parla solo del "Vas" paolino (Atti ap., IX, 15)?!
A che edipico gioco giochiamo? Non ha forse ragione #DanteAlighieri ("io non Enea, io non Paulo sono ") con la sua "Monarchia" dei #DueSoli, Shakespeare con il suo "Amleto, #Nietzsche con il suo "Zarathustra"?! E #Freud con la sua "Interpretazione dei sogni?! Jakob #Böhme, cosa pensava del tempo in cui allo #sposo sarà possibile finalmente incoronare la #sposa, non pensava a un nuovo "mondo #possibile", a un #sorgeredellaTerra (#Earthrise), e a #Gioacchino da Fiore - per "caso", per "#charitas"?
NOTE:
LA FINE DELL’ ERA "ICEBERGHIANA" E DEL #DESTINO DELLA #NECESSITA’ ( #ANANKE: #VICTORHUGO):
LO SCIOGLIMENTO DELL’ANDROCENTRICO #CORPOMISTICO DEL "RE DELL’UNIVERSO" E L’USCITA DALLA "#PREISTORIA" (K. #MARX) .
Una breve nota su una metafora "ghiacciata" e "agghiacciante"!
PSICOANALISI, #ANTROPOLOGIA, ED #ECOLOGIA: SOTTO LA #MONTAGNA (#BERG) DI #GHACCIO (#ICE), COSA C’E’ SE NON SOLO L’ ACQUA "SPORCA" E "RISCALDATA" DELLO STESSO CHIACCIO? Continuare ad usare l’ #iceberg, come metafora della coscienza della "specie" umana, non porta fuori dalla "diritta via" e impedisce di conoscere sé e, al contempo, che ciò che "galleggia" sull’oceano è solo la #testa, la #coscienza capovolta del luciferino Signore del #ghiaccio infernale, come aveva ben capito #Dante, nel momento stesso in cui con #Virgilio riesce ad attaccarsi al #vello di #Lucifero e venir fuori dalla #caverna in cui si era smarrito e da cui pensava di non poter più uscire? Non è forse meglio rimettere i piedi a terra (Inf. XXXIV, vv. 88-90: "Io levai li occhi e credetti vedere /Lucifero com’io l’avea lasciato, /e vidili le gambe in sù tenere") e rileggere non solo con Dante e Virgilio, ma anche con Maria Beatrice e Lucia il viaggio di ogni essere umano nello spazio-tempo cosmico in cui si svolge la #Commedia umana, la "divina Commedia"?
NOTA:
LA FESTA DELLA MAMMA, LA STORIA DELL’EUROPA, E IL "SAPERE AUDE!" (DI ORAZIO E DI KANT).
ANTROPOLOGIA, #LETTERATURA, E #STORIOGRAFIA: UNA INDICAZIONE DI JOHAN #HUIZINGA E UNA SOLLECITAZIONE A RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DAL 144O (#LORENZOVALLA), DAL 148O ("MARTIRI DI #OTRANTO") E DAL "6 GENNAIO 1482" (CHE "NON E’ PERO’ UN GIORNO CHE LA STORIA RICORDI ": #VICTOR #HUGO, "NOTRE-DAME DE PARIS").
J. HUIZINGA: "XVIII. L’ARTE NELLA VITA. La civiltà franco-borgognone del tardo Medioevo è generalmente nota oggigiorno per la sua arte, specialmente per la sua pittura. I fratelli Van Eyck, Ruggero van der Weyden e il Memlinc [Memling], insieme allo scultore Sluter, dominano nell’idea generale che noi ci facciamo di quell’epoca. Ma non fu sempre così. Cinquanta e più anni or sono , quando si scriveva ancora Hemlinc invece di Memlinc, il profano colto conosceva quell’epoca attraverso la storia [...] dall’Histoire des ducs de Bourgogne del De Barante, che si fondava su di essi. E forse per i più non era De Barante, bensì Victor Hugo a fornire, col suo Notre Dame de Paris, l’immagine di quei tempi." (J. Huizinga, "L’autunno del Medioevo", Introduzione di Eugenio Garin, Sansoni editore, I ed., Firenze 1940).
STORIA, FILOLOGIA, E FILOSOFIA: L’ OPERA INCOMPIUTA DELL’EUROPA E IL PERDURARE DEL "SONNO DOGMATICO"
Un piccolo invito "filologico" a riaprire la riflessione sulla domanda kantiana del "che cosa posso sapere?" e, possibilmente, cercare, mangiando sano e con gusto, di riprendere il cammino nell’#oceanoceleste (#Keplero, 1611)
SALUTE E SAPERE. L’aver dimenticato la lezione di Orazio ("Chi bene incomincia è già a metà dell’opera; risolviti a diventare saggio: incomincia [dimidium facti, qui coepit, habet: sàpere aude, incipe]") dice di una cosa terribile non solo a ogni persona e a ogni cittadino e a ogni cittadina della luminosa e solare Venosa (Basilicata, Potenza), ma dell’intera Europa (e del Pianeta Terra)!
ANTROPOLOGIA E PEDAGOGIA. "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" (FEUERBACH), A TUTTI I LIVELLI. Materialmente e spiritualmente, è un cosiddetto segreto di "Pulcinella. Il filosofo che fu chiamato pazzo" (Romeo De Maio, 1989), non si sa più nemmeno mangiare e, cosa ancora più grave, non sapendo nemmeno più assaporare e "as-saggiare", si ignora che cosa mangia e "che cosa" sia (diventato) il cosiddetto "uomo", antropologicamente!
COSTITUZIONE, "RAPPORTO SOCIALE DI #PRODUZIONE", E CIBO. Non solo a Casa, ma nelle Scuole e nelle Università e nelle Accademie (atee e devote), cosa insegnano, cosa danno da "mangiare": "Prendete e mangiate", ma che cosa?! Non è il caso di suonare le campane a martello, uscire dal letargo, e decidersi a riprendere lo studio della filologia e della letteratura e della #storia e della filosofia e ad affrontare i lavori dell’Incompiuta, del "Complesso della Santissima Trinità"?!
L’INNO ALLA GIOIA ("AN DIE FREUDE") E LA FILOLOGIA: KANT, SCHILLER, BEETHOVEN, "FREUD ... E" LACAN.
LA CULTURA EUROPEA, SIGMUND #FREUD, E L’INNO ALLA #GIOIA (F. #Schiller, "An die #Freude", 1785).
NEL "NOME DI FREUD", LA "PSICOANALISI" DEL «JOYOSO» JACQUES LACAN. Due brevi note a margine della seguente "dichiarazione":
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. A CHE GIOCO GIOCHIAMO?!
FREUD O LACAN? "SÀPERE AUDE" (ORAZIO - KANT). Nella ricorrenza del XXI Congresso Nazionale della Societa’ Psicoanalitica italiana, RICORDANDO ELVIO FACHINELLI (con le parole di Francesco Marchioro: "Spirito curioso, ironico, indipendente e analista non ortodosso denuncia con forza una sorta di «freudolente» uso della terapia e accusa la sua stessa istituzione di praticare una “psicoanalisi della risposta”, nel senso che si limita a «dare ragione all’esistente, razionalizzare le irrazionalità, tamponare i conflitti», offrire una terapia dell’adattamento invece di essere una psicoanalisi interrogante, capace di sollevare domande radicali sullo statuto del soggetto e la sua relazione alla Lebenswelt, al mondo della vita.": Altoadige.it, 22.12.2019), non è il caso di svegliarsi dal sonno dogmatico e riprendere il filo da Kant (1724-2024), dalla interpretazione dei "sogni di un visionario" (1766), e riprendere coraggiosamente a "servirsi della propria intelligenza ("1784), e, insieme, far un so critico della propria facoltà di giudizio, come ha fatto e sollecitato a fare in prima persona Michel Foucault nel 1984?
STORIA E LETTERATURA: LA "BEATA E #BELLA" DONNA DI #DANTEALIGHIERI, LA #DIVINACOMMEDIA, E LA #FILOLOGIA "ROMANZA_TA".
A #ONORE E #MEMORIA DI #FRANCISCO #RICO, UNA NOTA A MARGINE DI UNA SUA INTERVISTA, APPARSA NEL 2017 SU "INSULA EUROPEA" A CURA DI ROBERTA #ALVITI:
RIFLETTENDO "sul canone dei suoi autori e maestri" (come sollecita a fare Carlo Pulsoni), forse, non è il caso di rimeditare sull’ importante affermazione relativa a uno dei suoi "maestri, il grande Giuseppe #Billanovich, [che] diceva che cercando bene, si sarebbero trovate perfino le #lettere di #Dante a #Beatrice..." (cit.)?! A partire da questo #abbaglio storiografico di lunga durata sulla figura della "donna #beata e bella" (Inf. II, 53), non è ora di pensarci su e mettere in discussione il "buon senso" con cui da sempre è stata attinta l’acqua alla #fonte del #Boccaccio e del #Petrarca?! A 700 aanni e più dalla morte di Dante, è ancora "lecito" condividere filologicamente del petrarchista Marco #Santagata (cfr. "Le donne di Dante", Il Mulino, 2021) l’idea di una giovane "Beatrice", come un «#manichino senza corpo», messa a confronto di una "#Laura", «personaggio pieno, sfaccettato»?! Non è il caso di svegliarsi dal #sonnodogmatico e uscire dall’orizzonte infernale, con l’aiuto del saggio "#Virgilio" e della #Bella "Beatrice"?!
NOTA:
ARTE E STORIOGRAFIA: "IL POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO", UN MANIFESTO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DEL CATTOLICESIMO EUROPEO.
"Il Polittico dell’Agnello Mistico, o Polittico di #Gand, è un’opera monumentale di Jan van Eyck (e del misterioso Hubert van Eyck), dipinta tra il 1426 e il 1432 per la cattedrale di San Bavone a Gand, dove si trova tutt’oggi. Si tratta di un polittico apribile composto da dodici pannelli di legno di quercia, otto dei quali sono dipinti anche sul lato posteriore, in maniera da essere visibili quando il polittico è chiuso. La tecnica usata è la pittura a olio e le misure totali sono 375x258 cm da aperto. [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Polittico_dell%27Agnello_Mistico ):
Per una contestualizzazione di questo straordinario "testo", forse, è proprio necessario ri-#leggere il lavoro di Johan #Huizinga, "L’autunno del Medioevo" (Sansoni Editore, I ed. it. 1940): "Il desiderio di conoscere - egli scrive nella "Prefazione alla prima edizione dell’opera" del 1919 - un po’ meglio l’arte dei van Eyck e dei loro successori, in stretto rapporto colla vita di quel tempo, m’indusse a scrivere questo libro". Su quanto sia importante il risultato di tale sforzo, è bene ricordare gli anni della metà del Quattrocento con le sue tensioni riformistiche di tipo teologico-politico all’interno della Chiesa e i crescenti attacchi del mondo musulmano: del 1453 è la caduta di #Costantinopoli).
CORPO MISTICO DI #CRISTO. PER COGLIERE IL SENSO SIMBOLICO DEL #SACRIFICIO DELL’«AGNELLO MISTICO», occorre richiamare il tema (e il problema) delle #indulgenze (che darà il via alla #RiformaProtestante), e chiarire, con lo stesso Huizinga, "la dottrina del «thesaurus ecclesiae» o tesoro delle opere superogatorie di Cristo e dei santi. L’idea di tale tesoro, di cui è partecipe ogni credente, come membro del corpo mistico di Cristo, cioè della Chiesa, è molto antica, ma la dottrina che tali buone opere costituiscano una riserva inesauribile, che può essere distribuita dalla Chiesa e più precisamente dal papa, fa la sua comparsa solo nel secolo XIII. [...]. La dottrina si diffuse non senza opposizioni, finché trovò la sua perfetta enunciazione ed illustrazione nella bolla papale «Unigenitus» di Clemente VI nel 1343. In essa il tesoro è considerato come un capitale, che Cristo affidò a S. Pietro e ai suoi discepoli [...]".
NOTE:
"QUIS UT DEUS?". UNA NOTA SUL TEMA TEOLOGICO-POLITICO DEI "DUE CORPI DEL RE" - E I DUE CORPI DELLA #REGINA...
PLAUDENDO ALL’INIZIATIVA ANNUNCIATA DAL PROF. AURELIO MUSI ,
FORSE, è da pensare che sia opportuno riprendere la riflessione a tutti i livelli "sulla sovranità femminile: i due corpi sono quello fisico e quello politico" (Aurelio Musi) e, al contempo, ricordare il "caso" di Elisabetta I d’Inghilterra (e della #Riforma anglicana), e, unitariamente, considerare il #cruciverba e l’#enigmistica della #hamletica #question (#Shakespeare) del "#corpomistico" sia del #re (E. H. #Kantorowicz) sia della #regina (#AurelioMusi), e, quindi, non solo del corpo fisico, ma anche il #corpo teologico-politico.
"CHI E’ COME DIO?". Il problema, come aveva già capito e indicato Kantorowicz, è riprendere a riflettere sulla "#regalità #antropocentrica: #Dante" (così il titolo di un capitolo conclusivo del libro "I due corpi del re") e, possibilmente, tentare di uscire dalla caverna platonica e dall’orizzonte della #cosmoteandria logico-filosofica e teologico-politica del PianetaTerra.
MUSICA, #FILOSOFIA, E #COSMOLOGIA:
#KANT2024.
"Beethoven nomina Kant due volte nei Konversations-Hefte. Una volta con noncuranza là dove egli commenta la noia delle lezioni universitarie tenute dal filosofo kantiano Johann Gottfried Kiesewetter (1766-1819). Un’altra volta con forte commozione, citando senza commento ma con evidenza anche grafica: “La legge morale in noi, e il cielo stellato sopra di noi. Kant!!!“. [...]" (https://www.lvbeethoven.it/biografia08/ ).
NOTA:
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA E LA STORIA DELLA COSMOLOGIA E DELLA FILOSOFIA (#KANT2024): CON #DANTEALIGHIERI E #GALILEO #GALILEI, DALLA LUNA IL SORGERE DELLA TERRA:
INFANZIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA: USCIRE DALLA #CAVERNA DEL POLIFEMICO PLATONISMO DI SOCRATE E RICORDARE IL "SEGRETO" DEL VIAGGIO DI "ULISSE" ("#DIVINACOMMEDIA"):
ITACA, LE "ITACHE": L’#ODISSEA, LE "ODISSEE". Un piccolo passo del cammino della #coscienza terrestre sulla importanza di #storiciżżare il legame con il proprio #Sé, con la propria #Tradizione, e con il proprio Pianeta, con la propria "#Terra" - con le proprie "Itache", come precisa Konstantinos #Kavafis.
EARTHRISE
NOTA
LA "#STORIA" DEL "CAPROESPIATORIO" (RENE’ GIRARD): COME UN #ARIETE, UN #MONTONE, DIVENNE UN "CAPRONE".
PRIMAVERA2024, #21MARZO: UNA "NOTA" SULLE "COSE NASCOSTE SIN DALL’ORIGINE DELLA FONDAZIONE DEL MONDO" (Mt. 13, 35).
Ariete ♈️: #25marzo (#Dantedì). Considerando (e accogliendo) astrologicamente che da #oggi "il segno dell’Ariete, simbolo per eccellenza dell’#Equinozio di Primavera", è il #segno "che ci accompagnerà fino al 20 aprile, e che la sua "figura mitologica si collega al Dio primaverile che nelle varie culture poteva rappresentare colui che apre l’anno, colui che abita il bosco sacro, il guardiano del Ponte #Arcobaleno, colui che si sacrifica, ecc." e, ancora, che l’ Ariete "è un segno cardinale di fuoco, governato da #Marte e opposto al segno della #Bilancia" (#LeaCimino, "#Calendariopagano"), forse, è opportuno ricordare che l’Ariete ė una delle figure centrali della storia dell’immaginario occidentale, decisiva per la comprensione stessa non solo dell’importanza dell’ impresa di #Giasone alla ricerca del "Vello d’Oro", come della fuga di #Ulisse dall’antro di #Polifemo, ma anche e soprattutto della "Divina #Commedia" di #DanteAlighieri (e della stessa possibilità di uscita dall’orizzonte della tragedia e dall’inferno, a tutti i livelli).
ARCHEOLOGIA FILOLOGICA A E ANTROPOLOGICA. BENCHE’ SULLA IMPORTANZA DELLA FIGURA DELL’ARIETE SI SIA IN UNA CONFUSIONE "BESTIALE", E SI FACCIA FINTA DI NULLA, FORSE, VALE LA PENA PRENDERE ATTO DI UNA ELOQUENTE "RISPOSTA" DELL’ANTROPOLOGO RENE’ GIRARD.
Per Girard (ma così per tutte le storiche Accademie della tradizione culturale europea), un capro, un "capro espiatorio», non è altro che l’«#agnello di Dio», il #Figlio del "Padre Nostro":
"DISAGIO DELLA #CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929). René Girard confonde ’ciecamente’ i livelli e nega l’immortale acquisizione di Sigmund Freud. L’ "edipo completo" permette di capire la rivalità dei #fratelli (e delle #sorelle) e lo stesso messaggio evangelico, non viceversa. L’incomprensione della lezione di Freud spinge ad una cieca apologia del cattolicesimo costantiniano (#Nicea 325 - 2025): il #cristianesimo non è un cattolicismo... e in #Principio non c’era un #Logo (altrimenti, si cade e si ricade sempre e ancora tra le "braccia" del ’tragico’ #caprone)!
STORIA E IMMAGINARIO: GUGLIELMO IL CONQUISTATORE, NAPOLEONE (E IL #SOGNO DI #FREUD, ARRIVANDO IN #INGHILTERRA, DI SBARCARE A #PEVENSEY, 1938).
Arazzo di #Bayeux: "[...] L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito di varie pezze per una lunghezza totale di 68,30 metri, sino alla fine del XVIII secolo era conservato nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre ora è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant di Bayeux.
Nel 2007 l’#UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. [...].
Progettando l’invasione dell’Inghilterra, Napoleone lo volle a Parigi a fini di propaganda nel novembre 1803 [...].
il 6 dicembre 1803, nel pieno dei preparativi per l’invasione, su #Dover era apparso un luminoso corpo celeste (probabilmente un bolide) con traiettoria sud-nord, che consentiva paragoni benauguranti, ai fini della spedizione, con la #cometa apparsa nel 1066. L’arazzo tornò a Bayeux nel febbraio 1804, ormai noto a livello nazionale ed internazionale [...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Arazzo_di_Bayeux).
PSICOANALISI E #CRISTIANESIMO: #PAOLINISMO ("#ANDROLOGIA", "#VIROLOGIA", DEL "#CORPOMISTICO"). Freud scrive nell’estate-autunno del 1929 “Il disagio della civiltà”, in cui discute del senso del comandamento biblico “amerai il prossimo tuo come te stesso” ... e comprende anche, come precisa, che "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" ("Disagio della civiltà", 1929), ma non riesce ad andare oltre l’orizzonte della tragedia della polis tebana (e della biblica "caduta").
"KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE". Avendo mosso l’#Acheronte (con l’aiuto di Virgilio), Sigmund Freud riesce sì a venir fuori dall’inferno ma, sognando di essere Guglielmo il Conquistatore, a raggiungere Londra nel 1938 e a non sciogliere il #nodo della tradizione mosaica, cristiana, e romana, e, cum grano salis, a essere trascinato fino alla fine dalla corrente "acherontica" della tradizione faraonica, paolina, e costantiniana (#Nicea 325-2025):
CREATIVITÀ E SOCIETÀ: ARITMETICA, PSICHIATRIA, PSICOANALISI, E COSTITUZIONE (#Europa2024: #Francia)
Una "citazione" in #memoria di FRANCO BASAGLIA E DI FRANCA ONGARO:
"un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, "Donna", Enciclopedia, V, Einaudi, Torino 1978).
NOTE:
PENELOPE-IDEA E COMMEDIA: FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Con lo spirito dell’opera “The Penelopiad” di Margaret Atwood e della "Divina Commedia" di Dante Alighieri, un segnavia di uscita dall’orizzonte della tragedia...
#STORIAELETTERATURA. Data la immersione totale di tutta la cultura occidentale nell’immaginario dell’#Odissea, "étudier, très succinctement, la technique d’« écriture féminine » de Margaret Atwood, à travers son ouvrage «The Penelopiad» et plus précisément, à travers l’ironie dans son rapport aux «métamorphoses» apportées au texte de l’Odyssée d’Homère" (cfr. Rebecca Plewinski, "La technique d’«écriture féminine» de Margaret Atwood: l’exemple de The Penelopiad») che con mente "penelope-idea" sa catturare e aggiogare persone e popoli con il proprio "canto" e l’ esperienza tragica della sua "fenomenologia dello #spirito".
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA ("Earthrise"). Per #Dante, con l’aiuto del "padre" #Virgilio ("Eneide") su sollecitazione della "#bella e beata" #madre Beatrice (sollecitata a sua volta da Lucia, inviata da Maria, madre di Gesù "Cristo"), la "folle impresa" di uscire dalla "selva oscura" e ritrovare la "diritta via", con il vecchio "Ulisse" e con la vecchia "Penelope" sulle proprie spalle, è possibile: è l’amore che muove il sole e le altre stelle.
DANTEDI’, STORIA E LETTERATURA, E #FRANCOSTORIE:
LA "STORIA POSTALE", I #MESSAGGI DELLE #SIBILLE (#MICHELANGELO, "VOLTA DELLA #CAPPELLA SISTINA",1512), IL SERVIZIO POSTALE DELLA FAMIGLIA DI BERNARDO TASSO (1493-1569) E TORQUATO TASSO (1544-1595), E LA MEMORIA DI #ANTONIO ROSMINI ( #24MARZO 1797 - 1 LUGLIO 1855).
ACCOGLIENDO LA SOLLECITAZIONE A RICORDARE ANTONIO ROSMINI SERBATI "(#Rovereto 1797 - #Stresa 1855), sacerdote e filosofo vissuto nella prima metà dell’Ottocento", forse, è possibile far emergere e mettere in evidenza un legame stretto con la cultura dell’#Europa del #Cinquecento, la "storia postale" e gli avvii dell’impresa dei #Tasso: degno di nota è il fatto che la tesi di laurea di Rosmini è una breve dissertazione sulle Sibille->https://media.agiati.org/page/attachments/01-pag-09-patricia-salomoni-antonio-rosmini-lettore-e-traduttore-dei-classici.pdf] (1822).
#Dantedi #25marzo 2024: vista e considerata la presenza nella "Casa natale di Antonio Rosmini" della #SibillaCumana, è bene riannodare il filo tra Dante e Rosmini e non far disperdere "al vento ne le foglie levi [...] la sentenza di #Sibilla." (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, vv. 65-66).
EPOCALISSE: "APRIRE GLI OCCHI" (S. #FREUD, 1899), PER #CARITÀ! #FILOLOGIA E #ARCHITETTURA FILOSOFICA E ANTROPOLOGICA (#KANT2024).
#DANTEDI’, 25 MARZO 2024: UNA NOTA SULLA TRASVALUTAZIONE STORICA DELLA "VIOLENTA CARITÀ" ("VIOLENTAE CHARITATIS") DI RICCARDO DI SAN VITTORE.
STORIA E LETTERATURA. Nel bimillenario percorso planetario del #cattolicesimo romano (#Nicea 325-2025), la "#diritta via" (#Dante Alighieri) del filologico legame significante e significato tra il luogo dell’#amore e il luogo dell’#occhio ("Ubi amor, ibi oculus") è stata smarrita insieme con l’#acca ("h").
Incredibilmente, e inauditamente, l’amore, la #charitas dello stesso #Riccardo di San Vittore ("Riccardo /che a considerar fu più che #viro", più che uomo, come scrive Dante nel X del "Paradiso") è diventata la parola-chiave della teologia della ricchezza materiale e spirituale: la "caritas", senza più "h", senza più l’acca, è diventata semplicemente #Mammona, il dio ("#Deus #caritas est") dell’#economia mondiale, garante del "buon-andamento" del #carro delle borse e del #caro-prezzo del #mercato: la religione del #capitalismo, vecchio e nuovo (come aveva capito Karl #Marx, #WalterBenjamin, e, ovviamente, #DanteAlighieri).
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PACE PERPETUA" (#KANT2024):
A CHE #GIOGO GIOCHIAMO?! ANCORA ALLA "SPADA DI DAMOCLE"?!
RIPETIZIONE E DIFFERENZA: EUROPA 2024. Dopo millenni di #cosmoteandria, si ricorda ancora la lezione del vecchio dogmatico pro-ver-#dio "chi di spada ("gladio") ferisce, di spada ("gladio") perisce"?!
A quanto pare la filologia e la teologia-politica della #tragedia non sa nulla dell’#hamlet _ ica questione dell’#enigma (e della visione) del "#crepuscolo degli #idoli": «Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?».
Nonostante la sollecitazione dell’ #EcceHomo (#Nietzsche, 1888) si continua a non aver il coraggio di fare buon uso della propria facoltà di giudizio ("#Sàpere aude!", #Koenigsberg 1784/ #Kaliningrad 2024) nulla del "buon messaggio" (Matteo 26,52) e, l’anno prossimo, ci si appresta a celebrare, l’imperatore cosmoteandrico, il figlio del dio Mammona, #Costantino (Nicea, 325-2025)?!
Non è forse meglio, per il #Dantedì, per il #25marzo, rileggere la "divina commedia", la fenomenologia dello spirito dei due Soli e cercare di uscire dall’orizzonte della tragica #caduta nel luciferino #buconero?!
#DANTEALIGHIERI, LA #DIVINA COMMEDIA E L’#IMMAGINAZIONE SCIENTIFICA:
LA "#CADUTA" DI UNA "#STELLA", #LUCIFERO (Inf. XXXIV), E LA FORMAZIONE DI UN "BUCO NERO".
IL MULINO A VENTO DI LUCIFERO (iNF. XXXIV, 1-9):
STORIA E LETTERATURA ANTROPOLOGIA E "SAPERE AUDE!" (#KANT2024): CON #DANTEALIGHIERI, OLTRE I "#BUCHI NERI" E I "BUCHI BIANCHI".
DIVINA COMMEDIA: "ULISSE", SEGUENDO LA LINEA DELLA CADUTA DI LUCIFERO, ESCE FUORI DALL’IMBUTO DELL’ INFERNO TERRESTRE E RIPRENDE LA NAVIGAZIONE NELL’OCEANO CELESTE. Alcuni appunti sul tema...
COLLOCANDOSI "Dentro l’orizzonte" di Carlo Rovelli, contrariamente a quanto egli pensa, a ben interpretare il suo convincimento relativo al fatto che, "Dopo aver salito la montagna del Purgatorio Dante perde Virgilio [la paterna guida], ma in quello stesso momento, travolto dall’emozione, vede apparire Beatrice - conosco i segni de l’antica fiamma!" (C. Rovelli, "Buchi bianchi", Adelphi 2023, pp. 74-75 ), forse, è opportuno e precisare (dopo secoli) che "conosco i segni dell’antica fiamma!" (Pg. XXX, 48) sono parole di un figlio, Dante, rivolte alla sua paterna guida (vv. 50-52: "Virgilio, dolcissimo patre, /Virgilio a cui per mia salute die’mi; né quantunque perdeo l’antica matre"), nel momento stesso in cui riconosce la "#bella e #beata" (Inf. II, 53), #Beatrice, la guida materna, e "vola al di là dello spazio e del tempo" (C. Rovelli, cit., p. 75).
A questo punto, al di là di quanto generalmente si è pensato e si pensa ancora, è bene riconoscere che "i segni della fiamma antica" non rimandano affatto a una #Didone-Beatrice, ma, più precisamente, a "#Ulisse", "Lo maggior corno della fiamma antica" (Inf. XXVI, 1), che in questo caso, accompagnato dal padre, riconosce e ritrova "la antica matre" (Eva) e la nuova #madre, la giovane #Maria-Beatrice, e... Sé stesso, divenuto un #altro #Cristo - antropologicamente e cristianamente (al di là della teandrica logica di #BonifacioVIII)!
DANTE ALIGHIERI, Purgatorio, XXX, 55--57, 73-84:
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
[...]
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di subito ‘In te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.
(Dante Alighieri, Purg. XXX, vv. 55-57, 73-84)
L’ #ODISSEA DI DANTE ALIGHIERI. Nella loro indagine scientifica e antropologica, "Il #Mulino d’#Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo" (Adelphi 1983 e 2003), Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, hanno già detto parole fondamentali sull’inaudito legame "cosmoteandrico" (antropologico, cosmologico, e teologico) nella visione e nella "scelta esistenziale dell’uomo Alighieri. I poeti non sanno custodire la loro verità. Ulisse che si mette in viaggio verso sud-ovest in un ultimo, disperato tentativo predestinato dall’ordine delle cose al fallimento, che cerca di raggiungere «il mondo sanza gente» e viene inghiottito dal gorgo in vista della meta: eccolo il simbolo. Ed è rivelato non dal pensiero cosciente del poeta, ma dalla potenza degli stessi versi, così incomparabilmente remoti, come luce proveniente da un «oggetto quasistellare». [...] egli fu colui che volle fino all’ultimo, anche contro Dio, acquistare esperienza e conoscenza. La sua nobiltà luciferina rimane nella nostra memoria più della suprema armonia dei cori celesti" (op. cit.).
***
B) - NUOVI ORIZZONTI LETTERARI. Né realismo né fantasie. Allo scrittore piace farlo strano: "[...] Sperduti nella selva. Il ‘900 si apre con la confessione di Kafka a Milena. Questi vorrebbe solo posare la guancia nel conforto luminoso e rasserenante, ordinario offerto della mano dell’innamorata, eppure egli avverte anche il continuo oscuro richiamo alla “selva, a questa origine, a questa vera patria”. Impossibile per un lettore italiano e non solo evitare la suggestione dell’avvio immaginativo di un altro padre fondatore della letteratura moderna, 600 anni prima. Anche Dante aveva preso le mosse dalla “selva”, luogo del traviamento, dell’informe, declinazione continentale del mare oscuro per generazioni di europei, passaggio di tutte le “incertezze della ioventude”, nelle sue stesse parole, ma anche luogo iniziatico delle avventure cavalleresche, dei loro bivi e sentieri ambigui. E, ovviamente, incipit di innumerevoli fiabe.
L’intera “Commedia” è una sorta di potatura, che per giungere alla purezza della Candida Rosa deve passare da un Giardino dell’Eden laddove Dante capisce che in fondo la selva era lui stesso (Purg. XXX, 118-20). Ma il carattere di sperimentazione e ibridazione permangono fino all’ultimo verso, nella sua perenne fusione di realismo, fantastico, teologia della storia, “quest” eroica, memoir proustiano e itinerario mistico-visionario. Un’operazione sperimentale, spiazzante persino a quei tempi. In essa è possibile ravvisare semi e fermenti che poi, al pari delle sentenze della Sibilla, si sparpagliano al vento, e ognuno afferra quel che riesce.
Per C. S. Lewis la scalata di Lucifero e l’inversione dei poli al centro della terra costituiva la prima grande scena di fantascienza dell’era moderna, secoli prima di Jules Verne. Col senno di poi, la foresta attorta e sanguinante dei suicidi di Inferno XII ove le Arpie “versi fanno in su li alberi strani”, con tutta l’ambiguità di quello “strano” che sembra riferirsi tanto alle strida che ai rami, pare davvero condensare tutte le bizzarrie biologiche dell’Area X del lovecraftiano Jeff Vandermeer. Petrarca non solo rifiuterà un simile coacervo di sperimentazioni e fusioni ma compirà un’opzione, urlare i suoi gabbiani dei circoli polari con voce sinistra, umana. “Tekeli-lì, Tekeli-lì.” E sarà proprio quel grido a essere ripreso dal suo erede H. P. Lovecraft per tratteggiare la propria mitologia d’orrore cosmico su “Weird Tales”.
[...]
La guerra tra fantastico e realistico è finita, o è cambiata. Siamo tornati nella Selva, tra rami spezzati, fruscii, minacce, fantasmi soccorritori che ci tengono forse la mano e propongono “un altro viaggio”. E molti sentono che per raccontarlo occorre non essere semplicemente ciechi e per questo poeti, come già il gran padre Omero, ma pure “uomo e donna” come Tiresia il veggente, abbattere così ogni steccato, rifiutare persino la dialettica feconda tra opposizioni, giacché “ogni vera conoscenza è sempre un sacrilegio”. È così che Nietzsche descrisse la dolorosa vocazione di Prometeo ed Edipo." (EDOARDO #RIALTI, "Il Foglio", 02 mag. 2023).
RECENSIONE
La lezione di Dante nell’Epistola a Cangrande: Ci vuole audacia per scalare la Commedia
Una nuova edizione critica della lettera con cui il poeta dedica il Paradiso allo Scaligero riaccende il dibattito critico È una dichiarazione di poetica, un’introduzione, ma anche il memoriale difensivo proprio di un momento di crisi
DI EDOARDO RIALTI (La Stampa, 17 febbraio 2014)
«Il nostro problema sta nel fatto che non abbiamo ancora narrazioni pronte non solo per il futuro, ma nemmeno per l’oggi concreto, per le trasformazioni ultrarapide del mondo di oggi. Mancano il linguaggio, mancano i punti di vista, le metafore, i miti e le nuove favole. In una parola, ci mancano nuovi modi di raccontare il mondo». Sono le parole di Olga Tokarczuk al conferimento del Nobel da cui forse è possibile prendere le mosse per riflettere sull’unicità e la rilevanza di Dante per le sfide della scrittura oggi, sollecitati anche dall’edizione monografica della sua Epistola a Cangrande (Antenore), a cura di Luca Azzetta. Montale definì quanto ottenuto dall’Alighieri l’ultimo miracolo della poesia, e magari aveva ragione nel sancirne l’irrepetibilità. Il recente centenario ha visto iniziative, convegni, pubblicazioni, e ciò resta giusto e doveroso, sebbene talvolta insidiato dal tarlo della retorica monumentale che sigilla una voce in catafalco o la riduce a marchio d’esportazione. Dante funziona sempre, notava Paolo Poli, come il nero, sfila e fa fare bella figura. Resta tuttavia un salto tra scrivere bene e scrivere davvero di qualcosa, così come tra il leggere bene e il leggerlo davvero. Prendi e mangia, intimava l’angelo dell’Apocalisse a Giovanni porgendogli un libro. Poesia e visione si accolgono con le viscere, permettendole di impattare i nodi più profondi e oscuri della nostra attuale posizione sulla terra. È proprio la capacità di Dante di coinvolgerci ancora in un sogno collettivo - un inconscio più antico del linguaggio stesso, nelle parole di McCarthy, riesponendoci a una capacità penetrativa del presente storico e concreto, particolare, che consente al contempo di proferire i verbi del futuro - a mettere in discussione l’asfissia di tanta scrittura e comunicazione, in pendolo perenne tra l’egotismo rattrappito di un io superficiale - dal narcisismo scriviamo per diventare ancora più narcisisti - e le narrazioni massificanti di qualche noi partitico, ottuso e violento. Il tutto in una prospettiva comunitaria ridotta a mera sopravvivenza, dove l’unico valzer ballabile resta quello del consumismo rapace e l’autorevolezza è stata barattata con la visibilità.
La lupa dell’avidità dopo ogni pasto ha più fame di prima. Rispetto a questo ricatto Dante sa ancora mostrare cosa vuol dire tatuarsi l’anima, come ha dichiarato Mircea Cartarescu, sfidarci a un diverso modo di vedere, e quindi di scrivere, l’io e il noi saldati fin dai primi due versi dell’Inferno. Nostra vita... mi ritrovai... Forse quella porta rimane sbarrata alle nostre spalle, ciò che l’ha consentita resta effettivamente inaccessibile. Pure, tornando a fissare quanto non può essere ripetuto, possiamo comunque attingere forze ed enzimi per esprimerlo in altro modo.
Si deve dunque sottolineare l’importanza d’una nuova pubblicazione monografica di un testo così decisivo, in cui l’autore medesimo - e che autore - fornisce categorie e appigli su come poterlo scalare, in quale relazione porsi con l’esperienza della Commedia - con ampia introduzione e commento a ripercorrere il dibattito sulla controversa attribuzione e illustrare i rapporti dell’epistola al signore di Verona con la precedente e coeva ars dictandi delle dediche, e le circostanze contingenti che indussero Dante a offrire questa introductio operis, questa chiave per schiudere la Commedia che è anche «un memoriale difensivo proprio di un momento di crisi», negli ultimi anni dell’esilio e del lavoro al poema che ha fatto macro e grigio il poeta.
Ma tutto ciò resta in fondo per tornare a fronteggiare «una sconcertante dichiarazione di poetica» in virtù della quale Dante stesso ci chiede di leggerlo «con un’audacia che non ha riscontro in alcuno degli antichi esegeti» come faremmo con la Bibbia o il Maharabatha, secondo quattro sensi che vanno dal letterale all’anagogico, come un prisma che si rigiri tra le mani e resti lo stesso nelle sue varie sfaccettature. In una clamorosa declinazione laica, storica e in italiano volgare dell’esperienza visionaria e profetica di Paolo, degli apostoli con Cristo e delle invettive di Ezechiele sulla corruzione di preti e politici - «finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis».
Trasportare, strappare i lettori dalla miseria e condurli, nuovo Mosè, alla felicità stessa. In questa vita - hac vita, non dopo. Forse non c’è davvero più stata una così radicale fiducia nel valore trasformativo dell’esperienza poetica. Che si creda o no all’eternità dell’anima e nel giudizio di Dio, resta l’interrogativo su quale sia il fondamento che ci possa consentire di mettere in discussione realtà e società, realizzando opere capaci di abbracciare gli affanni e gli struggimenti delle esistenze altrui. Come constatò una mia studentessa messicana all’università «Sembra che Dante abbia sempre saputo che lo avremmo letto a secoli di distanza».
STORIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA E IL NEPOTISMO DEL CATTOLICESIMO DELL’ETA’ MODERNA.
IL CATTOLICESIMO "COSTANTINIANO" (NICEA, 325-2025) E L’INDICAZIONE "ERETICA" DI #DANTEALIGHIERI: PARTENDO DALLA RICERCA SU "Le donne dei papi in età moderna. Un altro sguardo sul nepotismo (1492-1655)" di Maria Antonietta Visceglia (Viella Editrice, Roma 2023), FORSE, SI PUO’ OSSERVARE MEGLIO LA RADICALE SVOLTA "COSTANTINIANA" DELLA VITA DELLO "STATO" DELLA CHIESA CATTOLICA, GIA’ E SUBITO PRIMA DELLA #CADUTA DI #COSTANTINOPOLI (1453) IN MANO TURCA, CON IL SINTOMATICO PASSAGGIO DI NICCOLO’ #CUSANO ( L’AUTORE DIVENTATO CARDINALE, PER I MERITI DELLA POCO EVANGELICA "DOTTA IGNORANZA" DEL 1440 E DELLA "PACE DELLA #FEDE" DEL 1453) DA SOSTENITORE DEL "PARTITO" DELLA SOVRANITA’ DEL #CONCILIO A SOSTENITORE DEL POTERE SUPREMO DEL #PAPA, E, NELLO STESSO TEMPO, CON IL SILENZIAMENTO E LA NEUTRALIZZAZIONE DEL LAVORO CRITICO DI LORENZO VALLA SULLA FALSA "DONAZIONE DI COSTANTINO" (1440).
ALL’INTERNO DI QUESTO ORIZZONTE, MIO PARERE, SI COMPRENDE MEGLIO LA SPECULARE LOTTA DELLO STATO DELLA CHIESA CON LO STATO DELLA SPAGNA (DOPO LA RICONQUISTA DI #GRANADA, 1492) PER L’EGEMONIA TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA; E, UNITARIAMENTE, L’INCAPACITA’ AD ACCOGLIERE LA "INAUDITA" ED "ERETICA" INDICAZIONE DELLA "#MONARCHIA" DEI "#DUESOLI" DI DANTE ALIGHIERI E, INFINE, LE SUCCESSIVE SOLLECITAZIONI TEOLOGICHE E ANTROPOLOGICHE DELLA #RIFORMA PROTESTANTE (1517) PRIMA E DELLA RIFORMA ANGLICANA (1534) POI, ECC.
DANTE ALIGHIERI E MERCURINO ARBORIO DI GATTINARA. Sul tema, è bene ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di #KarlBrandi che, a conclusione della sua "lettura" della biografia di "Carlo V" (1935), rievoca (con le seguenti testuali parole) la figura del "gran cancelliere Mercurino di Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità" (Einaudi, Torino 2001); e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante" (Einaudi, Torino 2012).
P. S. - #MACHIAVELLI CON DANTE ALIGHIERI CONTRO IL #FAMILISMO TEOLOGICO-POLITICO. NICCOLO’ MACHIAVELLI, “DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO”:
"Della religione de’ Romani. (...) gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d’uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:
Non è, adunque, la salute di una republica o d’uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l’ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. (...)" (“DISCORSI”, Libro I, cap. XI).
TEATRO E METATEATRO DEL DRAMMA STORICO D’EUROPA:
"AMLETO", LA TRAPPOLA PER TOPI ("THE MOUSETRAP"), "A TALE OF FOUR GERTRUDES", E LA MEMORIA DI SANTA GERTRUDE DI NiVELLES.
Una nota a commento della "Part 30 (Interlude/Prelude): A Tale of Four Gertrudes" del lavoro in corso di Paul Adrian Fried (February 06, 2024)
TEATRO E METATEATRO: MEMORIA DI SANTA GERTRUDE DI NIVELLES.
UNA DOMANDA:
MA DALLE TANTE INTERPRETAZIONI DELLA #HAMLETICA FIGURA DI GERTRUDE, NON NE EMERGE ALCUNA CHE PONGA L’ACCENTO SUL TEMA DEI TOPI E SULLA FIGURA DI SANTA GERTRUDE DI NIVELLES? "Eccola assalita dai topi neri, uno dei quali le morde un orecchio. Così appare Gertrude in un’illustrazione del XVI secolo che fa senso, ma che testimonia una singolare tradizione: Gertrude è stata a lungo venerata come protettrice contro le invasioni di topi. La narrazione, priva di base storica, è tuttavia segno dell’ammirazione che l’ha sempre accompagnata." (https://www.santiebeati.it/dettaglio/45800).
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, "RELIGIONE DEL DOVERE", E "DIVINA COMMEDIA":
BENEDETTO CROCE E LA PUNTA FILOSOFICA DI UN ICEBERG COSMOTEANDRICO.
Sul "lascito morale di Benedetto Croce", forse, è opportuno ricordare storiograficamente (filologicamente e antropologicamente) che "la lingua batte dove il dente duole": può essere condivisibile, oggi, la considerazione che “ciò che si richiede e che si ubbidisca ad una necessità morale. La quale comanda che si attenda con ogni rischio, a tutelare gli umani valori e le umane virtù, il rispetto della personalità, il dir no al male e sì al bene, ciò che si chiama insomma il culto della libertà; la quale è il principio direttivo a cui sempre deve si deve far ricorso. Quale che sia lo schema di ciò verso cui il mondo va, quello schema sarà riempito da uomini e sarà reale solo nei pensieri, nei sentimenti e negli atti degli uomini, e avrà quella realtà che essi gli daranno, e tanto migliore quanto migliori quegli uomini. Non vi date dunque pensiero di dove vada il mondo, ma dove bisogna che andiate voi, per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi di voi stessi” (cfr. Tito Lucrezio Rizzo, "Il lascito morale di Benedetto Croce", L’Opinione delle Libertà, 08 febbraio 2024)?!
All’interno dell’attuale presente storico (dell’Europa del 2024), proprio per non vergognarsi di sé e ri-accogliere come indicazione antropologica piena l’affermazione che «L’uomo morale - affermerà nuovamente il #Croce - è il "Vir bonus agendi peritus", chiamato ad operare nel quotidiano sorretto da una retta #coscienza che ne ispirava l’agire concreto, perseguendo i fini di utilità generale da raggiungere e di cui farsi strumento» (T. L. Rizzo, cit.), non è , forse, necessario re-interrogarsi e re-interpretare il rapporto tra la tradizione greco-romana e la tradizione cristiana (con spirito critico, con le famose "virgolette" crociane, del saggio del 1942), proprio a partire da questa "ovvia" (ma indebita) generalizzazione, in cui l’uomo (#Vir) vale immediatamente come l’Uomo (#Homo), come il #genereumano nella sua totalità (cioè, per l’#uomo e per la #donna, per "Adamo ed Eva", e per "Giuseppe e Maria")?
Non è bene riprendere il filo almeno dalla "Divina Commedia" e reinterrogarsi non solo sul significato della lezione di #Beatrice a #Dante sul senso di quel "sarai meco sanza fine cive / di quella #Roma onde #Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102), ma anche sul "Tu devi" kantiano, sul problema dell’imperativo categorico di Immanuel Kant, se si vuole vivere secondo Coscienza, cioè secondo la Costituzione della Repubblica italiana?
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, ARCHEOLOGIA, E #FILOLOGIA (PROTAGORA: "L’UOMO E’ LA #MISURA" ), FILOSOFIA TEOLOGIA E DEMIURGIA (PLATONE: #ZEUS, "IL DIO E’ LA MISURA"), E LA LOGICA DELLA COSMOTEANDRIA DELL’ #OCCIDENTE...
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. Quando la filologia è in #letargo (Par. XXXIII, 94), perso il senso stesso del #principio antropologico e cosmologico di tutte le cose come di tutti gli esseri umani ("arché"), anche la possibilità filosofica di comprendere la semplice massima del sapiente #Pittaco di Mitilene viene meno:
quando "uno dei due" dei componenti del "genere umano" assume il comando dell’uno e dell’#altro componente, mostra chiaramente la sua parzialità andrologica e androcentrica e, al contempo, permette di comprendere il trucco dell’operazione "zeus_ica" del demiurgo platonico e le radici stesse della teologia-politica costantiniana (Nicea 325) della in-segnatura rinascimenale della "Scuola di Atene" e del "Sapiente" di #Bovillus (1510).
LINGUISTICA STORIOGRAFIA E PSICOANALISI:
RIFLETTENDO sul #nodo etimologico di #cuore e #cardine (in connessione con l’ #hamlet-ico tempo di #Shakespeare, "fuori dai cardini"), la memoria ha richiamato l’attenzione su una #immagine (qui, v. allegato) che continua a "#parlare" di un problematico #letargo di secoli (quantomeno a partire da #LorenzoValla, 1440), di uno strano "lapsus" storico e storiografico sul tema dell’#Amore per eccellenza: la #Carità, la #Charitas (gr. "#Xapitas"), e sulla famosa e falsa "donazione di Costantino".
IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS: CHARITAS (AMORE). Questa parola-chiave, la "password" del "regno dei cieli", è diventata nel tempo la Carità - #elemosina, la #Caritas (fatta derivare dal lat. "carus", "caro") e così, persa la "h" (l’#acca), anche in lingua greca (v. allegato) è diventata (addirittura) "#Kapitas" ( "Karitas").
"RIPENSARE #COSTANTINO"? NO! #DANTE2021? NO! RICORDARE L’ANNIVERSARIO DI #NICEA 325, 2025!
OVVIAMENTE, così permanendo e stando le cose in tutte le Università e le Accademie del #PianetaTerra (con la loro forte segnatura culturale di epoca "rinascimentale"), il "sonno dogmatico" continua a tutti i livelli, sul piano non solo etimologico, ma filologico, antropologico, teologico e politico.
COSMOLOGIA #ARTE #ANTROPOLOGIA E DIVINA COMMEDIA: MEMORIA DELLO "SPOSALIZIO DI GIUSEPPE E MARIA" (#23GENNAIO) E UN "VECCHIO" INVITO AD ACCOGLIERE IL "MORMORIO SOTTILE" DELL’OPERA DI DANTE ALIGHIERI.
STORIA E LETTERATURA: #RICAPITOLAZIONE E #POESIA. Dopo le sollecitazioni "#cosmicomiche" (#ItaloCalvino) di #DanteAlighieri a uscire dal "#letargo" (Par. XXXIII, 94), forse, è proprio il tempo di riaprire la #Commedia e non rinchiuderla per sempre nell’orizzonte del "#Boccaccio" e del "#Petrarca"; e, togliendo le virgolette al "Perché non possiamo non dirci «cristiani»"(Benedetto Croce, 1942), comprendere antropologicamente, che, come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO": e, riprendere proprio quel filo perduto (quel "#paradigma perduto") che collega benevolmente e cosmologicamente il passato e il presente, l’alto e il basso, il sopra e il sotto, e #cielo e la #terra: in principio era il #Logos...
#FILOLOGIA E #AMORE (#CHARITAS), NON #MAMMONA (#CARITAS)! Dante non "cantò i #mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore "che muove il Sole e le altre stelle".
NOTE:
PER L’ EPIFANIA 2025 : ALCUNE NOTE SULLA "STORIA NOTTURNA" DELLA TRAGICA FIGURA DEL "GIOCASTOLAIO" (EDIPO) DEI MAGI.
STORIA E LETTERATURA E PSICOANALISI. Memoria di un evento epocale: i Magi erano sapienti e sapevano distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone (#Erode). Ma, oggi, dove sono i Magi?
Archeologia e Storiografia. Dopo papa Gregorio I, detto papa Gregorio Magno (Roma, 12 marzo 604), e dopo papa Bonifacio IV e l’imperatore bizantino Foca (609), alla "altezza" del tempo storico del "sarcofago dell’esarca Isacco (625 - 643 d.C.)", a quanto appare epifanicamente (oggi, 6 gennaio 2024), era già in grande diffusione e costruzione la ideologia costantiniana imperiale (con le sue radici paoline) della figura della "Theotókos" (Concilio di Efeso, 431), della immagine della "Madre di Dio", la Madre del Dio - Figlio (#Imperatore - Cristo), fino a portare con san Bernardo di Chiaravalle (come scriverà Dante) a celebrare la "Vergine Madre, figlia del tuo figlio" (Par. XXXIII, 1), e a mettere "fuori campo", anzi "dalla porta", la stessa figura di #Giuseppe (#padre di Gesù, il discendente "de domo David"): il passo è costante e troverà - al di là del presepe di Francesco e dello spirito di #Assisi (Greccio, 1223) e nella messa all’indice come eretica della "Monarchia" di Dante Alighieri (con la sua teoria dei "#dueSoli") - una sollecitazione decisiva nell’opera papa francescano #SistoIV della Rovere (intorno al 1477), nella costruzione della #CappellaSistina, il cammino prosegue, arriva fino ad oggi (Epifania 2024), ed oltre - alla prossima tappa, all’anno prossimo, al 2025, al Giubileo e alla celebrazione dell’anniversario del Concilio di #Nicea del 325.
DOTTA IGNORANZA (1440), "PACE DELLA FEDE" (1453), E RILANCIO DI UN "NUOVO" PRESEPE "FRANCESCANO" (ALL’ORIGINE DELLA "CAPPELLA SISTINA"): ARCHEOLOGIA, FILOLOGIA, E STORIA E LETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTO IV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
Federico La Sala #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
PIANETA TERRA: TEATRO, METATEATRO, LETTERATURA, PSICOANALISI, E QUESTIONEANTROPOLOGICA (E CRISTOLOGICA).
"A CHE GIOCO GIOCHIAMO": A "CORONE" O "COR_NE" ("CORNE")?!
DANTE ALIGHIERI E WILLIAM SHAKESPEARE. Un grande problema, quella della #regalità antropocentrica (dei "due corpi del re" e dei "due soli"), e del suo fondamento teologico: questa la #question di #Amleto e di #Ofelia! #Essere, o non essere: #comenasconoibambini?! Di chi sono #Figlio io? Di chi sono Figlia io?! Del dio #Amore (#Charitas) o del dio #Mammona (#Caritas)?!
GLOBALIZZAZIONE. Quale #Monarchia, quale #Impero, quale #Europa, quale #Terra?! Ai posteri, l’ardua sentenza! Con la #Danimarca, #oltre! Oltre le colonne d’Ercole, fuori dall’orizzonte della #tragedia...
L’EUROPA, "L’ELOGIO DELLA FOLLIA" (1511) E L’UTOPIA (1516). CULTURA E SOCIETÀ: "LA MONTAGNA INCANTATA" (1924) e "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929).
Una nota a margine di una "citazione" di una lettera di #Tommaso Moro a #Erasmo di Rotterdam:
«Non puoi immaginarti quanto ora io m’imbaldanzisca, quanto mi gonfi, quanto mi tenga più su. Immagino di continuo che i miei Utopiani mi vorranno eleggere loro sovrano perpetuo, tanto che mi vedo già incedere del diadema di frumento, mi vedo cospicuo nel paludamento francescano, mi vedo portare lo scettro venerabile di un covone di messi. Circondato da un’insigne accolta di cittadini di Amauroto, mi vedo, in pompa solenne, andare incontro agli ambasciatori e ai principi delle genti straniere, ben miseri al nostro confronto, pieni di sciocca superbia, perché ornati fanciullescamente, pieni di vanità femminile, carichi di disprezzabile oro, ridicoli per la porpora, per le gemme, per altre bazzecole.» (Cfr. E. Scelza, "LE CITAZIONI: il sogno ad occhi aperti di Tommaso Moro", "Gente e Territorio", 15 novembre 2023).
SE SI CONSIDERA CHE TOMMASO MORO (1478-1535) scrive quello che scrive ad ErasmodiRotterdam (1469-1536) il 4 dicembre 1516, e che, al contempo, Martin #Lutero (1483-1546) nell’ottobre del 1517 diffonde le sue #95Tesi, c’è da pensare che ognuno sognasse un proprio #sogno ad occhi aperti e non avessero affatto un #mondo "unico e comune" (#Eraclito) : questo spiega, soprattutto da parte di Erasmo e Moro, anche la loro presa di distanza dalle sollecitazioni di riforma della Chiesa da parte di Lutero.
Non è un caso che, pochi anni dopo (al tempo di Carlo V, dopo il Sacco di Roma nel maggio del 1527), la richiesta di un tentativo di edizione della "#Monarchia" di #DanteAlighieri, fatto da Alonzo de #Valdès (1490 - 1532) e Mercurino di #Gattinara (1465-1530), è lasciato cadere nel vuoto da Erasmo da Rotterdam (nel marzo del 1527), e, ancora e purtroppo, di lì a poco c’è la rottura di #EnricoVIII con Chiesa cattolica e l’avvio della Riforma Anglicana (1534).
All’indomani della Prima Guerra Mondiale, alla fine della sua "Montagna Incantata" (#Zauberberg, 1924), #ThomasMann scrive: "Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?" (trad. di E. Pocar).
Nel 1929, in Italia, la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano sottoscrivono il "Concordato" (#PattiLateranensi, 11 febbraio 1929): a Vienna, intanto, #SigmundFreud porta avanti il suo lavoro e pubblica il risultato delle sue ricerche e delle sue riflessioni sul "Disagio della civiltà" (e nella civiltà).
P.S. - STATO ITALIANO E STATO PONTIFICIO (CHIESA CATTOLICA): LA QUESTIONE ROMANA E IL "#20SETTEMBRE 1870" (Festa della liberazione della capitale e dell’unificazione nazionale, abolita dal Fascismo). #BENEDETTOCROCE, NELLA "STORIA D’ITALIA DAL 1871 AL 1915" (1928), A PROPOSITO DEL PERSONAGGIO "LUDOVICO SETTEMBRINI" DELLA "MONTAGNA INCANTATA" ("DER ZAUBERBERG", 1924) DI THOMAS MANN, COSI’ SCRIVE:
#Agenda_UBU | Congreso Internacional “Hispanismo. Un pasado con futuro”.
INFORMACIÓN ►https://www.ubu.es/agenda/congreso-internacional-hispanismo-un-pasado-con-futuro
• Del miércoles 15 al viernes 17 de noviembre .
• Paraninfo de la Universidad de Burgos.
Nota:
HISPANISMO: "UN PASSATO CON FUTURO". Con gli auguri di "buon lavoro!" al Congresso Internazionale, un invito a riprendere anche (e ancora) la riflessione e l’indagine sul tentativo della edizione della "Monarchia" di Dante Alighieri, fatto da Alonzo de Valdès e Mercurino di Gattinara (1465-1530) e lasciato cadere nel vuoto da Erasmo da Rotterdam ( nel marzo del 1527), al tempo di Carlo V (e del Sacco di Roma del maggio del 1527 e prima della Riforma Anglicana del 1534).
STORIOGRAFIA D’EUROPA, FILOLOGIA, E LETTERATURA:
LA "CESURA" STORICA E CULTURALE SEGNATA DAL LAVORO CRITICO "SULLA #DONAZIONE DI #COSTANTINO" DI #LORENZOVALLA (1440) E DALLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453). *
*
STORIOGRAFICAMENTE, forse, è ora di #capovolgere, il "tempo" proprio dell’#Umanesimo e del #Rinascimento: per la società e la cultura del cosiddetto "Medio Evo" degli "umanisti", l’epoca "fu sentita - così scrive E. #Gilson - come un’età di innovazione in tutti i sensi della cultura, una #modernità in progresso". A mio parere, il formidabile processo della "prima #rinascita" (E. #Buonaiuti) cominciata con #GioacchinodaFiore, #FrancescodiAssisi, e #DanteAlighieri trova il suo punto culminante nella "Monarchia umanistica aragonese" e, al contempo, comincia a imboccare un vicolo cieco, segnato dall’#orizzonte cusaniano della "#DottaIgnoranza" (1440) e della "#Pace della #fede" (1453) senza l’#Islam, nella caduta di Costantinopoli nelle mani di #Maometto II(1453), e, complementarmente, nella Guerra di #Granada, portata avanti dai Re Cattolici, Ferdinando II di Aragona e Isabella di Castiglia (1482-1492), contro gli ebrei e contro gli arabi. A partire dal 1517/1534 (#RiformaProtestante e Anglicana), inizia un lungo inverno per l’#Europa (#ConciliodiTrento, #Lepanto, #InvincibileArmata, #ElisabettaI d’Inghilterra); dopo il 1616 (morte di #Shakespeare, #Cervantes, e #Garcilaso El Inca de la Vega), prende il via la Guerra dei Trent’anni (1618-1648).
LA "MEMORIA DEL MONDO", LA CELESTE "CORRISPONDENZA D’AMOROSI SENSI" DI FOSCOLO (OMERO/ULISSE), E LA RICERCA DI ITALO CALVINO DI USCIRE "FUORI DEL SELF" DELLA TRADIZIONE SOFISTICA (IDEALISTICA E MATERIALISTICA), PER COMPRENDERE ANTROPOLOGICAMENTE (NON ANTROPOMORFICAMENTE) LE RADICI COSMICOMICHE DELLA INFINITA E COMPLESSA MOLTEPLICITÀ... *
CALVINO (OMERO/ULISSE): "IO HO ASCOLTATO IL CANTO DELLE SIRENE" ("La letteratura e la realtà dei livelli", 1978). Non dimentico della lezione di #DanteAlighieri, #Calvino cerca di trovare la via che lo possa portare al "punto di arrivo cui tendeva #Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto di arrivo cui tendeva #Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose" ( "Molteplicità", "Lezioni Americane").
I "LIVELLI DI REALTÀ" (Feltrinelli, Milano 1984) E LA PSICOANALISI. Una traccia, per orientarsi nell’attraversamento dei livelli di realtà delle opere di #Calvino100: ricordare il suo incontro ("Anch’io cerco di dire la mia"), nella "taverna dei destini incrociati", con "Sigismondo di #Vindobona", e ricordare il ruolo di #Venere (#Afrodite) e di #Eros (#Cupìdo) nella mitica versione di Ovidio del "Ratto di #Proserpina", di #Persefone, figlia di #Demetra (#Cerere), da parte di #Ade (#Plutone):
#Eleusis2023
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L’UMANITÀ (ANTROPOLOGIA), IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" (ECONOMIA POLITICA) E IL PERSISTERE DI UN "PREISTORICO" SIMPOSIO ALL’OMBRA DELLA "EU+CARESTIA"!!!
MINIMALISMO ED ESSENZIALISMO: "SÀPERE AUDE" (DECIDERSI A DIVENTARE SAGGIO, AD AS-SAGGIARE, A USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ" (ORAZIO E KANT). A ben riflettere sulla "essenza del cristianesimo" di Ludwig Feuerbach, e, al contempo, sul problema della "eucharistia", del cibarsi della grazia ("charis") di Dio ("charitas"), forse, si può meglio cominciare a capire la profondità teologico-politica ed economica della sua "banalizzatissima" considerazione che «L’uomo è ciò che mangia»!
IN UN TESTO BRILLANTISSIMO, all’interno di un "presente storico" di secoli, segnato da una grande carestia filologica e logica, così è scritto: "La vita spirituale - di chi «nasce un seconda volta» aderendo a Cristo - poggia sulla preghiera continua e sull’#eucarestia [...]" (cfr. Flavio Piero Cuniberto, "SUL CRISTIANESIMO COME MITO E COME MISTERO). E, proseguendo; si arriva a fare propria la tesi di #RenéGirard: "L’idea che la morte di Cristo sulla croce sia il prezzo del riscatto («redenzione» da «red-imere», «riscattare») non è che una versione cristianizzata della pratica ancestrale del #bouc #émissaire, il #caproespiatorio di Girard. Una versione mitologica del mistero cristiano." (op. cit.).
IL CANTO DEL CAPRO E LA FENOMENOLOGIA DELLA TRAGEDIA: "ECCE HOMO" (PILATO). Accecati dall’astuzia della ragione platonico-hegeliana, invece di fare chiarezza sul "capro espiatorio", si rinnova la confusione e la condanna a morte proprio dell’agnello (dell’#ariete, del montone) che ha portato Ulisse (e Dante) in salvo, fuori dalla caverna e dall’inferno!
Dopo Nietzsche ("Ecce Homo", 1888), che ha denunciato l’imbroglio storico-antropologico del #paolinismo, a partire dalla morte di Dio, e di Gesù ("Ecce Homo"), chi ha mai più visto sulla Terra un cristiano, una cristiana?
Nonostante Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi, Chiara di Assisi, Dante Alighieri, e, addirittura, il lavoro iperstorico ("preistorico" e archeologico) sulle radici "Cosmicomiche" della Terra (Italo Calvino), Diogene di Sinope, definito dalla tradizione "Socrate pazzo", continua ad andare con la sua lanterna accesa, alla luce del sole, per i mercati, a cercare l’uomo ("anthropos") e a sognare il #sorgeredellaterra...
L’#EUROPA (#GRANADA), #KOENIGSBERG / #KALININGRAD (E #ODESSA), LA "#DEMOCRAZIA" (COME "#STATO DI #MINORITÀ"), E IL PROBLEMA DELLA #TRASPARENZA TEOLOGICO-POLITICA. Alcuni appunti...
Un omaggio alla memoria di Dante Alighieri e William Shakespeare...
LA #TALPA E LA #CIVETTA: LA TRACCIA DI UNA FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO DI "#DUE #IO" (DI #DUESOLI"). Già per #Shakespeare, ai suoi tempi (1600), Amleto e Ofelia (con il metodo della loro #follia) guardano ben oltre la linea dell’orizzonte teologico-politico di #Erasmo di Rotterdam e #TommasoMoro e lottano per portarsi fuori da un’Europa ormai avviatasi nella "marcia" del tramonto (#Nicea 325/2025).
LE PAROLE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE. Al centro e al fondo della questione posta da #CarloGalli, nel recente "Democrazia, ultimo atto?"(cfr. estratto: https://www.einaudi.it/.../democrazia-ultimo-atto-carlo.../ ), al di là dei suoi contributi e risultati specifici, vi sono "le idee moderne di libertà, di uguaglianza, di trasparenza, che sono esposte alla contingenza (...) e che meritano ancora una volta di essere il centro intorno a cui ruota la politica".
"DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (#FREUD, 1929). Sul tema, nel suo commento, Francesco Fistetti accoglie con riserva la proposta di variazione e scrive: "[...] Al terzo termine del trinomio #libertà / #eguaglianza / #fraternità Galli sostituisce quello di "trasparenza". Trasparenza nell’accezione già di Bobbio che non devono esserci zone oscure e opacità nell’esercizio del potere e nel governo delle istituzioni, ma il sale della critica e del dibattito razionale. Ma in questo modo, cancellando la fraternità, può cassare senza colpo ferire tutta la storia del socialismo e della lotta per il socialismo come organici alla storia della modernità democratica e dello stesso liberalismo (il liberalsocialismo di un Rosselli e tanti altri). Operata questa amputazione "genealogica’ (almeno per la Modernità) resta una pallida e spettrale idea di liberaldemocrazia. Peraltro, quest’ultima viene declinata come l’ideologia e la pratica di quello che l’autore chiama il "secondo Occidente", quello degli Usa e delle istituzioni dell’Onu: un nuovo Occidente "a guida americana", di cui dalla fine della Seconda Guerra Mondiale "fa parte l’Europa" e la cui "espressione è la Nato" [...]"(cfr. https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5/posts/10211262489754567).
"LA SOCIETÀ TRASPARENTE" (GIANNI VATTIMO, 1989), A mio parere, sulla trasparenza, un nodo decisivo legato al problema proprio di una "#societàtrasparente" (#GianniVattimo, 1989) , il dibattito è in alto mare ed è ancora tutto da affrontare, al suo livello antropologico-politico fondamentale, dalla radice (#Marx)!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E CULTURA CRITICA. La questione è "metafisica", ma, a quanto pare, nessuno si ricorda più di #Kant e del suo illumiNATO "sàpere".
#PACEPERPETUA, Se non si rende trasparente il nodo antropologico e teologico-politico, non è possibile (come è stato dimostrato storicamente, almeno fino ad oggi, fino alla "tappa" europea di Granada 1492/2023) alcuna fraternità (libertà e uguaglianza) e la "pace perpetua" (Kant) è definitivamente assicurata.
Nota:
#FILOSOFIA #STORIA E#METATEATRO: #METAFOROLOGIA.
"La #civetta e la #talpa. Sistema ed epoca in #Hegel" di #RemoBodei (1975, 2021): "[...] Quale il rapporto fra la civetta della filosofia, che interpreta coscientemente l’epoca, e la talpa dello spirito, che la trasforma inconsciamente con il suo cieco lavorio? A tali interrogativi Remo Bodei cerca una risposta in questo saggio ormai classico, che ha offerto una prospettiva originale della filosofia hegeliana." ( https://www.mulino.it/isbn/9788815291226 ).
FLS
[Una recensione]
C. Pisano, "Hermes, lo scettro, l’ariete. Configurazioni mitiche della regalità nella Grecia antica" Napoli, M. D’Auria Editore, 2014, 304 p.
di Daniela Bonanno *
In un saggio divenuto ormai un classico, J.-P. Vernant affermava : “Lo studio di un dio come Ermes, molto complesso, deve definire innanzitutto i suoi rapporti con Zeus, per cogliere l’apporto particolare di Ermes all’esercizio della sovranità, e poi confrontare Ermes con Apollo, Estia, Dioniso, Afrodite. Con tutti questi dèi Ermes ha delle affinità, ma si distingue da ciascuno per certe modalità d’azione” 1. Quasi raccogliendo l’invito dello studioso francese, C. Pisano esplora, in questo volume, proprio le logiche di funzionamento dei rapporti tra Hermes e le forme del potere e dell’autorità regale, concentrandosi sulla relazione con Zeus.
Il libro, frutto di una ricerca dottorale, si articola in tre lunghi capitoli preceduti da una corposa introduzione, in cui C. Pisano si pone anche dichiaratamente sulla scia dei lavori di J.-P. Vernant e di M. Detienne, adottando, da un lato, l’approccio “differenziale e classificatorio” sperimentato dai due studiosi sulla religione greca e, dall’altro, sforzandosi di ricostruire la “modalità d’azione”, che, stando ai lavori di G. Dumézil, caratterizza una divinità greca, in modo più marcato, di quanto non faccia la sua “sfera di competenza”.
L’obiettivo è esaminare, come suggerito da M. Detienne, la “reattività” di un dio come Hermes a determinati oggetti quali lo scettro o il vello d’oro. La proposta metodologica, richiamata a più riprese, affianca il livello della ricostruzione “etica” della relazione di Ermes con la sovranità a quello “emico” dei “nativi greci”, assimilando, pur con tutte le cautele del caso, l’indagine sulle rappresentazioni antiche a quella di una ricerca antropologica sul campo.
La ricerca prende le mosse da un passo chiave del secondo libro dell’Iliade (II 100-108), che racconta il ruolo di Hermes nella trasmissione dello scettro regale da Zeus ad Agamennone, passando per Pelope, Atreo e Tieste. L’intervento del dio, designato nei versi omerici quale anax (sovrano), è stato percepito come problematico dagli stessi commentatori antichi che si sono sforzati di accordare la funzione di messaggero (keryx) di Hermes con tale epiteto.
Gli interrogativi da cui prende avvio tutta l’indagine sono quindi i seguenti : può un keryx essere un anax ? Può la funzione di messaggero degli dèi, concordemente riconosciuta dalla tradizione ad Hermes, accordarsi con quella regale ? Come si spiega l’attribuzione ad Hermes dell’epiteto anax nell’Iliade ? È forse questa una traccia di una funzione regale esercitata dal dio riconducibile a un non ben definito “passato miceneo”, come hanno ipotizzato alcuni studiosi ? A questi problemi, sui quali tanto i commentatori antichi, quanto gli esegeti moderni si sono molto esercitati, il volume di C. Pisano si propone di fornire una risposta, esaminando in senso diacronico una documentazione di tipo essenzialmente letterario.
A partire dai poemi omerici, nel primo capitolo, ad essere prioritariamente esplorata è la condizione sociale dell’araldo, capace di gestire la comunicazione a distanza ; quella che regola le riunioni assembleari ; la prassi sacrificale, nonché la diakonia nell’ambito della ripartizione delle carni e del vino in occasione dei banchetti. L’approccio “classificatorio e differenziale” rivela qui tutta la sua efficacia nella diversa “modalità di azione” che C. Pisano individua nei passi omerici relativi ai due “messaggeri divini” : Hermes e Iris. Dall’analisi emerge la capacità dell’uno di muoversi in spazi distanti fra loro, aprendo vie di passaggio tra territori apparentemente non comunicanti ; laddove invece gli spostamenti di Iris appaiono più circoscritti e limitati. Inoltre, Hermes si differenzia da Iris, semplice “porta-parola” di Zeus, nella forza persuasiva di cui appare dotato il suo messaggio. Il dio appare così decisamente associato alla sfera della “mediazione linguistica”, come mostra, tra l’altro, l’analisi dell’Inno omerico a Hermes, proposta nel secondo capitolo del volume, che racconta del confronto del dio con il fratello Apollo, da cui verrà fuori un’attenta ripartizione e riconfigurazione delle timai assegnate a entrambi. Il dio di Delfi, interessato alla conservazione e la tesaurizzazione, avrà il controllo dei beni, minacciati dal fratello appena nato con il furto degli armenti ; prerogativa del dio di Cillene sarà invece la cura degli armenti che ne prevede quindi il moltiplicarsi e il loro ingresso nel circuito commerciale ; ad Apollo andrà la lira ; ad Hermes la rhabdos, l’oggetto che garantisce l’immunità dell’araldo e conferisce efficacia ai decreti divini, consentendo al keryx di rappresentare l’anax ; di Apollo infine sarà il controllo su una divinazione, il cui messaggio obliquo per essere compreso necessita di un interprete ; mentre appannaggio di Hermes sarà una divinazione supportata da un corretto e misurato impiego delle parole, il cui messaggio raggiunge l’uomo senza bisogno di intermediari.
Il terzo capitolo prende in esame un altro simbolo di sovranità, rappresentato dall’agnello o dall’ariete dal vello d’oro. L’oggetto, assente come tale nei poemi omerici, compare nella tragedia, affiancando lo scettro che viene così a perdere il carattere di esclusività nella rappresentazione del potere regale. Lo studio della tradizione argiva relativa agli Atridi, della saga di Frisso e Atamante e dell’impresa degli Argonauti consente di riconoscere la funzione legittimante dell’agnella e dell’ariete dal vello d’oro inviati da Hermes, in una situazione di grave crisi interna derivante da problemi di successione. Come lo scettro, trasmesso dal dio per conto di Zeus, conferisce autorità al sovrano e capacità persuasiva, l’ariete ne supporta la legittimità dell’aspirazione al trono. In entrambi i casi di costruzione e definizione della regalità, Hermes svolge la funzione che gli è propria, quella cioè di inviato e di araldo di Zeus, da cui discende il potere sovrano.
L’ultimo capitolo del volume insegue il filo della ricerca dei “significati emici”, recuperati in filigrana dall’esame delle interpretationes di Hermes con divinità straniere in alcuni testi tratti dalla letteratura giudaica e cristiana. Il punto di partenza è, in questo caso, fornito da un passo del Cratilo di Platone che, riletto alla luce delle considerazioni di G. Dumézil, consente di rintracciare nel testo antico una prima conferma della percezione che i Greci avevano delle modalità di intervento di Hermes e della sua capacità di agire come “interprete” e “messaggero di Zeus”. Che tale percezione facesse leva sul “sapere condiviso” dei Greci emerge anche dall’analisi di tre testimonianze di epoca più tarda.
Si tratta, in primo luogo, del frammento 3 Jacoby di Artapano, storico ebreo di Alessandria d’Egitto (III-II sec. a.C.), in cui Mosè è identificato con Hermes, quale tramite delle “sacre scritture” (hiera grammata) di Dio. La seconda testimonianza è costituita da un passo degli Atti degli Apostoli in cui si racconta dell’arrivo nella città di Listra di Barnaba e Paolo, giunti ad evangelizzare i pagani, e riconosciuti dagli abitanti del luogo quali Zeus ed Hermes.
L’ultimo testo, preso in considerazione alla ricerca della modalità attraverso cui la figura di Hermes era percepita e descritta dai parlanti greco, è un passo di Giustino (II sec. d.C.), i cui interlocutori sono gli intellettuali greci e romani del tempo, convinti che la religione cristiana fosse priva di tradizione. Per rispondere a questa critica, l’apologeta presentava la nuova religione come una manifestazione ben più forte del Logos di cui già parlavano Eraclito e Socrate e individua in Gesù il Logos, colui che trasmette la parola di Dio, espressione di una “concezione comune” - afferma Giustino - a quella di coloro che ritengono che Hermes è il “Logos messaggero di Dio”.
Il volume termina con delle conclusioni ben argomentate in cui C. Pisano riprende i termini della questione posta in apertura: può un keryx essere un anax e viceversa ? Ed Hermes è keryx o anax ? Dai dati raccolti emerge la figura di un dio che diventa anax, nel momento in cui riceve lo scettro da Zeus, l’oggetto cioè tramite il quale la funzione regale e quella araldica si legano l’una all’altra. Lo scettro del re non è infatti diverso dalla rhabdos dell’araldo, che non fa altro che dare voce al sovrano. Quando Agamennone, nell’Iliade, parla al centro dell’assemblea con lo scettro in mano egli è “l’interprete e il messaggero” di Zeus : egli è, per l’appunto, keryx e anax. Si conclude con questa proposta originale di soluzione dell’“enigma”, sollevato in apertura, il volume, i cui contenuti, resi in uno stile piano e piacevole alla lettura, mostrano tutta l’efficacia euristica di una corretta articolazione tra indagine storico-filologica e approccio antropologico.
Notes
1 J.-P. Vernant, “La società degli dèi”, in Id., Mito e società nell’antica Grecia, Torino 20072 (ed. or. Paris 1974), 105.
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Daniela Bonanno, « C. Pisano, Hermes, lo scettro, l’ariete. Configurazioni mitiche della regalità nella Grecia antica », Anabases, 25 | 2017, 295-297.
Daniela Bonanno, « C. Pisano, Hermes, lo scettro, l’ariete. Configurazioni mitiche della regalità nella Grecia antica », Anabases [En ligne], 25 | 2017, mis en ligne le 01 avril 2017, consulté le 02 octobre 2023. URL : http://journals.openedition.org/anabases/6148 ; DOI : https://doi.org/10.4000/anabases.6148.
FILOSOFIA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, POLITICA, E RELIGIONE E STORIA E LETTERATURA:
LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL.
Una nota *
Il tramonto della cristianità
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 18 Settembre 2023)
La crisi della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Naturalmente preoccupa soprattutto i cristiani, ma non riguarda soltanto loro perché essa è l’effetto di una crisi sottostante, quella della civiltà cristiana che è la base delle nostre società. Per questo non riguarda soltanto la fede cristiana, ma la società contemporanea nel suo insieme.
In che modo e con quali conseguenze è l’argomento di un breve e interessante saggio della filosofa politica francese Chantal Delsol dal titolo esplicito, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo (ed. Cantagalli). Il punto di partenza della sua analisi è la constatazione che stiamo assistendo al tramonto della cristianità, la civiltà fondata sul cristianesimo che ha dominato l’Europa e il mondo Occidentale per sedici secoli. Il suo declino è certamente provocato «dal cedimento della base che ne sosteneva l’esistenza: la fede in una verità trascendente, in questo caso quella in un Dio unico venuto nel mondo», tuttavia non comporta necessariamente la fine del cristianesimo. Una religione, infatti, resta viva anche quando raccoglie un piccolo numero di credenti. Quanti e fino a quando, impossibile dirlo e, a questo punto, viene inevitabilmente alla memoria la frase forse più sconcertante pronunciata da Gesù, riportata nel Vangelo di Luca (18,8): «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»
La civiltà cristiana, invece, scrive Delsol, come tutte le costruzioni umane è «effimera, soggetta ai tempi e alle mode, ed eminentemente fragile, mortale». È del tutto ragionevole pensare che possa finire. Il suo inizio è convenzionalmente stabilito dagli storici nel 394 d.C., data della battaglia del fiume Frigido e della definitiva sconfitta del paganesimo. Da quel momento ha preso il sopravvento una civiltà nuova «ispirata, ordinata e guidata dalla Chiesa», con un nuovo «modo di vivere» e una nuova concezione del bene e del male. Il suo declino inizia molti secoli dopo, con il movimento culturale dell’Illuminismo e la Rivoluzione Francese che cercò di fare piazza pulita della Chiesa con abbondante uso della ghigliottina contro chierici e fedeli laici. Poi divenne sempre più rapido, fino ad assomigliare a una vera débâcle culturale a partire dagli anni Sessanta del Novecento, quando i movimenti della contestazione giovanile in tutto il mondo occidentale scompaginarono la società cambiando i costumi e affossando le tradizioni, e gettarono le basi del mondo odierno. Chantal Delsol pensa che quegli anni rappresentino il punto di non ritorno della crisi e che oggi all’orizzonte, a vista d’uomo, sia impossibile immaginare una rinascita della cristianità.
Già nel 1969 Joseph Ratzinger, allora giovane teologo e professore universitario, fece questa previsione sul futuro della Chiesa: «Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi... Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali, ... non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra» e diventerà più spirituale.
Il futuro papa immaginava che un processo lungo e difficile ma positivo l’avrebbe condotta a liberarsi della mondanità, della pomposità e del settarismo permettendole di essere di nuovo, come all’origine, l’assemblea (questo è il significato della parola chiesa) dei ‘piccoli’, termine con cui il linguaggio biblico chiama coloro che non cercano potere, riconoscimenti o ricchezze ma Dio, e a lui si affidano con semplicità e fiducia. Purificata dalla zavorra accumulata lungo i secoli del suo predominio, dopo grandi sommovimenti e una lunga crisi che, a suo parere, era appena cominciata sarebbe rimasta «non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede... Conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte» (Cfr. La profezia dimenticata di Ratzinger sul futuro della Chiesa, reperibile on line o nel libro Faith and Future, Ignatius Press, 2009). Una Chiesa nuova e antica capace di annunciare sempre lo stesso messaggio di speranza affidatole duemila anni fa. Per quale altro scopo se non per conoscerlo la gente dovrebbe avvicinarsi alla Chiesa, si domanda senza tergiversare il filosofo polacco Kolakowski in un breve saggio incompiuto solo ora tradotto in italiano: «Se non è Dio e Gesù che la gente cerca nella Chiesa, la Chiesa non ha alcun compito specifico da realizzare...è Dio che tutti vorrebbero trovare nel cristianesimo», non un’ideologia o una lobby politica (L. Kolakowski, Gesù. Saggio apologetico e scettico, ed. Le Lettere).
Fine del cristianesimo, dunque, fine della morale e trionfo dell’ateismo? Tutt’altro. Se il XXI secolo vedrà la fine della cristianità, scrive Delsol, non vedrà però la fine della moralità, come paventano alcuni cristiani convinti che i principi morali derivino solo dalla religione. Lo dimostrano le società pagane la cui moralità era determinata dai costumi, dalle leggi e dalle tradizioni. Allo stesso modo la società post-cristiana segue una morale che rispecchia i costumi condivisi dalla maggioranza dei cittadini e confermata dalle leggi dello Stato il quale provvede anche alle sanzioni a sua tutela non più affidate alla Chiesa.
Per quanto riguarda l’ateismo, Delsol è certa che non trionferà perché non ha presa sull’animo umano, portato piuttosto a riempire il vuoto provocato dalla fine del trascendente con altre forme di sacro. Le religioni e le filosofie orientali rispondono perfettamente alle nuove esigenze di spiritualità, perché «non brandiscono alcun Dio, alcun dogma, alcun obbligo» e il loro «sforzo per eliminare la sofferenza è molto simile alle sessioni di sviluppo personale, ed è proprio quello che i nostri contemporanei cercano». Anche l’ecologismo è perfetto per l’uomo di oggi. Egli non riconosce più gerarchie e separazioni tra uomo e natura, e nella ricerca di una sacralità senza divinità rigetta ogni monoteismo avvicinandosi piuttosto all’antico animismo; la sua visione è una sorta di cosmo-teismo «preoccupato più dello spazio che del tempo» perché non immagina niente al di sopra del mondo. La fede ecologista, inoltre, bilancia almeno in parte l’individualismo esasperato reintroducendo il concetto di responsabilità personale verso il futuro del pianeta e di chi lo abiterà. Forse, prospetta prendendo a prestito le riflessioni del filosofo tedesco Odo Marquard, dopo il regno di Dio e dopo quello dell’uomo è giunto il regno della natura.
Dall’analisi della Delsol, dalle parole di Ratzinger, dalle considerazioni di Kolakowski emergono pensieri convergenti, non pessimisti, che indicano una via percorribile per il futuro. La Chiesa può sopravvivere tornando all’essenza della sua missione, alla sua originaria ragione d’essere: l’annuncio e la testimonianza del messaggio di Gesù, semplicemente così come lo raccontano i Vangeli. La speranza di un amore che va oltre la morte, oltre le nostre fragilità, gli errori, le mancanze. La consapevolezza di condividere un destino che dovrebbe farci sentire responsabili gli uni degli altri e tutti del mondo. La perdita del potere politico, del riconoscimento sociale, della ricchezza potrebbe essere un beneficio piuttosto che una catastrofe, argomenta Chantal Delsol. Forse non deve essere la cristianità a lasciarci, ma potrebbero essere i cristiani ad abbandonarla rinunciando alla forza e all’ideologizzazione per tornare ad essere quello che devono essere: testimoni. «Non possiamo inventare un altro modo di essere se non quello dell’egemonia? La missione dev’essere necessariamente sinonimo di conquista?» E conclude: «Probabilmente sarebbe meglio se rimanessimo solamente dei testimoni silenziosi e, in fondo, degli agenti segreti di Dio».
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LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL:
Nonostante Hegel sapesse che "The time is out of joint" (Shakespeare, "Hamlet", I.2), la visione COSMOTEANDRICA di Napoleone a cavallo a Jena (1806) in parte lo accecò e non poté più portarsi fuori dalla DIALETTICA della "strada di Damasco" (e "protestante" e "cattolica"). Con Amleto (e Marx), tuttavia non si può non ripetere: "Ben detto, vecchia talpa!" (I.5).
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, TECNOCRAZIA, E COSMOTEANDRIA: IL"NOVUM ORGANUM" (BACONE). L’ AVANZATA DEL GIGANTE, ormai, con i suoi stivali dalle sette leghe, è diventata inarrestabile: è un "golem-antico" progresso sulla strada aperta dal demiurgico sogno tragico dell’Accademia platonico-socratica, paolina, baconiana-hobbesiana, e schmittiana. "Il parto maschio del tempo ovvero la grande instaurazione del dominio dell’uomo sull’universo" è ormai a "buon" punto.
DANTE ALIGHIERI, L’HAMLETICA “QUESTION” CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA), E LA FILOLOGIA.
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#ANTROPOLOGIA, #LETTERATURA, E #DIVINACOMMEDIA: #LETARGO (Pd. XXXIII, 94) E #SONNODOGMATICO (#Kant).
LA #FEDE DI #DANTE, E DI SAN PIETRO, E LA FEDE DI SAN PAOLO.
A 750 ANNI E OLTRE DALLA [NASCITA E A 700 ANNI E OLTRE DALLA] MORTE DI DANTE ALIGHIERI, UNA “PREMESSA” A UNA ”VECCHIA’ NOTA DI ENNIO ABATE A COMMENTO DI UN ‘VECCHIO’ ARTICOLO DI CLAUDIO GIUNTA (“[Dante dopo l’Apocalisse”, Le parole e le cose, 21 maggio 2015->https://www.leparoleelecose.it/?p=19052]):
DANTE ALIGHIERI, L’HAMLETICA “QUESTION” CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA), E LA#FILOLOGIA:
(LA MADRE, MARIA-) #BEATRICE (Pd. XXIV, 34) chiede al “gran viro”(San Pietro) di verificare se Dante ha capito la differenza tra la fede in “Nostro Signore” Gesù (Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho #anthropos») oppure nel “Nostro Signore” (secondo la ‘precisazione’ androcentrica e mammonica) di San Paolo, l’Uomo (#Vir): “sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio” (1 Cor. 11, 1-3).
“DANTE DOPO L’ APOCALISSE” - OGGI (15 settembre 2023):
STORIA E LETARGO STORIOGRAFICO: NON SCAMBIARE DANTE ALIGHIERI CON GIOVANNI BOCCACCIO. Se il “diciottenne” Dante racconta - come scrive Alessandro Barbero ( https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141649) - il sogno e la visione di Beatrice nuda “[...] con un tocco così leggero che di solito gli esegeti non lo commentano”, non è meglio interrogarsi su questa dantesca “lezione americana” (alla Italo Calvino) di leggerezza e pensare meglio che Dante abbia ri-visto in sogno la madre “beata e Bella”?!
Non è ancora ora di cambiare registro , e, cominciare a pensare semplicemente che la figlia di Gemma Donati e Dante Alighieri, (Maria-) Antonia, diventata suora, abbia voluto rendere omaggio a Bella, alla sua nonna paterna, e ricordare per tutta la sua vita proprio (Maria-) Beatrice?!
UN #LETARGO DI #XXVSECOLI (Par. XXXIII, 94-95). LA #MEMORIA OMERICA DELL’#USCITA DAL POLIFEMICO #INFERNO E LA #RIPRESA DEL VIAGGIO DI #ULISSE E DI #GIASONE:
COME #DANTE VIENE PORTATO DA #VIRGILIO FUORI DALLA "#CAVERNA" DI #LUCIFERO: "Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;/ed el prese di tempo e loco poste,/e quando l’ali fuoro aperte assai,//appigliò sé a le vellute coste;/di vello in vello giù discese poscia/tra ’l folto pelo e le gelate croste" (Inf. XXXIV, 70-75).
PSICOANALISI, #DIVINACOMMEDIA, ED #ELEUSIS2023: IL LEGAME DI VIRGILIO E DANTE, GOETHE, E FREUD CON IL REGNO DELLE #MADRI. Appunti sul filo di M_Arianna, che lega #Freud, #Virgilio, #Milton, #Goethe, e #DanteAlighieri...
A) - #DANTE E LA DISCESA ALL’#INFERNO DI FREUD. "L’Interpretazione dei Sogni" (1899/1900) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, #Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo #Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di Dante Alighieri.
B) - FREUD, #MEFISTOFELE, E LA DISCESA NEL "REGNO DELLE MADRI". Una chiarificazione sulla fondamentale determinazione "giunonica" da parte di Freud è ben evidente nella sua "scelta" della citazione virgiliana che apre la via alla "Interpretazione deisogni: “Chi è disceso fino alle Madri non ha più nulla da temere.” (J.W. #Goethe, #Faust, II. 2).
C) - FREUD E MILTON. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, #SigmundFreud scrive che, nel "#Paradiso #perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
Federico La Sala
ELOGIO DELLA FOLLIA E DELLA GUERRA (degli "uomini") , UN’ANTROPOLOGIA "ANDROCENTRICA", STORIOGRAFIA, E RINASCIMENTO MERIDIONALE.
"Cum grano salis", e con tutte le differenze implicite ed esplicite.... se si tira un filo, dagli inizi del Cinquecento (l’ "Elogio della Follia" è degli anni 1509-1511) al "29 agosto 2023" e alla dimensione talebanica della "vita moderna", diffusa su tutto il pianeta, io proporrei di ripercorrere questo "tratto di storia", rileggendo un bel lavoro dal titolo "Donna e Rinascimento: l’inizio della rivoluzione-" (Romeo De Maio, il Saggiatore, 1987), da cui riprendo la seguente citazione: "La potestas maritalis aveva per fondamento che la moglie fosse sempre educanda, per legge. Lo credeva pure Erasmo". Questa la "question" radicata nell’orizzonte del "tempo fuori dai cardini" (Shakespeare, "Amleto", I.2).
Sul tema, come si sa, non la pensava affatto allo stesso modo, se non ricordo male, il Principe di Salerno, Ferrante Sanseverino.
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CIVILTÀ DELL’ AMORE E VOLONTÀ DI GUERRA ... *
La liberazione, un’incompiuta che soffoca ancora
60 ANNI DI «I HAVE A DREAM». Ma per la giustizia e i diritti degli afroamericani, è sempre una soffocante estate, in cui - come Eric Garner, strangolato a New York, e come ha ripetuto per un’intera estate il movimento Black Lives Matter, la parola d’ordine è I can’t breathe
di Alessandro Portelli ([il manifesto, https://ilmanifesto.it/la-liberazione-unincompiuta-che-soffoca-ancora])
Come finisce il discorso di Martin Luther King del 28 febbraio 1963, lo ricordiamo tutti - la perorazione sul sogno, la luminosa visione futura. Quello che ci ricordiamo in pochi è come comincia: con un doppio riferimento alla storia. Le prime parole sono «Five score years ago» (e cioè «Cento anni fa»: score vuol dire venti).
Evocano l’incipit («Four score and seven years ago», 87 anni fa) del discorso del 1863 in cui Abraham Lincoln annunciava l’emancipazione degli schiavi rinviando al 1776 e all’indipendenza. Fin dalle prime parole, King avverte che la liberazione degli afroamericani è il compimento della liberazione del paese; ma questa liberazione è incompiuta, e quindi incompiuto è il paese.
King prosegue con una metafora che sembra quasi preparare l’immaterialità della perorazione conclusiva appoggiandola a una base di rapporti concreti - prepara il volo utopico finale partendo dal linguaggio mercantile, del commercio, del business: gli autori della Costituzione e della Dichiarazione d’Indipendenza, dice, «firmarono una cambiale (a promissory note) che ogni americano avrebbe ereditato. Era la promessa che tutti gli uomini - si, uomini neri come i bianchi - avrebbero goduto dei diritti inalienabili di vita, libertà e ricerca della felicità (...) Invece di onorare questa sacra obbligazione, l’America ha dato ai neri un assegno a vuoto (...) E noi oggi siamo qui per incassare questo assegno».
Ecco, il sogno resta sogno finché la cambiale non è pagata. Se li mettiamo insieme ci rendiamo conto che il sogno non era mero desiderio ma un concreto programma politico, basato sulle fondamenta stesse del paese. La ribellione all’America realmente esistente si legittima con il richiamo all’America nascente idealizzata. Finché questo debito non è saldato, l’America tradisce se stessa.
E continua a farlo. Molti anni prima di King, il poeta afroamericano Langston Hughes domandava: «Che ne è di un sogno rimandato? Avvizzisce come un chicco d’uva al sole, marcisce come una piaga purulenta, puzza come carne marcita, si affloscia come un carico troppo pesante - o esplode?». È esploso molte volte questo sogno differito per una cambiale non pagata - a Harlem, a Watts, a Detroit, a Milwaukee, a East Saint Louis...
Per due volte, King usa una bella parola sonora: sweltering. Vuol dire «soffocante»: «Questa soffocante estate del legittimo scontento nero» ... «il Mississippi, uno stato che soffoca nell’afa dell’ingiustizia». Le rivolte dei ghetti avvengono quasi sempre d’estate. Ma per la giustizia e i diritti degli afroamericani, è sempre una soffocante estate, in cui - come Eric Garner, strangolato a New York, e come ha ripetuto per un’intera estate il movimento Black Lives Matter, la parola d’ordine è I can’t breathe, non respiro.
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NOTA:
UNA QUESTION HAMLETICA, DI CADUTA "BIBLICA", NELLA CAVERNA "PLATONICA", E UNA MILLENARIA RICAPITOLAZIONE , ATEA E DEVOTA, NELLA LOGICA DEL "SAPIENTE" DI BOVILLUS) : "THE TIME IS OUT OF JOINT" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.2). Non nei millenni passati, la teologa Wilma Gozzini scriveva: “La donna è l’altro dell’ uomo , uguale per diritti e doveri, ma anche diversa [...] L’ altro che sta faccia a faccia è inquietante e scomodo e apre una sola alternativa. O lo si accoglie come unica possibilità data per vivere umanamente la propria storia, o lo si nega, assimilandolo - facendo simile ciò che altro - neutralizzando così l’alterità, non riconoscendogli autorità ma sottomissione, negandogli uguaglianza” ("L’Unità", 1990).
Federico La Sala
P.S. 4 *
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE. DA GIOVAN BATTISTA MARINO A... OVIDIO... “RIVISITATO”:
ADE, ADONE, E... IL NODO “INVISIBILE” DEL LEGAME TRA EROS E THANATOS.
[VENERE] lamentandosi col destino disse: “Non, però, di ogni oni cosa il destino potrà disporre. Un ricordo del mio lutto, o Adone, rimarrà in eterno: ogni anno si ripeterà la scena della tua morte, a imitazione del mio cordoglio. E il sangue sarà mutato in un fiore. [...] Detto questo, versò nèttare odoroso sul sangue, e il sangue al contatto cominciò a fermentare [...] E un’ora intera non era passata: quando dal sangue spuntò un fiore dello stesso colore, un fiore come quello del melograno, i cui frutti celano tanti granelli sotto la duttile buccia. E’ un fiore, tuttavia, che dura poco. Fissato male, e fragile per troppa leggerezza, deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali ” (Ovidio, "Metamorfosi", X, Einaudi, Torino, vv.731-739).
Allegato: Immagine di “Adonis Annua”.
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STORIA, LETTERATURA, E IMMAGINARIO COSMOLOGICO E TEOLOGICO-POLITICO:
EUROPA, 5 AGOSTO 2023...
A) RICORRENZA (E MEMORIA FACOLTATIVA) DELLA CHIESA CATTOLICA: "MADONNA DELLA NEVE. 5 AGOSTO".
"Santa Maria della Neve. Dedicazione della basilica di Santa Maria Maggiore":
B) "L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO" (J. HUIZINGA). "Filippo il Buono di Borgogna sposò nel 1430 Isabella del Portogallo. In questa occasione - o forse quale omaggio alla popolazione di allora, stupenda nel navigare - fondò l’ordine del Toson d’Oro. I suoi protettori erano Giasone e Gedeone. Anche nella loro storia un vello miracoloso aveva avuto la sua parte (Libro dei Giudici, VI, 36-40)" (cfr. DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA: P. S. 5).
C) "Sul valore simbolico del Toson d’oro: Giasone, Gedeone e il Vello d’oro in un’enciclopedia medievale": "Una nutrita serie di studi recenti testimonia dell’ininterrotto interesse destato dal più famoso e prestigioso degli ordini cavallereschi fondati nel Medio Evo, l’ordine del Toson d’oro . Pur analizzando la nobile confraternita, istituita il 10 gennaio del 1430 a Bruges, da molte angolature, i lavori degli ultimi anni non hanno portato novità importanti per la soluzione d’un problema senz’altro centrale, il perché della scelta del vellus aureum quale insegna della comunità. In questa nota vorrei gettare qualche luce sulla questione.
D) VOCAZIONE DI GEDEONE: "LA PROVA DEL VELLO" ("GIUDICI", VI. 36-40)
[36]Gedeone disse a Dio: «Se tu stai per salvare Israele per mia mano, come hai detto, [37]ecco, io metterò un vello di lana sull’aia: se c’è rugiada soltanto sul vello e tutto il terreno resta asciutto, io saprò che tu salverai Israele per mia mano, come hai detto». [38]Così avvenne. La mattina dopo, Gedeone si alzò per tempo, strizzò il vello e ne spremette la rugiada: una coppa piena d’acqua. [39]Gedeone disse a Dio: «Non adirarti contro di me; io parlerò ancora una volta. Lasciami fare la prova con il vello, solo ancora una volta: resti asciutto soltanto il vello e ci sia la rugiada su tutto il terreno». [40]Dio fece così quella notte: il vello soltanto restò asciutto e ci fu rugiada su tutto il terreno.
E) CAPPELLA SISTINA (ROMA, 14775-1481). "La Cappella Sistina (in latino: Sacellum Sixtinum), dedicata a Maria Assunta in Cielo, è la principale cappella del palazzo apostolico, nonché uno dei più famosi tesori culturali e artistici della Città del Vaticano, inserita nel percorso dei Musei Vaticani. Fu costruita tra il 1475 e il 1481 circa, all’epoca di papa Sisto IV della Rovere, da cui prese il nome. È conosciuta in tutto il mondo sia per essere il luogo nel quale si tengono il conclave e altre cerimonie ufficiali del papa (in passato anche alcune incoronazioni papali), sia per essere decorata da opere d’arte tra le più conosciute e celebrate della civiltà artistica mondiale, tra le quali spiccano i celeberrimi affreschi di Michelangelo, che ricoprono la volta (1508-1512)[2] e la parete di fondo (del Giudizio universale) sopra l’altare (1535-1541 circa). È considerata forse la più completa e importante di quella «teologia visiva, che è stata chiamata Biblia pauperum». [...] Esiste anche una "Cappella Sistina" nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, edificata da Sisto V, e una nella cattedrale di Savona, fatta edificare da Sisto IV come mausoleo per i propri genitori defunti [...]" (Wikipedia).
F) ANTROPOLOGIA, ARTE, E CRISTOLOGIA ("ECCE HOMO"). La "memoria" di Michelangelo Buonarroti: Sacra famiglia, detta “Tondo Doni”.
G) UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (1613).
Federico La Sala
CRISTIANESIMO E GEOPOLITICA, SENZA PREGIUDIZI, ALLA LUCE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEI "DUE SOLI" (DANTE 2021):
STORIA DI EUROPA, DI IERI E DI OGGI: "THE BOOK OF SIR THOMAS MORE". Partendo dal suo tempo (quasi cento anni dopo), Shakespeare cerca di chiarire il percorso che l’Inghilterra di EnricoVIII ed Elisabetta ha fatto e che cosa ha guadagnato, a partire dagli eventi del 1517 e dopo la rottura con la Chiesa Cattolica e dopo la Riforma Anglicana!
Una possibile chiave interpretativa sta proprio nella natura del conflitto teologico-politico (e nel legame di Tommaso Moro con le indicazioni di san Paolo, e del Papa):
" Voi volete schiacciare gli stranieri [...]"Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora?
Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in #Francia o nelle #Fiandre, in qualsiasi provincia della #Germania, in #Spagna o in #Portogallo, anzi no, un luogo qualunque #diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che [...] vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli [...]?". Questo il problema, a mio parere.
TEATRO, METATEATRO, ANTROPOLOGIA E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: CON SHAKESPEARE E DANTE ALIGHIERI, OLTRE LA TRAGEDIA DI EDIPO E GIOCASTA...
HEGELISMO, PLATONISMO, FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA)*
"MENSCHWERDUNG" ("DIVENTARE UN ESSERE UMANO"). "Dio è amore" ("Deus charitas est"), condivido (è una questione di "h": "Charitas", gr. "Xapitas"). Hegel ha messo il dito nella piaga: "La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’#amore ["ein Spielen der Liebe"] con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio ["Arbeit"] del negativo" ("Fenomenologia dello Spirito", §19).
A ben "orientarsi nel pensiero" (Kant) e, al contempo, nel sollecitare una ri-considerazione unitaria della "Prefazione" ("Vorrede") della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel e la figura della profetessa di Mantinea, Diotima, a mio parere, emerge chiaramente il #nodo antropologico di fronte a cui Hegel si è trovato e che ha sciolto in modalità tragica, edipica e paolina, con tutta la "socratica" potenza di un #Napoleone (Alessandro Magno); non con lo spirito del #Logos (di Eraclito e dell’evangelista Giovanni) né della #Giustizia di Parmenide, egli ruba "alla #Platone" l’anima a Diotima ("Simposio") e ripropone una demiurgica e demogorgonica #cosmoteandria t(al)ebana: "[...] che il vero sia effettuale solo come sistema o che la sostanza sia essenzialmente soggetto ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’#assoluto come #spirito - elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua #religione" (Fenom. d. spir., § 22).
A che gioco giochiamo, a che giogo vogliamo continuare a giocare? Non è meglio, forse, riprendere il filo proprio da Diotima e, con Dante Alighieri ("Due Soli") e portarsi fuori dalla tragedia dei "Tempi moderni" (Charlie Chaplin)?
P. S. 1 - «Senza Hegel non sarebbe stato possibile neppure Darwin, afferma Nietzsche, e l’avrebbe potuto dire anche di se stesso; infatti chi si ammali una volta di hegelite - così mordacemente si era espresso un decennio prima - non ne guarirà mai del tutto. E che cosa sarebbe la critica alla religione di Fuerbach e di Marx, o anche quella odierna di Ernst Bloch e Georg Lukács senza Hegel?» (Hans Küng, "Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia", Queriniana, 1972).
P. S. 2 - EUROPA: CRISTIANESIMO CATTOLICESIMO COSTITUZIONE E SPIRITO DI ASSISI (1986). Quando Benedetto Croce pubblicò il suo «Perché non possiamo non dirci "cristiani"» (1942), don Giuseppe De Luca ’confessò’ al Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: si è "rincristianito per dispetto". Come concordato...!!!
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CINEMA, LETTERATURA, FILOLOGIA, E CRITICA:
BOCCACCIO, “IL MIO DANTE” E “DIECI FIORINI D’ORO“. *
Un omaggio a Pupi Avati...
Se è vero, come Pupi Avati scrive (“Il mio Dante”, Insula europea, 3 febbraio 2020), che «”L’origine delle idee non la si percepisce mai” lo asseriva il Budda e per quello che mi riguarda ho da sempre la sensazione che sia assolutamente vero» .... allora bisogna solo ringraziarlo per la schiettezza (sveglia da un sonno storiografico di lunga durata!) e, al contempo, prendere atto che, con il suo film “il mio Dante”, si assiste solo all’ennesimo ritornello storiografico che del viaggio di Dante (dell’uomo e del poeta), per “dieci fiorini d’oro”, si compra lo spirito fondante (“l’amor che move il sole e le altre stelle”) e si finisce per celebrare il desiderio di fama e di gloria di Boccaccio (non di Dante Alighieri): “Insomma Boccaccio voleva davvero che si facesse questo film” (Pupi Avati)!
Ma non è il caso e il tempo di uscire dal letargo (Pd. XXXIII, 94) e ricordare che la primavera è già arrivata e che uscire dall’inferno è possibile?!
Dopo i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare, all’altezza del Dantedì ( 25 marzo 2023 ), che Dante tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice? (Sul tema, forse, può essere utile tenere presente una mia “vecchia” ipotesi di ri-lettura della vita e delle opere di Dante.
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HAMLETICA-MENTE E APOCALITTICAMENTE.
Storia, filologia, antropologia e letteratura:
oltre la tragedia, la divina commedia.
Dopo sette secoli dalla morte di Dante Alighieri non è ora di svegliarsi dal sonno dogmatico e uscire dallo stato di minorità (Kant)?
In memoria di Gioacchino da Fiore ...
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#ACHEGIOCOGIOCHIAMO? A ben considerare, dopo i #maestridelsospetto e, in particolare, dopo #Freud, non è possibile cominciare a pensare che il #sogno di Dante relativo a "Beatrice nuda" sia da interpretare come la visione della sua #beata e #Bella #madre? Non è #ora e qui ("now-here") necessario mettere in conto, filologicamente, che la figlia di Dante Alighieri, Maria #Antonia, quando entra in #convento, prende il nome di (Maria) #Beatrice, e al contempo, che la #Commedia è opera di Dante Alighieri, non di #GiovanniBoccaccio?!
Non è ancora il tempo di uscire dal #letargo (Pd. XXXIII, 94)?
UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA DI "RICAPITOLAZIONE", SECONDO UMANITÀ ("ECCE HOMO"), NON SECONDO VIRILITÀ ("ECCE VIR"), E L’URGENZA DI USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA #COSMOTEANDRIA DELLA TRADIZIONE PLATONICA.
Una nota a margine dell’intervista, di Francesco Antonio Grana, apparsa su "il fatto quotidiano" (12 marzo 2023):
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MEMORIA E PROFEZIA. Considerando e accogliendo nel suo massimo valore la dichiarazione di Papa Francesco relativa a don Tonino Bello, "Lo si sta riscoprendo oggi. Un profeta!", forse, è cosa buona riconsiderare l’affermazione e mettere l’accento sull’appellativo "un #profeta".
Se non si vuole lasciar cadere il filo, bisogna, a mio parere, tornare, prima, nella Roma del XVI secolo, e poi tornare, nella Città del Vaticano del XXI secolo, nella #CappellaSistina, guardare in alto, e #apriregliocchi alla presenza delle #Sibille e dei #Profeti nella Volta, che camminano insieme nella storia della tradizione ebraica e della tradizione degli altri popoli, e, sulle basi delle indicazioni di #Michelangelo, riprendere il cammino, #oggi.
"LA SACRA FAMIGLIA". Già nel #TondoDoni, senza trascurare la #cornicelignea (con la testa di Cristo in alto, e con ai lati le teste di #due Sibille e due Profeti), è data la chiave di lettura della narrazione nella Volta della Cappella Sistina (sul filo della lezione del #presepe di Francesco d’Assisi e dei "#dueSoli" di #Dante), al di là di ogni #ricapitolazione androcentrica (da "dotta ignoranza" socratico-platonica): Michelangelo, come si sa, è stato anche un grande #anatomista. Che dire? Non è ora di cambiare #paradigma e uscire dall’#infernoepistemologico?! Se non ora, quando?!
#FILOLOGIA E #STORIA. Nella scheda della Galleria degli Uffizi, si scrive che nella cornice lignea sono "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti".
LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E PSICOANALISI:
IL "DE AMORE" (Andrea Cappellano), LA "VITA NUOVA" (Dante Alighieri), E IL "DECAMERON" (Giovanni Boccaccio). Una nota su un nodo non sciolto... *
STORIA E STORIOGRAFIA. Sulle ragioni da parte di Boccaccio della costruzione nell’analisi della vita di Dante, forse, concorrono insieme
A) la non comprensione della "Vita Nuova" e della "Commedia" stessa di Dante, che, con l’aiuto di #Virgilio (e di #Beatrice, sollecitata da #Lucia, su intervento di #Maria), cerca di riprendere il filo di tutta la storia dell’#umanità e ri-indicare la "diritta via" per ritrovare il #paradisoterrestre, con la ricostruzione del #presepe (come da indicazione di Francesco d’Assisi),
B) e, al contempo, la volontà di rinchiudere il messaggio di Dante nel suo tempo, quello segnato ancora dall’ amore, entro le coordinate non chiare e non risolte della "sintesi", proposta nel "De amore" di Andrea Cappellano, della letteratura «#cortese»,
C) e, non ultima, una interpretazione della tradizione religiosa diversa dalla radicalità teologico-politica di Dante. Il risultato si vede (ancora) dinanzi agli occhi delll’attuale presente storico: il "De amore" di Cappellano si confonde con l’amore della Divina Commedia e con l’amore del Decameron; e lo sguardo antropologico (prima che politico) dei "due soli" di Dante è ancora addirittura difficile da concepirsi e si confonde ancora "charitas" (amore), con "caritas" (#mammona) e con l’avidità di Eros (#Cupìdo).
#DANTE, #MILTON, E #FREUD. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo #amore, ho trovato consolazione e conforto».
#EARTHRISE #METAPHYSICS #ANTHROPOLOGY #ELEUSIS2023 #ROMA2024
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"DIVINA COMMEDIA" FILOLOGIA E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (FREUD, 1929).
In onore e in memoria di Gemma Donati e Bella Degli Abati...
Se non si vuol continuare a credere alla tradizionalissima "costruzione" di #Boccaccio su #Dante e la sua famiglia, credo sia opportuno proseguire su questi passi d’indagine #critica (*) e cominciare a pensare che #Gemma, la moglie di Dante, nella #Commedia, sia la figura di #Lucia, e, al contempo, #Beatrice sia la madre di Dante, #Bella degli Abati.
Dopo i #maestridelsospetto (#Marx #Nietzsche e #Freud), come è possibile (#Kant) continuare a pensare, all’altezza del #Dantedi2021, che l’uomo e il poeta Dante tradisca spiritualmente non solo la sua sposa #GemmaDonati ma anche i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor #Beatrice?
Non è meglio, forse, uscire dal #letargo e dall’#inferno a rivedere il Sole e le altre stelle... e riflettere un poco su una ipotesi di rilettura della Commedia, avanzata nel 2007? 🌞🌞🙏
* Cfr. Arnaldo Casali, "Gemma, la moglie di Dante", Festival del Medioevo.
#EARTHRISE #METAPHYSICS #ANTHROPOLOGY #ELEUSIS2023 #ROMA2024
Gemma, la moglie di Dante
Dante Alighieri è nel suo studio, intento a correggere il manoscritto della Commedia. “Questo m’è venuto proprio bene - commenta - Lucevan li occhi suoi più che la stella”.
“Sempre a parlare di donne, eh. Ma nessuna, nessuna delle tue poesie parla di me!” sbotta Gemma, entrata nella stanza.
“Ma che c’entra? Tu sei mia moglie!”
“E allora? Sembra sconveniente, per i poeti, scrivere della moglie. Chissà perché invece è del tutto naturale scrivere di un’altra donna. Peraltro moglie anche lei. Di un altro, però...”.
Non è improbabile come potrebbe apparire, questa immaginaria scenata di gelosia ai danni del Sommo Poeta da parte della legittima consorte: l’unica donna di cui Dante Alighieri non parla mai nei suoi scritti, che hanno reso immortali figure femminili come Francesca, Pia, Costanza, Cunizza da Romano, Matelda e persino Piccarda Donati, cugina della stessa Gemma e strappata al monastero per un matrimonio imposto dai parenti.
Gemma Donati era nata a Firenze il 3 marzo 1265, figlia del nobile ser Manetto, ed era coetanea di Dante e un anno più vecchia di Bice Portinari, la donna che le ruberà il posto nella Storia. E certo la povera donna non doveva essere troppo contenta del fatto che tutta Firenze parlasse dell’amore immortale di suo marito per Beatrice.
D’altra parte, di fronte a qualsiasi obiezione il capo famiglia le avrebbe risposto che “le donne non capiscono queste cose. L’amore di cui scrivo è una cosa diversa. Tu sei mia moglie, sei la madre dei miei figli”.
E la moglie non può mai essere la donna che si ama. Basti pensare alle storie di Francia: qualche volta succede che si arriva a sposare la donna che si ama, però poi la storia finisce subito. L’amata può diventare la moglie, ma la moglie non può diventare l’amata. Che cosa sarebbe successo, se Tristano avesse sposato Isotta o se Romeo e Giulietta fossero vissuti felici e contenti?
Certo Dante non avrebbe mai potuto - e probabilmente nemmeno voluto - sposare Beatrice. E anche solo a pensare una cosa del genere, gli sarebbe sembrato di sminuire quell’amore così nobile.
Quanto a Gemma, il 9 gennaio 1277 - quando avevano appena undici anni - era stata promessa a Dante con un atto firmato presso il notaio ser Oberto Baldovini e una dote di 200 fiorini.
I Donati - a cui apparteneva il barone Corso, capo della fazione dei Neri, e Forese, amico di Dante - erano una delle famiglie più influenti di Firenze e storica rivale degli Alighieri. Le nozze erano quindi strategiche per entrambe le casate.
Una decina di anni dopo viene celebrato il matrimonio. La datazione è tutt’altro che sicura: alcuni lo collocano tra il 1283 e il 1285, altri tra il 1290 e il 1295. Dall’unione nascono comunque quattro figli: Iacopo, Pietro, Antonia e Giovanni.
Secondo una teoria piuttosto improbabile di Giovanni Boccaccio, i genitori decidono di far prendere moglie a Dante per consolarlo della morte di Beatrice.
Dante sembra rispondere al più classico stereotipo dell’uomo distrutto: spento, trasandato, con la barba lunga, passa le giornate fissando il vuoto. Quando sembra aver finalmente superato il lutto, racconta l’autore del Decameron, i genitori decidono che è venuto il momento di farlo sposare:
“Rincominciarono a sollecitare lo sconsolato; il quale, come che infino a quella ora avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie chiuse, alquanto le cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che intorno al suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoi parenti, acciò che del tutto non solamente de’ dolori il traessero ma il recassero in allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar moglie; acciò che, come la perduta donna gli era stata di tristizia cagione, così di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E, trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, con quelle ragioni che più loro parvero induttive, la loro intenzione gli scoprirono. E dopo lunga tencione, senza mettere guari di tempo in mezzo, al ragionamento seguì l’effetto: e fu sposato”.
Le conseguenze del matrimonio, però, sono disastrose. D’altra parte, dice Boccaccio, “qual medico s’ingegnerà di cacciare l’aguta febbre col fuoco, o il freddo delle medolla dell’ossa col ghiaccio o con la neve?”.
Secondo il primo dantista il matrimonio per il poeta si rivela una gabbia. Dante non sopporta di dover rendere conto delle sue azioni e dei suoi sentimenti a qualcuno:
“Egli, usato liberamente di ridere, di piagnere, di cantare o di sospirare, secondo che le passioni dolci o amare il pungevano, ora o non osa, o gli conviene non che delle maggiori cose, ma d’ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che ’l mosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell’altrui amore, la tristizia esser del suo odio estimando. Oh fatica inestimabile, avere con così sospettoso animale a vivere, a conversare, e ultimamente a invecchiare o a morire!”.
Insomma Gemma è una donna invadente e indiscreta. In una parola insopportabile, di certo non remissiva e sottomessa e l’insofferenza di Dante è tanta da portare ad una vera e propria separazione dei coniugi:
“Egli, una volta da lei partitosi, che per consolazione de’ suoi affanni gli era stata data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che là dove egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di più figliuoli egli insieme con lei fosse parente”.
Che le nozze combinate per strategia politica non si fossero rivelate particolarmente esaltanti è probabile. Ma è pur vero che Boccaccio, per sua stessa ammissione, nutre un certo pregiudizio nei confronti del matrimonio, che - a suo avviso - non è roba per intellettuali. -“Lascino i filosofanti lo sposarsi a’ ricchi stolti, a’ signori e a’ lavoratori - commenta infatti subito dopo - e essi con la filosofia si dilettino, molto migliore sposa che alcuna altra”.
D’altra parte è difficile che Boccaccio abbia inventato tutto di sana pianta, visto che per scrivere la biografia aveva effettuato delle vere e proprie interviste a persone che avevano conosciuto personalmente Dante, a cominciare dalla figlia Antonia, monaca a Ravenna; che peraltro, assumendo il nome di suor Beatrice aveva a sua volta dimostrato più venerazione per la musa del padre che per la sua stessa madre.
Se dunque la versione dello scrittore certaldese - pur molto discussa - fosse attendibile, non dovrebbe stupirci vedere Gemma impegnata a chiedere conto al marito del suo amore per Beatrice.
“Se l’avessi amata davvero magari anche nel modo in cui Paolo amava Francesca, l’avresti almeno pensato, di sposarla! Fra te e lei non c’è mai stato altro che un saluto vero? Un saluto suo, peraltro... non si capisce nemmeno se tu rispondevi. Oppure questo è quello che scrivi, e nella realtà le cose sono andate diversamente?”.
“Io non le ho mai sfiorato l’orlo della veste se è questo che vuoi sapere - replica lui, insofferente - nemmeno con il pensiero! E lei è morta da anni, ormai”.
“Lei è morta, lo so - dice Gemma - ma più passa il tempo e più è viva... e se fosse una donna vivente, anche amata da te, non mi darebbe da pensare. I morti sono più forti dei vivi, contro di loro non si può combattere”.
“Lei per me - ribatte Dante - era... un annuncio. Una via d’accesso a un’altra realtà, diversa da questa nostra terrena. Era un’elevazione. -Amandola senza chiedere nulla e senza volere nulla, io mi innalzavo al di là di me stesso. Al di là di questo mondo di vane parvenze. Lei era un’intenzione di Dio fatta visibile. Lei era la più pura immagine vivente di Dio. Tu vivi accanto a me. Lei non ti ha tolto nulla, come tu non potevi togliere nulla a lei. Io ho sposato te”.
“Insomma, io la carne e lei lo spirito”.
“Ecco, sì, qualcosa del genere”.
È pur vero che se della moglie non scrive, con la sua famiglia Dante rimarrà sempre in ottimi rapporti; segno che a prescindere da quanto fosse forte l’intesa tra i due coniugi, una rottura vera non ci fu mai.
Opinione abbastanza diffusa è comunque che Gemma - a differenza dei figli - non abbia seguito il marito nell’esilio. Sarebbe dunque questa la separazione a cui allude Boccaccio.
L’unica certezza è che alla morte di Dante - avvenuta a Ravenna nel 1321 - Gemma era ancora viva, e nel 1329 reclamò presso le autorità fiorentine la parte della sua dote dai beni confiscati al marito.
Trasferitasi dal borgo di San Martino del Vescovo in quello di San Benedetto, Gemma morì tra gli ultimi mesi del 1342 e i primi del 1343: in un atto del 9 gennaio del 1343, infatti, Iacopo Alighieri si dichiara erede della madre.
“Senti un’altra cosa - fa la donna prima di lasciare il marito alle sue pergamene - c’è Nella, la moglie di mio cugino Forese, che è molto offesa con te, lo sapevi sì? In quei sonetti orribili, pieni di oscenità che tu e Forese vi scrivete, devi avere detto qualcosa anche di lei... che Forese a letto non vale niente, che sua moglie ha freddo. Non ho capito nemmeno tutto, di quella roba, ma Nella ha tolto il saluto anche a me”.
“Mai dai, si fa per scherzare - risponde il Sommo Poeta ridendo - Voi donne non le capite queste cose. Tu comunque quelle poesie non le dovresti nemmeno leggere. Mi stupisco di te: non sono cose da donne oneste”.
“Com’è che gli uomini onesti possono scrivere cose che le donne oneste non possono leggere?”.
“Uomini e donne sono fatti da Dio in modo diverso, per diversi destini” conclude il capo famiglia con spocchia e insofferenza, ritornando a lavorare al suo libro. Un libro in cui Beatrice arriverà addirittura a guidarlo in Paradiso, e da cui la moglie resterà completamente esclusa.
Eppure, nel finale del canto quinto del Purgatorio, potrebbe essere nascosto un affettuoso omaggio del poeta a Gemma. Facendo parlare Pia dei Tolomei del suo matrimonio, infatti inerisce - pur se “nascosto” - il nome della moglie.
“Ricorditi di me, che son la Pia: Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma”.
Arnaldo Casali
PSICOANALISI, FILOLOGIA, E "DIVINA COMMEDIA": INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1899) E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (SIGMUND FREUD, 1937).
CHIARISSIMA International Psychoanalytical Association (IPA), SULLE ALI DEL VENTO, UNA BRILLANTE "CONSONANZA" PRIMAVERILE CON LA LONDRA DI MARESFIELD ("Freud Museum London") E DINTORNI, IL SUO POST SU BELLA FREUD.
DIVINA COMMEDIA. Avendo richiamato da poco alla memoria il nome della madre di Dante Alighieri - Gabriella (Monna Bella) degli Abati, meglio nota come Donna Bella degli Abati - e, da tempo (almeno dal 2007), fatta l’ipotesi che la ragione per cui la figlia di Dante, Maria Antonia, abbia scelto il nome di Beatrice quando entrò in convento e divenne suora, stia proprio nel fatto che Bella era il nome della nonna, quella donna 🌞"bella e beata"🌞(Inf. II, 54), che sollecita Virgilio ad aiutare Dante, oggi☀️(15.02.2023), ho trovato molto significativa la coincidenza con il fatto che la pronipote di Freud sia (e per davvero), già solo per il nome e cognome, legata alla figura di Freud e, al contempo, di Virgilio e Dante. 🌞🙏
N.B. - Dopo i maestri del sospetto (Marx Nietzsche e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare all’altezza dI DANTE2021 che il Sommo Poeta tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice?
"L’Interpretazione dei Sogni" (1899) ha il suo legame con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante.
FILOLOGIA, LETTERATURA E STORIOGRAFIA. OGGI (11 FEBBRAIO 2023).
EUROPA 2023. Nella ricorrenza della giornata della firma dei PATTI LATERANENSI (11 Febbraio 1929), brillante la ripresa da parte del Centro documentazione Piero Delfino Pesce di questo articolo di Luca Mazzocchetti, dedicato a "Quella volta che Leopardi decise di arrabbiarsi ..." ("Terza web", 24 Novembre 2016).
DANTE 2021 E LA #MONARCHIA DEI "DUE SOLI". Al di là della polemica "personale" e "momentanea", nell’epigramma contro Niccolò #Tommaseo dell’agosto del 1836, ("poi però non reso pubblico" e poco conosciuto), nel richiamo al dantesco "Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre...", emerge con forza tutta la tempra eroica di Giacomo Leopardi e la sua consonanza con lo #spirito di #DanteAlighieri critico del potere temporale dei Papi e, anche e ancora, la sua #indignazione contro tutta la sudditanza della intera cultura italiana alla lettura storiografica tradizionale.
Giacomo Leopardi studioso di Dante Alighieri
Tra le pagine dello «Zibaldone» poesia filologica e fraterno incanto
di RITA ITALIANO (La Stampa, 22 Gennaio 2021
In occasione del suo celebrato anniversario si può anche cercare e trovare Dante in uno scrigno tra i più preziosi che il pensiero umano abbia mai offerto, lo «Zibaldone» di Giacomo Leopardi. Basta scorrere le occorrenze del nome di Dante Alighieri in quelle pagine accurate ed emozionanti, per schiudere le porte di un magico regno nel quale il rigore dell’analisi critica viaggia alle altitudini del genio. La lettura data da Giacomo Leopardi si fa poesia filologica, fraterno incanto.
Originalissimo esame che della produzione di Dante registra il carattere, lo stile, la lingua, l’interesse per la filosofia, giungendo sino a cogliere le qualità peculiari de «La Divina Commedia». Scegliendo di soffermarsi attento soprattutto sulla rivoluzione linguistica che in questa è evidente. E illustrando le motivazioni che animarono il suo autore: «ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si fa manifesto sì dal poema sacro, ch’egli considerava, non come trastullo, ma come impresa di gran momento».
Da tale svolta si avvia la possibilità di definire Dante «quasi il primo scrittore italiano». È infatti proprio il modo del tutto nuovo che egli ha dato al suo operare che ha avuto per conseguenza non dappoco d’essere «propriamente, com’è stato sempre considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana». Inoltre, la disamina di Leopardi giudica che nel lavoro di Dante anche lo stile sia assai meritevole di ammirazione. A questo nodo dedica uno spazio di rilievo.
Con righe illuminanti. Si chiede: «Perché lo stile di Dante è il più forte che mai si possa concepire, e per questa parte il più bello e dilettevole possibile?» La risposta spiega con semplicità: «perché ogni parola presso lui è un’immagine». A Ovidio «bisogna una pagina per farci veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina». E se «Ovidio descrive» e «Virgilio dipinge», è solo Dante che «non solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di pennello; non solo dipinge senza descrivere [...] ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le proprie idee, concetti, immagini, sentimenti».
Leopardi si sente forse prossimo a Dante Alighieri, ch’era autore e uomo dal temperamento «grave, passionato, ordinariamente (ai nostri tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a soffrir grandemente della vita». Una sensibilità difficile e rara, in grado di infondere lo spirito della Storia nel mistero della dottrina. Infatti «il suo poema non è epico, ed è misto di narrativo e di dottrinale, morale». È sapere che diventa sapienza.
Leopardi annota: «Omero e Dante per l’età loro seppero moltissime cose, e più di quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d’oggidì». Ma non basta. È chiaro che per la propria espressione poetica, tessuta alle vette più alte dell’arte compositiva, occorrevano a Dante, combinate e inestricabili, la rivoluzione dello stile e quella della lingua. Di quest’ultima Leopardi attesta l’enorme valore. Perché «Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l’ardire de’ composti» e aveva fatto «espressa professione di non voler restringere la lingua a veruna o città o provincia d’Italia, e per lingua cortigiana l’Alighieri, dichiarandosi di adottarla, intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e governi d’Italia in que’ tempi». La scrittura di Dante è ricca, screziata. La conoscenza che Leopardi ne ha, gli consente di parlarne senza esitazioni. «Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino, ma dall’altre lingue o dialetti ch’avevano una tal qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione».
Leopardi spazia e approfondisce. Riconosce a Dante meriti che vivono nella letteratura e ne superano i confini, entrando nella Storia. Ricorda «quanto debbano a Dante, non pur la lingua italiana, come si suol predicare, ma la nazione istessa, e l’Europa tutta e lo spirito umano». Da qui l’attribuzione che a Dante spetta del serto d’alloro di un vero primato: «ardì concepire e scrisse un’opera classica e di letteratura in lingua volgare e moderna». Impresa temeraria e suprema che eleva «una lingua moderna al grado di lingua illustre» a dispetto dell’opinione corrente che sino a quel momento aveva ritenuto la lingua latina «unica capace di tal grado».
Leopardi indaga la natura della «Commedia», vera pietra miliare della letteratura, e afferma che «non fu solo poetica, ma come i poemi d’Omero, abbracciò espressamente tutto il sapere di quella età, in teologia, filosofia, politica, storia, mitologia ecc». Classica da subito e per sempre: «non rispetto solamente a quel tempo, ma a tutti i tempi, e tra le primarie; né solo rispetto all’Italia ma a tutte le nazioni e letterature». Il passo di Dante in questo senso è stato dunque quello di un pioniere. La sua è stata la marcia risoluta di un apripista. In sostanza, «Dante diede l’esempio, aprì e spianò la strada, mostrò lo scopo, fece coraggio e col suo ardire e colla sua riuscita agl’italiani: l’Italia alle altre nazioni. Questo è incontrastabile».
Nel prosieguo, lo studio condotto da Leopardi giunge a rimarcare quanta applicazione e quanta ponderazione stessero dietro al rivolgimento dantesco, «né il fatto di Dante fu casuale e non derivato da ragione e riflessione, e profonda riflessione. Egli volle espressamente sostituire una lingua moderna illustre alla lingua latina». Sentiva che i tempi erano ormai maturi, e che anzi esigevano la radicalità di un cambiamento di questa portata. Perciò «volle espressamente bandita la lingua latina dall’uso de’ letterati, de’ dotti, de’ legislatori, notari, ecc., come non più convenevole ai tempi». Un atto di grande perspicacia e ponderazione dal quale venne lo splendido frutto che nelle sue terzine custodisce, tra l’altro, la prova d’eccellenza della risolutezza encomiabile con la quale il poeta Dante Alighieri derivò i propri principi di stile «da proposito e istituto, e mirò ad uno scopo; e il proposito, l’istituto e lo scopo» furono quelli di un «acutissimo, profondissimo e sapientissimo filosofo».
MEMORIA E STORIA DI LUNGA DURATA. APPUNTI SU PROBLEMI DI PATRIMONIO CULTURALE, ARTE, E ANTROPOLOGIA
A) SPAGNA: A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE L’OPERA DI "EL GRECO" ("LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ", TOLEDO 1586 -1588) ... E PER RIMEDITARE LO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE (CARICO DI TEORIA E DI FUTURO) DI TERESA D’AVILA (1515-1582).
B) TERESADAVILA (Avila 1515 - Alba de Tormes 1582): "[...] Teresa (Teresa Sánchez de Cepeda Ávila y Ahumada) nasce in una famiglia ricca; il padre era figlio di un ebreo convertito - dunque tTeresa fu di origini ebree. La madre trasmette alla figlia l’amore per i romanzi cavallereschi, ma muore quando Teresa ha solo 13 anni.
Diventa una donna determinata, affascinante e trascinatrice, estrema nelle sue scelte e insieme capace di amministrare i monasteri e di trattare con diplomazia coi grandi dell’epoca. Da ragazza convince il fratello a fuggire per andare a combattere contro gli infedeli. Sempre col fratello scrive un romanzo cavalleresco; manifesta, insomma, subito due grandi amori della sua vita: la fede e la scrittura.
È l’epoca della grande crisi della Chiesa, che all’apice della propria magnificenza è percorsa da profonde inquietudini, divisa dalla predicazione di #Lutero e Juan de Valdés, una ferita profonda e interna. Teresa ha trent’anni all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), tappa di quella “rifondazione” della chiesa cattolica, che si impegna tanto nella guida delle anime, con la fondazione di nuovi ordini religiosi e la promozione di una rinnovata austerità e spiritualità, quanto nel controllo delle stesse, imponendo nuove e più severe regole monastiche e potenziando i tribunali dell’#Inquisizione. In in Spagna in particolare, dopo il culmine della potenza raggiunto sotto il regno di Carlo V (1500-1558), suo figlio Filippo II (1527-1598) si fa paladino della ortodossia cattolica. [...]" (Cfr. Maria Rosa Panté, "Teresa d’Avila", Enciclopedia delle donne)
C) CARMELITANISCALZI: L’ULTIMA LEZIONE DI TERESA D’AVILA. A CONTURSI TERME, IN PROVINCIA DI SALERNO, NELLA TERRA DEL "PRINCIPE DI EBOLI" (Rui Gomes da Silva), L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (IN STATO DI PROGRESSIVO DEGRADO).
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI: LA STORIA NON LA FANNO SOLO I PROFETI, MA ANCHE LE SIBILLE. Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo Buonarroti e al suo "Tondo Doni" (e al suo Mosè), sollecita anche a riproblematizzare (Julia Kristeva, "Teresa, mon amour", 2009) il rapporto tra Freud e Lacan ("Encore", 1972-1973) ) e, infine, a portarsi oltre la logica del "superuomo" del cattolicesimo costantiniano!
ARTE STORIA E STORIOGRAFIA:
NELL’EUROPA DEL XVI SECOLO, DOPO LA RIFORMA PROTESTANTE (1517), IL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563) E LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1571), UNA ALLEANZA "CATTOLICISSIMA" TRA ALTARE E TRONO:
a) FILIPPO II, ALLA VIGILIA DELL’ATTACCO ALL’INGHILTERRA, VIENE "IMMORTALATO" NELLA CERIMONIA FUNEBRE DELLA ARTISTICA CELEBRAZIONE DELLA "SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" DA EL GRECO (TOLEDO 1586-1588).
b) QUADRO INGLESE DELLA CELEBRAZIONE DELLA DISFATTA DELLA FLOTTA SPAGNOLA NEL1588. "Il cosiddetto Ritratto dell’Armada, dipinto dopo il 1588 per commemorare la disfatta dell’Invincibile Armata. Elisabetta tiene la mano sul globo, simbolo di autorità, mentre sullo sfondo è raffigurato l’evento."
EUROPA 2023: ARTE, STORIA, ANTROPOLOGIA.
A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE E RI-PENSARE L’OPERA DI "EL GRECO": "LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" (1586-1588)... E ANCHE IL NASCERE (IN TERRA) E IL RINASCERE (IN TERRA E IN CIELO) - OGGI
NELLA SPAGNA DI FILIPPO II, IN UNA EUROPA, SEGNATA GIA’ DALLA RIFORMA PROTESTANTE (WITTENBERG, 1517), DALLA RIVOLUZIONE DEI "CORPI TERRESTRI" IN ANATOMIA (Realdo Colombo, amico di Michelangelo Buonarroti e professore alla Sapienza, 1448; Andrea Vesalio, medico di Carlo V prima e di Filippo II poi, 1553; e Juan Valverde de Hamusco, medico del cardinale Giovanni di Toledo, 1556/1560) E DEI "CORPI CELESTI" IN ASTRONOMIA (Niccolò Copernico, "De revolutionibus orbium coelestium,1543), E, DOPO I LAVORI DEL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563), E DOPO GLI ANNI DELLO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE DI #TERESADAVILA (1515-1582), A TOLEDO, NEGLI ANNI 1586-1588, L’ARTISTA DOMENICO THEOTOKOPULOS, DETTO "EL GRECO", PORTA A COMPIMENTO IL SUO CAPOLAVORO.
DANTE E LA TEORIA DEI "TRE SOLI":
"OCEANO CELESTE" (KEPLERO, 1611). Per non buttare il #bambino (Dante Alighieri) con l’acqua sporca ("Dante è di destra"), un invito storiografico a riprendere la navigazione nella #nave di Galileo (quella del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632) e rileggere Giordano Bruno:
FILOLOGIA E FILOSOFIA. Da ricordare che la ’casa’ di Dante Alighieri (la sua opera, la "Monarchia") era la "Casa dei Due soli", e ogni "potere" era non l’accoppiata "platonica" di un servo e di un signore, ma "due in uno" (al contempo, re e sacerdote) alla #luce del Sole - non di un solo Sole (come pretendeva Tommaso Campanella con la sua "Città del Sole" e le varie "monarchie" cosmoteandriche). Dante, a mio parere, è in sintonia con lo spirito di Giordano Bruno e le "TRE CORONE" dello "Spaccio de la Bestia trionfante" e con Keplero che a Galileo Galilei, e al suo "Sidereus Nuncius" (1610). da Praga (1611) quasi grida: "VICISTI, GALILAEE" ("HAI VINTO GALILEO")!
Per Dante, svoltare a destra
di Stefano Jossa (Doppiozero, 16 Gennaio 2023) *
Dante di destra? Lo ha dichiarato, col compiacimento di chi ritiene di lanciare una provocazione dirompente («so di fare un’affermazione molto forte»), il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano in un’intervista al direttore di «Libero» Pietro Senaldi durante un evento elettorale di Fratelli d’Italia a Milano. Il ministro ha individuato in Dante Alighieri «il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese», perché ritiene che «quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia sia profondamente di destra».
Sangiuliano sperava di suscitare reazioni indignate, com’è effettivamente avvenuto, per cui come provocatore alla Marco Pannella, alla Renato Zero o alla Aldo Busi ha decisamente funzionato bene. Molto meno bene ha funzionato come pensatore originale, perché la sua battuta ha una lunga storia, che si radica almeno in quel «Dante fascista» che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime.
Rivelandosi estremamente difficile assimilare Dante alla prospettiva politica e culturale del PNF, perché l’etica francescana e la concezione universalista del poeta non potevano coincidere con il nuovo orizzonte aggressivo e nazionalista delle camicie nere, gli ideologi del tempo non trovarono di meglio che aggregare Dante al Pantheon eroico della Nazione, facendolo entrare in una lunghissima lista di campioni dell’italianità, da Giulio Cesare al Duce in persona, passando per, fra gli altri, Giangaleazzo Visconti, Emanuele Filiberto, Ugo Foscolo, i fratelli Bandiera, Goffredo Mameli, Camillo Benso Conte di Cavour, Alfredo Oriani, Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e Nino Oxilia (così Vittorio Cian nel 1928): lista che di Dante faceva un santino come gli altri, ormai svincolato dalla sua reale esperienza letteraria e dalla sua concreta identità storica.
Dante veniva presto ridotto a una controfigura del Duce, di cui del resto avrebbe profetizzato l’avvento in quel verso del trentatreesimo canto del Purgatorio in cui si annuncia un DVX liberatore dell’Italia dalle divisioni e dalle guerre: «nel quale un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque» (dove il numero romano per 515, DXV, viene anagrammato per indicare l’avvento di un vendicatore dell’alleanza a delinquere tra la puttana, la curia papale corrotta, e il gigante, la monarchia di Francia). Lo sintetizzava perfettamente lo storico Domenico Venturini nel volumetto di poco più di cento pagine intitolato Dante Alighieri e Benito Mussolini, stampato a Roma dalla Nuova Italia nel 1927, con prefazione di Amilcare Rossi, Presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti. Il volume era «pubblicato a beneficio dell’Opera Nazionale per il cimitero monumentale del Grappa, sotto l’alto patronato di S. M. il Re».
L’associazione con l’eroismo militare, da un lato (essendo il sacrario militare del monte Grappa, in Veneto, uno dei più imponenti e significativi monumenti alla memoria dei caduti della Grande Guerra), e con la monarchia, dall’altro (essendo pur sempre il Re il garante dell’unità della nazione), inseriva fin dall’inizio il libretto in un orizzonte d’italianità, come si affrettava a chiarire il prefatore nella pagina introduttiva.
Il risultato era una raccolta di corbellerie che istituivano il parallelo tra il Poeta e il Condottiero, accomunati dalla triste esperienza dell’esilio, che vissero entrambi con «acutissimo dolore per la lontananza della patria», e dalle nobili aspirazioni politiche, perché «Mussolini è il Dux che sta operando, conforme voleva Dante, quella riforma politica e morale da cui il Poeta sperava salute per l’Italia travagliata da fierissime discordie derivanti dai colluttanti partiti, riforma, ripeto, che schiude la via al conseguimento de’ più alti destini d’Italia, destini che renderanno imperituro alla memoria de’ posteri il meraviglioso secolo di Mussolini».
Gli avrebbero fatto seguito il «Dante Italiano e Imperiale» di Emilio Bodrero (Dante, l’Impero e noi, sulla «Nuova Antologia» del 1931) e il Dante precursore di Mussolini di Tommaso Vitti (Dante e Mussolini, Caserta, Tip. Sociale Jacelli & Saccone, 1934). Di qui discendeva il culto di Dante, che culminava nel progetto di quel Danteum che avrebbe sintetizzato la visione della nazione contenuta nella Divina Commedia. Alle ossa di Dante il segretario del Fascio di Salò Alessandro Pavolini affidava addirittura, simbolicamente, l’ultimo sussulto d’italianità dei repubblichini, proponendo di trasferirle nel «ridotto della Valtellina», il luogo dove i fascisti avrebbero dovuto organizzare la difesa finale della Repubblica Sociale Italiana. Dante ridotto, è proprio il caso di dirlo, a icona vuota, insomma, dentro cui si potevano accomodare i contenuti dettati dalle convenienze e dalle contingenze: se il simbolo uccide la cosa, hegelianamente e lacanianamente, il piano trascendente del linguaggio e delle rappresentazioni strutturate in termini linguistici negherà la cosa, l’oggetto, i contenuti, la storia, a favore di un sistema di significati altri, costruiti altrove e determinati altrimenti.
Un Dante di destra, quindi, nell’ottica dei fascisti e dei loro seguaci, è già abbondantemente esistito e come provocazione è risibile. Dalle parole del ministro, tuttavia, emerge quella vaghezza del linguaggio del politico, che riduce tutto a slogan senza contenuti, che è persino più preoccupante del proclama di un Dante di destra (che, inutile dirlo, Dante non fu, per il semplice fatto che le categorie politiche del suo tempo erano guelfi e ghibellini, con i primi divisi, a Firenze, in bianchi e neri, anziché destra e sinistra). Che vuol dire, ad esempio, «pensiero di destra»? Quali sono la «visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri»? Qual è la «costruzione politica» nei saggi diversi dalla Divina Commedia (che non è un saggio)? Secoli di esegesi e critica danteschi sono ridotti a due massime capitali che non significano nulla, perché ciascuno può riempirle del contenuto che preferisce, chiamandolo «di destra» per partito preso, per ragioni di schieramento politico oppure per semplice preferenza di una mano sull’altra.
Al quale si può senz’altro contrapporre il suo uguale e contrario, quel Dante di sinistra che emergerebbe prima di tutto dalla richiesta di veicolare istanze di libertà, come avvenne quando i neri d’America nelle piantagioni adottarono versi danteschi per i loro canti spiritual, in un processo descritto magnificamente da Dennis Looney in Dante for Freedom (assumendo, con Norberto Bobbio, che la sinistra tenda verso la comunità e la destra verso l’individualismo, con le dovute scuse per la sempflicazione da citazione en passant).
La «vision dell’Alighieri» era del resto il richiamo decisivo dell’inno nazionale fascista, la canzone Giovinezza, cui lo scrittore Salvator Gotta imprimeva nel 1925 una risoluta svolta dantesca nel segno della continuità tra momento profetico e realizzazione storica con l’aggiunta di due versi: «la vision dell’Alighieri | oggi brilla in tutti i cuor». Dante nazionalista, insomma, secondo una retorica di lunga durata, che discende dalla lezione risorgimentale, incarnandosi nella famosa sentenza di Cesare Balbo secondo cui «Dante fu l’Italiano più italiano che sia stato mai» (Vita di Dante, 1839), e si esalta nella sintesi capitale di Giovanni Gentile, per il quale «con Dante comincia ad affermarsi idealmente l’Italia» (Dante nella storia del pensiero italiano, 1904). In mezzo c’era l’incoraggiamento del grande teorico dell’eroismo romantico, lo storico e filosofo scozzese Thomas Carlyle: «La nazione che possiede un Dante è unita come nessuna muta Russia può esserlo» (On Heroes, 1941).
Questa retorica è appartenuta tanto alla destra quanto alla sinistra, poiché è soprattutto una retorica delle Istituzioni (in quanto tale, perciò, tendenzialmente di destra), al punto che personalità di certo immuni dal contagio delle destre, come l’allora Ministro della Cultura Dario Franceschini e l’ancora presidente della Repubblica Sergio Mattarella hanno potuto dichiarare, rispettivamente, che «Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia» (Comunicato del Ministero della Cultura del 17 marzo 2021) e che «Dante è in realtà il grande profeta dell’Italia, un patriota visionario, destinato, quasi biblicamente, a scorgere ma non a calcare la Terra vagheggiata e promessa» (Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione delle celebrazioni per il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri).
La risposta più sciocca possibile e immaginabile al ministro Sangiuliano è dunque che Dante non è né di destra né di sinistra, perché è soltanto italiano: cosa che Dante, storicamente, non fu mai, semplicemente perché per lui non era neppure concepibile esserlo, muovendosi il suo orizzonte politico tra il municipale (Firenze) e l’universale (l’Impero). È di destra, tuttavia, ridurre ogni discorso a una «pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile». Così scriveva uno dei grandi interpreti della cultura di destra, l’antropologo Furio Jesi, che proseguiva definendo i caratteri di questa cultura: una «cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari» e «in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto tradizione e cultura ma anche giustizia, libertà, rivoluzione». La conclusione era drammatica, perché identificava la destra col partito del tradizionalismo fine a se stesso, della difesa ottusa delle identità statiche e della chiusura ideologica su malintese proprietà: «La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra».
I due grandi miti del padre della patria (che Dante non fu) e del padre della lingua (che Dante neppure fu), congiunti mirabilmente in endiadi («padre della lingua italiana, e quindi della Nazione») da Benito Mussolini in un discorso del 27 giugno 1932, in occasione dell’apposizione della targa commemorativa al monumento di Dante a Napoli, andranno definitivamente decostruiti, smontati e ricalibrati. Su questo forse dovremmo continuare a interrogarci: non se Dante sia di destra o di sinistra, che è una boutade che lascia il tempo che trova e ha la sua risposta nell’effimero di una risata, ma cosa vogliano dire destra e sinistra. La destra al governo continua a tenerlo nascosto, ma è arrivato il momento di stanarla, smontandone il linguaggio e individuandone le incoerenze.
Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista, in «The Italianist», XVI (1996), 1, pp. 117-42.
Luigi Scorrano, Il Dante “fascista” (2000), in Id., Il Dante “fascista”. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna, Longo, 2001, pp. 89-125.
Dennis Looney, Dante for Freedom. The African American Reception of Dante Alighieri and the Divine Comedy, Notre Dame: University of Notre Dame Press, 2011.
Martino Marazzi, Danteum. Studi sul Dante imperiale nel Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2015.
Guy P. Raffa, Dante’s Bones. How A Poet Invented Italy, Cambridge (Mass.) - London, Harvard University Press, 2020.
* Ripresa parziale - senza allegati (FLS).
#DIVINACOMMEDIA E #DISAGIODELLACIVILTÀ (#Freud, 1929): #Dante2021.
Per meglio comprendere, a mio parere, la inaudita portata antropologica e teologica della #Monarchia di #Dante, occorre porsi all’altezza del nostro presente storico e sedersi a fianco della "ottantenne (che si) toglie l’hijab" e ascoltare le parole di (Maria) #BEATRICE che, a Dante che le chiede : "#Madonna, mia bisogna / voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono", risponde: "Ed ella a me: "Da tema e da vergogna/voglio che tu omai ti disviluppe,/ sì che non parli più com’om che sogna" (Purg. XXXIII, 26-33 ).
#FILOLOGIA E #MITOLOGIA. #Europa2023: #Eleusis2023 (Memoria di #Demetra e #Persefone). Dopo millenni di #Ci-#Viltà e #Cosmoteandria (laica e religiosa), il gesto della donna e madre iraniana (che #ovviamente si sta rivolgendo non solo agli uomini, ma soprattutto alle donne e alle madri dell’Iran - e non solo!) indica la via della #critica alla ragione olimpica: uscire dal tragico "stato di minorità" (#Kant, #Koenigsberg 1784 - #MichelFoucault, 1984), e, possibilmente, fare qualche passo di coraggiosa chiarezza sulla logica pestilenziale di #Edipo e di #Giocasta - a livello planetario.
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA...
A PRAGA, IL PIACERE DELLA SCOPERTA: ULISSE CON DANTE RICORDA LA "CASA DEI "DUESOLI".
Se l’Odissea è un libro per Nessuno, la Divina Commedia è per Everyman (Ezra Pound), come anche la Monarchia
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Dante 2021 (#divinacommedia) ed Europa 2023: Praga.
PRAGA. L’altra sera, Alberto Angela ha proposto una visita nella città di Praga e, nel suo percorso per il Il "Piccolo Quartiere" (in ceco, "Malà Strana") e per via Nerudova, ha ricordato che al n. 47 di questa via c’è la "Casa dei #DueSoli". Si sentiva proprio una "strana" aria di casa ... DANTE. Nel corso delle celebrazioni dantesche del 2021, chi ha mai sentito parlare del tema e del problema dei "due Soli", nella Commedia e nella #Monarchia?!
ULISSE. Se è vero, com è vero, che l’#Odissea è "un libro per tutti e per #nessuno", e, quindi, è per tutti e per #Ulisse, non è così anche per la Divina Commedia, che è un libro per Dante ma anche per "#Everyman" (come voleva #EzraPound), allora non ci resta che cercare di capire #chi è quel Dante Alighieri che è uscito dall’inferno, è risalito fin sulla montagna del Purgatorio, è uscito dalla Terra, nell’"oceano celeste" (#Keplero, 1611), e a 702 anni dalla morte (1321) lo ricordiamo ancora?!
#BEATRICE. Chi era un "cretino"? Un "rimbambito" che se ne andava in giro per il mondo con il fantasma della sua "amata" nella sua testa, abbandonando la sua compagna Gemma e i suoi figli, compresa suor Beatrice?!
ITALIA. E gli italiani e le italiane, chi sono? e perché hanno deciso di dedicare il giorno #25marzo proprio a lui, il #Dantedì, a Dante Alighieri?! Non è forse "l’ora che volge al disio" e sollecita a riprendere la navigazione?!
L’#ALBA DELLA #MERAVIGLIA: IL #SORGEREDELLATERRA (https://it.wikipedia.org/wiki/Sorgere_della_Terra). Ricordo che questo anno una delle capitali europee della cultura è Eleusi: #Eleusis2023. E, oggi, l’antica Terra-Madre (#Demetra) splende (ancora) davanti agli occhi (e non solo) degli astronauti e delle astronaute, in tutto il suo meraviglioso brillante colore.
QUESTIONE ANTROPOLOGICO-POLITICA: "DUE SOLI". Non è questo il tempo di rileggere meglio la #Monarchia e cercare di uscire dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784) e capire, alla luce della nostra terrestre #Costituzione, che ogni #essereumano ("Everyman") è già sé con sé (due-in-uno) "#papa" e "#imperatore" e che abita già in una "casa" di "due Soli"?! Non è il caso di svegliarsi e riprendere il cammino alla luce del #Sole?
#STORIA #LETTERATURA #FILOLOGIA E #STORIOGRAFIA: #DANTE, #BOCCACCIO, E #PETRARCA.
#Considerazioni #inattuali a margine della novella dei #tre #anelli (#GiovanniBoccaccio) e della scoperta di "un nuovo Livio di Petrarca":
A) IL #PRIMATO DI #ROMA (E DI #PIETRO), #BEATRICE E L’#AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE, E LA #MONARCHIA DI #DANTE:
B) BOCCACCIO CON DANTE. Nel #Decameron, Boccaccio pone il suo cammino sotto la guida di "#Filomena", sotto il segno della #Legge, della #Giustizia e della #Pace - di "#MELCHISEDECH GIUDEO CON UNA NOVELLA DI TRE ANELLA CESSA UN GRAN PERICOLO DAL SALADINO APPARECCHIATOGLI" (terza novella della “prima giornata” ), e, di #SOLONE (nel "Trattatello in laude di Dante").
C) #FRANCESCOPETRARCA FA DI #LAURA LA SUA #BEATRICE E DELLA #ROMA ANTICA (DANTE) LA BASE #POLITICA DEL SUO #SOGNO MODERNIZZATO:
"Nel capitolo intitolato a Tito Livio dei Rerum memorandarum libri (1, 18, 2-3), composti dall’estate del 1343 fino all’inizio del 1345, Petrarca lamentava che solo un’esilissima parte dei 142 libri degli Ab urbe condita era giunta alla sua epoca e rammentava come si fosse messo sulle tracce della seconda decade sollecitato da re Roberto d’Angiò:
Questa sua affannosa ricerca fu vana ma l’insuccesso non comportò una diminuzione d’interesse nei confronti dell’opera che narrava le gesta e la gloria di Roma antica e si prestava a essere utilizzata sia come fonte per la sua produzione storica sia come strumento per la sua rivendicazione politica del primato dell’Urbe presso i contemporanei. [...] (Monica Berte, "Un nuovo Livio di Petrarca: il manoscritto Arch. S. Pietro C. 132 della Biblioteca Apostolica Vaticana", Insula Europea, 24 maggio 2022).
RIPENSANDO A CELESTINO V E A DANTE ALIGHIERI.
Nota a margine dell’attuale presente storico e del pontificato di papa Bendetto XVI...
A 700 anni (più 1, 701 anni) dalla morte (1321) di #DanteAlighieri, tenendo conto degli "ultimi ritocchi al #Paradiso (1319)" [M. Feo] e della consapevolezza dello stesso #Dante di essere "cive di quella Roma onde Cristo è romano" [Purg. XXXII, 102], si può pensare (come alcuni hanno proposto) che sia #Pilato (e non #CelestinoV) la persona del "gran rifiuto", e che il comportamento di Pilato in campo romano possa essere messo in corrispondenza speculare con il comportamento di #Giuda in campo ebraico.
Se questo è accettabilmente vero, e la cosa appare celestinamente convincente seguendo il percorso di Pietro da Morrone prima e dopo della sua elezione a papa, tutto il castello storiografico costruito in sette secoli crolla e apre a nuovi orizzonti e a inediti punti di vista sia sulla lettura del lavoro di Dante, sia della storia della Chiesa e, al contempo, della stessa storia d’Italia.
Alla luce dello spirito di cittadinanza costituzionale di #Dante (e, su questo, ricordare l’amore del presidente della Repubblica italiana, #Carlo #Azeglio #Ciampi, per il cittadino #Dante), non è possibile non pensare immediatamente al #doppio #tradimento, quello della #monarchia del #Regno d’Italia (#Pilato) e della Chiesa Cattolico-costantiniana (#Giuda), nei confronti della intera popolazione italiana di religione ebraica ("Leggi per la difesa della razza", 1938), e, ancora e subito, riesaminare e rilanciare il programma dei #dueSoli in #terra e dell’unico Sole in #cielo (Giordano Bruno, "Lo spaccio della bestia trionfante") e tentare di portarsi "Fuori dall’Occidente" (Asor Rosa, 1992) e aprire gli occhi (#Freud) su tutta la Terra?
Oggi, nel 2023 (appena iniziato) #Eleusi è una delle capitali europee della #cultura, forse, può essere una buona occasione per riattivare la #memoria della Terra-Madre (#Demetra), riabbracciare la "antica madre" (#Virgilio) e, con #Astrea, ripensare il problema antropologicamente, in spirito di #Giustizia.
SUL TEMA, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
FLS
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO. STORIA E LETTERATURA:
"AMLETO", "BABBO NATALE", E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA.
LA LEZIONE DI SHAKESPEARE AL "PRINCIPE DELL’ EUROPA" DI OGGI, NATALE 2022.
Appunti sul tema...
RIFORMA PROTESTANTE (1517), SCISMA ANGLICANO (1534), E LA SOVRANITA’ RELIGIOSA E POLITICA (1558-1603) DI ELISABETTA: "HAMLET. "REST, REST, PERTURBED SPIRIT" (I.5). "Calma, calma, spirito perturbato": Se si riflette sulla famosa risposta di Amleto alle rivelazioni dello spirito del Padre e Re, che "Il mondo è fuor di sesto" e che "è una sorte maledetta ch’io sia nato per rimetterlo a posto" (I.5), si potrebbe anche pensare che la vicenda di Amleto sia da Shakespeare messa consapevolmente e strategicamente in parallelo con quella evangelica di Gesù ("Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!": Lc. 22. 42) e che il suo obiettivo metateatrale sia proprio quello di sollecitare l’intera cultura inglese (ed europea) a procedere a un ripensamento generale della intera questione antropologica e teologico-politica: partire da sé e rimeditare la figura del Padre Re - di "Babbo Natale"!
A CHE GIOCO SI GIOCA, NEL PIANETA "DANIMARCA": IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS O IL LOGO?! L’Arca di Noè o la Fattoria degli Animali?! Qual è il problema istituzionale e costituzionale che Shakespeare in "Amleto" pone ad ogni essere umano? Non è una domanda ("question") radicale quella posta sull’essere e sul non essere e, al contempo, non è un invito a svegliarsi dal sonno dogmatico e a "non lasciare che il letto regale / di Danimarca sia un giaciglio per la lussuria/ e il maledetto incesto" (I.5), cioè a non lasciarsi travolgere dallo spirito della menzogna e del tradimento, ad ogni livello?
L’EUROPA E LA CRISI DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO: IL PRESEPE (FRANCESCO D’ASSISI, 1223) LA "MONARCHIA" (DANTE, 1313) E LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453). Alla luce del lavoro di Michelangelo (1475 - 1564) e di Shakespeare (1564-1616), ampliando lo sguardo, forse, oggi è da ammirare e ripensare, la "vertiginosa" consonanza antropologica e teologico-politica che connota l’attività di Teresa d’Avila (1515 - 1582) e di Elisabetta I d’Inghilterra (1533 - 1603): la tradizione costantiniana è decisamente sotto attacco. Tra il Nord e il Sud dell’Europa, alla fine del Cinquecento e agli inizi del Seicento, c’è un’aria di ripresa e rilancio dello spirito dell’ecumenismo francescano e umanistico-rinascimentale (con papa Sisto IV della Rovere, prima, e Giulio II della Rovere, poi) che nella Volta della Cappella Sistina (1512) aveva rivisto profeti e sibille camminare insieme verso una terra e una società di pace e di giustizia: Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568 - 1639), come si sa, sono gli ultimi alfieri di questo "programma".
"Il disagio della civiltà" (S. Freud, 1929) e nella civiltà europea e nell’intero pianeta crescerà sempre di più, e, alla fine, si comincia ad ammettere quanto e "come spesso, nel corso della storia, la legge dell’occidente cristiano non sia stata l’imitazione di Gesù Cristo ma bensì l’imitazione dei suoi carnefici. Il corso della storia non è stato influenzato dai santi. Essi hanno agito sui cuori e sulle anime, ma la storia è rimasta criminale" (F. Mauriac, "Le fil de l’homme", 1958).
SHAKESPEARE, SONETTO 116: "L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO".
EVENTO
1622. Essere universali nel mondo cattolico. Monarchie iberiche e Papato tra gestione del sacro, santità, pratiche missionarie ed evangelizzazione
Nei giorni 30 novembre, 1 e 2 dicembre 2022 si terrà a Roma il Convegno Internazionale di Studi «1622. Essere universali nel mondo cattolico. Monarchie iberiche e Papato tra gestione del sacro, santità, pratiche missionarie ed evangelizzazione», promosso dall’Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma-CSIC (EEHAR-CSIC), dall’Istituto di storia dell’Europa mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Isem), dall’Istituto Nazionale di Studi Romani (INSR), dalla Pontificia Università Lateranense, dalla Red Columnaria/COREDEX e dall’Università Roma Tre, Dipartimenti DSU e FILCOSPE, con il patrocinio dell’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede.
L’anno 2022 commemora la ricorrenza di due eventi particolarmente significativi per la storia della Chiesa e più specificatamente per la storia delle missioni e delle relazioni tra Roma e la Monarchia Cattolica: le canonizzazioni di Ignazio di Loyola, del suo confratello Francesco Saverio, di Teresa d’Avila, di Filippo Neri e di Isidro Labrador (12 marzo), figure molto diverse, ma divenute emblematiche dello sforzo di promozione e diffusione della fede da parte della Chiesa post-tridentina; la costituzione, con la bolla Inscrutabili divinae, della Sacra Congregatio de Propaganda Fide (22 giugno), con lo scopo di promuovere le attività missionarie e al contempo ridimensionare l’egemonia esercitata dalle monarchie iberiche sui territori oggetto di tali attività, ad Oriente come ad Occidente, attraverso l’esercizio del diritto di patroado / patronato.
Le canonizzazioni del 1622 avviarono con forza una riconquista della centralità di Roma, della sua curia e delle partite politiche che vi si giocavano. Veniva così presentato al mondo e, dunque, legittimato uno scenario privilegiato in cui la Monarchia spagnola acquisiva il ruolo di braccio secolare e di punta di diamante culturale della cattolicità, ma tale legittimazione poteva derivare solo da una concessione della Santa Sede, che, reclamando in via esclusiva la prerogativa di proclamare la santità, si riaffermava quale suprema guida dei fedeli verso il traguardo di una Chiesa universale. L’anno 1622 è quindi un momento cruciale nello scontro tra Roma - che, attraverso le canonizzazioni e la fondazione di Propaganda Fide, puntava a riaffermare e consolidare il proprio monopolio sul sacro - e le monarchie iberiche, che al contrario miravano a insidiare questo primato, utilizzando la carica messianica di sovrani chiamati a guidare, governare e cristianizzare territori diversi e lontani.
Il Convegno Internazionale di Studi «1622. Essere universali nel mondo cattolico. Monarchie iberiche e Papato tra gestione del sacro, santità, pratiche missionarie ed evangelizzazione», inserito in un percorso di studi di largo respiro volto a storicizzare la proiezione globale dei regni iberici, intende esaminare questi temi e in particolare tre elementi che mutarono e interagirono tra di loro nel corso del tempo: l’instabile gerarchia degli agenti che guidarono i destini della Monarchia Cattolica, gli spazi in cui essi si mossero e le forme della rappresentazione e dell’autorappresentazione del potere sovrano e delle sue istituzioni di vertice.
Le tre giornate si terranno esclusivamente in presenza, rispettivamente, presso la Biblioteca Casanatense (via di S. Ignazio, 52), presso la Pontificia Università Lateranense (piazza San Giovanni in Laterano, 4) e presso l’Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma (via di Santa Eufemia, 13). [...]
Fonte: CNR (ripresa parziale).
E.R. Curtius: la crisi, le rovine e l’Europa
di Corrado Bologna (Doppiozero, 19 Novembre 2022)
Quando Letteratura europea e Medio Evo latino (Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter) uscì presso l’editore Francke di Berna, nel 1948, quell’Europa che brillava come un faro storiografico e culturale nel titolo era ridotta allo sfacelo, e lentamente cominciava a riprendersi dalla guerra più spaventosa che il mondo avesse mai patito. Dall’ammasso sconfinato di rovine materiali e spirituali che coprivano il continente, la sua coscienza annebbiata e d’improvviso sottratta all’incubo di un trentennio orribile impastato di frammentazioni e di scontri nazionalistici, di dittature feroci e di osceni stermini, con il libro di Ernst Robert Curtius sembrava risorgere un’impensata idea di unità, di compartecipazione, che due guerre mondiali avevano distrutto. La Crisi coinvolgeva l’intero Occidente, la sua immagine e la sua consapevolezza, i suoi progetti di futuro. E si badi, è la Crisi i cui ultimi scossoni, più di 70 anni dopo, fanno tremare ancora noi, per le stesse fratture, le stesse fragilità e volontà di potenza.
Rileggendo Curtius potremo non certo sottrarci al minacciato Armageddon, ma di sicuro tentare di cercare un Senso alla vicenda di irrazionalità e di catastrofe che continua a perseguitarci, alle nostre lacerazioni, ai nostri terrori apocalittici, al nostro continuo guardare a un’Europa unita il cui destino Curtius tracciava con nostalgia di conservatore, ma che oggi possiamo rimeditare da un punto di vista assai diverso, con questo capolavoro storiografico fra le mani. Un monumento alla storia della civiltà europea, finora introvabile, dopo l’esaurirsi della bellissima edizione curata da Roberto Antonelli per la Nuova Italia nel 1992 (io stesso collaborai, con fatiche enormi), ma per fortuna oggi riproposta in un’edizione altrettanto elegante da Quodlibet - pp. 923, euro 34 - con una nuova premessa di Antonelli, Trent’anni dopo.
Quel grande libro, immenso archivio erudito e mobilissima enciclopedia aperta, era soprattutto un Teatro della Memoria e della metamorfosi spirituale, secondo un modello che da Giulio Camillo e Giordano Bruno giungeva a Curtius attraverso Aby Warburg. Proponeva non solo «una storia», ma «una fenomenologia della letteratura», da vivere come riscatto di identità individuale e collettiva. Riprendendo l’idea warburghiana di un Atlante morfologico delle culture Curtius l’avrebbe chiamata anche «morfologia della tradizione». Nella Prefazione alla seconda edizione, datata dicembre 1953, neppure tre anni prima di morire (conoscendo la propria sorte volle, simbolicamente, che ciò avvenisse a Roma), Curtius sottolineava: «Il mio libro non è il prodotto di finalità puramente scientifiche, ma della preoccupazione per la salvaguardia della cultura occidentale». E non a caso evocava, con una straordinaria figura allegorica che era anche una mise en abyme del suo lavoro, il tappeto di resti di quella «tradizione occidentale» la cui «comprensione» postuma intendeva fondare:
«L’archeologia contemporanea ha fatto scoperte sorprendenti tramite la fotografia aerea da grande altezza.
Attraverso questa tecnica si è riusciti ad esempio a riconoscere per la prima volta il sistema tardoromano in Africa del Nord. Chi si trova in basso davanti a un cumulo di macerie non può vedere l’insieme che la fotografia dall’aereo rende visibile. Ma questa fotografia deve essere ingrandita e comparata con la carta topografica. Una certa analogia con questo metodo offre la tecnica di ricerca letteraria che ho qui impiegato».
Sul bordo della Crisi, nella derelitta Waste Land del dopo il Diluvio, di cui restituiva una visione “dall’alto” ricomposta con superba analisi dall’ammasso di detriti della Storia, Letteratura europea e Medio Evo latino venne alla luce come un libro pedagogico-terapeutico e lucidamente profetico. «This fragments I have shored against my ruins», diceva uno degli ultimi versi della Waste Land: ma già nei Cantos di Pound emergeva la figura allegorica delle «rovine puntellate» con i «frammenti» della storia e della letteratura universali. Il poemetto di Eliot era apparso nel 1922, e Curtius nel ’48 muove dall’idea eliotiana che «il senso storico sia senso dell’atemporale e del temporale [...] insieme» e renda così lo scrittore (e il critico) «consapevole del suo posto nel tempo, della sua contemporaneità» (Tradition and the Individual Talent, 1919).
Nel 1992 Roberto Antonelli rilevava come «una delle chiavi fondamentali per l’interpretazione e la fruizione dell’opera» sia appunto «di tipo pedagogico»: Letteratura europea e Medio Evo latino è «un “manuale” della tradizione letteraria europea per il giovane europeo; un “memoriale” per il prossimo millennio». Adesso, “trent’anni dopo”, riconosce finemente come «la “longue durée” di Curtius (e di tutti gli altri, fino alle Annales) sembra [...] rappresentare, in prospettiva storico-critica, la necessità (innanzitutto degli intellettuali novecenteschi) di dare un Senso alla modernità», e dunque «l’estremo tentativo di attualizzare il passato», combattendo così per controllare con strumenti simbolici «la Crisi e le crisi».
Nel 1948, quando la crisi dell’umano come conquista di comunità era esplosa nella più orrenda cancellazione delle radici condivise, Letteratura europea e Medio Evo latino individuava per l’unità europea un’origine non razziale ma culturale, e una coscienza comune, un territorio della memoria condivisa vasto e profondo. La storia di un millennio di segreta continuità sotterranea, carsica, veniva sottoposta a un’analisi micro- e macroscopica, «per scomporla (come fanno i reagenti chimici) e per evidenziarne l’intima struttura»: secondo la dichiarazione di Hugo Schuchhardt eletta da Curtius tra le epigrafi inaugurali del libro, «la combinazione paritetica del microscopico e del macroscopico rappresenta l’ideale della ricerca scientifica».
In un nodo mai prima d’allora riconosciuto, l’Antichità si stringeva così con il Medio Evo e con la Modernità, e affiorava un’idea, anzi un progetto di Moderno fondato sulla tenuta della Bildung, la formazione umanistica degli individui e delle comunità, capace di resistere alle spaventose crisi politico-istituzionali, militari, economico-sociali, che trascinavano l’Europa nell’abisso della Crisi totale. Nel momento in cui si procedeva ai primi tentativi di «europeizzazione del quadro storico», e si ponevano le basi per quella che dieci anni più tardi (1958) sarebbe diventata la prima Comunità Europea (oggi, ampliata ma sempre più bisognosa di una politica davvero condivisa al di là della saldatura degli interessi economici, la chiamiamo Unione Europea), Curtius per la prima volta rimeditava con dottrina larghissima e con un mirabile sguardo storico-antropologico l’idea di Europa, la sua tradizione ininterrotta anche se ormai definitivamente incrinata, il suo pensiero e la sua letteratura, riconoscendovi «un organismo che partecipa di due insiemi culturali, quello antico-mediterraneo e quello moderno-occidentale».
Mai come ai nostri giorni queste due categorie dialettiche evocate da Curtius a metà del Novecento, mediterraneo e occidentale, che mi sembra la critica abbia del tutto ignorato nell’esame di Letteratura europea e Medio Evo latino, appaiono coerenti non solo con il passato, ma, quasi profeticamente, con il futuro, che è il nostro presente ancora una volta colmo di ansia e di terrore. Nel momento in cui esplode con rischi giganteschi un’opposizione ciclopica fra l’“Occidente” e quell’“Europa orientale” che in Mosca incarnò miticamente la “terza Roma”, «politica e letteratura si dimostrano ancora una volta strettamente collegate e il rapporto fra Unione politica europea e letteratura europea come letteratura - e formazione - dei giovani Europei non è stato non solo risolto ma neppure affrontato»: così scrive Antonelli in Trent’anni dopo, datato “Luglio 2022”, richiamando esplicitamente la crisi ucraìna e la frattura palese fra Unione Europea e «un paese - la Russia - che geograficamente è in buona parte europeo, ma che dall’Unione è staccato» e ormai contrapposto in uno scontro che di giorno in giorno minaccia di trasformarsi nel terzo (e definitivo) conflitto mondiale. Questo libro della Crisi è un libro terapeutico per ogni crisi: anche per quella culturale e identitaria che l’Europa e l’Occidente stanno vivendo. Non salverà il mondo, ma di certo ci aiuterà a cercarvi un Senso.
Nel 1948 Ernst Robert Curtius era già uno dei più grandi filologi e critici letterari su scala internazionale. Lui, alsaziano, segnato per destino dallo scontro secolare tra Francia e Germania per il possesso di quella regione di confine, nel 1919, subito dopo la disfatta del Reich tedesco, aveva pubblicato il suo primo libro importante, Die literarischen Wegbereiter des neuen Frankreich (I pionieri letterari della nuova Francia), in cui tesseva un quadro lucido e innovativo della grande letteratura contemporanea maturata “al di là del Reno”, esaltando André Gide, Romain Rolland, Paul Claudel, André Suarès, Charles Péguy, ma soprattutto tratteggiando «una peculiare natura, tipicamente francese», della Bildung umanistica ancor viva nel cuore della modernità. Lo scandalo fu enorme. I nazionalisti tedeschi, umiliati dalla pace di Versailles siglata proprio nell’estate di quel 1919, gridarono al tradimento, giacché l’Alsazia-Lorena, occupata nel 1870, era stata definitivamente restituita alla Francia. E come una provocazione politica fu accolto quel libro in tedesco di un tedesco d’Alsazia dedicato allo «spirito francese nella nuova Europa» (esattamente così Curtius avrebbe intitolato un suo nuovo volume nel 1925, contenente fra l’altro il primo saggio europeo sull’ancora incompiuta Recherche proustiana).
Eppure I pionieri letterari della nuova Francia, specie nella conclusione, che rimeditava il rapporto fra lo «spirito» francese e quello tedesco alla luce delle rovine della prima Guerra mondiale, per Curtius non era un libro ideologicamente connotato, e invece conteneva il germe di una storia spirituale e culturale dell’Europa millenaria che trent’anni più tardi sarebbe sbocciata pienamente in Letteratura europea e Medio Evo latino. Posseggo una copia della terza edizione ampliata e definitiva (1923) di Die literarischen Wegbereiter, donata nel marzo 1929 da Curtius a un’archeologa inglese che lavorava a Roma, Eugénie Strong. La dedica autografa assume un valore straordinario, se la si colloca nel contesto storico-biografico, lanciando lo sguardo già al capolavoro del 1948: «Alla Signora Strong, in Roma, ove i popoli del nostro Occidente si rivelano allo sguardo dello spirito nella loro Armonia, questo libro sulla Francia l’autore tedesco dedica all’amica inglese in segno di ringraziamento. Ernst Robert Curtius, marzo 1929». Si comprende meglio l’importanza di questo documento ricordando che il 19 gennaio di quell’anno, proprio a Roma dove si trovava in semestre sabbatico, Curtius aveva assistito alla celebre, rivoluzionaria conferenza di Aby Warburg alla Biblioteca Hertziana sull’Antico romano nella bottega del Ghirlandaio, accompagnata da un gran numero di tavole costellate di fotografie, e ne era rimasto profondamente colpito. Fu quel giorno che si innamorò del metodo d’indagine di una morfologia della cultura cristallizzata in tratti ideologico-stilistici decisivi, come «sopravvivenza di un’immagine», «engramma» (in quel periodo Warburg usò anche la categoria di «dinamogramma»), «inversione energetica riguardo l’interpretazione di antiche formulazioni di pathos (Pathosformeln)». Non a caso vent’anni dopo quella conferenza Curtius dedicò Letteratura europea e Medio Evo latino a Warburg e al suo sconfinato teatro della Memoria (l’Atlante di Mnemosyne), e ad un maestro della filologia romanza, Gustav Gröber: due numi tutelari della millenaria, coerente continuità romano-europea.
Il termine Geist, «spirito», che brillava nella dedica alla Strong («in Roma, ove i popoli del nostro Occidente si rivelano allo sguardo dello spirito nella loro Armonia»), era già nel titolo del libro del ’25, Französischer Geist im neuen Europa (Lo spirito francese nella nuova Europa). Esso va interpretato non in prospettiva idealistica, ma in una dimensione che mi spingerei a definire antropologica, sulla stessa linea storiografica di armonizzazione europea a cui Curtius non aveva mai smesso di pensare. L’accostamento delle tre civiltà, francese, tedesca, inglese, sotto il segno dell’Armonia occidentale che Roma riesce a «cristallizzare» (il termine è esplicito in Die literarischen Wegbereiter), rappresenta già la mappa storico culturale del territorio sterminato di Letteratura europea e Medio Evo latino.
Ma per capir meglio il valore di questa insistenza sui concetti di «spirito europeo» e di «armonia» fra le culture si dovrà insistere su due tappe fondamentali per il maturare, in Curtius, dell’idea di Bildung, «forma spirituale» e «quintessenza della cultura laica»: in sostanza, Umanesimo. La prima è appunto la partecipazione alla conferenza di Warburg, a Roma, nel gennaio 1929 imperniata sull’Atlante di Mnemosyne, da cui Curtius trasse l’idea di un Atlante storico-antropologico della civiltà letteraria europea, al cui centro sta la categoria di Pathosformel come motore retorico-mnemotecnico di una longue durée della Memoria culturale (già nel 1912, nel saggio famoso su Schifanoja, Warburg, richiamandosi alle ricerche darwiniane, aveva parlato di «historische Psychologie des menschichen Ausdrucks», «psicologia storica dell’espressione umana»).
Solo due mesi dopo la «cerimonia teatrale» della Hertziana, che Silvia De Laude ha definito «l’atto con cui la “storia di fantasmi per adulti” dell’Atlante è ufficialmente resa pubblica e consegnata dal suo autore a chi la sfoglierà dopo di lui», nella dedica a un’inglese del suo libro in tedesco sulla cultura francese, convocando a Roma «i popoli del nostro Occidente» in cerca di una rinnovata «Armonia», Curtius parlava già una lingua warburghiana. Era abituato a studiare le forme retoriche di articolazione della parola, a differenza dei molti spettatori specialisti di immagini. Però colse immediatamente la novità metodologica ed epistemologica di quell’arduo, complesso affresco che attraversava civiltà, luoghi, tempi, individuando affinità, resistenze, sopravvivenze, riemersioni del rimosso, attualizzazioni di idee antiche attraverso il riuso e la manipolazione di figure archetipiche conservate e trasformate, in un ininterrotto concatenarsi di momenti di inerzia e di catastrofe .
Warburg studiava la vicenda psico-culturale della civiltà non solo europea, ma occidentale (con fondamentali aperture etnologiche, per esempio nel viaggio presso i Pueblos americani), fra Rinascimento e Modernità. Curtius era interessato alla “lunga durata” della civiltà romana fino al Medio Evo, con un ponte lungo che giungeva alla Modernità, senza fermarsi sull’ormai troppo burckhardtiano-warburghiano Rinascimento. Verso quest’epoca provava «un deciso rifiuto», come «l’epoca scelta da uno dei più felici revivals dell’anima guglielmina», secondo quanto rilevò finemente Lea Ritter Santini in uno scritto magnifico (Il piacere delle affinità) con cui aprì una sua splendida scelta di saggi, Letteratura della letteratura (Il mulino 1984). L’integrazione fra il Medio Evo di Curtius e il Rinascimento di Warburg, entrambi fluidamente aperti verso la Modernità, restituisce un’enciclopedia aperta, un archivio vivente della civiltà europea.
Per la prima volta Letteratura europea e Medio Evo latino lancia uno sguardo d’aquila, vasto e acutissimo nei dettagli, sulla totalità della cultura europea, «cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe)», e così edifica un ponte di continuità fra la civiltà romana e la sua sopravvivenza nella modernità, sotto il segno di una contemporaneità legata al «“presente atemporale”, che è la caratteristica specifica della letteratura»: infatti «per la letteratura, tutto il passato è presente», e la «letteratura europea» è non tanto una “storia”, quanto «un’“unità intellettuale” che sfugge alla nostra osservazione quando viene frazionata in più parti distinte».
E.R. Curtius: la crisi, le rovine e l’Europa
di Corrado Bologna (Doppiozero, 19 Novembre 2022)
La seconda tappa decisiva di una vera e propria terapia privata e collettiva si colloca nel passaggio degli anni 1931-32. Di fronte al Gefahr, il «pericolo» della crisi Curtius decise di entrare in cura con Jung, nel 1932. Lo stesso anno pubblicò un pamphlet dal titolo forte e inequivoco: Lo spirito tedesco in pericolo (Deutscher Geist in Gefahr; lo ha infine tradotto e commentato con finezza, nel 2018, Annamaria Bercini per una piccola casa editrice di Bologna, I libri di Emil). Alla crisi politico-culturale della Repubblica di Weimar e all’avanzata del nazionalsocialismo, che sul «campo di macerie» della civiltà europea radicava i suoi deliri di identità e purezza razziale, Curtius reagì con l’insistenza sulla categoria di Geist, «spirito». Fondando «una scienza della letteratura europea» nel momento in cui sembrava quasi impossibile ideare un’unità politico-culturale europea (ancora oggi minacciata nella sua integrità dai nefasti “sovranismi” nazionali), Curtius progetta la riconquista umanistica di una piena salute culturale come leggibilità insieme individuale, “privata”, e “collettiva”, di una civiltà, rispetto a quello che fin dal titolo l’autore definisce «pericolo» di perdita della Bildung, la formazione umanistica unificante e modellizzante. Da questo punto di vista la presenza nel suo pensiero di Warburg e di Jung è importantissima: la difesa dal rischio di carattere depressivo-dissociativo, sia degli individui sia della collettività, è ottenuta attraverso una mediazione potentemente allegorica, nel segno dell’unità e della continuità dell’archetipo-Europa lungo la disseminazione dei tópoi, l’uso e il riuso delle metafore e delle strutture retoriche, garantite non solo dagli auctores, ma dalla tenuta di una secolare formazione scolastica, soprattutto monastica.
I 18 capitoli di Letteratura europea e Medio Evo latino, insieme con i 25 importantissimi Excursus, dimostrano che idea Curtius avesse plasmato della letteratura comparata su un orizzonte sincronico e diacronico, partendo dal rapporto fra «Letteratura e istruzione», attraversando il comune territorio culturale della Retorica, della Topica, della Metaforica, al Simbolismo del Libro, spingendosi fino a Calderón, ai pilastri di Dante (che «rappresenta per l’ultima volta il teatro del mondo del Medio Evo latino») e di Goethe (che percepisce, per ultimo, «l’attività creatrice del poeta come la forza medesima che opera nella grande Natura»), al rapporto fra Montesquieu, Ovidio e Virgilio, fra Diderot e Orazio. In un saggio magnifico del 1950, La nave degli Argonauti, tradotto da Lea Ritter Santini in Letteratura della letteratura, Curtius sintetizza questa convergenza dei grandi spiriti europei nella traversata mitico-allegorica di un oceano storico cosparso da quello che «può sembrare un confuso groviglio e un conglomerato di frammenti»: «A guardarlo oggi, Goethe si avvicina sempre più a Dante, e non solo nel tempo. Come Dante, anche egli rappresentò ancora una volta il Thesaurus della tradizione europea. Anche in lui troviamo il mito degli Argonauti».
Nella traversata da Roma al Medio Evo alla Modernità per l’Argonauta Curtius un sistema sincronico e al contempo diacronico di affinità si consolida quasi come una stratificazione geologica, un continente, uno sfrangiato Mediterraneo entro cui riconoscere i punti di contatto, le faglie, le continuità, in maniera non dissimile da quanto avveniva nell’Atlante di Mnemosyne di Aby Warburg e nelle ricerche archetipiche di Jung. «È significativo», scriveva Curtius, «come in Carl Gustav Jung l’ideale della continuità (un ragionevole sopravvivere del passato nel presente) si manifesti come esigenza della salute psichica».
La salute psichica degli individui e la salute politico-ideologica di una civiltà sono al centro delle meditazioni sulla Krisis. Per Warburg erano state terapeutiche, così sul piano psichico come su quello culturale, la famosa, liberatoria conferenza sul Rituale del serpente tenuta nel 1923 alla clinica di Kreuzlingen davanti a Ludwig Binswanger, il grande psichiatra che lo aveva in cura, e poi l’altra ricordata del gennaio ’29 alla Hertziana, di fronte a un eletto pubblico di studiosi. Nell’uno come nell’altro caso era risolutivo lo Zwischenraum, l’«interstizio» e dunque la “presa di distanza” rispetto alla realtà. Chiudendo lo scritto del ’23 Warburg con oscuro spirito profetico rispetto al mondo a venire, dichiarava: «Il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto fra l’uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera e per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide». Aprendo poco prima di morire l’ultima versione dell’Introduzione all’Atlante delle immagini intitolato alla Memoria, Mnemosyne, riprendeva così l’idea: «La creazione consapevole della distanza tra l’Io e il mondo esterno è ciò che possiamo designare come l’atto fondamentale della civilizzazione umana».
Terapeutica per Curtius è la salvezza della Bildung. Riprendendo una definizione di Max Scheler, egli definisce la Bildung «la partecipazione della persona a tutto ciò che è essenziale nella natura e nella storia - È il mondo che si concentra nell’uomo oppure l’uomo che si eleva al mondo». Questa Bildung umanistica è stata «la forma spirituale della borghesia tedesca, che però nella Germania moderna non ha mai goduto di autorità e considerazione come nei paesi occidentali». Nella crisi di Weimar il conservatore umanistico Curtius individua la causa principale del «palese e costante processo di demolizione presso le cosiddette classi dirigenti» del processo formativo etico-culturale: «più si estenderà in Germania la demolizione dei valori della ragione e della tradizione, più sfide perderemo nel confronto intellettuale fra le nazioni. Nell’Europa occidentale si tutelano e si curano questi beni, persino il radicalismo nazionalistico francese ritiene una questione d’onore tenere alta la bandiera dell’intellettualità e della cultura classica». L’insistenza sul termine demolizione mostra con chiarezza (contro recenti, pretestuose polemiche) la ferma opposizione di Curtius all’avanzata del nazismo.
Ciò che ossessiona Curtius, come già Warburg, è la Krisis, il Gefahr, il «pericolo» non solo per lo spirito tedesco, ma per l’intera civiltà occidentale, e per i singoli individui che ne fanno parte. La coincidenza fra l’analisi con Jung e la composizione di Lo spirito tedesco in pericolo lo dimostra chiaramente. Nel libro Curtius critica l’imbarbarimento delle posizioni romantiche, socialiste, nazionaliste, che sostengono di poter «ricostruire la cultura tedesca dal basso», progettando «il collegamento con l’uomo gotico o con i caratteri etnici del popolo tedesco», e fingendo di dimenticare l’impraticabilità dell’«idea di una riforma della nostra Bildung a partire dal pensiero nazionale», giacché esso, ormai dominato dall’«appello all’irrazionale», «è ostaggio di masse radicali, i cui sentimenti possono essere ricondotti alla formula primitiva dell’odio contro gli ebrei e del mito della razza». La Krisis non solo politica, ma in primo luogo culturale, consisteva dunque per Curtius nello sgretolarsi della Bildung umanistica ormai affidata alle masse, le stesse che Ortega y Gasset vedeva crescere nel dominio delle civiltà pericolosamente pronte ai conflitti su base nazionalistica.
La recente (2017), straordinaria scoperta fra le carte di Curtius, dovuta a Ernst-Peter Wieckenberg e Barbara Picht, dei materiali già pronti per la stampa di un libro completamente dedicato alla formazione umanistica (Elemente der Bildung) e alle minacce portate contro di essa, consente di restituire con precisione più articolata il tessuto connettivo del pensiero intorno alla crisi dell’Umanesimo europeo sviluppato da Curtius nei primissimi anni Trenta, che a mio parere ha anche un legame diretto con la scelta di escludere, nel capolavoro del 1948, qualsiasi riferimento all’Umanesimo e al Rinascimento, recuperati invece da quella linea tedesca riconducibile all’inaugurale studio di Burckhardt, sulla quale Curtius nutre forti perplessità, e che al contrario Warburg ha posto al centro della propria ricerca, affrontandoli da posizioni originalissime.
In primo luogo il progetto di Curtius è di riscattare un’idea di Umanesimo come formazione e custodia dell’essenziale. In Lo spirito tedesco in pericolo, con preciso richiamo a Warburg, tratteggiava un’arcata problematica che sarebbe stata edificata nel capolavoro: «O l’Umanesimo si risolve in entusiasmo dell’amore o non rappresenta nulla. Può dare forma a epoche, popoli, persone solo quando proviene dall’esuberanza della pienezza e della gioia. È l’ebbra scoperta di un archetipo amato, è il riconoscersi dello spirito moderno in una vita che dormiva nella profondità oscura del sangue e che ora diventa certa della propria origine. In questo modo Hölderlin ha scoperto le divinità dell’Olimpo e si è compiuta tutta la ricezione dell’Antichità nell’arte del Medioevo e del Rinascimento, in questo modo la grecità è potuta risorgere nella plastica gotica delle cattedrali e le antiche formule del pathos, gli engrammi spirituali (come era solito dire Aby Warburg), nella pittura italiana. Nessun oggetto di meditazione può essere tanto significativo per l’amante dell’Umanesimo quanto le autentiche testimonianze di una individualità che si risveglia attraverso il misterioso riconoscersi nelle forze magiche dell’universo antico. Tali testimonianze non sono molto numerose e, per quanto ne so, non sono mai state riunite insieme».
S’intuisce qui con limpidezza l’abbozzo ideale di Letteratura europea e Medio Evo latino, ancora fortemente segnato dalla polarizzazione warburghiana «tra la serena contemplazione e l’abbandono orgiastico», rafforzata dalla Memoria «sia collettiva sia individuale», che «crea spazio al pensiero». Sedici anni più tardi, nel magnifico Epilogo a questo libro, Curtius riprende alla lettera da Lo spirito tedesco in pericolo alcune riflessioni tratte dallo scambio epistolare fra il poeta e critico russo Vjačeslav Ivanovič Ivanov e il suo amico Michail Osipovič Geršenzon, Corrispondenza da un angolo all’altro, che ha letto in tedesco nel 1926 sulla rivista «Die Kreatur», e che ha subito definito «la più importante riflessione che sia stata elaborata dopo Nietzsche sull’Umanesimo». In Europa sembrano circolare, crescere e maturare idee affini, consonanti interpretazione del bisogno di riscatto. Ed è Curtius stesso, nel 1948, accostando Ivanov, Warburg e le proprie riflessioni dell’ultimo ventennio, a raccogliere i molteplici fili colorati e a tessere la tela di un grande arazzo della Memoria europea.
In particolare Ivanov insisteva sul tema di Mnemosyne, sulla memoria e sulla sua capacità di dinamizzare l’inerzia obliosa di una civiltà compiendo «iniziazioni rituali». La perorazione di Curtius, che intreccia eticamente, prima ancora che culturalmente, Ivanov al ricordo della conferenza warburghiana, è magnifica: «Per mezzo della memoria l’uomo diventa consapevole della propria identità, al di là di ogni cambiamento; in modo analogo, mediante lo strumento della tradizione letteraria, lo spirito europeo rimane consapevole di se stesso attraverso i millenni. Mnemosyne (Memoria) nella mitologia greca è madre delle Muse. Secondo Vjačeslav Ivanov, la cultura è ricordo delle rivelazioni dei padri: “In questo senso, la cultura non è solo monumento, ma è anche iniziativa dello spirito. La memoria, dominatrice suprema, permette alla cultura di rendere i suoi adepti partecipi delle iniziazioni dei padri e di rinnovarle in essi, comunicando loro la forza di nuove origini e di nuove iniziative. La memoria è dinamismo; nell’oblio è stanchezza, decadimento, interruzione di movimento, declino e ritorno all’immobilismo inerte”. [...] La cultura come “memoria iniziatrice” (initiative Erinnerung)... Ivanov scrisse i suoi pensieri nel 1920, a Mosca, trovandosi in un convalescenziario «per lavoratori della scienza e della letteratura». Da quel giorno, intanto, sono avvenute catastrofi culturali di incommensurabile portata. Nella odierna situazione spirituale non v’è alcuna esigenza che appaia tanto imperiosa come quella di ristabilire la “memoria”. [...] I programmi educativi e rieducativi di ogni tipo sono forse meno importanti del compito immediato di cogliere, e di riaffermare, la funzione della continuità nella cultura [...]. Il dimenticare è, in taluni casi, altrettanto necessario del ricordare. Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale. [...] Non ci serve alcun magazzino della tradizione, bensì una casa in cui si possa respirare, quella “casa della Bellezza alla cui edificazione collaborano sempre tutti gli spiriti creatori di tutte le generazioni”, come dice Walter Pater: that House Beautiful which the creative minds of all generations are always building together (Appreciations, 1889, Postscript)».
Il messaggio dell’Argonauta Curtius dinanzi al Gefahr, al pericolo non solo culturale, ma politico, antropologico, ideologico, perfino militare, del nostro tempo è fortissimo: «Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale». Accanto all’ars memoriae che tutto raccoglie e accumula nella cosmopoli universale delle scienze, e che unisce e affratella in un comune pensare, Curtius fa cenno, con gesto profondamente etico, a un’ardua, “umanistica” ars oblivionis, strumento di selezione e di cura, di accoglimento e di edificazione fondato sullo scarto delle false identità conflittuali, dei conflitti imperniati sulla fascinazione delle ideologie. Oggi, più che in qualsiasi altro momento della nostra storia recente, occorre scegliere la «Memoria di ciò che essenziale», e quindi anche l’«Oblio di ciò che non lo è», se si vuole edificare una casa comune, una House Beautiful che offra un nuovo respiro alla speranza, al futuro.
A proposito di questa necessaria mnemotecnica spirituale dell’oblio, per l’identità dell’ethos che la sostiene, mi sembra opportuno richiamare la magnifica definizione attribuita a Gustav Mahler: «Tradizione non è culto delle ceneri, ma cura del fuoco». La scelta di idee da condividere e non l’accumulo di rovine, il theatrum colmo di parole e di immagini vive e vivificanti, non l’inerte «magazzino della tradizione»: la cura del fuoco, non il culto della cenere.
Euripide a Siracusa
di Alberto Giovanni Biuso [2019] *
Conversando con Eckermann il 28 marzo del 1827 Goethe affermò che «wenn ein moderner Mensch wie Schlegel an einem so großen Alten Fehler zu rügen hätte, so sollte es billig nicht anders geschehen als auf den Knien», ‘se un moderno come Schlegel avesse da rimproverare un così grande antico per qualche errore, gli dovrebbe essere consentito farlo soltanto in ginocchio’1. Il ‘großen Alten’ al quale Goethe si riferisce è Euripide.
La profondità del giudizio di Goethe è stata confermata dal ritorno quest’anno del poeta a Siracusa con due tragedie: Τρώαδεςe Ἑλένη. A metterle in scena, rispettivamente, Muriel Mayette-Holtz e Davide Livermore. Regie assai diverse tra di loro, le quali hanno mostrato quanto rizomatici, labirintici, cangianti, imprevedibili siano i percorsi del mito e degli dèi. Il politeismo greco è infatti anche libertà rispetto a ogni monoteismo ermeneutico, a ogni unicità del divino, a ogni identità immutabile del dio.
Elena
Elena rappresenta un’evidente dimostrazione di tutto questo. Si tratta infatti di un personaggio diverso dalla Elena omerica, che è la più nota, con l’universale biasimo che l’accompagna. Eccezione significativa rispetto alla generale condanna verso questa donna fu Gorgia, che su di lei pronuncia invece parole del tutto plausibili di encomio. Contemporaneo di Gorgia, Euripide disegna un’Elena fatta di saggezza e di misura. Ci voleva coraggio nel far questo, visto che «l’azzeramento delle responsabilità di Elena equivale all’azzeramento della tradizione omerica»2.
Racconta Euripide che Elena non è mai arrivata a Troia, che mentre i guerrieri a Ilio si scannavano, lei venne portata in Egitto, dove la troviamo sulla tomba di Proteo, a difendere se stessa dal figlio di lui che vorrebbe farla propria. Elena narra che «Era, incollerita per non avere vinto le altre dee, mandò in fumo il connubio ad Alessandro: non diede me, ma un simulacro vivo, che compose di cielo a somiglianza di me, al figliolo del re Priamo: e lui ebbe l’idea d’avermi - vana idea che non m’ebbe» (pp. 534-535)3. Decisa a uccidersi piuttosto che andare in sposa a Teoclimeno, il caso o gli dèi - sono la stessa cosa - fanno approdare sulle coste egizie il naufrago Menelao, che crede di portare con sé Elena conquistata a Ilio. Non crede quindi ai propri occhi quando vede e riconosce quest’altra Elena. Tra i due gioca la dinamica di realtà e illusione. Gli antichi sposi decidono di ingannare il nuovo re egizio, fargli credere Menelao morto e chiedere di onorare la sua fine in mare. Ottenuta da Teoclimeno la nave, tornano a Sparta, vincitori.
Anche i percorsi della Wirkungsgeschichte, delle interpretazioni della tragedia e dei suoi effetti, sono molteplici. Non esiste, ovviamente, alcuna regia o messa in scena ‘corretta’ delle opere teatrali, tanto meno di quelle greche. Chi difende la ‘tradizione’ difende in realtà le interpretazioni novecentesche o persino del XIX secolo. La domanda da porsi è invece questa: quanto di greco c’è in questa regia? Nel caso della Elena di Davide Livermore c’è molto, per numerose ragioni.
La prima è che abbiamo assistito a una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale, fatta di parole ma anche di musica, di danza e di immagini. I primi tre elementi erano costitutivi del teatro greco, l’ultimo li rende vivi attraverso un grande schermo che fa da sfondo alla scena creando di volta in volta immagini degli dèi, degli umani, del mare, delle stelle, del fuoco. La suggestione e l’enigma ne vengono moltiplicati in una sorta di arcaismo elettronico che, insieme ai tanti specchi e all’acqua nella quale la scena è immersa, rende visibile il doppio, la dissoluzione dell’identità nell’aria e nel tempo. Nell’acqua sono immersi la tomba di Proteo, l’obelisco di Teoclimeno, il relitto della nave di Menelao.
Le musiche vanno dal barocco rivisitato al minimalismo, dalla musica leggera al Fandango del Quintetto IV in Re Maggiore G. 448 di Boccherini, che restituisce il ritmo dell’eros, del tradimento, del gioco. Musica che coniuga dissonanza e redenzione, la Dissonanza come immersione nel Nulla della vana immagine di Elena; dei guerrieri morti per un ologramma; della natura enigmatica del dio. L’etica dei Greci sta qui, nella loro ontologia, nella radicalità con la quale esistono e comprendono l’esistere.
Troiane
Muriel Mayette-Holtz ha preferito invece imprimere alla sua regia delle Troiane un carattere etico che ha contribuito a banalizzare questa che è una delle più radicali, davvero terribili, tragedie greche. In essa Atena e Poseidone osservano i vinti e i vincitori. E stabiliscono di portare a compimento la fine di Troia ma di dare anche amaro ritorno agli Achei. Nessun amore per gli umani in questi dèi. E basta esistere e vedere il mondo per comprendere che nessun amore proviene per gli umani dal divino. Ecuba lo sa, ora che la città, la casa, i figli, persino il nipote Astianatte vanno morendo e sono alla rovina. Ecuba sa e dice che «di quelli che sono fortunati non stimate felice nessuno mai, prima che muoia» (p. 439). La fortuna, il caso, gli dèi danzano infatti sulle vite individuali e sulla storia miserrima della specie che si crede grande e per la quale meglio sarebbe stato invece non venire al mondo. «Io dico», afferma Andromaca, «che non nascere equivale a morire. Ma d’una vita triste è meglio morte. Sofferenza non c’è per chi non sente il male» (p. 444).
Il male della storia e il male dell’individuo. Quello della storia perché «folle è il mortale che distrugge le città. Getta nello squallore templi e tombe, sacro asilo d’estinti; ma poi finisce per perire lui» (p. 426), afferma Poseidone; il male dell’individuo immerso in passioni antiche, nuove, pervadenti. Nell’uno e nell’altro caso i Greci appaiono in questa tragedia feroci e disumani, sino ad accettare il consiglio dell’implacabile Odisseo di togliere la vita ad Astianatte affinché il figlio di Ettore non abbia, crescendo, a vendicarsi. Il bambino viene gettato giù dalle mura della città in fiamme.
Prorompe dentro la distruzione Cassandra. Lucida e invasata, lucida perché invasata, sa che ad Agamennone che se l’è presa come concubina lei porterà ogni sciagura, vede «la lotta matricida che le mie nozze desteranno, e lo sterminio della famiglia d’Atreo» (p. 435), esulta sapendo che «vittoriosa giù fra i morti arriverò: / che la casa dei carnefici, degli Atridi, spianterò» (p. 438). Il momento nel quale irrompe Cassandra sulla scena, con la sua torcia con il suo canto, il momento nel quale appare questa potenza struggente, luminosa e dionisiaca, è il più alto della messa in scena, l’unico nel quale appaiano in essa i Greci. Per il resto, infatti, è uno spettacolo sobrio sino alla piattezza; con un Paolo Rossi del tutto fuori ruolo, che interpreta il personaggio chiave di Taltibio come se recitasse in un cabaret milanese; e soprattutto con i cori di Euripide cancellati e sostituiti da canzonette leggere e sentimentali, accompagnate da una chitarra. Si può e si deve interpretare un testo greco come si ritiene più consono ma non lo si può sostituire - o, peggio, ‘sintetizzare’- con testi melensi.
Euripide tra Nietzsche e la Gnosi
Nietzsche aveva ancora una volta ragione, anche se forse non per le ragioni che credeva: davanti al male della storia, davanti al male che è il respiro, Euripide enuncia il disincanto che alla tragedia greca pone fine. Il poeta fa pronunciare infatti a Ecuba una preghiera che trascolora i nomi degli dèi, persino quello di Zeus, nella forza senza fine e senza senso della materia agra: «ὦ γῆς ὄχημα κἀπὶ γῆς ἔχω νἕδραν, / ὅστις ποτ᾽εἶ σύ, δυστόπαστος εἰδέναι, /Ζεύς, εἴτ᾽ἀνάγκη φύσεος εἴτε νοῦς βροτῶν, / προσηυξάμην σε: πάντα γὰρ δι᾽ἀψόφου / βαίνων κελεύθου κατὰ δίκην τὰ θνήτ᾽ἄγεις», ‘Tu che sostieni il mondo e che nel mondo hai dimora, chiunque tu sia, Zeus, inconcepibile enigma, che tu sia necessità della natura o pensiero degli uomini, io ti prego: tutte le cose mortali le governi secondo giustizia, procedendo in silenzio lungo il tuo percorso’4.
In questa magnifica preghiera panteistica una donna e una regina al culmine della disperazione riconosce con dolorosa intelligenza che tutto è giusto ciò che agli umani accade, anche che «la gran città / non più città s’è spenta e non c’è più» (p. 461). Nella tragedia che porta il suo nome, Ecuba arriva a dire di se stessa «έθνηκ᾽ἔγωγε πρὶν θανεῖν κακῶν ὕπο», ‘io sono morta prima di morire’5.
L’innocente causa di tutto questo, Elena, appare davanti a Menelao e si fa avvocata formidabile di se stessa, somigliando le sue parole a quelle argomentate e profonde con le quali Gorgia tesse l’elogio di questa creatura bellissima e fatale. Persino le donne troiane che la odiano ammettono che l’argomentare di Elena è convincente. Come nella tragedia a lei specificatamente dedicata, Euripide coniuga l’indicibile bellezza a una intelligenza raffinata e superiore. Elena sostiene infatti che preferendo lei -e non i doni che offrivano Era e Atena- Alessandro Paride risparmiò ai Greci la sconfitta contro i Troiani. Scegliendo lei nell’impeto di un totale desiderio, Paride fu asservito da Afrodite mentre di Afrodite decretava la vittoria. E quindi, afferma Elena rivolgendosi a Menelao, «la dea devi punire, devi farti superiore a Zeus, che regna sì sugli altri dèi, ma di quella è uno schiavo» (p. 452).
Se schiavo è Zeus di Afrodite, quanto più gli umani lo saranno. Lo sa bene anche Ecuba, sa che il nome di questa invincibile dea è simbolo e sintesi della fragilità di tutti: «Ogni follia per l’uomo s’identifica con Afrodite» (p. 453). Fino a dire parole che sembrano nostre, di noi disincantati ma sempre persi umani del futuro: «οὐκἔστ᾽ἐραστὴςὅστιςοὐκἀεὶφιλεῖ», ‘colui che amò una volta ama per sempre’6.
La predilezione di Euripide per il personaggio di Elena ha molte ragioni, le quali affondano nella critica socratico-platonica al modo troppo umano con il quale le figure e i comportamenti degli dèi vengono rappresentati già da Omero ed Esiodo. Ma a questo elemento razionalistico si coniuga qualcosa di assai profondo nella storia mediterranea e greca. L’Elena di Euripide -opera per molti versi sconcertante- è accenno, filigrana e metafora anche della tradizione orfica, che si compie nella visione gnostica del mondo. Elena è infatti un simbolo orfico di nascondimento e rinascita, una gemella di Dioniso, un itinerario che gli gnostici presero a modello di gettatezza e riscatto, disvelante le apparenze e volto verso la luce. L’uovo dal quale nacque Elena, dopo che sua madre Leda venne fecondata da Zeus in forma di cigno, divenne un simbolo della Gnosi, un’allegoria dell’esistere redento.
Tra le forme della verità che appare e si dissolve ci sono le strutture che i Greci raccolgono sotto il nome di Afrodite. Di lei, come di Dioniso, Elena è figura. Anche per questo può osare definire la dea πολυκτόνος Κύπρις, vale dire «la Cipride omicida»7, riconoscendone però sempre la dolcezza, insieme alla potenza. Rivolta ad Afrodite infatti Elena dice: «Avessi la misura! Per il resto, oh non dico di no, tu sei per gli uomini, certo, di tutti i numi la più dolce» (p. 572). La regia di Livermore ha reso visibile questa potenza di Elena/Afrodite, la sua bellezza, i modi e le parole.
Più di ogni altra forma, anche la vicenda iniziatica, tragica e inquietante di Elena è espressione di Ἀνάγκη: «λόγος γάρ ἐστιν οὐκ ἐμός, σοφὸν δ᾽ἔπος, / δεινῆς ἀνάγκης οὐδὲν ἰσχύειν πλέον» ‘Non è sentenza mia, ma dei sapienti: della necessità nulla è più forte’ afferma Menelao8. Ed è questa necessità ad aver generato Elena, la sua dionisiaca bellezza, la sua storia che si conclude, e in altro modo non potrebbe, con la divinizzazione profetizzata dai suoi fratelli, i Dioscuri: «ὅταν δὲ κάμψῃς καὶ τελευτήσῃς βίον, / θεὸς κεκλήσῃ» ‘Quando poi verrà la svolta e finirà per te la vita, sarai dea’9.
È questo che a Siracusa si è compiuto nel rosso conclusivo che intride la scena, le immagini, le acque, mentre tutti intorno a lei muoiono - come sempre nel divenire del mondo - ed Elena rimane invece viva, trasfigurata, gnostica nel pianto e nella luce.
[...]
Teatro Greco - Siracusa, 2019
Elena
(Ἑλένη)
Traduzione di Walter Lapini
Con: Laura Marinoni (Elena), Sax Nicosia (Menelao), Simonetta Cartia (Teonoe), Giancarlo Judica Cordiglia (Teoclimeno), Viola Marietti (Teucro), Mariagrazia Solano (una vecchia), Maria Grazia Centorami (Primo Messaggero), Linda Gennari (Messaggero di Teoclimeno), Federica Quartana (Corifea)
Regia di Davide Livermore
Troiane
(Τρώαδες)
Traduzione di Alessandro Grilli
Con: Maddalena Crippa (Ecuba), Marial Bajma Riva (Cassandra), Elena Arvigo (Andromaca), Viola Graziosi (Elena), Paolo Rossi (Taltibio), Graziano Piazza (Menelao), Francesca Ciochhetti (Atena), Massimo Cimaglia (Poseidone), Riccardo Scalia (Astianatte), Clara Galante (Corifea), Elena Polic Greco (capocoro), Fiammetta Poidomani (chitarrista)
Regia di Muriel Mayette-Holtz
* Fonte: Vita pensata, 27 Luglio 2019 (ripresa senza immagini e senza note).
Alfabeto Pasolini
di Marco A. Bazzocchi ([Doppiozero, 10 Novembre 2022
Il termine “sacro”, o meglio “il sacro”, attraversa tutta l’opera di Pasolini. Forse potremmo anche ipotizzare che tutta l’impalcatura di quest’opera, o tutti i concetti che la sorreggono, possano essere riconducibili a versioni diverse e cronologicamente differenziate del “sacro”.
Provo a ipotizzare una tipologia:
1. Il termine “sacro” come attributo esplicitamente presente nella poesia, dalle Ceneri a Trasumanar. “Sacro” in questo caso specifica una condizione di distanza dell’autore da un oggetto da lui osservato con attenzione ma a lui esterno. Anche se non nominato, il sacro caratterizza un fenomeno esterno, una condizione carnale (creaturale) tipica di un mondo ancora primitivo e alle soglie della Storia. Si crea così un’opposizione: chi è nel buio della Storia, cioè fuori da essa, ha ancora in sé tracce del sacro, chi è nella luce della Storia è già fuori dal Sacro. In questo caso “sacro” è molto vicino ad arcaico, a “barbaro”. Quest’ultimo termine, dirà Pasolini, è uno dei più cari del suo universo lessicale (come per la Morante).
Esiste anche una versione simmetrica e opposta a questa, e si fa luce pressappoco agli inizi degli anni sessanta, quando Pasolini scrive le “Poesie mondane” sul set di Mamma Roma. Il poeta immagina un film da fare dedicato a un santo medievale dal nome Bestemmia. Nello stesso momento, con un velocissimo passaggio, ipotizza la sua condizione di corpo morto nel futuro, quando i suoi detrattori, che a loro volta sono “morti” (privi di un valore vitale) nel presente, non ci saranno più. In questo futuro il suo corpo ridotto a scheletro avrà ancora una vita grazie all’intensità del suo amore presente. L’amore perdura al di là della morte (un motivo che viene dalla lettura di Foscolo). Dunque il suo corpo morto sarà “sacralizzato” in absentiam, la sua “sopravvivenza” sarà “sacra”.
2. Il “sacro” come particolare emergenza di porzioni della realtà (in particolare facce, corpi) rappresentati nel cinema di PPP, in forme diverse e con modalità diverse. In questo caso “sacro” non è più un fenomeno linguistico ma è transitato nella forma dell’immagine: la macchina da presa è lo strumento che può trovare il sacro, coglierlo, trasmetterlo. Pasolini ha scelto il cinema soprattutto per questo: grazie alla tecnica può trovare nel mondo ciò che la tecnica sta distruggendo.
3. Il sacro in quanto fatto esplicitamente erotico, o genericamente sessuale. Fin dall’inizio della sua attività di scrittura, Pasolini individua in un ricordo infantile il rapporto tra sacralità e desiderio sessuale. In particolare, è una parte del corpo maschile, l’incavo interno del ginocchio, che Pasolini definisce con un’invenzione linguistica che poi si porterà dietro per tutta la vita: teta veleta. Questa invenzione viene da lui poi ricondotta a una improbabile radice greca del termine “tetis”, che viene usata fino a Petrolio per indicare la sessualità senza freni, un desiderio puro e quasi impossibile. Tetis porta nel presente la forza mitica di Eros, è un amore ricondotto al corpo e al sesso. O anche alle origini della vita.
Questa accezione inizia con il film-libro Teorema, dove un giovane senza nome, l’Ospite, compare in una famiglia borghese e la distrugge attraverso il desiderio sessuale. Pasolini scrive esplicitamente: “il sesso sacro dell’Ospite”. Qui il sacro, che pur è scomparso dal mondo borghese (almeno nell’accezione che abbiamo visto per prima) ritorna fuori come forza non elaborata né cancellata, una forza incontrollabile e brutale che può distruggere ma che è collegata alle origini dell’esistenza, e che può riemergere al di là delle trasformazioni irreversibili di una società neocapitalistica. Il discorso di Pasolini sull’aborto non si può capire se non si capisce il suo difendere la sacralità del coito contro la tolleranza imposta dal nuovo potere.
Procederò cercando di illustrare questi tre aspetti, in realtà profondamente innervati l’uno nell’altro.
Il rapporto tra parola e immagine è fondamentale. Possiamo estendere a tutto Pasolini l’affermazione che lui fa intorno alla parola scritta in una sceneggiatura, definendola “struttura che vuol diventare un’altra struttura”. Dunque le parole poetiche sono sempre, a iniziare dal friulano, una forma espressiva che però tende fuori da se stessa, è spinta verso l’esterno, vuole diventare un’altra cosa. Questo procedimento fa delle parole forme che portano in sé il buio di un’origine profonda, non distinta, e si protendono verso la luce. Non si tratta solo di un’acquisizione di senso ma di un’acquisizione di visività. Il valore di ogni parola poetica è espressivo e performativo, con vari livelli a seconda delle epoche. Forse è più espressivo nelle prime raccolte e a mano a mano diventa sempre più performativo.
Lo stesso avviene per il sé di Pasolini, un sé corporeo che prende forma solo attraverso un mezzo di contrasto capace di mostrarcelo mentre sta sdoppiandosi in un altro sé. Pasolini non è mai intero, non sta mai dentro un confine, ma è sempre diviso tra lo star dentro e lo star fuori. Pasolini - come dice una famosa intervista rilasciata a Jean Duflot - è “uomo-centauro”. I quattro grandi centauri della letteratura italiana sono Machiavelli, nel mondo antico, Pavese, Primo Levi, Pasolini nella letteratura moderna. “Centauro” significa per ognuno di loro una cosa diversa, e Pasolini in un certo senso li concentra in sé tutti e quattro attraverso una serie di opposizioni: il bestiale e l’umano, il razionale e l’irrazionale, il pensatore e il poeta. Nel film Medea Pasolini mette in scena un centauro, Chirone.
Questo centauro insegna al giovane Giasone, da lui allevato, che “tutto è santo”. Non esiste cioè niente di realmente naturale ma ogni aspetto del mondo nasconde una presenza divina. Ma Giasone non impara. Per questo andrà a rubare il vello d’oro là dove c’è ancora una cultura sacra, barbarica, e per riuscire nella sua impresa sedurrà la maga Medea. Medea, portata da Giasone nel mondo della razionalità (Corinto, il mondo greco) perderà il suo potere. Giasone è un distruttore del sacro. Ma quando il sacro risorge, e Medea riacquista il suo potere di maga, la forza terribile del sacro si esercita sui figli da lei avuti da Giasone, che lei stessa uccide per gettare Giasone nella sofferenza e nella solitudine. Dunque l’intero film è un mito che mette in scena l’allegoria del mondo moderno: perdita del sacro, e possibilità di rinascita del sacro.
Torniamo ora sulla parola poetica, con un esempio dai poemetti delle Ceneri. Il poemetto L’Appennino è costruito secondo una tecnica che usa il sacro sia come involucro che come contenuto. L’involucro è costituito dalla statua di Ilaria del Carretto, giovane morta dormiente, come Silvia, e contenuta nella Cappella di S. Lucia a Lucca. Ilaria è un fantasma di marmo, per Pasolini un corpo addormentato che contiene in sé la notte italiana del centro sud. È un corpo-cripta, ma anche un corpo-paesaggio. Dietro le palpebre di Ilaria Pasolini vede l’apparire del sacro nella sua forma storica e a-storica: Ilaria è stata nella storia, la sua statua lo è ancora, ma per Pasolini è attraverso gli occhi di Ilaria, che sono rovesciati nel buio, che lui riesce a scorgere il popolo che vive nel buio di una notte italiana. Questo popolo è proteso verso l’attesa di una luce, cioè di una redenzione che lo porti dentro la storia, ma ancora non lo è. Il corpo umile dei pastori dell’appennino è incastonato nel fango e negli escrementi, è un corpo-escremento, un corpo che deve ancora liberarsi dalla sua condizione impura ma sacra: là dove c’è animalità c’è anche sacro.
Questo mi sembra abbastanza chiaro. Però consideriamo che Pasolini può parlare del sacro solo “attraverso” la forma compiuta del poemetto che mette in scena la postura corporea di Ilaria dormiente. Si tratta di una forma artistica, un capolavoro dell’Italia del ‘400. Il marmo lavorato con la finezza di un ricamo è l’esatto opposto della materia di cui è fatto il corpo popolare. Una materia bassa, non nobile, eppure messa al centro di un’attenzione costante: il fango, le feci, gli stracci, gli odori sgradevoli. Questo è l’universo sensoriale delle Ceneri, che appunto evocano nel titolo un corpo putrefatto e nobile nello stesso tempo, il corpo di Gramsci. La statua di Ilaria e il cippo funebre di Gramsci hanno la stessa funzione. Sono segnali di una sacralità che è nascosta in un mondo non più praticabile ma visibile grazie alla loro presenza fisica. Sono residui di vita ma anche conservatori di vite. In loro si incarna ciò che è destinato a scomparire, la “forza del passato”, dirà Pasolini, cioè il passato come forza e come sopravvivenza. L’ombra che ci fa, che ci rende noi stessi, dice James Hillman.
Passiamo alla prima immagine del primo film, Accattone. Si tratta di un viso, brutto: è Scucchia che parla in romanesco reggendo un grande mazzo di fiori sotto braccio, lanciando una frase ironica su un gruppo di uomini che stanno oziosi ai tavoli di un bar. Questo volto è un’immagine, cioè la realtà come la intende Pasolini. La realtà fissata dalla macchina da presa quindi resa immobile, eterna, dalla luce e dall’ombra, dal loro rapporto che divide e spacca in due l’immagine. Un’immagine che esce dalla realtà, si trasforma in qualcos’altro. Questo qualcosa è il “sacro”. Il “sacro” che si distribuisce tra due mondi, che cerca di svincolarsi dal buio tendendo verso altro.
Tutto Accattone è il racconto di una forza del sacro che si muove tra le borgate, che si incarna in alcuni corpi, come in quello di Vittorio, creando conseguenze tragiche e comiche, cioè spingendo verso il basso o verso l’alto. Ogni volto, in Accattone, ogni gesto, ogni frase è sacralità. Non c’è un confine che divida ciò che è sacro da ciò che non lo è. La morte è il passaggio della vita, e tutto il film è uno scorrere tra la vita e la morte, tra due mondi, tra due dimensioni che confinano ma non si mescolano mai. Accattone è colui che si muove tra i due mondi, o meglio in una fessura che sta tra una vitalità mortuaria e la morte vera e propria.
Cerco di andare al di là di quest’ultima affermazione. Nel rapporto tra le immagini, nella costruzione di un singolo oggetto-film Pasolini individua la sacralità che tiene legati i due estremi della vita e della morte. La vita che compare in un film, cioè l’espressione della vita, il racconto in quanto energia del desiderio che sorregge una vita, si sviluppa al di sopra di uno strato arcaico di morte, uno strato non dicibile direttamente se non attraverso l’insieme delle immagini che noi vediamo nel film. Questo strato arcaico viene definito in un primo momento da Pasolini come “base onirica” dalla quale derivano le immagini del film reale. Il sacro è insito anche in questo strato profondo che si rende percepibile dall’insieme delle immagini. La morte è sempre immanente su quanto si svolge alla superficie del racconto.
Pasolini ha offerto varianti continue di questo contrasto. Nei tre film mitologici, il contrasto si incarna sempre nel passaggio tra una situazione di anomalia, un breve periodo di stasi e poi l’improvviso presentarsi di un esito catastrofico, dove resta aperta una debolissima possibilità di redenzione.
Edipo scopre il segreto della sua vita, la madre Giocasta si uccide, lui si acceca ma un piccolo residuo di salvezza si incarna nel flauto grazie al quale l’uomo esecrando può ricodificare il suo scandalo in alcuni luoghi oltre il tempo, i luoghi che fuoriescono dal passato mitico e portano in scena il presente. In questi tre luoghi (il centro di Bologna, una fabbrica, il prato dell’allattamento iniziale) il sacro è stato rielaborato e convertito nella condizione della poesia e del sogno: Edipo ritrova grazie al flauto ciò che sembrava aver perduto accecandosi.
Il caso di Medea lo abbiamo già visto. Con Orestiade africana il sacro prende un nuovo aspetto. Oreste si incarna in un giovane africano che si svincola dai rituali tribali e dopo avere vendicato la morte del padre si avvia a un’educazione moderna, liberandosi dal peso della colpa. Nel mito antico la colpa è rappresentata dalle figure delle Furie, che perseguitano Oreste come la proiezione esteriore collegata al matricidio di Clitennestra. La dea Atena aiuterà Oreste a vincere l’assalto delle Furie. Un tribunale di cittadini lo dichiarerà innocente.
In questi tre film Pasolini ha affrontato il sacro riprendendone tre forme di affioramento: la colpa di Edipo, la vendetta di Medea, la redenzione di Oreste. Si tratta di tre racconti mitici. Lo stesso racconto mitico sottostava al Vangelo secondo Matteo. Il tema è lo stesso: cosa avviene quando un essere umano si trova a superare i limiti dell’umano stesso, spingendosi in un territorio dove non esiste ancora una Legge?
Edipo diventa re di una polis aggredita dalla peste ma poi si ritrova a essere lui stesso la causa del ritorno della peste. In lui si incarna la salvezza che poi si ribalta in un secondo peccato, ancora più terribile. A questo punto Edipo si è spinto al di là dei limiti dell’umano, in quella che Pasolini chiama “anomia” cioè il terreno dove non c’è più legge. Edipo diventa esecrabile, deve lasciare Tebe e cercare un luogo di redenzione.
Medea incarna in modo ancor più evidente il conflitto. Rinnega la propria religione, offre a Giasone il vello d’oro, cioè il centro sacro su cui ruota il mondo arcaico a cui lei stessa appartiene. Usa poi la sua forza per uccidere il fratello Apsirto, le cui membra vengono disseminate per fermare l’esercito che insegue lei e Giasone. Arrivata in un nuovo mondo, dove non ci sono più regole sacre, Medea perde se stessa, diventa una donna temuta e costretta a vivere fuori dalle mura di Corinto, la città della Legge e della ragione, di cui Giasone diventerà re sposando la principessa Glauce. Medea a questo punto vive una riconversione religiosa e viene di nuovo posseduta dalle forze mitiche del Sole, che le danno la forza per compiere il terzo omicidio, dopo quello della vittima sacrificale e del fratello, l’omicidio dei figli.
Ora Medea è di nuovo una creatura sacra, nessuno la può toccare. Nell’inquadratura finale il volto della Callas è scontornato dalle fiamme che bruciano la sua abitazione. Il fuoco rappresenta la forza mitica che si è impossessata di lei rendendola di nuovo maga e togliendole il ruolo di madre o di moglie. Il sacro si ripresenta nel momento in cui il film finisce. Ma l’intero film è un insieme di membra disseminate e tenute insieme dalla tecnica del montaggio. Il corpo di Giasone, nella sua interezza erotica può essere osservato solo in pezzi che il montaggio tiene uniti. Il corpo di Medea è un insieme dominato dalla passione amorosa e dalla rabbia vendicativa. Il sacro non può essere concepito nel mondo della razionalità. Se ricompare provoca disordine. E dopo il disordine?
Pasolini si interroga sullo stesso nucleo mitico trasportandolo anche nel mondo borghese moderno, attraverso l’allegoria di Teorema. In Teorema il sacro si incarna nel sesso dell’Ospite, cioè in un potere dionisiaco o diabolico che porta il vuoto là dove sembrava esserci coesione. La bellezza dell’Ospite scatena nei borghesi il desiderio senza freni che li fa entrare nello spazio anomico del deserto. Il deserto rappresenta nel film e nel libro lo spazio aperto prodotto dall’emergere del sacro. Ma il deserto è anche, biblicamente, lo spazio uniforme dal quale gli ebrei e San Paolo ricavarono l’immagine di un Dio onnipotente e di una Legge voluta da questo Dio.
Il deserto è dunque uno spazio reversibile: può produrre l’idea di un Dio Padre ma anche accogliere la fine di questa idea. La Legge di un Dio Padre: Pasolini immagina che questa Legge sia scardinata da un dio figlio, l’Ospite, colui che possiede tutti coloro che si credevano in possesso di un’identità, cioè i borghesi. Per questo, alla fine del film, vediamo il Padre che cammina nudo nel deserto e urla. Si tratta, come per Edipo e per Medea, dell’ultimo effetto del sacro sull’uomo. E per ogni personaggio il sacro interrompe un destino, lo ferma sull’orlo della sparizione. Ma, almeno in questo caso, Pasolini pensa che questo urlo possa annunciare una riapertura del tempo della storia, o forse di una nuova storia. Una nuova storia d’amore che possa legare di nuovo i padri ai figli. Ma non sappiamo cosa potrà avvenire. Non c’è una nuova Legge.
La nuova Legge compare invece in Orestiade africana. Qui il sacro è a un livello di assoluta primordialità. Pasolini lo vede incarnato nei secolari baobab africani o nella pigra digestione di una leonessa. Le Furie sono esseri della natura. E come tali non sono dominabili. Sono prima del tempo. L’unica possibilità è che l’uomo riesca a trovare uno spazio adatto per collocarle all’interno della polis. Lo spazio da cui il loro effetto sarà riconvertito, da Furie a Eumenidi, da Erinni a Benevole.
Alfabeto Pasolini
di Marco A. Bazzocchi ([Doppiozero, 10 Novembre 2022
Il termine “sacro”, o meglio “il sacro”, attraversa tutta l’opera di Pasolini. Forse potremmo anche ipotizzare che tutta l’impalcatura di quest’opera, o tutti i concetti che la sorreggono, possano essere riconducibili a versioni diverse e cronologicamente differenziate del “sacro”.
Pasolini conosce molto bene questa ipotesi sull’origine della civiltà, fin da quando ha tradotto Eschilo nel 1960. Ha letto con attenzione i testi di ispirazione marxista (Thompson) dove si spiega il passaggio voluto dalla dea Atena, che è una dea femminile ma anche maschile, in quanto prodotta dalla mente di Zeus. Atena è una divinità dei passaggi, del transito verso la vita, la dea del parto. In quanto vergine, in lei non c’è pietà femminile ma un elemento freddo e razionale. Non è una divinità pasoliniana ma Pasolini non può ignorarla: è l’aspetto del femminile che contiene in sé il maschile, e non ha caratteri materni. La storia inizia quando Atena colloca le Furie nella Polis. Le rende cioè figure che la mente umana può concepire senza terrore. Per Pasolini questo è l’unico modo in cui la Storia può progredire: tenere vicino il sacro, sapere che c’è, che può ritornare, non ignorarlo né tanto meno annullarlo.
Nella tragedia Pilade (una allegoria politica che descrive l’Italia della modernizzazione) Pasolini immagina una variante ulteriore del mito, cioè che le Eumenidi possano ritornare ad agire come Furie, portando le forze rivoluzionarie dentro la città e creando disordine. In questa tragedia a provocare il disordine è proprio Pilade, l’amico fraterno di Oreste, il suo doppio, colui che lo accompagna nell’intera avventura ma poi si sottrae a lui. Pilade è il “diverso” da Oreste, la sua parte oscura, quella che rifiuta l’adeguamento alla Legge. In quanto diverso, Pilade proclama l’esigenza di un ritorno al passato per la polis che si sta trasformando, mentre Oreste vorrebbe applicare le regole della nuova dea, di Atene.
C’è un legame intenso tra Atena, dea della luce, e Oreste, che a causa di quella luce non riesce a vedere nel buio della sua origine, cioè nel ventre materno, là dove lui ha esercitato la sua vendetta. Dunque Atena lo ha aiutato ma nello stesso tempo lo ha reso cieco. Atena ha eliminato la forza del sacro dal suo destino, ha ricollocato le Furie nei luoghi da dove non riescono più a produrre danni alla città. Per questo, alla fine della tragedia, Pilade rinnega Atena, rifiuta la forza consolatrice della Ragione. La Ragione può produrre un blocco storico, può rivelarsi una restaurazione. Diventare cioè una giustificazione per chi vuole un progresso senza la presenza del sacro. Qui Pasolini pensa a un potere di sinistra miope, che non riconosce l’irrazionalità e l’oscurità, che non capisce l’azione del sacro. «Va nella vecchia città la cui nuova storia non voglio conoscere»: così dice Pilade ad Atena. E maledice ogni Dio, ogni forma di Dio incarnato.
Ma può esistere ancora il sacro?
Credo sia necessario risalire all’enunciazione del sesso sacro dell’Ospite, cioè al momento in cui Pasolini crea l’ipotesi che sia possibile una forma d’amore diversa che ancora deve mostrarsi. Un amore che si crea dopo la distruzione, attraverso la distruzione. Un amore che fa i conti con il sacro. Ma che non necessariamente si manifesta tragicamente. Penso che Pasolini andasse verso la direzione di un oltrepassamento del tragico che implica proprio una nuova forma di erotismo, liberandosi dall’eccesso di densità e di implicazioni che avevano accompagnato la sua vita di autore.
Ma se non ci può essere conciliazione, Pasolini rimane “centauro”, o meglio il suo pensiero resta sempre duale, mai dialettico, allora non possiamo considerare mai concluso il suo rapporto con le Furie. Per questo Pasolini è anche Edipo, che ritrova nell’origine del canto l’esile speranza della salvezza, è Pilade, che va al di là della religione di Atena per capire quanto Atena ha nascosto sotto la sua Ragione maschile. Spinto da questa forza, egli si pone sempre sul confine tra due mondi, là dove la luce si distacca dal buio, là dove si esce da un sogno per cadere nel risveglio. Là dove la ragione cerca di circoscrivere le zone del sacro, di riconoscerlo, di renderlo visibile e praticabile attraverso parole e immagini.
Venti incontri, venti parole, venti biblioteche, venti oratori, venti podcast: cento anni di Pasolini. Un ciclo di incontri e di testi affidati a scrittori e esperti per attraversare l’immaginario pasoliniano, un progetto Doppiozero in collaborazione con Roma Culture.
L’incontro di mercoledì 11 novembre sarà con Marco Antonio Bazzocchi, presso la Biblioteca Laurentina di Roma alle ore 11. Qui il programma completo.
ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA: "NOTE" PER ELEUSI 2023
KOENIGSBERG (1784), KALININGRAD (2022), E MISTERI ELEUSINI:
Dopo interi millenni di labirinto e di platonismo per il popolo (Nietzsche), con Hegel e Holderlin, andare oltre Hegel e Holderlin e prepararsi a ripensare la storia della Terra-Madre (Demetra), M->Arianna, e rendere omaggio a ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA #CULTURA 2023.
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STORIA, FILOSOFIA, E MEMORIA. HEGEL,
"A HOLDERLIN" [dalla lettera dell’agosto 1796]:
ELEUSI" *
"[...]
Ah! Se da sole ora le porte del tuo santuario si spezzassero,
o Cerere, tu che in Eleusi avevi il trono!
Ebbro di entusiasmo, io proverei ora
il fremito della tua vicinanza,
comprenderei le tue rivelazioni,
interpreterei l’alto senso delle immagini, udrei
gli inni nei banchetti degli dei,
gli alti detti del loro consiglio -
Pure i tuoi atri sono ammutoliti, o dea!
Il cerchio degli dei è fuggito dall’Olimpo
degli altari consacrati,
fuggito dalla tomba dell’umanità profanata
il genio innocente, che qui li incantava! -
La saggezza dei tuoi sacerdoti tace; non un suono dalle sacre
iniziazioni si è salvato fino a noi [...]"
* Cfr. G. W. F. Hegel, "Eleusis, Carteggio. Il poema filosofico del giovane Hegel e il suo epistolario con Hölderlin", Mimesis edizioni 2014 - ripresa parziale).
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"LETTERATURA EUROPEA" E "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI": DEMETRA (LA TERRA-MADRE) ED ELEUSI 2023...
A) L’ORACOLO DI APOLLO AI TROIANI, A DELO: "[...] la #terra da cui traete origine,/ prima culla dei padri, vi vedrà ritornare/ nel suo seno materno, reduci. Su, cercate/ l’antica #madre! [...]" (Virgilio, Eneide, III, 114-117).
B) GIUNONE (E LA RICERCA DI FREUD): "Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo" (Virgilio, Eneide, VII, 312)
C) L’EDIPO COMPLETO (FREUD) E DEMETRA: ELEUSIS 2023. "[...] Rimane ancora aperta la questione della Madre, di cui oggi parlano in pochi. Non si tratta né di ruolo, né di funzione. Si tratta di codici. Perché la Legge del Padre si stabilisca nel modo giusto, è necessaria, a mio avviso, la fiducia nella persona, incarnata nel codice affettivo materno. Ciò che mantiene sempre il legame sociale, anche quando appare spezzato. Sembra che di ciò, in tutto questo importante discorso sui padri, ci si stia dimenticando." (Pietro Barbetta, "Presenza/Assenza del padre", Doppiozero 7 Gennaio 2014).
LA MALATTIA DELL’EUROPA, FRANCO FORNARI (1981) E... L’EDUCAZIONE ALLA "PACE PERPETUA" *
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Franco Fornari sviluppò la sua ricerca a partire dalla convinzione che la psicoanalisi potesse aiutare
l’uomo a risolvere non solo i conflitti intrapsichici ma anche quelli interpersonali, istituzionali e
sociali. Il suo progetto di educare alla pace lo in portò ad indagare i meccanismi inconsci che
alimentano la guerra fra i popoli.
A questo dedicò numerosi libri: Psicoanalisi della guerra atomica
(1964), Psicoanalisi della guerra (1966) e La malattia dell’Europa (1981). Il suo pensiero ricevette
una grande attenzione internazionale alla Conferenza dell’ONU sulla pace a New York e il suo
impegno lo portò a diventare membro del Comitato Mondiale di ricerca sulla pace.
“Giunto così in modo un po’ concitato alla fine della mia ricerca sulla malattia dell’Europa, vorrei darle un nome. Poiché i processi patologici che ho individuato sono molteplici e intricati, anziché elencarli in una lunga perifrasi, vorrei condensarli con il mito di Tieste.
Questo mito racconta che tra i due fratelli Atreo e Tieste, correva un’inimicizia mortale.
Il nome di Atreo rimanda agli Atridi: Agamennone e Menelao, appunto, quelli della guerra di Troia. Poiché Agamennone, il capo dei greci, è figlio di Atreo, la sua genealogia rimanda ad una struttura perversa del potere familiare, che sembra dare una luce sinistra alla guerra di Troia, la prima grande guerra.
Dice dunque il mito che i due fratelli Atreo e Tieste si odiavano a morte. Un giorno però Atreo propose al fratello la riconciliazione e la coesistenza pacifica. Venuto il giorno della pace, Atreo offrì al fratello Tieste un banchetto imbandito con la carne dei suoi bambini, sgozzati davanti all’altare. La guerra di Troia ha dunque nella sua genealogia l’odio tra fratelli.
Ricordando Tieste, propongo di chiamare “Tiestopa” la malattia dell’Europa. Come nel mito greco, gli accordi di Yalta dicono di un odio mortale tra americani e russi, i fratelli vincitori della Seconda guerra mondiale. La divisione dell’Europa dice che a Yalta c’è stato un banchetto, nel quale le due grandi potenze, vincitrici, fingendo la pacificazione, si sono costituite come pseudogenitori dell’Europa, e hanno messo in atto un’intesa apparente, dandosi reciprocamente da mangiare i popoli europei, come simulazione di pace. Il mito dice dunque che gli accordi di Yalta sono un signum mali ominis: un segno di cattivo auspicio. Nel mito possono essere letti i presupposti di una nuova guerra di Troia, in era nucleare: dell’ultima grande guerra dell’Occidente.
La malattia dell’Europa è sospesa tra la Seconda e la Terza guerra mondiale. Questo significa che la cura della malattia dell’Europa è essenziale per evitare la Terza guerra mondiale e può essere fatta solo attraverso la liberazione dell’Europa dalla sovversione perversa e crociata degli Usa e dell’Urss in una rivoluzione culturale pacifica che è la condizione necessaria e sufficiente per evitare al mondo la maledizione dei discendenti di Atreo.” (Fornari F., 1981 pag 203-204)
* Fonte: Società Psicoanalitica Italiana
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
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Costanza d’Altavilla, la monaca imperatrice
«Quest’è la luce de la gran Costanza / che del secondo vento di Soave / generò ‘l terzo e l’ultima possanza».
di Fulvio Delle Donne *
Sono i versi con cui Dante, nel III canto del Paradiso (vv. 118-120), presenta Costanza d’Altavilla. Ci troviamo nell’ultimo cielo, quello della Luna, dove si trovano gli “spiriti difettivi”, che hanno il grado più basso di beatitudine, perché i loro voti furono non adempiuti o trascurati in parte. A parlare è Piccarda Donati, la quale indica un’anima splendente alla sua destra, che ha vissuto la sua stessa esperienza: anch’ella fu suora e le fu tolto forzatamente il velo, pur se in seguito rimase in cuore fedele alla regola monastica. È l’imperatrice Costanza d’Altavilla, che dall’imperatore Enrico VI (secondo vento di Soave) generò Federico II di Svevia (‘l terzo e l’ultima possanza).
Costanza fu figlia del normanno Ruggero II d’Altavilla, il primo re di Sicilia, e nacque nel 1154, poco dopo la morte del padre. Trascorse l’infanzia a Palermo e rimase molto a lungo nubile, fino a 32 anni, un’età, per l’epoca, davvero avanzata. È possibile che proprio da ciò sia nata la voce della monacazione di Costanza, resa immortale dai versi danteschi: si tratta, probabilmente, solo di un’invenzione posteriore, che poi fu accreditata in vario modo. A partire dal secolo XIV, infatti, vari monasteri si contesero l’onore di aver ospitato tra le loro mura l’imperatrice, come monaca se non addirittura come badessa.
Non si sa quasi niente di Costanza fino al suo fidanzamento per procura (ad Augusta il 29 ottobre 1184) e al matrimonio con l’erede al trono degli imperatori Svevi, Enrico VI, figlio di Federico I, il Barbarossa. Nell’estate del 1185 Costanza lasciò per la prima volta la Sicilia per andare a sposarsi. Il re di Sicilia Guglielmo II (suo nipote: era figlio di Guglielmo I, di cui Costanza era sorella) accompagnò personalmente, per un tratto, Costanza e il suo spettacolare seguito di uomini, cavalli e muli. A Foligno incontrò lo sposo e assieme si recarono a Milano: le nozze furono celebrate il 27 gennaio 1186 in S. Ambrogio con grande pompa.
In quel momento ancora non poteva essere prevista l’effettiva successione di Costanza sul trono siciliano. Il re Guglielmo II era ancora abbastanza giovane (aveva 32 anni) per generare figli. Ma tra la fine del 1189 e la prima metà del 1190 tutti gli eventi cambiarono verso! Il 18 novembre 1189 si spense Guglielmo II e il 10 giugno 1190 morì in Oriente (mentre effettuava la sua crociata) anche Federico Barbarossa. A Enrico VI spettava ora l’impero, a Costanza la Sicilia: assieme potevano essere signori dell’Europa!
Tutta l’attenzione di Enrico, da quel momento, si concentrò sul Regno dell’Italia meridionale, quel pontile nel centro del Mediterraneo che permetteva a chi lo possedeva di dominare il mondo. In Sicilia, però, la situazione non era pacifica: la nobiltà di corte aveva approfittato dei diffusi sentimenti antitedeschi per privilegiare una “soluzione nazionale”, eleggendo re il conte Tancredi di Lecce, un nipote illegittimo di Ruggero II, che il 18 gennaio 1190 fu incoronato re di Sicilia.
Bisognava fare in fretta e bisognava scendere in Italia a rivendicare il trono: il lunedì di Pasqua (15 aprile 1191) papa Celestino III, a Roma, in San Pietro, incoronò solennemente Enrico e Costanza imperatore e imperatrice. Poi proseguirono verso sud, tentando invano di conquistare il Regno ma fermandosi a Napoli e a Salerno, dove Costanza fu catturata dai nemici. La conquista sarebbe riuscita solo tre anni dopo. Entrato a Palermo, nel Natale del 1194 Enrico fu incoronato re di Sicilia. Il giorno dopo, con coincidenza strabiliante, il 26 dicembre 1194, Costanza diede alla luce a Jesi, nella Marca anconetana, l’erede al trono Federico II.
Quando Federico nacque, Costanza era quarantenne, anche se alcune fonti le accrebbero gli anni fino a 55 e oltre. A causa dell’età matura della madre, al suo primo parto, già i contemporanei guardarono con aperto sospetto a questa nascita. Negli anni successivi, soprattutto quando cominciarono i contrasti più accesi tra Federico II e il fronte composto da papato e Comuni, si andò diffondendo sempre più la voce che Costanza avesse simulato il parto, perché era troppo anziana per avere un figlio. Fu per contrastare tale diceria, che se ne inventò un’altra, ancora più fantasiosa, cioè che il parto era avvenuto sulla pubblica piazza, sotto una tenda, perché tutta una comunità potesse essere chiamata a testimoniare l’effettualità dell’evento.
Per due anni Costanza resse il regno in assenza del marito, che tornò solo nella primavera del 1197: nel maggio di quell’anno fu sventata una congiura contro Enrico, ordita, forse, dalla stessa Costanza. Poco dopo l’imperatore si ammalò e morì il 28 settembre 1198 a Messina: secondo alcune dicerie era stata Costanza ad avvelenarlo. In qualunque modo stessero i fatti, la situazione era assai delicata e richiedeva misure rapide ed efficaci. L’interesse della madre era quello di garantire la successione al figlio. E per farlo si accordò col papa, che unico poteva proteggerlo; in questo modo riuscì a far incoronare Federico re di Sicilia il 17 maggio 1198.
A partire da quel momento si sarebbe, però, dovuta mettere da parte qualsiasi rivendicazione del titolo imperiale, che pure sarebbe spettato a Federico. Era stato Innocenzo III - il più potente propugnatore delle supreme prerogative papali, colui che amò definirsi verus imperator - a pretenderlo, per timore che i territori della Chiesa si trovassero accerchiati, da nord e da sud, da un unico signore, troppo potente per essere contrastato facilmente.
Le cose sarebbero andate diversamente e Federico sarebbe stato incoronato imperatore nel 1220, ma frattanto, il 27 novembre 1198, Costanza morì a 44 anni. Nel suo testamento nominava papa Innocenzo III reggente del Regno e tutore di Federico, che allora aveva solo 4 anni.
Ecco, tra storia e mito questa è la vicenda di Costanza d’Altavilla, una monaca imperatrice che generò in tarda età un figlio destinato a mutare la storia del mondo. Una donna destinata a vivere di luce riflessa: quella di Dio, nel paradisiaco cielo della Luna, e quella del figlio, il grande Federico II di Svevia, che protesse fino alla fine, come solo una madre può fare.
* FONTE: FESTIVAL DEL MEDIOEVO (ripresa parziale, senza immagini).
Sotto gli occhi dell’Agnello
“L’uomo secolare non sa cosa pensare”, scrive Calasso all’inizio di Sotto gli occhi dell’agnello, libro postumo, non so se più sorprendente o più incandescente. Non sa pensare rispetto alle molteplici denominazioni elaborate dalle varie religioni per indicare il divino, cioè il senso ultimo del mondo. In realtà però Calasso, riflettendo sull’Apocalisse e sul Polittico di Gand che riprende la figura dell’Agnello mistico, seppe bene cosa pensare e chiunque legge queste sue pagine solenni e severe è indotto a farlo a sua volta.
Apocalisse letteralmente significa “rivelazione”, prima ancora “smascheramento” (il significato base di apokalupto è “denudare”). Qual è lo smascheramento operato dall’Apocalisse? Leggendo gli alti e allusivi pensieri di Calasso si può individuare al riguardo un triplice processo.
Dapprima vi è lo smascheramento della Storia e della sua logica dominatrice, il Potere. Nell’Apocalisse c’è un termine che compare spesso (38 volte ricorda Calasso), theríon, bestia: “Theríon è il Grande Predatore... se riaffiora dalla terra, si torna vicini all’origine - o alla fine”. Nei secoli passati furono in molti a rintracciare il Grande Predatore in questo o quel tiranno e anche oggi qualcuno lo potrebbe identificare con chi comanda al Cremlino. Ma ben più che identificarsi in un uomo, esso simboleggia una logica: theríon cioè rimanda a una teoria, al segreto con cui acquisire e mantenere il potere, segreto che consiste nell’oppressione, fino allo sgozzamento, degli innocenti. Nella violenza ...
Dopo la Storia, è la volta della Natura. L’Apocalisse afferma che l’Agnello viene immolato apò katabolês kósmou (13,8), espressione che dalle versioni bibliche più autorevoli (tra cui Vulgata, Lutero, King James) viene intesa in senso temporale e causale: “immolato fin dalla creazione del mondo”, “immolato a causa della creazione del mondo”. Perché il mondo possa esserci l’Agnello deve morire. Perché? Come spiegare il legame tra uccisione dell’Agnello e creazione? Calasso pone la domanda che egli stesso definisce “ultima”: “Chi lo sgozza?”. Ricorda che l’Agnello è prefigurato da Abele, prima vittima della storia; poi dal Servo di Isaia che è “come agnello condotto al macello”; infine trova compimento in Gesù, indicato dal Battista come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, l’Agnus Dei della liturgia. Ma Calasso non si ferma alle prefigurazioni e pone la questione di chi volle lo sgozzamento dell’Agnello fin dall’inizio del mondo e la sua risposta è: “Yahwé ha voluto che l’agnello venisse anche ucciso. Altrimenti la macchina del mondo non si sarebbe messa in moto”. Il carburante della macchina del mondo è il sangue innocente, perché la vita si nutre di vita producendo inevitabilmente morte: ecco il secondo svelamento. Capendo questo, avvertendone il peso oppressivo fino a sentirsi colpevoli per il solo fatto di esistere, si può giungere a non sopportare più la vita e a voler “restituire il biglietto”, per riprendere l’espressione posta da Dostoevskij sulle labbra di Ivan Karamazov. È quanto fecero Carlo Michelstaedter, Cesare Pavese, Guido Morselli, Alexander Langer, per fare solo alcuni nomi tra i molti spiriti sensibili che si tolsero la vita non potendo più sopportare di vivere “sotto gli occhi dell’Agnello”.
Il terzo smascheramento non è voluto dall’autore dell’Apocalisse ma è colto con acutezza da Calasso e riguarda il cristianesimo e il suo destino. Se è vero infatti che la Bestia sarà sconfitta, lo sarà con le sue stesse armi: la violenza e la guerra. È quindi impossibile non chiedersi: si tratta veramente di vittoria dell’Agnello o è piuttosto la sua definitiva sconfitta? Se l’Agnello per vincere deve ricorrere ai metodi del Drago, non è diventato egli stesso Drago? Calasso sostiene di sì, scrive che l’Apocalisse è “antitetica a ogni parola di Gesù” e che, collocata a conclusione del Nuovo Testamento, lo ha “sfigurato”. Conclude quindi che l’Apocalisse (da lui definita “libro di vendetta”, che “ignora i dubbi”, il cui autore “era un uomo astioso”, la cui lingua grezza è “un’offesa al greco”) è “l’autodistruzione del cristianesimo”.
È davvero così, l’Apocalisse è un tradimento del messaggio di Gesù? Sì, ma con questo opera un ulteriore smascheramento che riguarda proprio Gesù, su cui Calasso non si sofferma ma che a me preme chiarire. Gesù era convinto che il mondo sarebbe stato presto visitato da un evento che l’avrebbe radicalmente cambiato rendendolo di nuovo dominio di Dio e non più di Satana da lui chiamato “il principe di questo mondo”: annunciando l’imminente venuta del regno di Dio, Gesù aveva in mente questa totale trasformazione della storia. Il mondo però ha proseguito incurante il suo cammino continuando a esigere l’immolazione di tanti altri agnelli indifesi, dopo di lui. Con la sua violenza l’Apocalisse tradisce il messaggio di Gesù ma ne svela al contempo l’infondatezza storica e l’impraticabilità concreta. Il risultato di tale aporia si manifesta nel modo più evidente ai nostri giorni nella mente dell’uomo secolare, che per questo, ormai, “non sa cosa pensare”.
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Harukichi Shimoi: il samurai tra Dante, D’Annunzio e Mussolini
Un giapponese a Fiume tra ju-jitsu, imprese aeronautiche e studi danteschi.
di Leonardo Palma *
Tra il novembre 1951 e il marzo 1952, Indro Montanelli soggiornò in Giappone per raccontarne il dopoguerra. Durante il rigido inverno, incontrò un vecchio poeta giapponese che gli avrebbe fatto da guida, un uomo piccolo, tozzo e brutto, con un’unica linea di folte sopracciglia resa ancora più densa dagli spessi occhiali da ipermetrope. Non parlava italiano ma solo il dialetto napoletano e, trovatosi di fronte a un piatto di spaghetti e ad un fiasco di Chianti, «mentre la sua forchetta arrotolava con partenopea pazienza i fili di pasta», confessò a Montanelli che:
Harukichi Shimoi era nato nel 1883 nei pressi di Fukuoka, quarto figlio del samurai Kikuzo Inoue. Il cognome Shimoi viene dal suo padre adottivo, l’architetto, commerciante di legnami e futuro suocero, Kisuke Shimoi. Quest’ultimo adottò il ventiquattrenne Harukichi nel 1907 in seguito ad una grave crisi economica che aveva ridotto sul lastrico la sua famiglia, un evento piuttosto comune tra le famiglie samurai che non avevano accolto con entusiasmo le trasformazioni dell’epoca Meiji.
Harukichi studiò alla Scuola Magistrale di Tokyo, l’attuale Università di Tsukuba, e ottenne la laurea in anglistica. Iniziò ad insegnare in un liceo femminile ma poco tempo dopo fece uno di quegli incontri che ogni tanto danno una svolta inaspettata alla vita delle persone.
Conobbe il traduttore, critico letterario e anglista Bin Ueda, fondatore del movimento modernista nipponico Pan No Kai, e fu introdotto da quest’ultimo alla Divina Commedia.
Shimoi cadde malato per l’amore di Dante, cominciò a raccogliere libri e studi danteschi, traduzioni in francese, tedesco, inglese e fondò la Dante Toshokan, la prima Società Dantesca Giapponese. Si iscrisse alla Gaikoku-go-Gakko, la Scuola Speciale di Lingue Straniere, ed iniziò a studiare l’italiano, più o meno negli stessi anni in cui l’italianista Yamakawa Heisaburo traduceva in giapponese l’Inferno.
Nel 1915, Shimoi decise di trasferirsi in Italia e grazie all’Ambasciatore Alessandro Guiccioli, un marchese ravennate, tipico rappresentante della carriera di età liberale, ottenne l’incarico di lettore di lingua giapponese al Reale Istituto Orientale di Napoli, la più antica scuola di sinologia europea. Tra i quartieri popolari e il notabilato cittadino, al mattino Shimoi leggeva nei caffè la rivista di Vincenzo Siniscalchi, L’Eco della Cultura, poi dopo aver pagato raggiungeva la bancarella di Via Toledo dove don Gaetano Pappacena, storico libraio analfabeta, lo intratteneva con i racconti della storia della città.
Grazie all’amicizia con l’ispanista Gherardo Marrone, Shimoi fu introdotto nei salotti bene di Napoli e prese a frequentare gli ambienti culturali dell’avanguardia che all’epoca subivano il fascino del futurismo, l’audacia delle sperimentazioni artistiche, la spinta utopistica di certe ideologie primo-novecentesche. Egli si legò in particolare allo scultore Raffaele Uccella ed a Elpidio Jenco, entrambi propugnatori di una visione artistica che aderiva ai principi futuristi dell’artecrazia teorizzata da Marinetti.
Fu in questo ambiente fecondo di arte e lettere e politica rasente l’utopia, quello raccontato così bene da Luciano Caruso in Futurismo a Napoli, che Shimoi maturò come intellettuale e poeta, ripetendo quel miracolo che la generazione dei suoi genitori, ad eccezione forse proprio del padre, avevano compiuto all’indomani dell’arrivo delle cannoniere di Perry. Accolse lo straniero, si immerse nelle acque di una cultura estranea, ne bevve dalla fonte e ne uscì come “scugnizzo giapponese”, italiano in tutto tranne che nel suo essere giapponese.
Forse, soltanto chi ha avuto la fortuna di conoscere quei giapponesi cresciuti in Occidente può capire questo miracolo di incontaminata contaminazione. Un giorno, di ritorno da Roma, Shimoi noleggiò una carrozzella, chiese al conducente di portarlo dal suo amico, il compositore Giovanni Ermete Gaeta, e il vetturino, vedendo solo uno straniero, commentò in dialetto gli abusi che avrebbe perpetrato sul suo ignaro cliente. Chiese una cifra spropositata per la corsa a cui Shimoi rispose domandando chiarimenti. «È pure surdo stu scemo!».
Al che il piccolo giapponese gli si fece accanto, lo prese per il bavero e con le pupille ridotte a due fessure minacciò in perfetto napoletano:
Negli anni che precedettero il baratro della guerra verso cui la locomotiva europea stava ciecamente correndo, Shimoi continuò ad insegnare all’Orientale e grazie al suo amico Morone pubblicò le prime raccolte di poesie e scritti giapponesi sulla rivista La Diana, tipico zibaldone novecentesco con uno scritto a mo’ di prefazione di Benedetto Croce. Quest’ultimo rappresentava in quegli anni il principale teorico della poesia pura e diede a Morone il coraggio necessario per pubblicare giovani intellettuali, futuristi, neoliberisti, metafisici, dadaisti, oltre alle sperimentazioni di Saba, Ungaretti e Onofri.
La rivista rappresentava cioè una avanguardia nella trasformazione della poesia italiana che, lentamente, stava cercando di perseguire l’ideale della purezza, del frammentarismo, di quel simbolismo di marca francese che sarebbe poi sfociato nell’ermetismo di cui Ungaretti e Montale furono padri putativi. In quel primo numero Shimoi pubblicò alcune traduzioni in prosa di componimenti giapponesi che, tradizionalmente, sono caratterizzati da immediatezza ed essenzialità. Ciò che Mallarmé definiva “il senso misterioso degli aspetti dell’esistenza”, la poesia che “dona autenticità al nostro soggiorno, e costituisce il suo compito spirituale”.
Proprio gli haiku giapponesi, componimenti nati nel periodo Edō, esprimevano questo mistero in appena tre versi di 17 more. Musica della matematica, numeri che cantano. La raccolta ebbe un immediato successo e divenne l’oggetto di un libro pubblicato nel 1917, curato da Shimoi e Marone, intitolato Poesie giapponesi. Nell’introduzione, Shimoi ricordò che il Giappone era il paese meraviglioso della poesia, dove
Giovanni Papini ne lodò i contenuti sul Mercure de France e anni dopo denunciò l’influsso della “moda giapponese” lanciata da Shimoi e Marone sugli sperimentatori italiani di quegli anni, soprattutto Ungaretti. Quest’ultimo, almeno fino al 1959, rifiutò sdegnosamente ogni parentela con la poesia nipponica ma la ricerca incentrata sulla parola come valore idealtipico, assoluto, non poteva non ricordare la sintesi dell’estremo oriente. Così Saffi e Jenco accostarono Porto Sepolto a Nobutsume Sasaki e Suikei Maeta.
Al contrario, Saba rivendicò i suoi esperimenti nel segno della poesia giapponese, sperimentazioni che chiamò “piccoli giocattoli” e che rientrarono in un libercolo quasi in miniatura di 40 composizioni di tre versi, intitolato Intermezzi giapponesi. Come spesso accade, una fatica generata dalla passione ebbe un influsso determinante sulla nascita di quella sensibilità letteraria da cui sarebbe sbocciato il fiore dell’ermetismo.
Poi venne la guerra. Harukichi Shimoi, professore uso a tradurre poesie, chiuse il suo ufficio e volle conoscere il fronte come inviato de il Mattino e il Mezzogiorno. Nel 1914 il Giappone si schierò al fianco dell’Intesa, vinse la Kaiserliche Marine tedesca a Tsingtau e, tre anni dopo, inviò l’incrociatore Akashi e alcuni cacciatorpediniere nel Mediterraneo per operazioni antisommergibile. Shimoi si sentì fin da subito partecipe di quella tragedia e grazie alle sue conoscenze riuscì ad eludere l’obbligo per la stampa straniera di restare nelle retrovie e raggiunse la prima linea.
Grazie all’intervento dell’ambasciata nipponica, egli fu raccomandato dal generale Caviglia, ex addetto militare a Tokyo e in quel momento comandante in capo delle truppe italiane, dal senatore regio Giuseppe De Lorenzo, geografo e orientalista, e dal Ministro Francesco Saverio Nitti. La guerra italiana vista da un giapponese raccoglie l’epistolario di Shimoi e le sue corrispondenze con De Lorenzo e Nitti. Quest’opera, da un punto di vista letterario scarna, disadorna, discontinua, incerta sintatticamente ma forzatamente schietta e sincera, si inserisce perfettamente nel solco delle opere di altri come Il Giappone in armi di Barzini, Kobilek di Soffici, Trevelyan e il suo Scenes from Italy’s war, Poore, Fairbanks, Page, e su tutti Hemingway.
Ciò nondimeno, in Shimoi quel fascino tipicamente marinettiano per la guerra bella - “più bella della Vittoria di Samotracia” - urtava l’evidente senso di smarrimento di fronte al dramma della morte e della sofferenza. Shimoi cercava nella carne ferita e nello spirito orgoglioso degli italiani quel senso di pietà e dignità che aveva scoperto in Dante. Se doveva scendere agli inferi, Shimoi voleva credere che fossero popolati da anime dannate ma comunque umane, anche di fronte al peccato e al dolore della pena.
Le trincee dovevano essere la guerra / sì del cammino e sì de la pietate. In una lettera a Corrado Pavolini del 1929, Ungaretti ricordava che durante la guerra, tra lo sporco delle trincee e i rumori delle artiglierie:
Shimoi disse di non aver interesse per la gloria spinta dalla vanità, bensì per l’eroismo puro, “perciò divino”, di giovani e vecchi che compiono ogni giorno atti straordinari senza essere ricordati da nessuno. Per lui Enrico Toti, umile operaio mutilato della gamba destra che si arruolò volontario e morì in trincea, era degno della più altra tradizione dell’aristocrazia guerriera giapponese.
Sotto la medesima coltre di umiltà, Shimoi descrisse il salvataggio di un soldato italiano ferito dalla mitraglia austriaca: gli fasciò la gamba martoriata, se lo caricò a spalla e lo portò al posto di medicamento. Quando il giovane italiano gli chiese chi fosse, egli rispose soltanto di essere un giapponese amante dell’Italia:
Tra le cime dell’Adamello, le mulattiere del Pasubio o le acque del Tagliamento e del Piave, nulla seppe però attrarre quel piccolo giapponese come le truppe degli Arditi. L’Ardito, la “più potente scultura del genio latino” secondo D’Annunzio, il “guerriero più simile a quello di Maratona” che diede un nome e una divisa al coraggio e che meglio di qualunque altro corpo personificò quel misto di anarchismo, genio e amor di patria che da sempre caratterizza il popolo italiano.
Un decennio più tardi, Mario Carli ricordava come, all’inizio, gli Arditi fossero poco più che “una leggenda bella e misteriosa” tra i fanti del suo battaglione, fino a quando una fredda notte del 1917 alla Sella di Dol, sul San Gabriele, li videro andare alla carica. E tutti capirono che chiunque, anche i vecchi, potevano essere uguali a loro.
Per Carli, all’Italia liberale ormai in età da pensione era mancata fino ad allora una formula che desse sostanza alla bellezza e alla temerarietà dell’eroica giovinezza, almeno fino alla nascita del futurista della guerra: l’Ardito. Scapigliato, libero, guascone, agile, sfrenato, “la forza gaia dei vent’anni che scaglia le bombe fischiettando i ricordi del Varietà”, mutata nell’avanguardia della Nazione in guerra.
Shimoi guardò a questi avvenimenti come ad una possente trama tessuta da divinità latine, uno sbocco rivoluzionario inevitabile che riuniva in sé lo spirito dei suoi antenati Samurai e il genio dei popoli mediterranei. Si dice che egli si fosse arruolato volontario tra gli Arditi e che avesse insegnato loro il karate tra le trincee del Carso ma si tratta di un romantico falso storico. Shimoi seguì le truppe scelte in combattimento come corrispondente di guerra, non come volontario, e la divisa e la qualifica di Ardito onorario furono un regalo da parte del generale Caviglia o, su raccomandazione di D’Annunzio, del capitano Carli. Nondimeno all’epoca il karate non era ancora conosciuto neanche in Giappone, veniva praticato esclusivamente ad Okinawa ed era chiamato toudi o tote-jutsu.
Funakoshi Gichin, considerato il padre del karate moderno, fu invitato soltanto nel 1922 a dimostrare la sua arte al Congresso di Educazione Fisica di Tokyo. Non è possibile neanche che Shimoi avesse insegnato agli Arditi il judo, non soltanto perché in quegli anni veniva ancora chiamato Kano-Jujitsu, ma perché non abbiamo prove che quest’ultimo avesse mai incontrato il prof. Kano o studenti del Kodokan prima del 1928. Tuttavia, le fonti sono concorde nell’affermare che Shimoi abbia insegnato qualcosa agli Arditi italiani ed è dunque possibile ipotizzare che si sia trattato di tecniche di ju-jitsu di una vecchia scuola (koryu) di famiglia.
Il padre biologico di Harukichi, del resto, era un vecchio samurai. Quel tipo di ju-jitsu era quanto rimasto dello yoroi kumi-uchi, la lotta in armatura, che prevedeva tecniche di leva, prese, spazzate, blocchi, per portare l’avversario a terra in mischia, sottometterlo e infliggere il colpo di grazia con l’arma corta (kodachi) solitamente alla gola, alla cervice o sotto le ascelle per arrivare al cuore.
Una tecnica adattabile alla scuola di coltello degli Arditi. Quest’ultimi venivano addestrati a Sdricca di Manzano, effettuando esercitazioni di assalto a fuoco su “colline tipo”, con il lancio corto di bombe a mano, le famigerate Thévenot, l’uso di mitragliatrici, fucili, lanciafiamme e la lotta con il coltello. A Shimoi, gli Arditi italiani ricordavano gli Sciro-Dasuhi di Port Arthur durante la guerra russo-giapponese, soldati armati unicamente di katana che indossavano una camicia bianca con le maniche strette da un nastrino bianco (sciro-dasuki) e un asciugamano intorno al capo.
L’Ottocento, quell’epoca che traeva gioia dal durevole, dall’incedere della tradizione e delle abitudini, si spegneva nell’effervescenza della gioventù; non risvolto demografico, bensì promessa di futuro, mito dell’uomo nuovo, di un ordine nuovo. E niente rese maggiormente palpabile questo anelito ad una palingenesi del mondo quanto le avanguardie culturali ed ideologiche del primo Novecento, tutte accomunate dalle suggestioni dell’infiammarsi, dell’accendersi, dell’ardere, del bruciare.
La fiamma di Marinetti, il fuoco di D’Annunzio, l’Incendiario di Palazzeschi, il “pensiero che si fa fiamma” di Carlo Michele Stetter, la Scintilla di Lenin, ognuna di queste esperienze segnalava il disperato desiderio della combustione del mondo. La generazione dei padri aveva costruito un mondo di “calma e voluttà”, quella dei figli aspirava con il loro ardimento a renderlo un fuoco perenne e in questo attrito di forze il Novecento divenne il secolo più breve di tutti, mentre qualcuno, come Proust, si rendeva conto che la nostalgia spaziale dei soldati svizzeri sradicati dalle loro valli nel ‘600 sarebbe presto divenuta dolore per una lontananza di tempo.
Tra questi due estremi, Shimoi apparteneva sinceramente al primo: la resistenza sul Piave, l’attraversamento del Tagliamento, la liberazione di Trento e Trieste, la mitraglia, l’assalto all’arma bianca, quel fiotto di adrenalina ed energia pura, come la poesia che egli ricercava a Napoli, dovevano essere quanto di più vicino ci fosse all’appagamento di un desiderio sessuale, intellettuale, spirituale.
Nella guerra e nei suoi drammi vide il compimento assoluto di quell’Italia ideale che aveva intravisto in Dante, in Cavalcanti, in Petrarca, in Leopardi. Essa c’era perché era, e poteva essere solo grazie al sacrificio di una gioventù che, ribaltando il pensiero di Cattaneo, ″infiammava l’Italia a surgere in armi″. Shimoi volle essere partecipe della felicità della sua patria adottiva e il 3 novembre 1918, alla liberazione di Trento, fu il primo ad entrare in piazza e, con la coccarda tricolore al petto, si diresse al monumento dedicato a Dante Alighieri e qui:
L’incontro con Gabriele D’Annunzio avvenne sul finire della guerra. I due poeti si videro a San Nicolò in Veneto, il Vate indossava su quel corpo secco ed emaciato un carico di medaglie che sembravano farlo vacillare ad ogni passo incerto e per salutare Shimoi, lui che era già piccolo, dovette inchinarsi.
Gabriele D’Annunzio e Shimoi ebbero un rapporto privilegiato. I due, giunti per strade sì diverse da così lontano, trovarono qualcosa l’uno nell’altro, un sentire comune che D’Annunzio definì un ricordo d’acqua e d’anima.
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Anni dopo, il Vate avrebbe ricordato come i giapponesi, gli unici a ″sentire l’odore del sangue″, fossero tra i pochi a possedere quella sensibilità d’animo necessaria per capire le sue opere. Per suggellare l’affratellamento, Shimoi propose a D’Annunzio l’avventura di un volo Roma-Tokyo; un tema, quello aeronautico, che anche l’interpretazione di Italo Balbo - chi vola vale, chi non vola non vale, chi vale e non vola è vile - non può che rimandare a quell’ansia di azione e movimento, di conquista, di superamento, e di affermazione di libertà in potenza.
La Sarfatti ne venne a conoscenza e scrisse al Vate, ansiosa di partecipare al raid: “Vi prometto assoluta obbedienza ed assoluta segretezza”. Nel Fastello della mirra, D’Annunzio avrebbe poi ricordato che da tempo pensava ad un volo verso l’oriente, non Odissea di un animo inquieto ma conquista spirituale, come ″i tre latini″ che recarono un’ampolla di olio al Santo Sepolcro dopo un lungo cammino da Acri. Ma gli eventi di Fiume lo costrinsero ad abbandonare l’impresa e degli stormi che partirono soltanto Arturo Ferrarin e Guido Masiero - “... il giovane eroe sostò sull’Alpe e si addormentò nella gloria gelida. ... Ho perduto il mio pilota. La sorte mi permetterà di ritentar la prova?” - giunsero a Tokyo.
I due aviatori furono accolti come eroi liberatori, quaranta giorni di festeggiamenti e il dono da parte del principe Hirohito di un kimono e di una katana delle collezioni imperiali a cui fece da rumoroso screzio la sorda indifferenza italiana, adusa alla polemica e mai alla riconoscenza. Ferrarin inchiostrò tutta la sua amarezza nelle pagine de “Il mio raid Roma-Tokyo”, ma volle anche dedicare quell’opera:
Il mondo di ieri incrociava lo zenit, quello dell’ardimento futurista passava pel nadir. D’Annunzio scrisse a Shimoi mentre i suoi legionari si armavano, dolendosi di non poter “vedere fiorire il pesco nella terra di Tokyo”. Gli offrì il suo posto nella carlinga:
Proprio a Fiume si concluse l’ultimo atto di D’Annunzio, la corsa che lo avrebbe trasformato da poeta-eroe a poeta-condottiero, uno sforzo di volontà sì forte da cangiar la vita in arte. Quel manipolo di irregolari, di legionari in cui si fusero senza ordine ufficiali, socialisti rivoluzionari, arditi, futuristi, nazionalisti, anarchici, sindacalisti, furono il suo verso più duraturo. L’estetica, che secondo il capitano Carli era ″avviata da un potente respiro di umanità″, tramortì Apollo e risvegliò all’ebbro Dioniso, e quel che era nato come un atto politico travolse se stesso e divenne prima vita-festa, poi vertigine rivoluzionaria e infine declinò in duello fratricida che, come sempre accade in Italia, si tinse dei colori della commedia tragica.
Si presentò a D’Annunzio vestito da Ardito, gli consegnò l’onorificenza di Cavaliere del Sol Levante e un messaggio di incoraggiamento. Il Vate lo abbracciò, lo nominò caporale d’onore della sua guardia del corpo e gli offrì un banchetto insieme ai suoi legionari durante il quale pronunciò un discorso augurale per il futuro del Giappone, intravedendone il riscatto morale e il suo ruolo guida nella resurrezione della Grande Asia. Funesta premonizione ai principi ideologici che guidarono lo spietato governo militare di Tokyo negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Da quel momento in avanti, D’Annunzio prese a chiamare Shimoi “camerata-Samurai”, lo coinvolse in scherzi alle truppe ma, soprattutto, lo usò come emissario con Benito Mussolini, all’epoca direttore de Il Popolo d’Italia e fondatore dei Fasci di Combattimento.
Shimoi usciva segretamente da Fiume assediata e raggiungeva Milano, consegnava a Mussolini le reprimende del poeta per lo scarso supporto e ne raccoglieva le confidenze e i malumori. “T’invio questo fratello Samurai”, scrisse la prima volta D’Annunzio. In poco tempo, anche nel futuro Duce crebbe la stima per quel giapponese venuto da così lontano. Proprio nel fascismo movimentista e sansepolcrista, quello più genuinamente rivoluzionario, ribelle, Shimoi intravide la cura per il suo paese natio.
Ciò nondimeno, il trapianto del fascismo in Giappone fu limitato all’espressione puramente estetica dello stesso, poiché il militarismo nipponico si caratterizzò sì per una ideologia ultranazionalista ma anche per la sua sincretica originalità. Negli stessi giorni in cui D’Annunzio portava i suoi legionari a Fiume, Ikki Kita pubblicava il Nihon kaizo hoan taiko (Linee di un progetto di ricostruzione del Giappone) che, in modo assai superficiale, è stato considerato come l’omologo orientale del Mein Kampf.
In esso, Kita sosteneva la necessità della nascita di un Impero rivoluzionario che avesse la forza di contrastare l’ordine internazionale occidentale e divenire la guida dei popoli asiatici. Shimoi condivideva le riflessioni di Kita ma credeva che la rivoluzione dovesse essere spirituale, prima ancora che politica e per questo si spese affinché il fascismo italiano desse i suoi frutti anche tra la gioventù nipponica.
Nell’atmosfera effervescente di Fiume, tra critici cinematografici, letterati, intellettuali, soldati, scrittori provenienti dalla Francia, dalla Russia sovietica, dalle regioni magiare e balcaniche, il poeta giapponese potrebbe aver ispirato a sua volta le radici ideologiche dell’associazione segreta Yoga, fondata dall’aviatore Guido Keller e nutrita di suggestioni orientali vagamente inquietanti come il culto della svastica indiana.
Gli offersero la cattedra di yamatologia succedendo al Balbi e negli anni seguenti s’impegnò nella divulgazione della poesia e della cultura giapponese, pubblicando a proprie spese la rivista Sakura e una annessa raccolta di libri. Intorno al giornale gravitarono numerose personalità artistiche di quegli anni come Nicola Maciariello, Rodolfo Vingiani, Attilio Colucci, Nakamura Kozo, Dan Koreyoshi e Yozano Akiko di cui pubblicò un piccolo capolavoro dal titolo Onde del mare azzurro.
Ma come nella poesia di Salvatore Di Giacomo, per Shimoi quegli anni furono solo un intermezzo ad un periodo in cui “ll’aria s’è fatta scura...‘O tempo se revota”. Nel 1921 fu assunto come interprete dall’ambasciata giapponese ed organizzò un incontro nella sede milanese del Popolo d’Italia tra Mussolini e alcuni diplomatici e deputati. Nell’ottobre dell’anno successivo fu tra le camicie nere che marciarono su Roma, forse una delle poche teste pensanti lì in mezzo, e poco tempo dopo, insieme al biografo del Duce Beltramelli, fondò la prima associazione culturale italo-giapponese.
Nel 1923 accompagnò due documentaristi, Masutomi e Itoi, che erano stati incaricati dal Ministero dell’Istruzione del Giappone di realizzare un film sulle meraviglie del mondo, a Napoli, Firenze, Venezia, Roma, ma volle che la loro macchina da presa non catturasse soltanto quella che lui chiamava l’Italia archeologica, bensì quella “viva e pulsante” di Enrico Toti, di Beccastrini, minatore cieco ed eroe di guerra, e della nave-asilo Caracciolo dove la ″Montessori dei mari″, Giulia Civita Franceschini, educava gli orfani napoletani. Convinto delle affinità elettive tra l’Italia e il Giappone, Shimoi volle poi che i due documentaristi potessero incontrare il Duce e riprenderlo mentre passeggiava o faceva il saluto romano.
Come Fiume fu figlia dell’ingenuità poetica di D’Annunzio, così lo fu l’ammirazione che Shimoi provava per il Duce. Quest’ultimo si appassionò alla cultura giapponese e lo stesso De Felice commentò gli estremi di questa ″simpatia″ in un articolo del 1988, ricordando come Mussolini fosse rimasto impressionato dalla storia dei samurai Byakkotai i quali, dopo essere stati sconfitti e convinti della morte del loro daimyo, fecero seppuku per rispettare il patto di fedeltà che li aveva legati in vita al loro signore.
Memore di questa epopea raccontatagli da Shimoi, nel 1928 il Duce donò al governo giapponese una colonna pompeiana, decorata con la scultura di un’aquila in bronzo forgiata da Duilio Cambellotti, che ancora oggi adorna la collina Limori-Yama e la cui targa commemorativa ricorda il sacrificio dei guerrieri Byakkotai. Questo interesse fu duraturo, non transitorio, e nel 1924 Mussolini accettò la proposta di Shimoi di fare da testimonial per una famosa bevanda analcolica giapponese, la Calpis, e scrisse di suo pugno un messaggio alla gioventù nipponica esaltando la vicinanza tra il fascismo italiano e lo spirito del Bushidō (Via del Guerriero) giapponese.
La campagna pubblicitaria fu un successo e questo diede a Shimoi lo slancio per fondare un movimento politico extraparlamentare - il Partito della Gioventù Imperiale - e per pubblicare una serie di opere sul Duce e sul fascismo, da “Fassho Undo a Gyorai no se ni matagarite” (Cavalcando sul retro di un siluro), da “Shinto Ponpeo o tou tame ni” (una guida artistica a Pompei) fino alle traduzioni di libri e discorsi del Duce, inclusa la sua tesi di laurea Preludio al Machiavelli. Quelle stesse traduzioni, inclusa quella in italiano di una commedia satirica su Mussolini e il delitto Matteotti che sarebbe poi stata sottoposta a censura, gli sarebbero costate l’espulsione dall’università negli anni ’50 per propaganda a favore dell’Asse.
Durante gli anni Venti e i primi anni Trenta, Shimoi continuò a fare la spola tra il Giappone e l’Italia, lavorando alacremente alla promozione e agli scambi culturali tra i due paesi. Fu l’interprete del prof. Jigoro Kano, il fondatore del Judo, quando quest’ultimo venne a Roma nel 1928 per incontrare esponenti del governo, della diplomazia e delle forze armate italiane, tra cui il maestro Carlo Oletti, marinaio e pioniere della lotta giapponese in Italia. Sul quotidiano L’Impero, Shimoi scrisse che:
Gli echi della sua personale visione dell’arditismo e della cultura guerriera sono evidenti. Dopo essersi fatto fotografare a Palazzo Venezia nel 1926 insieme a Mussolini, aveva dichiarato:
In Shimoi il sentimento incedeva sul pensiero politico poiché, scavando a fondo, egli rimaneva un poeta e un letterato, dunque un ingenuo come tutte le anime belle. E come tutti gli ingenui che arrivano a conoscere i propri idoli, alla fine ne rimase inevitabilmente deluso. Nonostante l’impegno profuso nel fondare un pensiero che fosse autenticamente nipponico ed altrettanto autenticamente fascista, senza contare le energie spese nella propaganda a favore del regime italiano anche in casi deplorevoli come la guerra etiopica, Shimoi decise di allontanarsi dalla politica e ritirarsi in un angusto cono d’ombra dopo l’abbraccio tra Mussolini e Hitler.
Continuò a credere nella necessità storica di un socialismo a carattere nazionale ma sentì anche montare la diffidenza nei confronti dei disegni di egemonia mussoliniana e hitleriana:
Forse, in fondo, aveva sempre saputo che si trattava di fesserie. “Fesserie sono tutte. Tutto quello che l’uomo fa è una fesseria ... E questa è la cosa più grande che mi abbia insegnato Napoli”. Shimoi trascorse la Seconda Guerra Mondiale lontano dalla politica, traducendo in giapponese l’opera di D’Annunzio, sforzo che avrebbe eccitato la voracità intellettuale di Yukio Mishima verso lo studio dell’italiano.
Quando nel 1940 gli fu chiesto, in occasione delle celebrazioni dell’Amicizia Italo-Giapponese, di scrivere un articolo, tenne chiusi nel baule della memoria i suoi trascorsi e indirizzò alla rivista una raccolta di poesie con piccole note critiche a margine. Sua figlia aveva deciso di restare in Italia durante la guerra e sarà proprio lei ad ospitare, grazie alla protezione dell’ambasciatore barone Shinrokuro Hidaka, Claretta Petacci per alcuni giorni.
Shimoi fu poi assunto dal Corriere della Sera come corrispondente dall’Estremo Oriente ed una delle poche ricostruzioni dell’attacco di Pearl Harbor da parte giapponese porta la sua firma. L’impegno per il quotidiano milanese finì nel 1943 con la caduta del fascismo ed a quel punto Shimoi decise di riprendere in mano la sua passione per Dante. Volle portare a compimento la nascita di una Casa Dante Alighieri a Tokyo ma come il bambino che scrive in riva al bagnasciuga durante una marea, così il suo sogno fu travolto dalle bombe alleate.
Durante l’occupazione che seguì alla sconfitta, Shimoi toccò con mano il problema delle epurazioni. Fu infatti interdetto dall’insegnamento, salvo poi doverlo richiamare quando si resero conto del valore altissimo della sua arte oratoria e della sua poetica in quanto:
Si riavvicinò un poco alla politica soltanto negli ultimi anni della sua vita, quando convinzioni anticomuniste lo spinsero verso il Partito Conservatore di Mamoru Shigemitzu, quello stesso ministro che subì l’onta di dover firmare la resa a bordo della corazzata americana Missouri il 2 settembre 1945. Quando Montanelli lo raggiunse a Tokyo, Shimoi gli procurò incontri con politici, aristocratici, diplomatici, e lo accompagnò perfino a conoscere suo nipote, l’unico kamikaze scampato alla morte perché la dichiarazione di resa giunse poco prima di calarsi nella carlinga.
Davanti a quel piatto di spaghetti, Shimoi assaporò ancora una volta un po’ d’Italia e si confidò. Ricordava ancora la prima volta in cui aveva consegnato una missiva di D’Annunzio a Mussolini:
Un giornalista americano si accorse della bottiglia di Chianti sul loro tavolo, illuminandosi. Fece cenno a Montanelli e quest’ultimo, con gentilezza, ne versò un calice. Il vecchio Shimoi gli afferrò il braccio, con il volto cinereo e la voce tonante: «Un bicchiere di Chianti a un Americano? Un esercito per combattere i Russi, sì, glielo diamo, e sono pronto anch’io. Ma un bicchiere di Chianti, mai...O almeno non prima di altri mille ottocento anni di storia». Si alzò in piedi, guardò torvo l’americano che non capiva una parola e in perfetto napoletano proseguì: «E se per questo mi vogliono epurare, mi epurino pure. Io ‘cca sto!».
Come in quello scritto introduttivo di Croce al primo numero de La Diana del 1915, raccontare Harukichi Shimoi significa difenderne la virtù imperfetta. Il suo filofascismo e l’adesione ad un nazionalismo di stampo militarista portatore di nefande conseguenze furono il peccato di un carattere che non fu privo di virtù.
“Non so quanto valga Shimoi come scrittore giapponese”, rispose Montanelli ad una studentessa che gli chiedeva notizie del professore, “come uomo e come amico valeva moltissimo. Non smetterò mai di rimpiangerlo”.
Nel dicembre del 1954, il cuore da Ardito italiano di quel piccolo giapponese si fermò per sempre.
“E se per questo mi vogliono epurare, mi epurino pure. Io ‘cca sto!”.
Eia, Eia, Eia, Alalà!
La maggior parte delle citazioni in questo articolo sono tratte da:
Pautasso, G., Un Samurai a Fiume. Harukichi Shimoi, Oaks Editrice, 2019;
De Felice, R., Le simpatie nipponiche di Mussolini, in Relazioni Internazionali, anno I, n. 2, 1988, pp. 45-58;
Ferrarin, A., Il mio volo Roma-Tokyo, Idrovolante Edizioni, 2019;
Guerri, G.B., Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, Mondadori, 2019;
Peluso, A., ″Il Judo nelle Forze Armate Italiane″, in Il Giappone, vol. 41, 2001, pp. 97-103;
Gatti, R., In alto il ferro. Scherma di pugnale per Arditi, Audacia, 2016;
Rochat, G., Gli Arditi nella Grande Guerra. Origini, Battaglie e Miti, Le Querce, 2017.
* Fonte: "Harukichi Shimoi: il samurai tra Dante, D’Annunzio e Mussolini", Rivista "Contrasti", 31 maggio 2020 (ripresa parziale - senza immagini).
NOTA*
ALL’ESCORIAL, CON FILIPPO II, NEL 1584: "(...) A Madrid in festa per la pubblicazione delle nozze di Catalina Micaela con Carlo Emanuele di Savoia e per il giuramento del principe Filippo come prossimo sovrano di Castiglia, furono ricevuti da re Filippo che li accolse in compagnia delle infanti e li gratificò di tutti gli onori possibili senza tener conto della differenza di rango tra sé e quei piccoli (non soltanto per ragioni anagrafiche) principi che gli presentarono lettere nelle quali i daimyo loro genitori chiedevano il suo aiuto perché la religione cattolica trionfasse in Giappone” (cfr. Angelantonio Spagnoletti, “#FilippoII”, Salerno Editrice, Roma 2018, pp. 223-224).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
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SHAKESPEARE CON QUINTO ORAZIO FLACCO: "AMLETO", CON "ORAZIO": UN OMAGGIO AD HAROLD BLOOM.
L’OTTIMALE "VIA DI MEZZO" (AUREA MEDIOCRITAS) SUL PIANO PERSONALE E SUL PIANO POLITICO:
"REMENBER ME" (AMLETO, 1.5.91): LA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" DI SHAKESPEARE. Se Ulisse è lo specchio di Amleto, c’è da dire che Shakespeare solo con "Orazio" (come Dante, con Virgilio) riesce a ben guidare la sua nave oltre Scilla e Cariddi e oltre le colonne d’Ercole, come più e meglio di Francesco Bacone...
TEATRO FILOSOFIA E MEMORIA. Ricordando il ruolo straordinario del poeta e drammaturgo Ben Johnson ( 1572-1637), amico dello stesso Shakespeare e, come lui, grande protagonista della scena culturale della Londra del loro tempo (nel 1601 tradusse l’ «Arte poetica» di Orazio e scrisse la commedia "The Poetaster", dove si racconta appunto di Orazio e due poetastri che lo invidiano), si possono ben comprendere le ragioni che portano Harod Bloom a mettere in evidenza il ruolo eccezionale di "Orazio" nello stesso "Amleto":
"Nel 1809 August Wilhelm von Schlegel osservò che «Amleto non ha una profonda fiducia in sé stesso né in nessun altro», compresi Dio e il linguaggio, aggiungerei io. Naturalmente, vi è Orazio, che Amleto elogia fino all’eccesso, ma Orazio sembra esser lì per rappresentare ’amore del pubblico verso il principe. Orazio è il nostro #ponte verso l’oltre, verso quella curiosa ma inconfondibile trascendenza negativa che conclude la #tragedia" (Harold Bloom, "Shakespeare. L’invenzione dell’uomo" ["Shakespeare: The invention of the human", 1998], Rizzoli, Milano 2001).
***
P. S. - SHAKESPEARE E PARMENIDE. SUL FILO DI QUESTA SAGGIA INDICAZIONE DI HAROLD BLOOM, forse, è meglio riprendere la domanda sull’ «essere, o non essere». La questione della trascendenza è un epocale problema metafisico e, come tale, comporta una revisione radicale dell’antropologia filosofica tradizionale (Amleto->Kant) e sollecita a ritornare ad Elea con Orazio (Epist. I, 15):
"Com’è l’inverno a Velia
e il clima di Salerno,
questo mi devi dire, Vala,
com’è la gente che vi abita,
in che condizioni è la strada."
LA "DIVINA COMMEDIA", LA "NASCITA DELLA TRAGEDIA", E LA "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" DELL’EUROPA.
Il "Sogno" di Shakespeare sembra essere quello di portare "Amleto" ... al di là della "Tempesta", di pensare un orizzonte culturale europeo che porti Ulisse-Amleto al di là della logica della "guerra di Troia" e dell’assalto dei Proci alla sua Casa e alla sua Reggia.
Quando Sofocle tirò fuori la memoria di Edipo, lanciò l’allarme: gli Ateniesi e le Ateniesi stavano dimenticando la lezione dell’#Iliade e dell’Odissea e risprofondando nella tragedia. Così con Nietzsche e Freud, agli inizi del "secolo breve", la campana comincia a suonare a martello...
Federico La Sala
AMLETO, ODISSEA E DIVINA COMMEDIA.
CON LAERTE (Amleto, I.3), SHAKESPEARE richiama l’intera Odissea (e non solo): ci dice che è in ’compagnia’ non solo con il padre di Ulisse e con gli Argonauti, ma con l’intera tradizione culturale europea (laica e religiosa): rispondere alla domanda di Amleto ("essere, o non essere?") non è una "barzelletta", è l’antica domanda della Sfinge (Edipo). Per Shakespeare significa voler dare una risposta la più possibile all’altezza dell’antropologia, della teologia, e della politica del tempo (e dell’eternità) e vincere (la peste e) la morte!
IL DOPPIO CORPO DEL RE: IL "CORPO MISTICO" DI AMLETO. Nelle parole di Laerte alla sorella Ofellia sulla persona di Amleto (I, 3) è detto tutto il problema teologico-politico su cui si arrovella Shakespeare (e l’intera cultura inglese ed europea - di ieri e, non ancora, di oggi): "Forse lui ora ti ama, e per ora / Non cè macchia o furbizia a sporcare /La virtù della sua volontà. Ma, / Pesata la sua dignità [di Principe], devi temere / Che la sua volontà non sia la sua / Perché lui stesso è suddito della sua nascita. / Lui non può, come una persona qualunque, Fare le sue Scelte. Dalla sua scelta infatti / dipendono la sicurezza e la salute / dell’intero stato. Essa perciò / Deve essere approvata dalla voce e dal consenso / Del corpo di cui lui è la testa. E dunque, / Se dice che ti ama, la tua saggezza gli creda / Fino al punto in cui, nella sua posizione, / Possa dar corpo alle sue parole, non oltre, / Se i più, in Danimarca, sono contrari. / Valuta allora quale perdita il tuo onore / Può subire, se con credulo orecchio / Ascolterai le sue canzoni, o smarrirai il tuo cuore [...]" (trad. di Agostino Lombardo).
ECCE HOMO. La ricerca di Shakespeare si colloca alla stessa altezza del cammino di Dante Alighieri: ritrovare la via d’accesso al paradiso terrestre e ricostruire la "monarchia temporale"! Con la sua Opera, e con l’Amleto in particolare, Shakespeare cerca di ridisegnare (al di là di ogni pretesa androcentrica,fondamentalistica e imperialistica) la figura dell’Ecce Homo (di ogni essere umano) e la forma della terra promessa ’sognata’ dall’intera umanità!
Federico La Sala
"MENTE ESTATICA" E "SCHIZOFRENIA DELLA SALUTE":
RITORNARE A HÖLDERLIN.
Una ipotesi-chiave per reinterpretare «“Pallaksch”, la parola magica di Hölderlin». *
In memoria di Elvio Fachinelli e di Rubina Giorgi...
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"LA PAROLA MAGICA DI HÖLDERLIN: [...] Come nota Christoph Theodor Schwab nel suo diario del 1841, il #poeta malato aveva escogitato, e usava con predilezione, l’espressione #pallaksch, che si poteva prendere per un ‘sì’ o per un ‘no’ e che gli serviva come espediente per evitare l’affermazione o la negazione.
FriedrichHölderlin s’inchina e entra nella “torre” del falegname Ernst Zimmer nel 1807. Due anni prima lo avevano dichiarato ipocondriaco, “la sua #follia è diventata furiosa”, scrive il dottor Müller, a cui, da Homburg, è chiesta una perizia medica. In particolare, annota il #dottore, “i suoi discorsi paiono incomprensibili, parte in tedesco, parte in greco e in latino”. La fatale follia di Hölderlin si celebra in linguaggio, catabasi nell’incomprensibile. Hölderlin resta nella “torre” più di trent’anni, morirà nel giugno del 1843. [...]
Nello studio su «Hölderlin. «L’arte della parola» (IL Melangolo, 1979), Roman Jakobson ci porge la parola #pallaksch. “Una volta, mentre gli si facevano parole pressanti, Hölderlin fu preso da movimenti convulsi e si ebbe da lui solo ‘un terribile, confuso profluvio di parole senza senso’. Oppure Hölderlin preferisce semplicemente rifiutare la risposta... Alla continua contraddizione fra sì e no nel modo di parlare di Hölderlin, Waiblinger ha ‘innumerevoli volte’ prestato attenzione”. Il poeta non vuole rispondere perché non ammette la logica umana, non vi appartiene: sì e no accerchiano in scelte innaturali - non certo esclusive, escludenti, piuttosto -, che concimano morte. Non esiste ragionevolezza né opposizione nel mondo autentico, dove le “parole senza senso” sono la sola poesia possibile. Pallaksch è una specie di amuleto, una parola magica, il passepartout per tutte le visioni, da sbandierare di fronte a chi pensa per superfici piane e progressive, per convenzioni. A te, che ragioni in trapezi e rettangoli, la risposta: io resto sconfinato, opto per tutte le direzioni, dice il poeta. [...].
(cfr. «“Pallaksch”, la parola magica di Hölderlin. Il poeta si fionda nell’indicibile», Pangea, 03 Novembre 2020).
Federico La Sala
ORA E SEMPRE RESISTENZA: "L’#AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (Shakespeare, "Sonetto 116").
Per approfondire (e meglio comprendere) il senso del dire presente nel "Cimitero di Praga" di Umberto Eco ("Ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria. L’odio è la vera passione primordiale. È l’amore che è una situazione anomala. Per questo Cristo è stato ucciso: parlava contro natura."), forse, è opportuno riaprire il "Processo" di Kafka e, ricollocandosi "Nel Duomo" di Praga (e anche di #Milano), riprendere la lettura.... ricordandosi del "calavrese abate Giovacchino /di spirito profetico dotato» (Dante Alighieri, Paradiso, Canto XII, vv. 139-141).
Federico La Sala
RIVOLUZIONE COPERNICANA E RIFORMA TEOLOGICO-POLITICA IN CORSO: NUOVO CIELO E NUOVA TERRA.
Una nota*
La grandezza di Shakespeare e l’importanza del suo "Amleto" è analoga a quella di Sofocle e del suo "Edipo Re": della loro lezione, anche dopo la sollecitazione di Freud, si stenta ancora a capire il legame tra il familismo amorale e le manipolazioni istituzionali della Legge (divina ed umana).
Con Lutero (1517), con Copernico (1543), e Giordano Bruno (Nola, 1548 - Roma, 17 febbraio1600), Shakespeare osa aprire un dibattito nel suo globo teatrale che fa tremare tutto l’ordine teologico-politico e sociale precedente e seguente: riapre il discorso sulla dottrina dei "Due corpi del Re" (Ernst H. Kantorowicz)!
La critica dell’adulterio in "Amleto", connesso (come è) all’intero ordine istituzionale e collegato fin nel cuore dello stesso messaggio biblico ed evangelico, pone all’ordine del giorno lo "spaccio della bestia trionfante" e sgombra la strada alla dea Giustizia, alla Vergine Astrea (Virgilio, Egloga IV, V. 6: "Iam redit et Virgo").
*
NOTA.
Europa 1600: RegnodiNapoli->Nola->Salerno->Eboli->Contursi Terme, Chiesa della Madonna del Carmine, 1608/1613..
Federico La Sala
RISALIRE LA CORRENTE. Storia Filosofia, Antropologia, Psicoanalisi, e Costituzione (2giugno 2022).
Europa e Giubileo di Platino di Elisabetta II d’Inghilterra. Presente storico e storia di lunga durata...
Per riflettere sull’idea di sovranità (e l’individualità dello Stato), oggi, associare (come ha fatto qualcuno) la figura della regina Elisabetta II con il testo della "Filosofia del diritto" (& 279) di Hegel è un ottimo invito a svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant) e a riaprire la questione antropologica (e teologico-politica)!
Sollecita a ripensare la storia dell’Europa quanto meno dalla disfatta della Invincibile Armada, da Elisabetta I e da Shakespeare e, ancora, da Trafalgar e da Napoleone e, infine, dal successo di Hegel di proporsi (illuminato da Napoleone a Jena, 1806) come interprete della storia dell’ "anima del mondo", come figura del "Re del mondo"!
EDIPO, TEBE, E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (Freud, 1929). La questione antropologica e politica su cui si arrovella Shakespeare con il suo "Amleto" è ancora l’enigma della sfinge: "Che cos’è mai un uomo se del suo tempo non sa far altr’uso che per mangiare e dormire?" (Amleto, Atto IV, Sc. 4).
Federico La Sala
AMORE ("CHARITAS"):
LA FEDE DI DANTE, E DI SAN PIETRO,
E
LA FEDE DI SAN PAOLO.
Beatrice (Pd. XXIV, 34) chiede al "gran viro"(San Pietro) di verificare se Dante ha capito
la differenza tra la fede
in "Nostro Segnor" Gesù
(Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho anthropos»)
oppure
nel "Nostro Signore" di San Paolo, l’Uomo (Vir):
"sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo,
e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»],
e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
DANTE ALIGHIERI, SHAKESPEARE, E "ROMEO E GIULIETTA". Un problema di filologia, storia della letteratura e ...
ARTE E STORIOGRAFIA. UN QUADRO DI CESARE SACCAGGI, DAL TITOLO "INCIPIT VITA NOVA. DANTE E BEATRICE, 1903", più che richiamare la vita e le opere di Dante Alighieri richiama straniantemente l’immagine di "Romeo e Giulietta", quasi in tonalità per il film di Zeffirelli,1968).
Paradossalmente si potrebbe (quasi) ben pensare che il fraintendimento della situazione familiare di Dante sia stata prodotta inizialmente da un lavoro storiografico poco critico e, in seguito, da continui elementi di rinforzo come lo stesso successo dell’opera "Romeo e Giulietta" di Shakespeare.
DANTE IN INGHILTERRA. Da considerare che il quadro di Cesare Saccaggi (1903) viene dopo il grande lavoro portato avanti da Dante Gabriel Rossetti e dai preraffaelliti.
DANTE2021. Dopo secoli di sonnambulismo e di equivoci interpretativi, non è il caso di svegliarsi dal letargo (Par. XXXIII, 94) e cominciare a pensare semplicemente (come suggerisce lo stesso Dante Alighieri nella Divina Commedia) che la tradizionale e cosiddetta Beatrice Portinari non è affatto la Giulietta di Dante, ma la figura della sua stessa madre Bella degli Abati, morta quando egli era piccolo?!
Virgilio, nel raccontare a Dante dell’incontro con Beatrice, quando dice "E donna mi chiamò beata e bella" (Inf. II, 53), di chi sta parlando? Di Beatrice Portinari?!
Beata e Bella.... le idee straniantemente cominciano a diventare più chiare e luminose: la figlia di Dante, Maria Antonia, diventata suora, sceglie di chiamarsi suor Beatrice. Perché? Non vale la pena, forse, di riprendere a leggere la Comedìa.... finalmente!
Federico La Sala
Biografia.
La santità di Carlo, ultimo degli Asburgo e "patrono dei perdenti"
L’imperatore muore nel 1922 in esilio invocando ripetutamente il nome di Gesù. Papa Woytjla lo farà beato
di Maurizio Schoepflin (Avvenire, mercoledì 11 maggio 2022)
Quando, il 1° aprile del 1922, invocando ripetutamente il nome di Gesù, Carlo d’Asburgo muore, non ha ancora compiuto trentacinque anni. Una vita breve, la sua, che, da un punto di vista puramente umano, è stata caratterizzata da un susseguirsi di fallimenti, come ricorda Marco Andreolli nel libro L’ultimo Imperatore d’Occidente. Carlo d’Asburgo il ’santo patrono dei perdenti’ (San Paolo, pagine 176, euro 20). Succeduto nel 1916 al vecchio sovrano Francesco Giuseppe sul trono dell’impero austro-ungarico, Carlo si trovò nel bel mezzo della tragedia della Prima guerra mondiale, non riuscendo a evitarla, come avrebbe ardentemente desiderato, né a vincerla; dovette così assistere al dissolvimento dell’Impero degli Asburgo, che per secoli avevano dominato l’Europa, perdendo la corona più prestigiosa dell’Occidente; non gli fu possibile neanche conservare il proprio patrimonio personale, tanto che morì in povertà, a Funchal, nell’isola atlantica di Madeira, dove era stato esiliato, lontanissimo dalla sua Vienna; non vedrà neppure nascere l’ottava figlia, lui che, da padre buono e premuroso, avrebbe voluto dedicarsi intensamente alla sua numerosa e tanto amata prole; e la morte in giovane età lo privò anche della possibilità di vivere accanto all’adorata moglie Zita, che gli stette vicino fino all’ultimo respiro. Uno sconfitto, dunque? Forse sì, secondo la logica del mondo, ma non secondo quella del Vangelo.
Non casualmente, infatti, il tre 3 ottobre del 2004 il santo pontefice Giovanni Paolo II lo proclamò beato, dedicandogli le seguenti significative parole: «Il compito decisivo del cristiano consiste nel cercare in tutto la volontà di Dio, riconoscerla e seguirla. L’uomo di Stato e cristiano Carlo d’Austria si pose quotidianamente questa sfida. Ai suoi occhi la guerra appariva come qualcosa di orribile. Nei tumulti della prima guerra mondiale cercò di promuovere l’iniziativa di pace del mio predecessore Benedetto XV. Fin dall’inizio, l’Imperatore Carlo concepì la sua carica come servizio santo ai suoi popoli. La sua principale preoccupazione era di seguire la vocazione del cristiano alla santità anche nella sua azione politica. Per questo, il suo pensiero andava all’assistenza sociale. Sia un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica!».
Ben presto, dopo la sua morte, la figura e l’esempio di Carlo d’Asburgo cominciarono ad affascinare un numero sempre maggiore di persone e si moltiplicarono le preghiere affinché la Chiesa gli riconoscesse ufficialmente la fama di santità che si era guadagnato durante la sua breve e non facile esistenza. Marito esemplare - Andreolli sostiene che il felice matrimonio con l’amatissima Zita rappresentò il vero fulcro della sua vita -, genitore affettuoso, uomo politico attento alle necessità dei sudditi, cristiano austero e distaccato dai beni mondani, Carlo non distolse mai lo sguardo dal Crocifisso, accettando con fede e serenità le dure prove e le numerose sofferenze che la vita gli riservò.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
fls
ANTROPOLOGIA E AMORE CONOSCITIVO: GIASONE, MEDEA, "L’OMBRA D’ARGO" (DanteAlighieri, Par. XXXIII, 96), E UNA VIA D’USCITA DALLA TRAGEDIA... *
Una straordinaria donna moderna
(Dora Russel Ipazia e la guerra tra i sessi)
di Francesca Magni ("Letto fra noi", 29 gennaio 2013)
«Se volessimo aggiungere qualcosa alle conquiste di coloro che vennero prima di noi, dovremmo dire che per noi adesso il corpo non è più un semplice contenitore per la mente, ma quel tempio di gioia e di estasi che, se lo vorremo, già racchiude il nostro futuro.
Il compito fondamentale per il femminismo moderno, per me, è dunque quello di accettare e proclamare il sesso. Di seppellire per sempre la menzogna che per troppo tempo ha corrotto la nostra società, quella secondo la quale il corpo non è che un impaccio per la mente e che il sesso è solo un male necessario alla sopravvivenza della specie.
Comprenderlo, donargli dignità e bellezza, conoscerlo anche su base scientifica, in luogo dell’istinto brutale e dello squallore, credo sarà la chiave di volta a colmare la breccia fra Giasone e Medea» (pag, 38).
Rompo il lungo silenzio su questo blog - e mi scuso di questo silenzio, e vi ringraizio per non esservene andati - con una citazione. Vi invito a rileggere con una domanda: quando è stata scritta?
Difficile indovinare che parole così moderne siano uscite dalla penna di una donna nel 1925. Dora Russell, seconda moglie del filosofo Bertrand Russell, ci regala cento pagine colme di saggezza senza tempo, di impegno politico e civile, di riflessioni mai abbastanza assimilate su una parità fra i sessi che nasca dal riconoscere una verità: siamo, uomini e donne, uguali a cominciare dal bisogno naturale di una vita sessuale che non reprima gli istinti ma sappia guidarli con educazione e intelligenza. «Gli amanti sanno che attraverso l’intesa sessuale ciascuno comprende meglio le qualità della mente dell’altro» dice, ed è una consapevolezza che non a tutti è dato raggiungere.
È un testo imprescindibile che mette una parola di verità su tutte le ciance da guerra dei sessi. Un libro da regalare a tutti, uomini e donne, a chi ha vissuto gli anni del femminismo e a chi viene dall’onda di ritorno della generazione successiva. A questa, alla quale appartengo, dedico un brano su cui non si è ancora riflettuto abbastanza.
«C’è dunque qualcosa di sbagliato nell’educazione delle donne, e nel caso che cosa?
Penso proprio che dobbiamo rispondere affermativamente. E la ragione sta nel senso di inferiorità inculcato nelle donne da tanta oppressione, e il risultato inevitabile fu che il loro primo obiettivo, mentre combattevano dal basso, fosse quello di provare che valevano tanto quanto gli uomini.
Il secondo fu invece di dimostrare che potevano spassarsela tranquillamente anche senza gli uomini. Esattamente come il lavoratore, avanzando nella scala sociale, cerca di provare a se stesso di essere un borghese.
Entrambi gli sforzi sono sbagliati. Ciascuna classe ed entrambi i sessi hanno qualcosa di unico da dare al progresso, alla conoscenza, al pensiero di cui la comunità viene privata con questo scimmiottamento».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica -
L’EUROPA IN CAMMINO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
FLS
L’IMPERO E LA CHIESA (BARI, 1936). Storia, storiografia, e sonno dogmatico.
Una nota a margine di una segnalazione ... *
Il 9 maggio 1936, Mussolini celebra "dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui Colli fatali di Roma". Il "5 settembre 1936", nella Basilica di San Nicola di Bari, è murata su una parete una lapide ben illuminata su cui è scritto:
Per capire le ragioni politico-culturali di questo "documento" del Comune di Bari, collocato "nello storico tempio del santo mediterraneo", nella Chiesa di San Nicola di Bari, forse, è bene ampliare lo sguardo intorno alla data del "5-SETT-MCMXXXVI" (5 SETTEMBRE 1936) e quanto meno ricordare gli accordi sottoscritti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929 (Patti Lateranensi) e al contempo "riascoltare" e rileggere il "Discorso di proclamazione dell’Impero", tenuto da Mussolini dal balcone di piazza Venezia la sera del 9 maggio 1936:
Il 1° marzo 1924, su "L’Ordine Nuovo", Antonio Gramsci aveva già scritto: "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, RomoloAugustolo". Evidentemente gli ideologi imperiali avevano ignorato la lezione di Dante sulla Monarchia e sui "venticinque secoli" (Par. XXXIII, 95), come quella di Goethe sui "tremila anni" ("Libro del malumore", 1819).
* Una "lapide che lascia perplessi!", si cfr. la segnalazione di Nicola Fanizza.
Federico La Sala
Della superiorità della commedia
Categorie italiane.
di Roberto De Gaetano (Fatamorgana web - n.19, 2022)
Categorie italiane, da poco ripubblicato da Quodlibet in una nuova edizione accresciuta, contiene il saggio più bello di Agamben, Comedìa. Partendo da Dante, Agamben ricostruisce attraverso la distinzione tragedia-commedia il destino della soggettività occidentale, la frattura tra natura e persona dopo la perdita dell’innocenza edenica, e il senso che acquista questa frattura nel passaggio dalla antichità classica al Medioevo.
Commedia e tragedia non definiscono meramente dei generi realizzati per la scena e lo spettacolo, ma individuano due mythos in quanto - aristotelicamente - forme di «imitazione dell’azione», che si distinguono non tanto per la tipologia sociale dei personaggi rappresentati quanto per i temi e le forme connessi agli intrecci. Nella Lettera a Can Grande, Dante scrive: «La tragedia dapprincipio è ammirabile e quieta, e nella fine o esito è rivoltante e terrificante. [...] La commedia comincia dalle difficoltà di un soggetto qualunque, ma la sua materia termina felicemente».
Ora, se ciò che conta è la fine e il suo essere migliore o peggiore dell’inizio, va valutato cosa significa esattamente questo. Nel mythos tragico il finale è espulsivo, e si conclude con la morte reale o simbolica (allontanamento dalla comunità) del personaggio, collocato in posizione isolata ed esposta; nel mythos commedico il finale è integrativo, e si conclude con l’inclusione sociale dei nuovi soggetti, spesso giovani che convolano a nozze dopo aver superato l’ostacolo posto dai vecchi.
Queste due forme generiche sono contrapposte, ma non del tutto. Tant’è che Platone conclude il Simposio dicendoci che «chi è poeta tragico per arte è anche poeta comico». Tragedia e commedia sono dunque distanti ma anche prossime, e possono essere soggette a capovolgimenti improvvisi. Come quando l’elusione tragica si ribalta in riconoscimento commedico (per riprendere il lessico di Stanley Cavell). È quello che accade in Racconto d’inverno di Shakespeare, quando solo il riconoscimento finale del re Leonte toglie la moglie Ermione dalla condizione “pietrificata” in cui la gelosia iniziale l’aveva condotta.
Che cos’è allora che avvicina e allo stesso tempo separa il tragico dal commedico? E qui Agamben tocca il cuore della questione, ritrovandola nella nozione di maschera. Sappiamo come quest’ultima sia legata, anche etimologicamente, alla persona, che è il dispositivo che costituisce il soggetto come scarto dalla natura. Lo scarto è determinato dall’azione intrapresa, indipendentemente dagli effetti che questa determinerà. E ogni azione è imputabile e dunque (potenzialmente) colpevole.
Nel tragico antico la colpa è naturale e la persona è innocente, o colpevole solo sotto un qualche rispetto: Edipo è e non è colpevole. Ma il punto decisivo è che l’eroe tragico non è colpevole “moralmente” e dunque le sue colpe non possono essere emendate. L’eroe è subordinato ad un destino irriscattabile. Con il Cristianesimo le cose cambiano, le colpe diventano personali e dunque emendabili: «Rovesciando il conflitto tra colpa naturale ed innocenza personale nella scissione tra innocenza naturale e colpa personale, la morte di Cristo libera l’uomo dalla tragedia e rende possibile la commedia» (Agamben 2021, p. 30).
Due straordinari film di Clint Eastwood, Mystic River e Gran Torino, mostrano letteralmente la differenza: il primo un tragico antico dove una violenza fondativa, il cui tratto indefinito la iscrive in una sorta di colpevole ordine naturale, segna il destino irriscattabile di tre amici; il secondo un sacrificio cristologico che apre ad un finale commedico: un Eastwood vecchio e malato si farà uccidere per dare nuova possibilità di vita al ragazzo. Tra i due film c’è una sorta di passaggio dalla «coscienza tragica» alla «redenzione cristiana» (Jaspers 1987, p. 24).
Questo passaggio coinvolge profondamente la maschera, la “persona aliena”. Se nel tragico la maschera viene a plasmarsi mimeticamente sul volto tanto da rendersi indiscernibile dal carattere e dal destino che lo segna, tant’è che carattere, destino e maschera coincidono nel nome proprio del personaggio (Edipo), nella commedia la maschera è sfilabile. E la sfilabilità diviene la forma di non-coincidenza tra soggetto e maschera, tra soggetto e destino. Il soggetto è ciò che non ha destino e che non rimane incastrato in una maschera. Il soggetto non coincide con la sua azione, e dunque neanche con l’intreccio. Anzi, come nel caso della commedia dell’arte, le maschere sono continua disponibilità ad entrare in sempre nuovi intrecci e trasformano l’azione imputabile in gesto comico, lazzo. Su questo Agamben interverrà in una potente riflessione sul comico a partire dalla maschera di Pulcinella: «La tragedia: un destino che non si è voluto, ma in cui si cade per un errore nell’azione, che, pertanto deve essere in qualche modo punito. La commedia: un carattere incorreggibile, come il suo errare, che non ha la forma di un’azione, ma di un lazzo» (Agamben 2015, p. 53).
Il transito dalla maschera tragica a quella comica, dall’uso “sconveniente”, cioè totalmente adesivo, che implica la prima, all’uso “conveniente”, cioè distaccato, della seconda, viene pensato per la prima volta in epoca tardo antica: «Tragica, per gli stoici, non è la maschera in sé, ma l’attitudine dell’attore che si identifica con essa» (Agamben 2021, p. 36). L’eroe tragico, identificato dalla sua maschera, a sua volta effetto di un intreccio, implica un attore adesivo, più che mimetico, alla “persona aliena”. L’anti-eroe comico porta con sé un attore che si manifesta, all’opposto, nella forma di uno scarto costante dalla maschera stessa (nella nostra tradizione novecentesca è sufficiente pensare a Totò).
Allora, il passaggio alla commedia per il tramite della personalizzazione della colpa comporta da un lato la socializzazione del processo di emendazione della stessa (la commedia è sempre sociale); dall’altro, liberando la “natura umana” dalle colpe e dalla necessità del destino, la commedia espone il soggetto come facoltà di essere sia questo sia quello; di essere dunque tra questo e quello, tra una maschera e l’altra, tra il soggetto e la maschera.
La commedia manifesta sempre il soggetto come facoltà (libera) e la tragedia come necessità. Da dove la sua superiorità. È la natura umana ad essere costitutivamente comica, perché segnata dall’inappropriabilità totale dell’esperienza da parte del soggetto. Di tale estraneità all’esperienza, la maschera comica è indizio esemplare, la maschera tragica scorciatoia elusiva ed illusoria, tesa alla cancellazione della distanza. Tragico è il destino dell’umano incapace di abitare la leggerezza dello scarto comico tra facoltà ed esperienza. È per questo che l’inoperosità, concetto chiave dell’ultimo Agamben, è da intendersi al fondo come concetto proprio della commedia. Non tanto paralisi contemplativa in uno stato teorico lontano dalla prassi, ma forma vera e propria in cui la prassi destituisce sia la sua effettualità sia la sua imputabilità e il soggetto si sente nella sua libera disponibilità.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Nottetempo, Milano 2015.
S. Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio,
Einaudi, Torino 1999.
K. Jaspers, Del tragico, SE, Milano 1987.
Giorgio Agamben, Categorie italiane, Quodlibet, Macerata 2021.
UNA QUESTIONE DI LANA CAPRINA E E IL "SOGNO" DELLA "DIVINA COMMEDIA" ...
Scambiare un montone, un ariete, con un caprone, e identificare capro espiatorio e agnello di Dio (René Girard, "Vedo Satana cadere come la folgore", Milano 2001), come è stato possibile? Accolta l’interpretazione del messaggio evangelico prodotta da Paolo di Tarso e, coerentemente, cancellata la differenza ta capro e agnello, pur con qualche diabolicità, Girard va avanti: "Satana fa del cattivo mimetismo, ciò che spero di non fare io stesso" (op. cit., 199). E, contro ogni speranza, la "caduta" nella profondità della Terra continua! Solo Dante, con Virgilio, riesce a vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) e, al contempo, a riandare alla sorgente del suo stesso essere, all’amor "che move il sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145), nel cerchio della vita.
ARIETE E CAPRICORNO: COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PARADISIO TERRESTRE"...
La brillantezza del lavoro di René Girard ha al proprio interno un nodo epocale da sciogliere, quello simbolizzato dal rapporto "Caino e Abele" (Bibbia) e "Romolo e Remo" (Roma): ha tentato di pensare un altro cristianesimo (al di là del sacrificio): è rimasto impigliato nella tradizione paolina e costantiniana (vale a dire, nell’orizzonte di Edipo) e, infine, a non avere alcuna cognizione "della Monarchia Universale [temporalis Monarchie]" di Dante, del suo progetto antropologico-teologico di costruzione di un nuovo "paradiso terrestre" e di una nuova Città, sì da essere "cive / di quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102).
Federico La Sala
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO vALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
LA RIVOLUZIONE FRANCESE, HITLER, E "LA STRANA DISFATTA". Una storia di lunga durata...
Marc Bloch così concludeva la sua riflessione sulla "strana disfatta": «Hitler diceva, un giorno, a Rausching: "Facciamo bene a speculare più sui #vizi che sulle virtù degli uomini. La Rivoluzione francese si richiamava alla virtù. Sarà meglio per noi fare il contrario". Si perdonerà a un Francese, cioè a un uomo civile - che è la stessa cosa - di preferire, a questo insegnamento, quello della Rivoluzione e di Montesquieu: "In uno Stato popolare è necessaria una forza, che è la virtù"»(Marc Bloch,"La strana disfatta. Testimonianza scritta nel 1940").
Appunti sul tema, nel sito, si cfr.
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
FLS
ARCHEOLOGIA, STORIA, E MEMORIA.
SERMONETA, I CARABINIERI SCOPRONO L’EPIGRAFE CHE PROVA LA VISITA DELL’IMPERATORE NEL 1452:
Una buona sollecitazione per ripensare l’Europa dell’attuale presente storico: Federico III d’ Asburgo (1415-1493), eletto Imperatore del Sacro Romano Impero nel 1440 (anno della Dotta Ignoranza di Niccolò Cusano e dell’opera di Lorenzo Valla sulla falsa donazione di Costantino), nel 1448 sottoscrisse il Concordato di Vienna con la Santa Sede, che rimase in vigore fino al 1806, e, ricevuta la corona d’Italia, fu l’ultimo imperatore ad essere incoronato imperatore a Roma; lo incoronò, il 19 marzo 1452, papa Niccolò V (...) Negli ultimi dieci anni di vita, Federico regnò congiuntamente a suo figlio Massimiliano; morì nel tentativo di amputazione della sua gamba sinistra, rivelando negli ultimi giorni di vita l’interpretazione del motto AEIOU. La tomba (...) nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna [...]".
RICORDARE. L’anno successivo, il 1453, è l’anno dell’ultimo assedio di Costantinopoli, detto anche "Caduta di Costantinopoli o Conquista di Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente (...). I Turchi Ottomani, guidati dal sultano Maometto II, soprannominato "Il Conquistatore", conquistarono la città il 29 maggio 1453, dopo circa due mesi di combattimenti".
FLS
La rivolta di Dostoevskij. Quel gesto disperato contro la filosofia di Hegel
di Alberto Manguel (la Repubblica, 25 luglio 2012)
Lo scrittore dei “Demoni” rifiutò con orrore la concezione della Storia formulata dal padre dell’idealismo: l’idea che passi inosservata l’esistenza dei singoli. Il principio perseguito dall’autore russo, secondo l’ungherese László Földényi, è che nessuno può essere estromesso dal corso delle vicende umane.
Devo la scoperta di László Földényi a Cees Nooteboom, che in uno dei suoi assalti epistolari insistette perché lo leggessi e mi inviò uno dei suoi saggi, Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere, pubblicato in italiano dal Melangolo qualche anno fa. Tra le tante vie che ci portano a leggere un libro (che hanno tutte qualcosa di misterioso) c’è quella del titolo. Magari non ci sentiamo immediatamente attratti verso un testo intitolato la Divina Commedia o Le contemplazioni, ma solo un cuore di pietra può resistere a Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere.
Io lo lessi immediatamente, tutto di un fiato, e poi lo lessi una seconda volta, e poi una terza: il contenuto non faceva assolutamente torto allo splendido titolo. La mia ignoranza dell’ungherese è assoluta e mi dovetti limitare perciò a leggere qualcuna delle opere di Földényi tradotte in spagnolo e in tedesco: sufficienti per giudicarlo un pensatore brillante, originale, lucido; ho seguito con piacere le sue illuminanti considerazioni filosofiche, storiche ed estetiche. I suoi libri sulla malinconia, l’arte e la critica sono dei capolavori.
Molto tempo fa, le scoperte di Copernico spostarono la visione autocentrata del nostro mondo su un’angolazione che da allora si è spostata sempre più in là, verso i margini dell’universo. La presa di coscienza che noi esseri umani siamo aleatori, minimali, un’apparecchiatura casuale per molecole autoreplicanti, non induce ad alte speranze o grandi ambizioni. Eppure, quello che Nicola Chiaromonte ha chiamato «il tarlo della coscienza» fa anch’esso parte del nostro essere, e pertanto, noi, queste particelle di pulviscolo cosmico, per quanto effimere e distanti siamo anche uno specchio in cui tutte le cose, noi stessi inclusi, ci riflettiamo. Questa modesta gloria dovrebbe bastarci. Il nostro passaggio (e, su una scala minuscola, il passaggio dell’universo insieme a noi) sta a noi registrarlo: un paziente e vano sforzo cominciato quando per la prima volta abbiamo iniziato a leggere il mondo. Chiamiamo Storia quella storia in svolgimento che pretendiamo di decifrare mentre la fabbrichiamo. Dostoevskij aveva capito tutto quando diceva che se la nostra fede nell’immortalità venisse distrutta, «tutto sarebbe permesso ». Così come la Storia, non abbiamo bisogno che l’immortalità sia vera per credere in essa.
Fin dall’inizio, la Storia è la storia raccontata dai suoi testimoni, vera o falsa che sia. Nell’VIII libro dell’Odissea, Ulisse elogia l’aedo che canta le sventure dei greci: «Tu narri quello che i Danai patirono e quanto patirono; uno tu sembri che era presente o che abbia udito da loro». Quel «sembri» è essenziale. La Storia quindi è la storia di quello che noi diciamo che è successo, anche se le giustificazioni che diamo per la nostra testimonianza non possono, per quanto ci sforziamo, essere giustificate.
Secoli dopo, in una polverosa aula di università in Germania, Hegel avrebbe diviso questa «invenzione di ciò che è avvenuto» in tre categorie: la prima è la Storia scritta dai presunti testimoni diretti (ursprünglische Geschichte); la seconda è la Storia come meditazione su se stessa (reflektierende Geschichte); la terza è la Storia come
filosofia (philosophische Geschichte), che alla fine si trasforma in quella che tutti chiamiamo Storia mondiale (Welt-Geschichte), la storia infinita che include se stessa nel racconto.
Immanuel Kant, in precedenza, aveva immaginato due diverse concezioni della nostra evoluzione collettiva: la Historie, che indicava il mero resoconto dei fatti, e la Geschichte, un’elaborazione ragionata di quei fatti, perfino un’a-priori Geschichte, la cronaca di un corso annunciato di eventi a venire. Per Hegel, quello che importava era la comprensione (o l’illusione della comprensione) dell’intero flusso degli eventi, compreso il letto del fiume e gli osservatori sulla riva, e per potersi meglio concentrare sul corso principale escludeva i margini, le pozze laterali e gli estuari.
Földény immagina che questo sia l’orrore scoperto da Dostoevskij: che la Storia, di cui sa di essere la vittima, ignora la sua esistenza, che la sua sofferenza passa inosservata o, ancora peggio, non assolve a nessuno scopo nel flusso generale della specie umana. Quello che Hegel propone, agli occhi di Dostoevskij (e di Földényi) è quello che Kafka dirà poi a Max Brod: «C’è speranza, ma non per noi». Il caveat di Hegel è ancora più terribile dell’esistenza illusoria proposta dagli idealisti: veniamo percepiti, ma non veniamo visti.
Un presupposto del genere, per Földényi, (e altrettanto dovette sembrare a Dostoevskij) è inammissibile. Non solo la Storia non può estromettere nessuno dal suo corso, ma è vero anche l’inverso: è necessario il riconoscimento di tutti perché la Storia possa essere. La mia esistenza, l’esistenza di qualsiasi uomo, è condizionata al vostro essere, all’essere di qualsiasi altro uomo, ed entrambi dobbiamo esistere perché Hegel, Dostoevskij e Földényi esistano, dato che noi (gli anonimi altri) siamo la loro convalida e la loro zavorra, noi li portiamo in vita leggendoli. È questo il significato di quell’antica intuizione che siamo tutti parte di un insieme ineffabile in cui ogni singola morte e ogni sofferenza specifica influenza l’intera collettività umana, un insieme che non è limitato da ciascun io materiale.
Il tarlo della coscienza mina la nostra esistenza, ma allo stesso tempo la convalida; non serve a nulla negarla, nemmeno come atto di fede. «Il mito che nega se stesso», dice Földényi saggiamente, «la fede che pretende di sapere: questo è l’inferno grigio, questa è la schizofrenia universale su cui è inciampato Dostoevskij».
La nostra immaginazione ci consente sempre una speranza in più, al di là della speranza spezzata o realizzata, una frontiera finora apparentemente irraggiungibile, che alla fine raggiungeremo solo per proporne un’altra ancora più in là. Dimenticare questa illimitatezza (come cercava di fare Hegel «potando» la sua concezione di quello che conta in quanto Storia) può riuscire a garantirci la piacevole illusione che ciò che avviene nel mondo e nella nostra vita sia pienamente comprensibile, ma riduce la contestazione dell’universo al catechismo e quella della nostra esistenza al dogma. Come sostiene Földényi, quello che vogliamo non è la consolazione di ciò che appare ragionevole e probabile, ma le inesplorate terre siberiane dell’impossibile.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Dostoevskij vs. Hegel
di Andrea Monda (BombaCarta, 24 Marzo 2009) *
Nel febbraio del 1854 Dostoevskij si trova ad essere condannato a servire l’esercito come soldato nella città siberiana di Semipalatinsk vicino al confine cinese. Cinque anni prima era stato condannato a morte, poi la pena era stata commutata, all’ultimo minuto, ai lavori forzati a vita; infine anche questa pena, dopo quattro anni durissimi, era stata trasformata nel servizio militare in Siberia. In questo periodo gli furono di grande supporto morale i libri inviatigli clandestinamente dal fratello Michail, tra cui i romanzi di Dumas e la Critica della ragion pura di Kant nonché Hegel.
E proprio dalla lettura di Hegel prende le mosse questo strano libretto, a metà tra il racconto biografico e il saggio filosofico, scritto due anni fa dal professore ungherese di letteratura comparata Laszlo Foldèny che oggi arriva in Italia grazie all’edizioni de Il Melangolo.
Foldèny si concentra in quei cinque anni della biografia del grande scrittore russo passati nell’inferno bianco della Siberia (potrà tornare nella Russia europea solo il 18 marzo 1859) ed in particolare sull’effetto che ebbe su di lui la lettura di un brano delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel in cui il filosofo tedesco, parlando dell’Asia, scrive di non essere interessato alla Siberia “in nessun modo, perché la zona nordica giace fuori dalla storia“. Il più grande filosofo e il più grande romanziere discutono “a distanza” (Hegel in realtà è già morto da oltre vent’anni) e il primo rivela al secondo, in modo secco e arrogante, di non far parte della storia.
Il breve saggio di Foldèny può essere visto come un tardivo tentativo di “risarcimento”, un prendere parte nel senso proprio di “parteggiare” per Dostoevskij, duramente colpito dalla lettura hegeliana: “E’ facilmente immaginabile che proprio allora, quando capì di non far parte della storia, per la quale aveva accettato tutte le disavventure” scrive Foldèny, “nacque in lui la convinzione che la vita potesse avere delle dimensioni che non possono essere inquadrate nella storia [...] Che è necessario uscire dalla storia per poter vedere i confini e i limiti dell’esistenza della storia“.
Il saggio è diviso in due parti, la prima si concentra su Hegel e la sua riflessione, perfettamente lucida quanto arida, sulla storia, e la seconda invece dedicata al tumultuosa condizione in cui si trova l’animo del romanziere russo che trova nella Siberia nello stesso tempo l’Inferno per cui disperare ma anche le ragioni per una riconquista più matura della fede e della speranza.
Sul filo del paradosso l’autore conduce al lettore alla conclusione che, proprio perché sconfitto dalla storia e sbattuto nel luogo più sperduto della terra, Dostoevskij riesce a osservare il mondo e l’uomo più in profondità di quanto faccia Hegel, cogliendo che nella storia c’è qualcosa di più, qualcosa di irriducibile e che sfugge anche alla più perfetta “architettura filosofica” realizzata dall’uomo occidentale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
DANTE 2021:
L’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA E "UN DEBOLE FRULLO D’ALI" (A. CAMUS).
Se è vero, come è vero, che «Le grandi idee arrivano nel mondo con la gentilezza delle colombe. Se ascoltiamo bene, tra il frastuono degli imperi e delle nazioni, forse udiremo un debole frullo d’ali, il dolce fremito della vita e della speranza. Certi diranno, questa speranza risiede in una nazione; altri, in un uomo. Credo invece che essa sia ridestata, ravvivata, nutrita, da milioni di individui solitari, le cui azioni negano ogni giorno le frontiere e le implicanze più crude della storia» (come ha pensato e scritto Albert Camus), è altrettanto vero, perché gli "individui solitari" possano udire il debole frullo di ali, il dolce fremito della vita e della speranza, che è necessario riprendere e riconsiderare il tema della nascita (al di là della andrologia della tragedia tebana (Giocasta ed Edipo) e la riflessione e il lavoro su "l’una e l’altra Medea" (Pino Blasone) e, in prospettiva, riequilibrare il campo antropologico!
Venticinque secoli "a la ‘mpresa,/che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo": Dante (1321-2021) aveva ragione sul letargo (Par. XXXIII, 94-96) in cui l’umana società è ancora immersa. C’è solo da uscire dall’inferno e riprendere il cammino...
Il problema Medea è un nodo antropologico e filosofico più che millenario ed è un tentativo (come ha ben compreso e proposto Dante Alighieri) di uscire dall’inferno del gioco e giogo degli specchi.
Per venirne fuori (questione epocale) è bene ripercorre i passi dell’una e l’altra Medea e cercare di sciogliere l’enigma della sfinge e capire la tragica verita di "Euripide / Giasone"!
Ricordando che il padre di Ulisse, Laerte, era con gli Argonauti che andarono a riprendersi (questo sfugge a Christa Wolf) il vello d’oro dell’ariete, si può senz’altro pensare che dei versi sul tema (Par. XXXIII, 94-96) posti da Dante a conclusione del suo lavoro, della sua Commedia, ci sfugge proprio l’essenziale: che "esorcizzare la mitica Medea" non è possibile!
Tutta la teologia, la filosofia, l’antropologia è ancora ferma all’interpretazione dei sogni di Freud e non di Giuseppe! Michelangelo legando e collegando il "Laocoonte" e il "Tondo Doni" e il Mosè della Chiesa di San Pietro in Vincoli cosa ha pensato se non il problema Giuseppe?!
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E COSTITUZIONE:
RIPENSARE COSTANTINO E LA TEOLOGIA E LA POLITICA DELL’EUROPA.
Un omaggio a Beatrice Maria e Lucia (8 marzo) e a Dante Alighieri (25 marzo - Dantedì)...
USCIRE A RIVEDERE IL CIELO STELLATO. Non avendo sottratto alla teologia e alla logica dell’ Imperatore Costantino l’opera di Dante Alighieri (ridotto dalla Chiesa Cattolica di Giovanni XXII, prima che da Ugo Foscolo, a "ghibellino fuggiasco"), filosofi e storici hanno finito per banalizzare anche il lavoro di Ernst H. Kantorowicz! Si tenga presente, per capire bene e meglio l’uno e l’altro, che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" è intitolato "La regalità antropocentrica: Dante" e, al contempo, che la regalità antropocentrica è da leggersi in senso antropologico (di ogni essere umano, "ecce homo"), non in senso di una andrologia costantiniana (di ogni essere umano-maschio, "ecce vir")!
COSTITUZIONE. La "Monarchia" dei "due Soli" non dice né della dittatura dell’Imperatore né della dittatura del Papa, ma indica che l’uno e l’altro, semplicemente (la cosa più difficile a farsi), dia a "Dio" (l’amor che muove il sole e le altre stelle) ciò che è di "Dio" e ognuno all’altro (entrambi sovrani - memoria di don Milani) ciò che tocca all’uno e all’altro - nel riconoscimento della sovranità di "Dio" stesso, della Legge dei nostri Padri Costituenti e delle nostre Madri Costituenti. Se in principio era la Costituzione (il Logos), "Quis Ut Deus?" ("Chi è come Dio")?!
Il nuovo scontro di civiltà
di Ida Dominijanni (CRS, 4 Marzo 2022)
All’alba del nono giorno di guerra l’attacco delle truppe russe alla centrale nucleare Zaporizhzhia rende meglio di qualunque altro dettaglio quale sia la posta della partita globale, biopolitica prima che geopolitica, che si sta giocando in Ucraina. E il peggio deve ancora venire, ha comunicato Macron cui Putin ha fatto presente che non intende fermarsi finché non avrà conquistato l’intero paese. Le regioni russe dell’est e del sud con gli accessi al mare sono ormai in mano ai russi, a Mariupol mezzo milione di abitanti sono intrappolati senza acqua e senza cibo, a nord-ovest Leopoli è piena di profughi in fuga, più donne e bambini che uomini perché gli uomini restano a combattere una battaglia di resistenza già persa.
L’esile negoziato in corso a Brest ha deciso l’apertura di corridoi umanitari per favorire l’esodo dei civili, mentre la colonna di 60 kilometri di carri russi continua la sua lenta ma inesorabile avanzata su Kiev lungo il corso del Dnepr che in futuro potrebbe dividere l’Ucraina fra un est russo e un ovest occidentale, com’era un tempo la Germania: le stesse cose ritornano sempre, nella storia, come il rimosso nell’inconscio. Dev’essere per questo che tutti definiscono questa in Ucraina “la prima guerra nel cuore dell’Europa dopo più di settant’anni”, dimenticando clamorosamente che in Europa la guerra era già tornata negli anni Novanta, in quella ex Jugoslavia che ha anticipato e prefigurato tutte le guerre successive a base etnico-nazionalista sparse per il mondo. -Forse che la Jugoslavia non era il cuore ma la periferia dell’Europa? O non sarà piuttosto che nell’immaginario europeo, il cuore dell’Europa resta sempre lì, al confine fra l’ex impero sovietico e l’Occidente democratico? Lì, dove secondo gli stessi che nell’89 decretavano “la fine della storia” oggi la storia riprenderebbe in grande, quasi che in mezzo non ci fosse stato niente. Lì, dove si sono convocati tutti i fantasmi che fino a ieri l’altro vagavano per l’est e per l’ovest, e che ora muovono questa terribile resa dei conti di un trentennio cominciato male e finito peggio. Che è la vera posta in gioco, reale e simbolica, della tragedia che si sta consumando.
Hanno suscitato indignazione e scandalo i due discorsi del 21 e del 24 febbraio con cui Putin ha annunciato prima il riconoscimento ufficiale delle repubbliche separatiste del Donbass e poi la sua “operazione militare speciale”, come l’ha chiamata lui, in Ucraina. Ne consiglierei tuttavia la lettura integrale (il testo è facilmente reperibile in rete), ammesso che sia ancora lecito cercare di capire perché accade quello che accade senza essere tacciati di connivenza con il nemico. Liquidati dai più come una litania del risentimento, o come il delirio paranoico da sindrome di accerchiamento di un uomo solo al comando provato dalla fobia del Covid, i due discorsi inanellano alcuni dati di fatto incontrovertibili sull’estensione a est della Nato, sulle guerre di aggressione perpetrate dall’Occidente dagli anni novanta in poi (Kosovo, Iraq, Siria, Libia), e, più in generale, sullo “stato di euforia da superiorità assoluta, una sorta di assolutismo di tipo moderno, per di più sullo sfondo di un basso livello di cultura generale” che si è impossessato del campo dei vincitori della Guerra fredda.
Ma al di là di questo merito, nonché della ricostruzione delle cause di lungo periodo della rinascita dei nazionalismi, a Est dopo la fine dell’Urss, ciò che colpisce nelle parole di Putin è la rivendicazione della dimensione storica come sfondo ineludibile del discorso politico. Precisamente lo sfondo che manca al discorso politico occidentale, che di spessore storico sarebbe supposto essere il più dotato. E che invece risponde all’aggressione di Putin usando - mirabile sintesi di un cinquantennio di ideologia neoliberale - solo il linguaggio dell’economia e della sicurezza: sanzioni e riarmo, nell’oblio - perfino teorizzato, come nel discorso alle camere di Mario Draghi - del passato che ha costruito, mattone dopo mattone, il presente.
Sia chiaro: lo sfondo e l’uso della storia non giustificano in alcun modo la mossa di Putin. L’invasione di uno Stato sovrano e confinante viola le basi del diritto internazionale, resuscita, a proposito di storia lunga, tutti i mostri del passato europeo, e si configura per di più, nelle stesse motivazioni che Putin ne dà, come una sorta di preemptive war, una guerra preventiva contro il pericolo eventuale di un’aggressione alla Russia da parte della Nato (i nemici assoluti sono spesso segretamente gemelli, e Putin evidentemente ha imparato qualcosa da George W. Bush).
Nessuna ragione di lungo periodo esenta di un grammo di responsabilità la decisione con cui il presidente russo ha portato il mondo sull’orlo del precipizio. Ma pare assai improbabile che dal precipizio le democrazie occidentali possano uscire senza aprire al proprio interno tre linee di ripensamento autocritico di un passato prossimo che invece tendono solo a rimuovere o a riconfermare.
La prima linea riguarda l’atroce sequenza di guerre con cui l’Occidente ha insanguinato l’epoca di pace che aveva annunciato alla fine della Guerra fredda, e che rischiano di costituire i precedenti formali, non solo le concause politiche, dello scenario che si va prefigurando in Europa. Dovrebbe balzare agli occhi l’analogia agghiacciante fra le motivazioni addotte da Putin a sostegno della minoranza russa in Ucraina e quelle che mossero il cosiddetto intervento umanitario della Nato a sostegno della minoranza kosovara in Serbia, con relativo bombardamento di Belgrado: e invece non un cenno se ne sente in specie nel Pd, erede del partito che fu il principale regista italiano di quella guerra, oggi abitato da una classe dirigente che sembra del tutto ignara della drammaticità di quella stagione e del tutto conforme alla narrativa trionfale del dopo-’89.
Dovrebbe risuonare come un monito sullo stato delle democrazie occidentali la madre di tutte le fake news e di tutte le post-truth politics, ovvero la gigantesca menzogna sulle presunte armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein che giustificò la “guerra preventiva” in Iraq. Soprattutto, dovrebbe portare un grammo di senno, questo sì preventivo, sullo scenario europeo prossimo venturo la scia di guerre civili, regimi instabili ed esodi migratori biblici lasciata dietro di sé dall’intera sequenza delle guerre post-89, tutte caratterizzate dall’intreccio micidiale di rivendicazioni nazional-sovraniste e rivendicazioni etnico-regionali che si ripropone oggi in Ucraina e rischia di riproporsi in un teatro europeo più vasto di quello ucraino. E invece è proprio nella ripetizione nevrotica di quella dinamica che ci stiamo infilando, con il corredo sinistro di un soccorso armato alla resistenza ucraina fatto di contractors, appalti, privatizzazione dell’uso della forza - un film, anche questo, già visto in Iraq e in Siria, con le conseguenze che sappiamo.
La seconda linea di riflessione autocritica riguarda lo stato delle democrazie occidentali e quello connesso della costruzione europea. Oggi siamo tutti dalla parte dell’Ucraina, vittima di un’aggressione inammissibile, e da questa parte bisogna restare finché i carri armati russi resteranno in campo. Ma nella retorica monotonale occidentale l’Ucraina è diventata in pochi attimi la trincea della difesa della democrazia tout court, anzi, per dirla con le parole di Joe Biden nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la trincea del conflitto fondamentale del nostro tempo, che sarebbe quello fra democrazia e autocrazia. Le élite democratiche americane sono impegnate da tempo a costruire questo frame narrativo, opposto e speculare all’attacco alla liberaldemocrazia occidentale portato avanti dalla concezione putiniana della cosiddetta “democrazia sovrana”. E se nella politica interna americana questo frame è servito a sconfiggere Trump, in politica estera è destinato a prendere il posto di quello sullo “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam che ha tenuto banco per tutto il ventennio della war on terror successivo all’11 settembre.
Ma dopo Trump, gli americani non possono non sapere che la linea di confine fra democrazie e autocrazie è diventata molto esile, e può essere scavalcata dagli autocrati che crescono all’interno delle democrazie occidentali, non soltanto al di fuori di esse.
E noi europei non possiamo non sapere che le tentazioni autocratiche e sovran-populiste sono cresciute, soprattutto ma non solo nei paesi ex-sovietici dell’est, parallelamente ai processi di crisi e de-democratizzazione dei paesi dell’ovest, e sovente per reazione alla delusione di un allargamento a est dell’Unione rivelatosi più un’annessione alla religione del mercato che un’integrazione del mosaico di culture e tradizioni del vecchio continente. Anche da questa parte dell’oceano, il pericolo autocratico non viene solo dall’esterno, e la democrazia non può essere impugnata come una bandiera senza macchia e senza peccato.
Questo nodo lega il trentennio che abbiamo alle spalle al presente e al futuro dell’Unione europea e della sua collocazione nello scacchiere globale. Il rilancio dell’atlantismo da parte di Joe Biden appariva molto ambivalente già all’indomani della sua elezione: mentre riavvicinava le due sponde dell’Atlantico che Trump aveva allontanato, innalzava un nuovo muro fra l’Europa e le autocrazie orientali, chiamando la Ue a posizionarsi nettamente contro di esse. Già allora le voci più consapevoli spinsero infatti per un’Unione atlantista ma aperta verso Est e capace di porsi come ponte fra gli Stati uniti, la Russia e la Cina. Complice la fine del cancellierato di Angela Merkel, nonché verosimilmente l’insediamento del governo Draghi in Italia, le cose hanno preso purtroppo un’altra piega.
E oggi è più che inquietante il coro mainstream di soddisfazione che si leva per un compattamento europeo che fa propria la parola d’ordine americana del nuovo scontro di civiltà fra Occidente e Oriente, e avviene tutto sotto l’insegna della Nato, di sanzioni durissime che colpiranno Putin ma affosseranno la transizione energetica europea, di una politica di pura potenza, di un riarmo di cui la Germania si fa protagonista e che travolge persino la neutralità storica di paesi come la Finlandia.
Se si rafforza in questo modo, dopo aver clamorosamente mancato tutte le possibilità preventive di disinnescare politicamente la miccia che Putin stava accendendo, l’Unione europea finirà col fare le spese del ridisegno dell’ordine globale che si sta giocando nella guerra fra l’imperialismo russo e il nazionalismo ucraino.
Se in Ucraina non cessa il fuoco e l’Europa non inverte la rotta imboccando la strada della smilitarizzazione, il conflitto si estenderà in modo imprevedibile e i tempi si faranno durissimi per la specie umana. Se le democrazie si compatteranno al loro interno sulla base dell’ennesima proclamazione dello stato d’emergenza, come già sta avvenendo in Italia, la credibilità della democrazia subirà un ennesimo e fatale colpo. Come sempre e mai come oggi, per incidere sullo scacchiere geopolitico il pacifismo deve alimentarsi di un conflitto politico aspro dentro casa, in primo luogo contro la militarizzazione del dibattito pubblico.
DANTE 2021 E SHAKESPEARE 2002: ANTROPOLOGIA, POLITICA E RELIGIONE...
"SHAKESPEARE AND COMPANY": ELISABETTA I, "ALESSANDRO MAGNO" E L’ORDINE DELLA GIARRETTIERA.
Materiali per una rilettura unitaria delle "Allegre Comari di Windsor" e del discorso del Re "Enrico V" ... *
La mia ipotesi è che Shakespeare abbia compreso il senso della propria sovranità di essere umano e, da questo luogo e da poeta, produca e porti avanti il proprio discorso. In qualche modo Shakespeare è prossimo a Dante e Dante è prossimo a Shakespeare: entrambi non sono né per il papa (o la papessa) né per l’imperatore (o l’imperatrice): entrambi sono per la Monarchia dei "due Soli" e la sovranità assoluta è dell’amore che non è "lo zimbello del Tempo" (Sonetto 116) e che "move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
A) RIPARTIRE DALLA GIARRETTIERA, DALL’ORDINE DELLA GIARRETTIERA: "SIA SVERGOGNATO CHI NE PENSA MALE"!
WINDSOR: IL RE, I CAVALIERI, E LA FEDELTÀ. "Il Nobilissimo Ordine della Giarrettiera (in inglese The Most Noble OrderoftheGarter), risalente al Medioevo, è il più antico ed elevato ordine cavalleresco del Regno Unito. Capo dell’Ordine della Giarrettiera è il Sovrano del Regno Unito; l’ammissione è riservata a non più di 24 membri, la cui scelta è di competenza esclusiva del sovrano [...] lo stemma dell’Ordine è una giarrettiera che sormonta il motto «Honi soit qui mal y pense» (fr.: «Sia vituperato chi ne pensa male»), [...]. Il motto [...] è anche scritto sulla polena della nave ammiraglia HMS Victory, protagonista della battaglia di Trafalgar agli ordini di Horatio Nelson. [...] L’Ordine fu fondato - molto presumibilmente - nel 1349 dal re #EdoardoIII come «compagnia e collegio di cavalieri». [...] La più antica attestazione scritta dell’Ordine si trova in «Tirant lo Blanch», un romanzo cavalleresco scritto in catalano dal valenciano Joanot Martorell che venne pubblicato nella prima edizione nel 1490. [...]"(Wikipedia).
B) CON ELISABETTA I A TEATRO: A WINDSOR, NELLA LOCANDA DELLE "ALLEGRE COMARI"! “«La Giarrettiera» è il nome della locanda dove alloggia il protagonista Sir John Falstaff, e l’ordine aveva la sua sede araldica a Windsor. Se così è, la stesura del lavoro non poté farsi più tardi della fine 1596 / inizio1597, per essere rappresentata a corte il giorno di San Giorgio patrono d’Inghilterra (23 aprile 1597), giorno nel quale, appunto, la regina conferiva le investiture [...]" (Shakespeare Italia).
C) LA GIARRETTIERA. Il significato di questo questo indumento, divenuto esclusivamente ad uso femminile nel XIV secolo, è collegato al matrimonio e alla purezza della sposa: "la giarrettiera, infatti, rappresenta simbolicamente una cintura di castità" ( Clara Couture ).
D) RELIGIONE E POLITICA (LONDRA 1599). L’elogio cattolico di Enrico V ("Alessandro Magno"): “ Arcivescovo di Canterbury: [...] Portategli il discorso su argomenti / che richiedano acume e sottigliezza / vi saprà sciogliere il nodo gordiano / di tutto, come la sua giarrettiera” ("Enrico V", Atto I, scena prima, 45-47).
E) A WILLIAM SHAKESPEARE E GIUSEPPEVERDI: VIVA VERDI. Falstaff (1893) è l’ultima opera di Giuseppe Verdi . Il libretto di Arrigo Boito fu tratto da Le allegre comari di Windsor di Shakespeare, ma alcuni passi furono ricavati anche da Enrico IV parti I e II, il dramma storico nel quale per la prima volta era apparsa la figura di sir John Falstaff. [...] L’anziano e corpulento Sir John Falstaff, alloggiato con i servi Bardolfo e Pistola presso l’Osteria della Giarrettiera, progetta di conquistare due belle e ricche dame [...] (Wikipedia).
F) DIVINA COMMEDIA: RIPENSARE COSTANTINO! LA MONARCHIA, UN PROGRAMMA PER I POSTERI DI DANTE (1321-2021), L’ORDINE DELLA GIARRETTIERA (1349), E IL DISCORSODEL RE "ENRICO V" (SHAKESPEARE,1599).
* Federico La Sala
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, MITO E STORIA.
DANTE 2021: OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE, UN PASSO AL DI LÀ DELL’EDIPO. Solo con Virgilio (e con Ovidio) e, soprattutto, con Beatrice (la madre! - Freud docet), Dante poteva e può rinascere (Par. XXXIII, 106-108: "Omai sarà più corta mia favella, /pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/ che bagni ancor la lingua a la mammella"), uscire dal letargo (Par. XXXIII, 94) e, addirittura, riproporsi - in un’ottica arcadica e messianica (con la sua Divina Commedia) - come "un altro Tifi, un’altra Argo" (Virgilio, Ecl. IV, 34)!
"Ulisse e la sua Odissea... chi non conosce il lungo peregrinare dell’eroe omerico? Ma forse pochi sanno che Ulisse era figlio d’arte: il padre Laerte, infatti, prese parte assieme ai cinquantadue valorosi greci noti col nome di Argonauti, a una mitica impresa che li vedrà solcare i mari fino a Oriente, oltre i confini conosciuti, alla conquista del vello d’oro (la pelle di un ariete dorato che era apparso in soccorso a due giovani Frisso e Elle e li aveva condotti in salvo al di là dei mari, in Colchide).
L’impresa degli Argonauti è una delle più affascinanti del mito greco anche perché il tema del viaggio sulla nave Argo si intreccia non solo con le mille avventure vissute, o la storia d’amore tra Giàsone e Medea, ma anche con temi che in qualche modo hanno a che vedere con la conquista di conoscenze tecnico-scientifiche. Intanto perché Argo è la primissima nave mai costruita, che segna l’inizio della navigazione, per la quale occorrevano conoscenze prima di allora appannaggio esclusivo degli Dei: conoscenze tecniche, geografiche e astronomiche.
La spedizione degli argonauti ai confini orientali del mondo conosciuto si rivela così una spedizione altamente allegorica, in cui si narra di fatto non solo di una missione civilizzatrice ma anche dell’ incontro tra Occidente e Oriente, che aveva già elaborato un sapere astronomico e astrologico; ed è di fatto un’anticipazione di quel che ebbe luogo nella realtà documentata nel III sec. A.C.: il viaggio di Alessandro Magno in India da cui riportò avanzatissime conoscenze matematiche.
Ma ci parla anche di un mito che persiste tutt’oggi: quello del viaggio verso l’ignoto, del desiderio di spingere sempre più avanti le frontiere dello scibile, che tanto caratterizza la ricerca scientifica." (Clara Caverzasio, "La spedizione argonautica, tra mito e scienza", Il Giardino di Albert (ReteDue), 30 maggio 2015)
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STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
DANTE2021
LA MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE E IL MESSAGGIO SEGRETO DELLA DIVINA COMMEDIA, DEL MUSICO DI LEONARDO, DELLA PRATICA DELLA MUSICA DI GAFFURIO, E DELLA GAIA SCIENZA DI NIETZSCHE...
A) IL MUSICO. "Il messaggio segreto nel quadro di Leonardo: Un messaggio nascosto, per di più in chiave musicale, all’interno di un quadro: “Il Ritratto di Musico” di Leonardo da Vinci. Lo ha svelato lo storico d’arte e ricercatore siciliano Giuseppe Petix alla Fordham University di New York. [...] Petix ci racconta anche: «Il rebus all’interno del cartiglio è stato trovato grazie alle conoscenze musicali che abbiamo del periodo di Leonardo. Un rebus che se decifrato forma il versetto o meglio il rondò “Oh Re fammi lagnar: Sol l’amore mi fa sollazzar”, che in versione prosaica potrebbe essere visto così “Oh dio, permettermi di lamentarmi, concedimi un lamento da uomo, solo l’amore mi rende felice”». Un inno, quindi, una preghiera, una richiesta di aiuto [...] Questa frase ricorda le lamentazioni presenti nei salmi della bibbia, e di preciso il "dio" del quale si parla potrebbe rappresentare l’anima del Davide Biblico [...]" (Laura Pace , i.Italy, November 25, 2019)
C) LA GAIA SCIENZA (IV, fr. 334). "Si deve #imparare anche l’amore. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, [...] finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la #melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la #musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore. (F. Nietzsche).
D) COSMOLOGIA DANTESCA. "L’amor che move il sole e le altre stelle" (Par., XXXIII, 145).
E) DANTE LEONARDO E GAFFURIO: LE TRACCE DI UN PROGRAMMA E DI UNA STRATEGIA CULTURALE CON RADICI PROBABILMENTE GIOACHIMITE E FRANCESCANE...
Il messaggio segreto del Musico di Leonardo e il legame stretto con la Musica delle Sfere ("Theorica Musicae", (1492; "Practica Musicae", 1496) di Franchino Gaffurio (con Apollo, le Grazie, le Muse, il Cielo delle Stelle Fisse e dei Pianeti, e il Serpente) rende possibile una interpretazione e connesione con il viaggio della Divina Commedia: il cammino nel regno dell’Apollo de-caduto (dopo la venuta del nuovo Re, di Cristo), cioè di Lucifero, è finito ed è "ora" che Dante con Virgilio si liberino della loro stessa pelle di serpente e, lasciato Lucifero con" le gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) alle loro spalle, ... mettano i piedi a terra! La strada per il paradiso terrestre e celeste è libera.... sotto il cielo stellato, inizia la "vita nuova"!
F) LA MUSICA DELLE SFERE, LA DIVINA COMMEDIA, E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Nella sua "Mitologia creativa" (Milano 1992), Joseph Campbell, dopo aver premesso che "anche Dante invocò le Muse - all’inizio dell’inferno, nel Canto II - e fu guidato sia attraverso l’Inferno sia sulla cima paradisiaca del Monte del Purgatorio dal pagano Virgilio" (p. 128) e aver analizzato in dettaglio la Figura di «la Musica delle Sfere», "trattada un’opera neoplatonica del quindicesimo secolo, la Pratica musicae di Franchino Gaffurio, pubblicata a Milano nel 1496", scrive che "[...] l’intera Divina Commedia di Dante esprime questa visione pagana di una dimensione spirituale dell’universo", e, al contempo, lo "imbottiglia" (senza resti) nella tradizione cattolico-romana: "[...] Il fatto che, in Dante, il potere di guida dei pagani termini alla sommità del Purgatorio, nel Paradiso Terrestre, si accorda con la formula di san Tommaso secondo cui la ragione può condurre, come fece con gli antichi, fino al vertice delle virtù terrene, ma solo la fede e la grazia soprannaturale (personificata da Beatrice) possono portare oltre la ragione, fino alla sede di Dio". Pur, se con incertezze e difficoltà, continua e finisce paradossalmente col riportare Dante nell’orizzonte della tragedia e dell’antico patto edipico (di "mammasantissima", altro che patriarcale): "Tuttavia, analizzando questo Dio Trinitario che, nella dottrina cristiana delle tre persone divine in un’unica sostanza divina, abbiamo una trasposizione delle tre Grazie e dell’Apollo Iperboreo in un ordine mitologico di maschere escusivamente maschili di Dio, il che si accorda bene con lo spirito patriarcale dell’Antico Testamento, ma sbilancia radicalmente le connotazioni simboliche, e quindi spirituali, non solo del sesso e dei sessi, ma anche dell’intera natura".
Federico La Sala
COSTITUZIONE, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA:
DANTE ALIGHIERI, WILLIAM SHAKESPEARE, E JOHN MAYNARD KEYNES.
La questione dei due soli e "il nostro problema economico"...
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ECONOMIA, E FILOLOGIA: "HOMO HOMINI DEUS EST"!
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): DEUS CHARITAS EST (NON "DEUS CARITAS EST")!
IL "NOSTRO" PROBLEMA DI MAMMONA. Non potete servire a Dio (charitas - amore e giustizia) e a mammona (caritas - denaro e ricchezza):
24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. 25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Federico La Sala
ANCORA
IL #REGIME DELL’#UNO
E
LA #DOTTA IGNORANZA
!"#Dio non gioca a #dadi"
ma, dopo la #lezione di
#Georges de La Tour,
l’#Uno
è ancora
il più sfuggente
e misterioso
tra i #numeri?
#A che gioco giochiamo?!
Scheda editoriale *
GIULIO BUSI
Uno
Il battito invisibile
L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo. Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri.
Giulio Busi è esperto di mistica ebraica e di storia rinascimentale, insegna Giudaistica alla Freie Universität di Berlino. Collabora da molti anni alle pagine culturali del «Sole 24 Ore». Per il Mulino ha pubblicato «Indovinare il mondo. Le cento porte del destino» (2021).
* Fonte: Il Mulino
MEMORIA DELLA LIBERTÀ E DELLA COSTITUZIONE: LA LEZIONE DI RITA LEVI MONTALCINI.E SIGMUND FREUD.
Antropologia, matematica, filosofia, e "disagio della civiltà" e nella civiltà (Sigmund Freud, 1929).
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana...
Nel breve testo dalla intervista a Rita Levi Montalcini
ci sono straordinarie indicazioni di una strada aperta e di un cammino che non riguarda solo le donne e che riguarda tutti gli ambiti della società ancora oggi (2022) segnata dall’ombra di Platone (Adriana Cavarero, "NONOSTANTE PLATONE figure femminili nella filosofia antica", 1990). Una storia di lunga durata e una questione antropologica all’ordine del giorno...
Per uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dalla matematica della tradizione tragica di Edipo (Freud) e dalla Accademia di Platone, questo è il problema di tutti i problemi, le colonne d’Ercole da superare: riconoscere l’autodeterminazione, la libertà di disporre di sé a ogni essere umano, alla donna come all’uomo.
Non si possono truccare le carte e le regole del gioco per l’eternità!
DIVINA COMMEDIA. Il problema è proprio quello di non perdere la memoria, la coscienza e la ragione, e, non ricadere nel sonno eterno, del Faraone (e della Faraona), del Re e della Regina! In principio era il Logos - la Costituzione, non il logo di una fattoria, di una religione ...
Edipo non solo scioglie l’enigma della sfinge, ma soprattutto vuole sciogliere il nodo più grande che è quello con la madre-regina e di una Legge incestuosa...
La lotta di Rita Levi Montalcini con il padre richiama la lotta di Sigmund Freud con il padre! Alla fine, entrambi hanno saputo distinguere tra la Legge del Faraone e la Legge di Mosè.
Senza l’interpretazione dei sogni del Faraone, Freud non sarebbe mai arrivato a Londra e l’opera "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" non avrebbe mai vista la luce (1938)!
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, LOGICA PSICOANALISI E COSTITUZIONE: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (non il Logo di una fattoria).
DIO E LE LETTERE DELL’ALFABETO. Questa storiella dello Zohar "nasconde" una grande lezione di logica e matematica, antropologia e teologia (e, a mio parere, offre la chiave per meglio capire il senso stesso del riferimento di Baruch Spinoza al detto Homo Homini Deus Est e il messaggio dell’ impresa di Dante Alighieri).
Quando si comincia a contare, da dove bisogna cominciare, per iniziare bene ed essere gà a metà dell’opera?! Chi è che conta e da dove inizia. Perché (come qui, nella storiella dello Zohar) dalla Bet?
Premesso che le lettere dell’alfabeto ebraico sono anche numeri e, quindi, hanno un valore numerico, è opportuno ricordare che alef vale zero (= 0) e che bet vale uno (= 1); e, quando si comincia a contare, si comincia a contare da uno (= 1), appunto, da bet.
Per non perdere la #bussola e, ancor di più, per non lasciarsi sopraffare dalla narcisismica terremotante tentazione di truccare le carte e il conto, però, occorre tenere ben presente che al "Dio" che conta, in un altro testo decisivo della tradizione biblica (Apocalisse di Giovanni), è attribuita la seguente importantissima frase: "Io sono l’alfa e l’omega" (greco koinè: "ἐγὼ τὸ Α καὶ τὸ Ω"). La precisazione è decisiva...
Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). A ben riflettere sull’apocalittica frase, si apre la porta di una chiara #comprensione sul Chi (= X) lega e sa legare "il principio e la fine" (Apocalisse 21:6, 22:13) e, al contempo, sul buon messaggio stesso della "Divina Commedia": "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
L’alfa (il principio) e l’omega (la fine), e la bet ("la prima lettera dell’alfabeto), la lettera che indica ""il verso giusto del cammino"!
Bet, la lettera di Benedizione ....
LA PIETRA FONDAMENTALE E LA PIETRA ANGOLARE: "ECCE HOMO". Ogni Uno (=1), Ognuno (ogni Eva e ogni Adamo, ogni Maria e ogni Giuseppe), Ogni Essere umano (Everyman, così Dante Alighieri per Ezra Pound), è antropologicamente e linguistica-mente la lettera dell’alfabeto, la Bet, la lettera di Benedizione e Bereshìt, la Parola che sta "Nel Principio": "Nel Principio era il Logos". L’amor che move il sole e le altre stelle....
DIVINA COMMEDIA: UNO STRAORDINARIO OMAGGIO A DANTE!
Materiali di studio 5.
Il letargo di Dante (di Stefano Marcucci, "L’errore di Kafka/blog", 19 aprile 2021):
ENTRATO NEL PUNTO .. UNA BRILLANTE FUSIONE NUCLEARE CONTROLLATA!
"[...] L’ESPERIENZA-LIMITE o SEGMENTO ZERO. Nessuno può sembrare più lontano da Dante di Nietzsche. Pensare solo di accostarli è folle, d’accordo, sebbene non sia lecito tralasciare che il trasumanar dantesco e il concetto di Übermensch di Nietzsche, oltre a condividere il medesimo carattere di neologismo, presentano una convergenza di significato piuttosto imbarazzante. L’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche, sorta di rivelazione di cui è depositario l’Übermensch, è una dottrina mai presa sul serio e screditata dai principali suoi commentatori. Più che di un concetto si tratta di una meditazione sul pensiero che non può pensare se stesso (come un letargo?) o sul vertiginoso pensiero del nulla che azzera il tempo come durata.[xv] Il déjà-vu è una di quelle esperienze strane che fanno baluginare o intravedere una possibile sovrapposizione del passato col presente (e viceversa) e fanno sorgere un dubbio, nonché un piacevole stupore (come quello di Nettuno-Dante?), se ciò che stiamo vivendo sia presente o passato. [...]" (Stefano Marcucci, Il letargo di Dante, cit., senza note).
"[...] (Successivamente alla stesura della presente riflessione, all’autore di queste righe è occorso di imbattersi nella Sura 18 del Corano, denominata anche Sura del Venerdì o Sura dei Sufi. Ne ha parlato a Radio3 Riccardo Bernardini, studioso e storico delle opere di Karl Gustav Jung, all’interno della trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, nel ciclo curato da Bruno Madera e intitolato Ricordati di rinascere II puntata - I simboli della rinascita. «La Sura mostra un sonno che prende dei viandanti, i quali si risvegliano da questo sonno dopo secoli completamente trasformati e avendo acquisito una immortalità nella grazia divina.» Senza essere specialisti di Dante, e senza aver letto Henri Pirenne, è noto che la cultura araba abbia avuto una non irrilevante influenza su quella medievale europea a partire dall’anno mille. Si pensi solo ad Avicenna e ad Averroè, entrambi musulmani, che Dante “incontra” nel Limbo. Possiamo escludere che Dante avesse letto o conoscesse il Corano? Non è, quantomeno, suggestiva, questa coincidenza di un sonno che dura secoli e che conduce, attraverso la trasformazione nella grazia divina, all’immortalità?) [...]" ((Stefano Marcucci, Il letargo di Dante, cit.).
***
P. S. - Alcune note sulla “corrispondenza d’amorosi sensi” tra ->Dante e Nietzsche.
ORIGINE DELLA CULTURA E DELLA STORIA: ROMOLO E REMO, ROMA, E IL TERMITAIO...*
Prima dell’inizio. Roma e le termiti
Roma. Il libro delle fondazioni di Michel Serres.
di FELICE CIMATTI (Fata-Morgana-web, 3 0ttobre 2021).
In questione è l’idea stessa di “inizio”. Se tutto comincia con un inizio assoluto, allora prima dell’inizio non può esserci nulla. Pertanto l’inizio deve essere un evento straordinario, appunto perché inaugura qualcosa che prima non c’era. Secondo René Girard all’inizio delle vicende umane c’è quella che chiama una «crisi mimetica» in cui si scontrano due desideri che vertono su uno stesso oggetto: «Essendo, per sua natura, il desiderio sempre imitativo, il soggetto desidererà lo stesso oggetto posseduto o desiderato dal suo modello» (Girard 2003, p. 31). In un caso del genere non è possibile alcun compromesso, o prevale il desiderio dell’uno oppure quello dell’altro. Questo contrasto irriducibile, prosegue Girard, scatena un conflitto generalizzato («rivalità mimetica») che minaccia di mettere in crisi l’istituzione sociale. Per porre fine al conflitto, allora, si addossano tutte le colpe ad un “capro espiatorio”, attraverso il cui sacrificio si salva la società. All’inizio, allora, c’è l’invidia, la guerra e soprattutto il rito: per questo, conclude Girard, «la religione è la madre di tutta la cultura» (ivi, p. 67). All’inizio c’è il sacro, appunto, l’evento straordinario. All’inizio c’è il Dio, non gli umani.
È per rovesciare questa idea della cultura e della storia che Michel Serres scrive Roma. Il libro delle fondazioni (Mimesis 2021, a cura di Gaspare Polizzi, prima edizione francese del 1983). La vicenda è nota, Romolo e Remo, gemelli, il loro scontro, l’omicidio. Il seguito lo conosciamo. Serres, però, fa cominciare la storia in un modo completamente diverso, a partire dalla stessa prima parola del libro, «seminagione» (Serres 2021, p. 23). Per seminare servono, evidentemente dei semi, che sono stati generati da una seminazione precedente. Serve un terreno, serve un mezzo (l’aratro) per rovesciare il terreno perché possa accogliere il seme. Se c’è un gesto che non è iniziale in senso assoluto è proprio quello della semina, ché anzi è un gesto possibile solo se si inserisce in una storia, un gesto in continuità con i tempi che lo precedono e lo rendono possibile. Subito dopo, ed è forse la mossa più sorprendente del libro, per raccontare la storia di come può nascere una città, Roma e tutte le altre città, Serres propone una sorta di apologo bestiale (dalla teologia all’etologia). Ci racconta come nasce un termitaio, cioè appunto la città delle termiti. Gli uomini e le termiti, esseri umani e gli insetti. Le cose nascono così, in natura:
All’inizio non c’è alcun evento straordinario, non c’è l’invidia e nemmeno Dio. C’è un insetto e una pallina di fango. Le termiti fanno così, è la loro natura. Non c’è alcun progetto, all’inizio. C’è qualcosa di minimo, un movimento “browniano” (il movimento disordinato di particelle minuscole, così piccole quasi da sfuggire alla gravità, scoperto agli inizi dell’Ottocento dal botanico scozzese Robert Brown), in cui ogni termite si muove senza un piano prestabilito. All’inizio ci sono degli insetti e del fango:
La massa di fango comincia ad ingrossarsi, così, semplicemente perché più una pallina è grande più è facile che altre termiti aggiungano altro fango alla massa iniziale. Il termitaio comincia così, fango, saliva, una miriade di animaletti che si muovono in modo febbrile. Il “modello” che sta usando Serres è quello, antichissimo, degli atomisti, di Democrito, Epicuro e Lucrezio: all’inizio, che per questa ragione non è mai iniziato, ci sono gli atomi eterni (in questo caso le palline di fango, ma vale lo stesso anche per le singole termiti), che talvolta si scontrano (è il clinamen del Rerum Natura, a cui Serres dedica un libro straordinario, Lucrezio e l’origine della fisica), e scontrandosi danno vita (anche in senso biologico) ad assembramenti più grandi.
Lo scontro-formazione del nuovo può ripetersi indefinitamente. La natura non è altro che l’insieme infinitamente intrecciato di questi incontri-scontri. In effetti gli “urti” fra le particelle non sempre costruiscono, è altrettanto probabile che mandino in pezzi una “costruzione” precedente. Ma allora, obietterà qualcuno a cui piace l’ipotesi teologica di Girard, è solo il caso a governare le vicende della storia naturale (in cui evidentemente rientra anche quella umana)?
Non c’è solo il caso, allora, c’è anche l’attrazione (sono quindi Democrito e Newton i riferimenti naturalistici della fondazione), che tiene insieme i fragili aggregati sempre sul punto di sfaldarsi. Attrazione, che tuttavia va ricordato che opera in modo del tutto inintenzionale, che favorisce la formazione di aggregati sempre più grandi. Il termitaio cresce, la città di Romolo, semplicemente perché c’è, attira profughi, ribelli, fuggitivi.
Roma diventa più grande: «E dunque può accadere che una pallina gigantesca attiri, a un certo punto, un insieme di palline già grosse e che, in definitiva, questo pozzo aspiri di colpo tutti i lavoratori: allora il termitaio comincia» (ivi, p. 25). Non c’è bisogno del sacrificio di un “capro espiatorio” che ponga fine al “conflitto mimetico”; all’inizio c’è la continuazione di qualcosa che era già cominciato, che non hai mai smesso di cominciare, termiti, fango, oppure gente che si sposta, che si ferma in un luogo, che costruisce una casa, per poi riprendere a spostarsi. La fondazione, allora, è sempre una rifondazione: «Come se non bastasse una fondazione per cominciare veramente. Come se ogni origine esigesse la sua propria origine» (ivi, p. 31). Serres interpreta in questo stesso modo i riti che precedono la fondazione di una città, e in generale un qualunque inizio:
Il “senso” non è mai soltanto, o principalmente, un’invenzione umana: la storia non comincia con noialtri umani. Il caso delle termiti, da questo punto di vista, è esemplare: non c’è termitaio senza un altro, antecedente nel tempo, termitaio, da cui provengono le termiti che ne stanno ora costruendo, senza volerlo, un altro, nuovo e diverso, ma anche antico e uguale. Un termitaio da cui nascerà, forse, un altro termitaio ancora. Il tempo è questo movimento della vita, e solo una presunzione sconfinata (che oggi prende il nome di antropocene) può pensare che tutto debba ruotare intorno ai progetti umani. Roma non è nata nel 753 A.C., allora, Roma continua a nascere, e quindi a morire, ogni giorno. Allo stesso modo c’era una Roma prima di Roma, non può non esserci stata, perché nessun termitaio nasce dal nulla («Omnis cellula e cellula», secondo la celebre formula di Rudolf Virchow).
Se ora torniamo a Girard, invece, si capisce meglio quale sia la posta in gioco sottesa all’ipotesi del sacrificio del “capro espiatorio”: si tratta in realtà del “peccato originale” in quanto «cattivo uso della mimesi, e il meccanismo mimetico è la conseguenza del peccato originale a livello collettivo» (Girard, p. 174). All’inizio c’è una colpa originaria, che solo un intervento divino può emendare. Se invece all’inizio ci sono le termiti, c’è il fango e il moto browniano, allora non c’è nessun peccato da scontare, non c’è nessuna colpa. C’è invece la vita, e città è la vita, Roma è la vita. In questo inizio già iniziato, e quindi da sempre già finito, Roma diventa il prototipo di una città senza identità, perché solo di ciò che è nato dal niente si può dire che ha una identità precisa, perché è arbitraria e senza storia. Ma Roma è la storia:
Riferimenti bibliografici
ORIGINE DELLA CULTURA E DELLA STORIA: ROMOLO E REMO, ROMA, E IL TERMITAIO...
Se è vero che «Il “senso” non è mai soltanto, o principalmente, un’invenzione umana: la storia non comincia con noialtri umani» (F. Cimatti, cit. - sopra), allora vuol dire che noialtri continuiamo a girare in tondo nella caverna platonica e ancora non sappiamo dare risposte risolutive né all’enigma della Sfinge né alla visione e all’enigma dell’eterno ritorno.
Serres ha cercato "il passaggio di Nord-Ovest" (1980), ha tentato di trovare la via del "Distacco" ("Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere", 1983), per uscire dalla "preistoria", e dall’orizzonte di "Rome. Le livre des fondations" (1983), ma non vi riesce: "Roma è sempre il bosco di rifugio, e cioè un insieme indistinto.[...] è ancora lì, indecisa, tra noi, fantomatica e mobile, ma straordinariamente presente e viva. È il segreto dell’impero"(Serres, Rome, cit.).
Anni dopo, egli continua la navigazione nell’ediphicante immaginario della filosofia platonica. Dopo Kant, Nietzsche e Freud, per Serres, Socrate è ancora una soluzione e non un problema. Nel 2015, nel "Mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente", così scrive:
"Una confessione. La filosofia, si dice, conduce alla saggezza [sagesse]. Secondo un altro significato della parola, prima di morire vorrei diventare levatrice - che in francese diciamo sage-femme, cioè letteralmente, «saggia donna» -, vorrei aiutare a partorire il mondo nuovo. La mia vita intera mi ci ha preparato, attraverso l’ascolto attento degli scricchiolii emessi dal vecchio. Sento le crisi che attraversiamo, le inquietudini che suscitano, come dei lamenti emessi nel travaglio del parto. Amo la madre, accolgo il bambino. Possa migliorare incessantemente la mia attività di medico ostetrico, il mio diventare sage-femme".
Non è giunto, forse, il tempo di interrogarsi di nuovo e ancora (come voleva Enzo Paci) su "come nascono i bambini": Caino e Abele, Romolo e Remo, e ... noialtri umani? O no?! Buon Natale...
Federico La Sala
L’OMELIA PERFETTA DI NICCOLÒ CUSANO
L’INCARNAZIONE COMPLETA LA CREAZIONE
di PIERO STEFANI (Corriere della Sera, La Lettura, 19 Dec 2021)
Il rito cattolico romano prescrive, per il giorno di Natale, tre diverse messe: quella della notte, quella dell’aurora e quella del giorno. Ognuna prevede un Vangelo diverso. A mezzanotte si legge Luca (2,114): è la scena della nascita di Gesù a Betlemme, degli angeli e dell’annuncio ai pastori, un quadro che è quasi inevitabile associare al presepe. Al primo mattino i pochi presenti ascoltano i versi successivi (Luca 2,15-20) nei quali si descrive la stupita visita dei pastori a Maria, a Giuseppe e al bambino adagiato sulla mangiatoia. Quando il sole è già alto, il brano evangelico accantona la componente narrativa e si immerge nelle profondità del cosiddetto Prologo di Giovanni (1,1-18): una sequenza di versetti che culmina là dove si afferma che la Parola (termine spesso reso con Verbo, il greco ha logos) si fece carne.
Il senso del Natale è sospeso tra due estremi: da un lato vi è il richiamo alla nascita che accomuna tutti i viventi, dall’altro l’annuncio che il Figlio, la seconda persona della Trinità, si è fatto uomo. A differenza della prima, questa seconda convinzione è fatta propria solo da una parte minoritaria dell’umanità.
Come festa legata alla nascita, il Natale ha la potenzialità di accomunare tutti. Ognuno, se vi dedica qualche riflessione, comprende che la tenerezza suscitata da un neonato è un riflesso della legge, priva di eccezioni, secondo la quale tutti nasciamo non autosufficienti e bisognosi di aiuto. Il semplice fatto di essere vivi attesta che qualcuno si è preso cura di noi. Il senso di solidarietà avvertito a Natale trae alimento da queste remote radici. Dietro la banalità del detto «a Natale si è tutti più buoni» si celano profondità esistenziali.
Le visioni di fede sono di frequente paradossali. I credenti sanno di essere una minoranza ma nello stesso tempo devono essere certi che le loro convinzioni riguardano tutti, anzi concernono il tutto. Si tratta di una sproporzione avvertita anche quando la maggioranza della società era cristiana.
Nel Natale del 1440, lo stesso anno in cui scrisse De docta ignorantia, il suo libro più celebre, Niccolò Cusano tenne ad Augusta, in Germania, una lunga predica nella quale la dottrina superò l’ignoranza. Alcuni passaggi sono rivelatori della sua filosofia. Dio è infinito, il mondo è invece finito. Tra infinito e finito non c’è proporzione. Tuttavia il mondo non può esistere senza un rapporto con il suo Principio che infinitamente lo trascende.
Come fa dunque l’universo a esserci? Vi è un’unica risposta possibile: ciò avviene a motivo dell’Incarnazione, «infatti se Dio non avesse assunto la natura umana - la quale compendia in sé tutti gli altri esseri come loro centro unificante - l’universo nella sua totalità non sarebbe compiuto e perfetto, anzi non sarebbe affatto un universo». La convinzione umanistica che giudica l’uomo un «microcosmo» è chiamata in causa per dare ragione dell’esistenza di tutte le cose. Dio si incarna non a motivo del peccato umano ma perché il creato sia e sussista.
Nessuno esige dai presbiteri che predicheranno nella notte e nel giorno di Natale di misurarsi con le abissali prospettive cusaniane. La richiesta è più contenuta, sarebbe infatti sufficiente che gli immancabili appelli al bambinello e alla solidarietà fossero davvero capaci di misurarsi con la serietà dell’esistenza.
DANTE 2021: ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA, E STORIOGRAFIA...
A 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, UN INVITO A RILEGGERE la sua "Monarchia", a cercare di capire meglio le ragioni di "quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 102), e rimeditare le "Res Gestae" di Augusto, alla luce dei 2046 anni dalla fondazione di Aosta, avvenuta nel 25 a. C., in coincidenza con il solstizio d’inverno.
AUGUSTO, L’ITALIA, E LE SUE "28 COLONIE":
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAfIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924).
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
PSICOANALISI, FILOSOFIA, E LETTERATURA.
"IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (FREUD, 1929) EUROPEA:
"L’ INTERPRETAZIONI DEI SOGNI" (FREUD, 1900) E "L’ELETTO" (THOMAS MANN, 1951).
Classici. La sublime grandezza del Mann "minore"
Concluse le nuove traduzioni di tutti i romanzi per i Meridiani: i tre raccolti nell’ultimo volume sono i meno noti, ma anche i più vari e ironici
di Marino Freschi (Avvenire, venerdì 3 dicembre 2021)
Finalmente si conclude la grande impresa della traduzione di tutti i romanzi di #ThomasMann. Questo secondo volume dei Romanzi nei “Meridiani”, a cura dell’infaticabile Luca Crescenzi (pagine 1.568, euro 80,00), propone nuove traduzioni ad opera di Margherita Carbonaro e Elena Broseghini, dei romanzi per così dire minori: Charlotte a Weimar, composto tra il 1936 e il 1939, introdotto da Aldo Venturelli; L’Eletto, scritto tra il 1948 e 1950, con una prefazione di Elisabeth Galvan e infine Confessioni dell’impostore Felix Krull, con una premessa di Werner Frizen. Le Confessioni sono l’opera ironico-parodistica di una vita. Cominciamo dal Krull: Crescenzi, quale curatore del volume, ha avuto il coraggio di aggiornare il titolo, assai antiquato, che recitava Confessioni del cavaliere d’industria F.K. Pensate che nel 1905 Mann (aveva trent’anni), dopo la lettura delle memorie di un avventuriero rumeno, cominciò a scrivere su una figura simile, e così nacque il più ironico romanzo della sua vita. Un progetto che abbandonava e riprendeva. Erano tempi severi: la Grande Guerra, l’inflazione e finalmente la Repubblica di Weimar e infatti nel 1923 esce una parte cospicua del racconto, ma sarà solamente alla fine della guerra, nel 1954, che Mann conclude la prima (ed unica) parte. Di nuovo in Europa, a Zurigo, nel Grand Hotel Dolder dopo aver conosciuto un giovane cameriere, l’ultimo amore (platonico), sente di nuovo il piacere e la forza di proseguire a scrivere questo romanzo leggero, sottilmente perverso, un autentico ricamo dell’intelligenza e dell’umorismo. Morì sempre a Zurigo nell’agosto del 1955 e così ci lasciò con un’opera aperta, sublime e ironica, fascinosamente sospesa tra il romanzo di formazione, caratteristico della tradizione letteraria tedesca, e il racconto picaresco.
Nel 1951 aveva pubblicato [L’eletto] un altro racconto stranissimo, di tutt’altro segno: una sorta di riscrittura di un poema medievale, Gregorius. Divenne un racconto inquietante e nel medesimo tempo rispettoso - persino linguisticamente - di quella devota civiltà medievale. Si trattava di una variante del mito di Edipo, trasfigurata e redenta nell’#Europa cristiana. L’impasto linguistico con elementi dal latino, dai parlati romanzi, dal tedesco medievale contribuisce al fascino intrigante, sostenuto da uno stile allegro, melodico come un Lied, come una canzone di un trovatore. Per noi l’incipit ha qualcosa di commovente con le campane di Roma: «Suono di campane, frastuono di campane supra urbem, sull’intera città, nelle sue brezze ricolme di note! Campane, campane, che oscillano e ondeggiano, dondolano e ciondolano con moto alterno sospese ai travi e ai ceppi, con le loro cento voci, in una babilonica confusione». E nella città eterna si compie il #destino, altrimenti tragico, di Gregorius, l’Eletto al sacro soglio pontificio: colui che molto peccò, e molto si pentì ed espiò, era scelto a sostenere la santa istituzione della Chiesa.
Si dice che questo romanzo venisse apprezzato dalle romane gerarchie tanto da consentire al luterano Mann un incontro con il Pontefice nel 1953, come ricorda nel diario: «Mercoledì 29 aprile udienza privata da Pio XII, esperienza di grandissima intensità e commozione, che continua ad agire con forza in me in modo strano». È la magia di Roma, quella Roma dove Mann aveva scritto, ventenne, il primo capolavoro, I Buddenbrook, quella Roma che lo collegava al suo grande maestro, a Goethe, che lo aveva accompagnato, idealmente sostenuto per l’intera esistenza di scrittore e d’intellettuale. Nei momenti più amari e aspri della vita tornava sempre a Goethe, come in quel terribile 1936 in cui ruppe pubblicamente, definitivamente con il Terzo Reich dopo un lungo silenzio di tre anni, trascorsi già in esilio.
Il rifugio spirituale fu questo divertissement serissimo: Charlotte a Weimar. Mann rievoca la visita che Charlotte Buff Kestner, la Lotte del Werther, compì a Weimar nel 1816. Lo spunto era autentico, Frau Kestner era stata veramente a Weimar e durante il soggiorno fu invitata nella sontuosa casa di Sua Eccellenza von Goethe, che gli mise a disposizione la carrozza per una rappresentazione teatrale. Alla fine dello spettacolo, la carrozza attendeva la donna - che al figlio aveva scritto quanto Goethe fosse stato algido. Nel tragitto - sogno o realtà non sappiamo - Goethe appare e le parla come allora: ecco che il genio del Werther ritorna. Lei ascolta e infine non le resta che augurargli: «Pace alla tua vecchiaia!». Augurio per il grande di Weimar, ma anche per Mann, il grande esule, lontano dalla patria, ma che poteva ancora affermare con amaro orgoglio: «Dove sono io, c’è la cultura tedesca».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
#Antropologia, #Giustizia, e #Carità (#Charité, #Charitas, #Charidad, #Charity).
#Storia e #memoria: #Dante2021, #Pascal, e la #Bibbia civile d’#Europa...
#FILOSOFIA E #MESSAGGIO EVANGELICO. Nel secondo dei "Tre Discorsi sulla condizione dei grandi" di #Blaise Pascal c’è un sottile e importante richiamo all’indicazione evangelica di "dare a #Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (non "#Erode" né "#Mammona" e "#Mammasantissima") e una implicita consonanza con la proposta di #Dante (#Monarchia) relativa al #riconoscimento reciproco dei #Due Soli (#potere temporale e #potere spirituale - le ragioni del #corpo e le ragioni del #cuore). Ovviamente, è un generale invito all’#essere umano a uscire dalla #claustrofilia (#Elvio Fachinelli, 1983) e a coniugare la #duplicità strutturale della propria condizione alla #luce dell’#amore "che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145) e a ripensare la #questioneantropologica ricollegando il tema delfico del «#conosci te stesso» alla #domanda di «#come nascono i bambini». Uscire dallo #statodiminorità (#Kant - 1784, #Miche lFoucault - 1984), forse, è proprio #ora....
#FILOLOGIA #ANTROPOLOGIA CULTURALE E #SCIENZA POLITICA.
RIPRENDERE IL #DISCORSO DA #CAPO E DAL #CAPO. Nel rileggere le pagine di #Pascal sulla "condizione dei grandi", sul piano delle #Istituzioni (sia laiche sia religiose, sia temporali sia spirituali), forse, è anche bene e giusto #ricordare che la parola "#carisma" è una parola che ci viene dal #greco antico: "#chàrisma", e richiama la "#Charis" ("#Grazia"), le "#Chàrites" (le tre "#Grazie") del mondo greco, legate alle #arti e alla #bellezza, e poi la "#Charitas" (il Dio pieno di #grazia del #messaggio evangelico: "Deus #charitas est": 1 Gv.: 4.8).
Federico La Sala
PIANETA TERRA, EUROPA, E MEMORIA DELLA GUERRA DI TROIA. INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (FREUD, 1900) E DANTE 2021...
Archeologia
Straordinaria scoperta in Inghilterra: il primo mosaico con un episodio dell’Iliade
di Redazione (Finestre sull’Arte, 26/11/2021)
È una scoperta straordinaria quella che è avvenuta in un campo delle East Midlands in Inghilterra: e questa volta l’aggettivo “straordinario” si può utilizzare sul serio, perché niente di simile era mai stato trovato prima d’ora in Gran Bretagna. Gli archeologi infatti degli Archaeological Services dell’Università di Leicester hanno infatti scoperto un raro mosaico romano con un episodio dell’Iliade di Omero a seguito di uno scavo condotto nelle campagne nella contea di Rutland. Il mosaico è stato subito dichiarato “scheduled monument”, ovvero bene d’interesse culturale, da parte del Dipartimento per il Digitale, la Cultura, i Media e lo Sport (omologo del nostro ministero della cultura), dietro suggerimento di Historic England, istituto governativo che ha competenza sul patrimonio e sulla tutela dei monumenti antichi, con alcuni compiti simili a quelli delle nostre soprintendenze.
È stata proprio Historic England a dare ieri la notizia del ritrovamento, anche se la scoperta iniziale del mosaico risale al 2020, per merito di Jim Irvine, figlio del proprietario terriero Brian Naylor, che si è accorto dei resti in uno dei suoi campi e ha contattato il team archeologico del Leicestershire County Council, consulenti del patrimonio dell’autorità locale, per comunicare quanto ritrovato. Data la natura “eccezionale” (così definita dagli esperti) di questa scoperta, Historic England ha potuto ottenere finanziamenti per indagini archeologiche urgenti del sito da parte dell’Università di Leicester nell’agosto 2020. Ulteriori scavi che hanno coinvolto personale e studenti della School of Archaeology and Ancient History dell’Università di Leicester hanno esaminato il sito più a fondo nel settembre 2021.
I resti del mosaico misurano 11 metri per quasi 7 metri e rappresentano parte della storia di Achille, ovvero il suo scontro con Ettore alla fine della guerra di Troia. È una raffigurazione di cui sopravvivono pochi esempi in Europa, ed è l’unica nota nel Regno Unito. L’opera costituisce il pavimento di quella che gli archeologi pensano sia stata una grande sala da pranzo o una zona dove i proprietari della dimora si rilassavano. La stanza dove si trovava il mosaico infatti fa parte di una grande villa che fu abitata in epoca tardoimperiale, tra il III e il IV secolo d.C. La villa è inoltre circondata da una serie di altri edifici rivelati da un’indagine geofisica e da uno studio archeologico, tra cui quelli che sembrano fienili, strutture circolari e forse anche uno stabilimento termale, il tutto all’interno di una serie di fossati di confine. È probabile che il complesso fosse proprietà di un individuo facoltoso, che aveva conoscenze di letteratura classica.
[FOTO]:
Una parte del mosaico scoperto
Una parte del mosaico scoperto.
Lo studioso David Neal sul sito della scoperta
Il mosaico nella sua interezza
Archeologa al lavoro sul mosaico
Archeologo al lavoro sul mosaico
Veduta aerea del sito
Segni di fuoco e rotture nel mosaico suggeriscono che il sito sia stato successivamente riutilizzato. Sono stati scoperti nel sito anche resti umani: si pensa che queste sepolture siano state eseguite dopo che l’edificio non era più occupato. Sebbene la loro età precisa sia attualmente sconosciuta, sono posteriori al mosaico ma posti in relazione alla villa, suggerendo una datazione tardo romana o altomedievale per il riuso di questa struttura. La loro scoperta fornisce un’idea di come il sito possa essere stato utilizzato durante questo primo periodo storico post-romano, relativamente poco conosciuto. I reperti recuperati nel sito saranno ora analizzati dagli Archaeological Services dell’Università di Leicester e da specialisti tra cui David Neal, il principale esperto di mosaici antichi del paese.
Il sito è stato accuratamente esaminato ed è stato ora ricoperto, come da prassi, per proteggerlo. Il complesso della villa è stato trovato all’interno di un campo dove i resti archeologici poco profondi erano stati disturbati dall’aratura e da altre attività agricole. Historic England sta ora collaborando con il proprietario del terreno per elaborare schemi di utilizzo agricolo compatibili con la tutela dei resti archeologici. Inoltre, in collaborazione con l’Università di Leicester e altre parti interessate, Historic England sta pianificando ulteriori scavi sul sito per il 2022. Sono in corso discussioni con il Consiglio della contea di Rutland per valutare l’opportunità di un’indagine fuori sede del complesso della villa e dei suoi reperti. Il metodo e la portata di questo lavoro saranno stabiliti dai futuri scavi. Il sito si trova all’interno di un terreno privato e non accessibile al pubblico, e per il momento ancora non si parla di apertura ai visitatori. Ad ogni modo, la scoperta della villa di Rutland e le riprese della scoperta del mosaico saranno proposti al pubblico in un documentario su BBC Two all’inizio del 2022.
“Una passeggiata nei campi con la famiglia si è trasformata in un’incredibile scoperta”, ha dichiarato Jim Irvine, autore della scoperta. “Trovare delle ceramiche insolite tra il grano ha suscitato il mio interesse e ha stimolato un ulteriore lavoro di indagine. Più tardi, guardando le immagini satellitari ho notato un segno molto chiaro, come se qualcuno avesse disegnato sullo schermo del mio computer con un pezzo di gesso! Questo è stato davvero il momento ’wow’ e l’inizio della storia. Questa scoperta archeologica ha occupato la maggior parte del mio tempo libero nell’ultimo anno. Tra il mio lavoro normale e questo sono stato molto impegnato, ed è stato un viaggio affascinante. L’ultimo anno è stata una vera emozione essere stato coinvolto e collaborare con gli archeologi e gli studenti sul sito, e posso solo immaginare cosa verrà portato alla luce dopo!”.
“È straordinario aver scoperto un mosaico così raro di queste dimensioni, così come una villa attorno”, sottolinea Duncan Wilson, ad di Historic England. “Scoperte come questa sono davvero importanti per aiutarci a ricostruire la nostra storia. Tutelando questo sito siamo in grado di continuare a imparare, e non vediamo l’ora di sapere cosa potrebbero insegnarci le indagini future sulle persone che vissero lì oltre 1.500 anni fa”.
NOTA:
TROIA, ATENE, GERUSALEMME, ROMA, L’EUROPA.... Archeologia, storia, antropologia e immaginario: uno storico presente!
Sulla base di questa significativa emergenza omerica dal terreno del passato, avvenuta nel Regno Unito, forse, vale la pena riprendere l’indicazione dei vecchi come dei giovani e lavorare, ognuno e ognuna, "per la pace perpetua" (Kant, 1795) e, finalmente, uscire da un orizzonte di millenaria cecità (Saramago) antropologica e di una guerra civile sempre più planetaria.
Federico La Sala
L’AMORE UNIVERSALE E UN’APPROPRIAZIONE INDEBITA: LA MEMORIA DI MOSÈ E IL CAMMINO DI SIGMUND FREUD
PSICOANALISI CATTOLICESIMO E "DISAGIO NELLA CIVILTÀ" ("Das Unbehagen in der Kultur"). Un’appropriazione indebita dell’amore universale e "L’infelicità nella civiltà" ("Das Ungluck in der Kultur"):
"[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]".
“[...] mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti. Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e auto distruttrice degli uomini. In questo aspetto proprio il tempo presentemerita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta contro il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?”(#SigmundFreud, "Il disagio della civiltà", 1929).
Per "orientarsi nel pensiero" (Kant), rileggere le note di Franca Ongaro Basaglia su "Così parlò Edipo a Cuernavaca" ("PM-Panorama Mese", novembre 1982) e ricordare il legame della "Interpretazione dei Sogni" (1900) con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante Alighieri.
Federico La Sala
RINASCIMENTO: STORIA, MEMORIA, E FILOLOGIA.
LA SPREZZATURA, LA GRAZIA, E UN LEGAME DA RISTABILIRE. Nota a margine dell’opera di Baldassarre Castiglione...
Baldassarre Castiglione (1478-1529):
«Trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcun altra: e cioè fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi...
Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte; né più in altro si ha da poner studio che nella nasconderla: perché, se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato» (Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, XVI)
UNA QUESTIONE DI GRAZIA, UNA QUESTIONE DI AMORE...
SI DEVE IMPARARE ANCHE L’AMORE: "CARISSIMI, NON CREDETE A OGNI SPIRITO ... DIO È AMORE":"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). UNA LEZIONE DI NIETZSCHE E DI FREUD:
Si deve imparare anche l’amore. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più; e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore.
F. Nietzsche, La gaia scienza, IV, fr. 334, Adelphi, Milano 1991).
Disagio della civiltà: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
CANOVA E IL VATICANO: LE GRAZIE, AMORE E PSICHE Una gerarchia senza Grazie (greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
FLS
Geometrie esistenziali.
Pavel Florenskij: la sottile linea russa
Torna in libreria uno dei testi più visionari e oscuri di Pavel Florenskij
Matematico, filosofo e religioso ha vissuto all’inizio del Novecento
di Chiara Valerio (la Repubblica, 27.10.2021)
Tutto quello di cui Euclide parla non esiste. Ciò nonostante, la geometria così come Euclide l’ha immaginata, è l’unica che si accorda alla nostra esperienza quotidiana e aggiungo - si capirà spero perché - un altro aggettivo: terrena. La geometria euclidea garantisce, per dirne una, che i corpi solidi non cambino forma durante il movimento - al netto delle palle lanciate nei cartoni animati giapponesi da Jenny la tennista, Holly e Benji e Mimì e le ragazze della pallavolo.
Se la geometria che descrive il nostro mondo nasce da ipotesi di misteriosa
esistenza («il punto è ciò
che non ha parti»), c’è da
chiedersi quale ulteriore
rarefazione di realtà stia in
un numero detto immaginario. Il nome lo inventa
Cartesio, ma è Leibniz che
in maniera formidabile (siamo a cavallo tra Seicento e
Settecento) ne svela essenza e specie:
«La natura, madre delle verità eterne, anzi lo spirito divino, è in realtà troppo gelosa della propria straordinaria varietà
per consentire che le cose
si addensino tutte in un
unico genere, ha perciò trovato un sottile e mirabile
espediente in quel prodigio dell’analisi, quel mostro del mondo delle idee,
quella specie di anfibio tra
essere e non essere, chiamata radice immaginaria».
Pensiero che potrebbe essere posto, tra l’altro, a monito e conclusione di tutte le discussioni riguardo l’identità di genere.
Ma torno sui numeri immaginari e sulla loro natura perché la casa editrice
Mimesis porta in libreria
uno dei testi più visionari e
oscuri di Pavel Florenskij,
matematico, filosofo e prete russo vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Il libro si intitola Gli immaginari in geometria (a cura di Andrea Oppo e
Massimiliano Spano, traduzione di
Anna Maiorova, A. Oppo e M. Spano, pagg.112, 12 euro) ed è stato pubblicato nel 1922 nonostante Florenskij abbia cominciato a scriverlo
venti anni prima mentre era studente alla facoltà di matematica. E
un libro che lo accompagna per
più di un terzo della vita.
I numeri immaginari o numeri complessi vengono introdotti (anche a scuola) come coppie di un piano cartesiano sulle cui ascisse il passo è scandito dall’unità reale, e sulle cui ordinate il passo è segnato da una unità immaginaria, il simbolo di quest’ultima è i.
Da qui prende l’abbrivo Florenskij per fornire una sua rappresentazione geometrica dei numeri immaginari. Immagina una superficie piana che su una faccia abbia i numeri reali e sull’altra i numeri complessi. Non numeri reali e immaginari sullo stesso piano, ma numeri reali e immaginari sopra e sotto lo stesso piano, opposti.
La geometria che ne deriva è ctonia, in senso proprio, perché le aree delle figure geometriche nella parte immaginaria hanno valore negativo. Esattamente il motivo per cui per quasi duemila anni l’equazione x2+1= O equivalente a x2= -1 non ha avuto soluzione, inconcepibile che un’area avesse misura negativa.
Ipotizza dunque Florenskji che esistano geometrie terrene governate da Euclide e geometrie immaginarie nelle quali è l’impensato a dominare.
Questo impensato matematico, aggiunge in un capitolo
successivo alla prima stesura, è stato però visto da Dante Alighieri. E
la geometria è ctonia perché Florenskij si mette nell’inferno di Dante e da lì, deducendo dai versi la
geometria tolemaico-dantesca della Commedia, ne evidenzia la natura ellittica concorde a quella della
relatività einsteniana:
«Il suo (di
Dante) viaggio è stato reale; ma se
anche qualcuno lo negasse, andrebbe comunque riconosciuto come una realtà poetica, cioè come
qualcosa che può essere immaginato e concepito e, come tale, contiene i dati necessari per comprenderne i presupposti geometrici».
A Floreskji interessa mostrare che lo spazio e il tempo sono finiti e chiusi in sé stessi e che il limite della velocità della luce - limite posto nel modello di Einstein - dice solo che oltre quella velocità cambia il modo di vita e cambia la geometria, e questa nuova geometria giace sulla faccia del piano opposta ai numeri reali, tra i numeri immaginari.
Qualche anno dopo, sia- mo nel 1927, è Mandelstam - che con ogni probabilità aveva letto Florenskij - a ragionare su quanto Dante e il suo poema non stiano dietro ma davanti alla scienza moderna. Mandelstam voca a sé e alla Commedia le scienze della terra, geologia e cristallografia.
La nuova edizione di Conversazione su Dante - fino al mese di maggio 2021 oscuro, oscurissimo testo in italiano e ora luminoso luminosissimo grazie alla cura di Serena Vitale - è stata pubblicata da Adelphi (pagg.116,13 euro).
«La sua poesia - scrive Mandelstam - conosce tutte le forme di energia note alla scienza dei nostri tempi. L’unità di luce, suono e materia ne costituisce l’intima natura».
E continua, qualche pagina dopo: «I versi di Dante rivelano, ap- punto, una formazione e una colorazione geologiche. La loro struttura materiale è di gran lunga più importante del loro decantato carattere scultoreo. (...) In altre parole, immaginate un monumento di granito eretto in onore del granito come per rivelarne l’essenza: avrete così un’idea abbastanza chiara del rapporto che Dante stabilisce tra forma e contenuto».
È di certo vero che Galileo Galiei, oltre a un grande scienziato, sia stato un grande scrittore, e, leggendo Florenskij e Mandelstam vie- ne da pensare che accade pure che i grandi poeti siano capaci di immaginazioni non metamorfiche, di immaginazioni scientifiche che non prendano l’abbrivo dal reale - tutto quello di cui Euclide parla, non esiste - ma lo chiariscano, viene da pensare, insomma, che i grandi poeti siano grandi scienziati.
La teologia geometrica (ma non euclidea) di Pavel Florenskij
Tradotto e pubblicato per la prima volta integralmente uno dei libri che hanno caratterizzato la parabola intellettuale del matematico e prete ortodosso russo
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 28 ottobre 2021)
«Mi permetto di disturbare la censura con quanto segue». Suonano così le parole, scritte il 13 settembre 1922, in apertura alla lettera indirizzata alla sezione politica per distoglierla dal proposito di censurare alcune parti di un testo di geometria. Sono trascorsi cinque anni dalla rivoluzione bolscevica e uno dalla proclamazione della nascita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche quando Pavel Florenskij si vede cassate talune riflessioni sulle geometrie non euclidee contenute nel testo Gli immaginari in geometria. Estensione del dominio delle immagini bidimensionali nella geometria (Esperimento per una nuova interpretazione dei numeri immaginari) (pagine 114, euro 12), tradotto per la prima volta integralmente ora dall’editore Mimesis con la curatela di Andrea Oppo e Massimiliano Spano.
Ma cosa di tanto eversivo e pericoloso per il neonato regime sovietico poteva adombrarsi tra le righe di un testo tecnico dedicato alla rappresentazione geometrica dei numeri complessi? Florenskij, che da molti è considerato il Leonardo da Vinci russo, è un autore dai poliedrici interessi. Matematico, filosofo, teologo consacratosi nel 1909 alla Chiesa ortodossa, ingegnere elettrotecnico, esperto di linguistica, estetica e simbolismo, matura, dall’intreccio delle sue competenze, una visione organica e unitaria del mondo. Una coerenza dottrinaria che non si incrina all’incontro con la vita. Le scelte di padre Pavel lo portano infatti all’arresto nel 1933 e alla fucilazione nel 1937 nei pressi di Leningrado dopo cinque anni trascorsi nel gulag delle isole Solovki. Matematica e teologia in Florenskij non sono due continenti separati ma si corrispondono senza requie.
Lo dimostra proprio l’anno 1922. Sono dodici mesi impegnativi in cui Florenskij consegna alle stampe sia Gli immaginari in geometria sia Iconostasi (anche conosciuto con il titolo Le porte regali) quasi a conferma che le due dimensioni si intrecciano indissolubilmente una con l’altra. Per il teologo russo la matematica non è un vezzo ma una «abitudine di pensiero » che «aiuta a vedere rapporti geometrici in tutta la realtà» e «lega in un unico modo la visione del mondo», scriverà dalla prigionia alla figlia Olga. E Gli immaginari in geometria, in particolare l’ultimo paragrafo aggiunto con vent’anni di ritardo, conferma questa concezione, dove le teorie più spinte della ricerca scientifica si fondono con la teologia mostrando la convivenza di reale e immaginario. Il raggiungimento di questi risultati non è però immediato.
Ci vogliono ben quattro lustri perché il testo giunga a un suo compimento. La gran parte di esso è redatta nel 1902 quando Florenskij è ancora un giovane studente di matematica e fisica all’università di Mosca. Poi, nella primavera del 1921, il pensatore russo decide di integrarlo con un capitolo generalizzando le considerazioni della prima parte. Ma ancora il testo non sembra maturo e così, l’anno seguente, padre Pavel aggiunge un ultimo capitolo in cui lega le sue considerazioni matematiche con la disamina di alcune concezioni cosmologiche e geometriche che fanno capolino tra le terzine della Divina Commedia di Dante. L’importanza del Fiorentino non deve stupire. Egli non solo gioca un ruolo non marginale nella cultura russa dei primi decenni del Novecento ma recita una parte non trascurabile pure nel pensiero di Florenskij come sottolinea anche un recente breve saggio di Natalino Valentini, Il Dante di Florenskij (Lindau), che insieme all’introduzione di Oppo e alla postfazione di Spano costituisce un importante trittico per muoversi tra le pagine non sempre agevoli di Gli immaginari in geometria.
Come Florenskij prova a illustrare anche nell’immagine di copertina composta dall’amico artista Vladimir Favorskij, il modello dello spazio e tempo previsto dalle teorie della relatività generale e ristretta di Albert Einstein, il piano della geometria ellittica di Rieman, la superficie di Felix Klein e la geometria complessa di August Möbius confermano la concezione cosmologica espressa da Dante e dalla fisica tolemaica come rappresentato dalla superficie ricurva (tipo il nastro di Möbius per capirsi) che sembra adombrarsi al passaggio di Dante e Virgilio dall’Inferno al Purgatorio.
Per Florenskij le avanguardie della ricerca matematica e fisica anziché iscriversi in continuità con la scienza moderna, che molto deve al prospettivismo rinascimentale contestato dal russo proprio nei saggi sull’icona, ne rappresentano una discontinuità e confermano la prospettiva aristotelico-tolemaica dantesca al punto che per Florenskij «attraversando il tempo, la Divina Commedia si trova inaspettatamente davanti, e non dietro la scienza moderna».
Lungo questo cammino, dove matematica e teologia sono come germani celesti che contribuiscono ad abbattere la concezione materialista del marxismo sovietico, «il collasso della figura geometrica non significa la sua eliminazione ma solo il suo passaggio all’altro lato della superficie, e di conseguenza la sua accessibilità agli esseri che lì si trovano, allo stesso modo deve essere inteso il carattere immaginario dei parametri di un corpo, non come un segno della sua irrealtà ma semplicemente come l’evidenza del suo passaggio a un’altra realtà».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Sulla lettera dei filosofi contro Agamben
di Luca Illetterati (Le parole e le cose, 19 ottobre 2021)
Il difetto principale dei filosofi, diceva Hegel - che un po’ se ne intendeva - è la pretesa che essi hanno di insegnare al mondo come il mondo dovrebbe essere. Come se il mondo fosse ogni giorno lì ad aspettare che arrivasse il pensatore di turno a dirgli che vestito indossare al sorgere del sole. Questa malefica tentazione sembra diventata tanto più evidente all’interno del periodo di crisi pandemica che stiamo vivendo. E non si sta qui parlando solo delle posizioni oramai notissime di Giorgio Agamben contro le quali chi scrive ha anche aspramente e pubblicamente polemizzato ritenendole posizioni che rischiano di sfociare in forme di complottismo populistico, o che comunque dimostrano quanto gli occhiali ideologici dei dispositivi che si sono elaborati per leggere il mondo rischino di deformare radicalmente ciò che il mondo mostra di sé.
A leggere infatti la lettera ‘contro Agamben’ firmata da un numero considerevole di filosofi italiani e pubblicata il giorno 16 ottobre sul “Fatto quotidiano” viene davvero da pensare che questi oppositori filosofici delle posizioni agambeniane siano forniti di occhiali perlomeno altrettanto deformanti e, verrebbe da dire, anche un po’ più dozzinali di quelli di cui vorrebbero mostrare la debolezza e gli effetti distorcenti. La lettera muove da un tono scandalizzato per il fatto che Giorgio Agamben è stato audito in una commissione al Senato sulla questione Green Pass.
Scandalo, evidentemente, del tutto immotivato. Agamben non è stato invitato in quanto rappresentante di una comunità filosofica che andrebbe perciò difesa dal rischio di essere confusa con le posizioni assai controverse di un singolo filosofo, ma in quanto persona autorevole - piaccia o meno, rientri o meno nelle pagelline che pretendono di dare patenti di filosoficità, è il filosofo italiano più noto al mondo - che ha una posizione molto discutibile (e forse anche per questo interessante) sulla questione del Green Pass. Una posizione che taluni pensano sia un bene che chi legifera abbia presente. Non necessariamente per accoglierla, ma ad esempio anche solo per capire se offra argomenti che possono essere tenuti presente per fare poi, con maggiore consapevolezza, magari il contrario di quello che Agamben vorrebbe. Dopo di che la lettera entra nel merito di ciò che Agamben ha sostenuto in quella audizione (e in generale in questi mesi).
In primis, dicono i filosofi che sembrano certi di abitare dalla parte giusta del mondo e della storia, è falso sostenere, come ha fatto Agamben nell’audizione, che i vaccini anti-covid19 siano in una fase sperimentale. Giusto. I vaccini sono stati infatti testati. Ribadendolo, però, forse non sarebbe fuori luogo dire che è altrettanto vero che la somministrazione dei vaccini è iniziata - a mio parere giustamente e per un atto di responsabilità politica che andrebbe esplicitamente rivendicato e non nascosto - prima che tutti gli step cui solitamente viene sottoposto un farmaco fossero conclusi.
Come noto, infatti, solo nell’agosto del 2021 (quando cioè il vaccino era già in uso) la Food and Drug Administration americana ha fatto uscire il vaccino Pfizer-Biontech da quella che non a caso viene chiamata - con un termine che fa evidentemente gioco ad Agamben - emergency use authorization, ovvero approvazione emergenziale. E infatti solo da quel momento un governo che si volesse assumere quella responsabilità potrebbe introdurre l’obbligo vaccinale. Per l’Agenzia Europea del Farmaco, invece, i vaccini sono ancora sottomessi a CMA (Conditional Marketing Authorisation), ovvero ad autorizzazione al commercio condizionata, la quale è lo strumento utilizzato per accelerare l’approvazione dei medicinali durante un’emergenza sanitaria pubblica o per affrontare esigenze mediche non soddisfatte. Non dire queste cose e far credere che la somministrazione del vaccino abbia seguito una prassi standard vuol dire o non voler riconoscere l’eccezionalità decisionale che la situazione ha richiesto o voler far credere qualcosa che non corrisponde al vero.
Il secondo punto su cui si sofferma la lettera dei filosofi che non vogliono essere confusi con Agamben è che sarebbe improprio sostenere che ci troviamo in un’epoca in cui l’eccezionalità è diventata la regola al fine di esercitare da parte dello Stato un controllo sulla cittadinanza, sul modello di quanto fatto da forme di dispotismo come quello sovietico. Le analogie sono sempre pericolose, tanto più quando mettono di mezzo la storia e il dolore che la attraversa. E Agamben su questo è spesso fastidiosamente e gravemente fuori luogo. Tuttavia, non riconoscere che c’è una parte importante della riflessione filosofico-politica contemporanea che insiste sulla giustificazione sempre più emergenziale delle forme del potere politico, vuol dire aver deciso a priori che c’è in tutto il mondo una discussione che non dovrebbe trovare in realtà ospitalità nel mondo. Il che o rientra nella patologia denunziata da Hegel, o è una posizione frutto di ignoranza, o, più probabilmente, è, ancora una volta, una posizione banalmente ideologica.
Il terzo e il quarto punto della lettera sono forse i più delicati. Contro quanto sostenuto da Agamben, i filosofi che si vogliono corretti e informati sostengono che l’adozione del Green Pass non induce nessuna discriminazione tra classi di cittadini e non è, di conseguenza, in alcun modo una forma di repressione delle libertà individuali. Sostenere il contrario - dicono - sarebbe come sostenere che l’istituzione della patente di guida, fatta per limitare il più possibile il numero e l’entità degli incidenti stradali, determini una distinzione tra cittadini di serie A e cittadini di serie B, ovvero che l’obbligo della patente sia anch’esso una forma di lesione delle libertà dell’individuo. L’argomento della patente, come è noto, è uno degli argomenti preferiti sui social media, in particolare su Facebook, e francamente da una così prestigiosa comunità scientifica ci si poteva forse attendere qualcosa di più. In realtà è ovvio che il Green Pass produce una forma - niente affatto banale - di discriminazione. A cittadini che non stanno trasgredendo nessuna legge (perché non vaccinarsi è legale e legittimo) è di fatto impedita una forma di vita sociale minima degna di questo nome: essi, infatti, se non muniti di Green Pass non possono entrare in un’aula universitaria, in una biblioteca, in un teatro, nel luogo di lavoro, su un treno ad alta velocità, a una riunione di partito, a un’assemblea condominiale, in un locale pubblico. E tutto questo non sarebbe discriminatorio? Certo che lo è! All’argomento di Agamben che denunzia le implicazioni discriminatorie del Green Pass non si dovrebbe rispondere negando l’evidenza, ovvero, detto altrimenti, contrapponendo ideologia a ideologia. Una risposta forse un po’ più seria dovrebbe dire: sì, il Green Pass è una norma discriminatoria della quale dobbiamo farci carico, è una forma di ‘ingiustizia’ della quale una società degna di questo nome in certi momenti è chiamata a farsi problematicamente carico, sapendo e dicendo che sta facendo una cosa del tutto fuori dalla norma. Una società responsabile è una società che riconosce esplicitamente le situazioni di deviazione che la sua sopravvivenza richiede. Si chiama - verrebbe da dire - politica, ossia capacità di assumere decisioni non garantite circa il loro esito, di intraprendere azioni che escono dagli automatismi di ciò che è già deciso. Dire ad Agamben, come dicono i tanti filosofi che hanno firmato la lettera, che non è vero che c’è discriminazione, significa, di fatto, dare ragione ad Agamben, fornire cioè argomenti ancora più forti alla sua narrazione.
Il filosofo - è sempre Hegel che lo dice - è colui che è chiamato a problematizzare l’ovvio, a mostrare le implicazioni che abitano in esso, a evidenziare le conseguenze che la sua mera assunzione produce. Forse è questo quello che ci si attende dalla filosofia nel momento in cui entra nel dibattito pubblico. Non che ci dica, cioè, quali sono gli occhiali buoni per vedere “davvero” il mondo; ma che ci aiuti invece a capire cosa un certo tipo di occhiali o un altro ci impediscono di fatto di vedere.
DANTE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
SE è VERO CHE "Il difetto principale dei filosofi, diceva Hegel - che un po’ se ne intendeva - è la pretesa che essi hanno di insegnare al mondo come il mondo dovrebbe essere" E AL CONTEMPO che " [....] Il filosofo - è sempre Hegel che lo dice - è colui che è chiamato a problematizzare l’ovvio, a mostrare le implicazioni che abitano in esso, a evidenziare le conseguenze che la sua mera assunzione produce" (Luca Illetterati, "Sulla lettera dei filosofi contro Agamben", cit.. - sopra),
forse, è bene in via preliminare chiedersi
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA
rimeditare sul "concetto di gusto" e ripensare al "mitolegma di Eros" e all’ intelletto d’amore (cfr. Giorgio Agamben, "Gusto", Enciclopedia Einaudi, 6, Torino 1979, p. 1036),
e
decidersi se si vuole proseguire sonnambulicamente sulla strada di Hegel o svegliarsi e riprendere il cammino di Dante (cfr. Note per una riflessione storiografica).
La crisi è epocale ed è antropologica.
Kant alla fine del suo percorso l’ha ben chriarito. Urgente e necessario rispondere alla "domanda" e mettere in moto un processo di ristrutturazione planetaria.
Federico La Sala
PSICOANALISI, FILOLOGIA, E STORIA. FREUD IN CAMMINO CON MOSE’...
PER RI-COMPRENDERE TUTTA L’IMPORTANZA DEL LAVORO DI LORENZO VALLA, necessario ri-andare a Roma, a ri-visitare la Basilica di San Pietro in Vincoli e ricordare che "al restauro di Giulio II risale l’architettura attuale della chiesa".
CON FREUD, apriregliocchi... Nella Chiesa, non c’è solo la tomba di Giulio II e il Mosè di Michelangelo, ma anche la tomba del cardinale Niccolò Cusano: "Papa Niccolò V nel 1448 lo nominò cardinale della Basilica di San Pietro in Vincoli, titolo cardinalizio che conserverà fino al 1464, anno della sua morte".
CON LA SUA OPERA, LA DOTTA IGNORANZA (1440), CUSANO riprende L’ ANTROPOLOGIA OLIMPICA DI SOCRATE E, NONOSTANTE LA CRITICA DELLA "DONAZIONE DI COSTANTINO" DI LORENZO VALLA (1440) e la CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453), elabora un progetto per "la pace della fede" (1453) sui presupposti della filosofia platonico-aristotelica (dellatragedia - altro che messaggio evangelico e "divina commedia"): di là a poco, dopo la conquista di Granada (1492, con i suoi editti contro musulmani ed ebrei), Giulio II metterà le vesti del Faraone e solleciterà Michelangelo a realizzare la sua tomba!
FREUD IN CAMMINO CON MOSÈ: " [...] Nel 1914 esce sulla rivista Imago il saggio Il Mosè di Michelangelo, dove Freud espone finalmente le sue considerazioni, ricche di sorprendenti intuizioni, su una delle meraviglie artistiche più famose e ammirate del mondo. Non è un saggio psicoanalitico del Dottor Freud sulla figura del patriarca ebraico (a questo penserà anni dopo nel 1934-1938 scrivendo "L’uomo Mosè e la #religione monoteistica", dove attraverso la psicoanalisi viene ricostruita la storia di Mosè e del #monoteismo ebraico), ma è una relazione-rivelazione, confidenziale, intima, delle impressioni del Signor Freud davanti a “quel Mosè”, quella raffigurazione precisa, così come #Michelangelo l’aveva fissata nel marmo quasi quattrocento anni prima.
[...] La tesi di Freud è originale. Il punto di partenza dell’osservazione è il nodo della #barba nella mano sinistra di Mosè, un dettaglio, un aspetto apparentemente secondario, che, come la pratica psicoanalitica gli ha dimostrato, si rivela capace di aprire una finestra su una nuova #visione della realtà e sulla sua comprensione.
Contrapponendosi all’interpretazione più accreditata secondo la quale la #guida spirituale degli #ebrei sarebbe stata rappresentata da Michelangelo nel momento in cui prorompeva il gesto d’ira per l’#idolatria del #popolo, causando la rottura delle tavole della #Legge, Freud, vede #Mosè nell’atto della rinuncia a dar corso alla sua rabbia: la ragione ha il sopravvento sul suo furore, il patriarca, già pronto a scattare, si controlla, resta seduto, desistendo dall’atto violento.[...]
Se consideriamo che Freud scrisse il saggio nello stesso periodo del dissidio con #Jung, possiamo immaginare come si sia sentito vicino a quel Mosè deluso, scandalizzato dall’infedeltà dei suoi: il popolo della psicoanalisi, ingrato come il popolo ebraico, stava deviando dalla retta via, rinunciando alla giusta dottrina per volgersi ad altri culti.
Eppure, il ritratto conclusivo che traccia Freud di “quel” Mosè è quello di un saggio, consapevole della missione divina di cui è latore, capace di formidabile autocontrollo: la ragione che domina sulle passioni che prorompono.
Nella statua di Michelangelo Freud, in fondo, vede se stesso [...]" (cfr. Marina Malizia, "Il Mosè di Michelangelo (1914)", Archivio del CSPL, ripresa parziale).
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA: CON DANTE E FREUD, OLTRE LA "LOGICA" DELLA RAGIONE "OLIMPICA"...
PSICOANALISI E CIVILTÀ Il programma di Freud, al di là dei molteplici e "interessati" riduzionismi (in nome del padre o in nome della madre), era quello di pensare l’ "edipo completo" e, con ciò, portarsi oltre la tragedia tebana (l’alleanza storica "real-mente" incestuosa con la Madre/Regina), con tutte le sue implicazioni teologico-politiche (egiziane, greche, romane, e cattolico-costantiniane, ed ebraiche). In dialogo costante con Mosè, Sigmund Freud non solo si è portato "Sulla spiaggia" (Elvio Fachinelli, 1985), ma si è portato al di là del mare (Sandor Ferenczi, "Thalassa", 1924) - a Londra! Se no, perché ha amato tanto l’Italia?!
CRITICA DELLA RAGIONE OLIMPICA E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA: con Freud ("Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo", 1899) e Fachinelli ("La mente estatica", 1989), "benedire i serpenti" (Coleridge - Bateson) e uscire dal labirinto cretese costruito dall’ateniese Dedalo e dall’orizzonte della vecchia e della nuova Troia!
ARTE E MEMORIA. RICORDANDO CHE LE FIGURE DEL PAVIMENTO DEL DUOMO DI #SIENA sono state realizzate intorno al 1482/1483 e che l’immagine all’inizio della navata centrale di Mercurio, ErmeteTrismegisto è del 1488 e le immagini delle Sibille sono del 1482/1483, è BENE ricordare che "siamo" in una fase delicatissima della storia d’Europa e d’Italia: la caduta di Costantinopoli è avvenuta nel 1453 e la conquista di Granada da parte di Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona avverrà nel 1492, e si sta elaborando un "discorso" che troverà nel 1512, nella Volta della Cappella Sistina di Michelangelo (e Giulio II), il culmine. E, ancora, è BENE ricordare, ancora 500 anni dopo, quanto la visione di una teologia e antropologia "andrologica" renda la chiesa cattolico-romana edipicamente cieca e zoppa.
P.S. UN RICORDO DI SIENA. SU QUANTO questo momento storico sia carico di problemi, rileggere il sogno legato all’«AUF GESERES» nella "DIE #TRAUMDEUTUNG" (1899)!
IMMAGINARIO TEBANO (Ercole è nato a Tebe, nella città di Edipo) E STORIA: DOPO GRANADA (1492), A FIRENZE (1556/1557). Cosimo I dei Medici ha già sposato (1539) Eleonora di #Toledo e si autocelebra:
DANTE 2021, LORENZO VALLA (1440), E UNA DIREZIONE SBAGLIATA (A. GUTERRES - ONU, 2021). L’anno dantesco sta terminando ... ma lo spirito storiografico europeo è ancora quello del "Re Sole" (Luigi XIV), quello di Napoleone-Hegel e della loro "Fenomenologia dello Spirito". E della fenomenologia di Dante Alighieri, della "Monarchia" dei suoi "DueSoli", non se ne trova traccia da nessuna parte! Incapaci di vedere che cosa ci fa "tanto feroci" (Par. XXII, 151), dell’amore conoscitivo, "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145), si continua a pensare che sia solo una licenza poeticamente (e politicamente) audace, pericolosa. Per Dante, 700anni fa, erano venticinque i secoli di letargo, per Goethe trenta, per l’Europa e il Pianeta Terra, oggi, trentadue...
Federico La Sala
LA "DIVINA COMMEDIA", IL "POEMA CELESTE", E I SEGNI DI UNA CRISI ANTROPOLOGICA PLANETARIA...
DANTE 1321 - 2021. L’anno dantesco sta terminando (M. Cazzato, "Dante, Maometto e Charlie Hebdo: segni di una crisi persistente", Le parole e le cose, 6 ottobre 2021)... ma lo spirito storiografico europeo è ancora quello del "Re Sole" (Luigi XIV) e quello di Napoleone-Hegel e della loro "Fenomenologia dello Spirito". E della fenomenologia di Dante Alighieri, della "Monarchia" dei suoi "Due Soli", non se ne trova traccia da nessuna parte.
Comprensibili i giochi di prestigio delle varie traduzioni e delle alterne interpretazioni, ma su questa strada si è ancora del tutto a terra, incapaci di vedere che cosa ci fa "tanto feroci" (Par. XXII, 151). E dell’amor, "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145), si continua a pensare che sia solo una licenza poeticamente (e politicamente) audace, pericolosa. O no?
Appunti sul tema:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
L’ENIGMA DELLA SFINGE E LE TRACCE DI UNA PESTE DI LUNGA DURATA.
Interrogarsi ancora con Franca Ongaro Basaglia su cosa e successo a "Edipo a Cuernavaca" ("PM", novembre 1982) forse è meglio! Se ci si lascia accecare dal presente e non si riesce ad aprire gli occhi almeno a partire dagli Etruschi (come ha fatto Freud) come si può uscire dalla città di Tebe?? SarantisThanopulos invita a riflettere sulle "radici sociali del disastro sanitario"(il manifesto,18 settembre 2021) e ricorda "la figura di Rudolf Virchow ventiseienne patologo inviato a investigare un’epidemia di tifo nell’Alta Silesia nel 1848. Dopo un’osservazione di tre settimane stilò un rapporto in cui assegnava la colpa alla povertà e all’esclusione sociale. Se fossero cambiate queste condizioni l’epidemia non si sarebbe ripetuta. Riassunse la sua visione in questa frase: «la malattia di massa significa che la società è scombussolata»”. Bene! Semmelweis nel 1847 scoprì che, nelle cliniche ostetriche, l’alta incidenza di febbre puerperale poteva essere drasticamente ridotta mediante la disinfezione delle mani. Bene! Nel 1924, Louis-Ferdinand Céline scrisse la tesi sul "dottor Semmelweis". Bene! Ma, dall’epoca di Ponzio Pilato, lavarsele le mani è lo sport dominante, ancora, oggi!
Considerato che - come scriveva Kafka (1920) - "non c’è cosa che non sia concatenata e dipendente. Il capitalismo è una situazione del mondo e dell’anima", non è meglio osare uscire dall’inferno (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 90) e dalla casa di Edipo, dell’ alleanza Madre/Figlio e Figlio/Madre (una comoteandria platonica-mente organizzata), e stringersele le mani, in segno di riconoscimento, riconciliazione antropologica, e verità!? Non è bene porre fine al gioco dell’antinomia del mentitore, del mentitore istituzionalizzato e parlare chiaro (parresia)?! O vero e falso sono la stessa cosa?! E Freud non ha capito niente (e a Londra non è mai arrivato)?! O che?!
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CONTRO IL "PADRE NOSTRO", MA CON IL "PADRE NOSTRO": SENZA LA MESSA A FUOCO DELL’ EDIPO COMPLETO (FREUD) NON SI ESCE DALLA TRAPPOLA DEL MENTITORE STORICAMENTE ISTITUZIONALIZZATA ... *
L’antropologa scomoda
Ritratti. È morta a 91 anni Ida Magli. Scrisse testi fondamentali sul matriarcato, la sessualità, l’iconografia della Madonna e la storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, aveva radicalizzato il suo pensiero, abbracciando posizioni reazionarie
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 23.02.2016)
Figura controversa e complessa del panorama italiano, l’antropologa e scrittrice Ida Magli è scomparsa a Roma all’età di 91 anni. Per chi ne abbia letto i numerosi testi, in particolare quelli pubblicati tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta, dedicati ad argomenti liminari al femminismo - è difficile individuare la ragione che, negli ultimi venti anni, l’ha spinta verso un passo reazionario. Sarebbe tuttavia riduttivo collocarla alla svelta nella deriva antieuropeista che in tempi recenti ha abbracciato anche se, in tutta onestà, potrebbe essere questo uno dei motivi che l’ha resa poco attraente soprattutto alle generazioni di giovani studiose che, con i testi, si confrontano. Ma per capirne il quadro completo e l’eredità che ha lasciato a chi si misura con i senso parlante dei testi, bisogna fare un necessario passo indietro, ne sono convinte in molte che di Magli hanno ascoltato quelle mirabili lezioni di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma fino al suo pensionamento nel 1988.
Tra quelle allieve spicca Loredana Lipperini che, quando la notizia della scomparsa della professoressa Magli è stata diffusa, ha affidato ai social network parole tanto affettuose quanto colme di gratitudine per averle insegnato una curvatura dello sguardo ineguagliabile. Ed è forse su questo che ci si potrebbe soffermare, non per espungere i testi dal portato biografico ma per evitare di renderla una intellettuale rubricata semplicisticamente e rapita dalle destre; perché cioè le vada riconosciuto ciò che ha fatto, ovvero individuare alcuni elementi essenziali e spesso scomodi al dibattito antropologico e femminista contemporaneo e che poi hanno retto la parte centrale della sua esistenza.
In realtà, la storia tra Ida Magli e il femminismo è stata piuttosto intermittente, e questo nonostante abbia avuto da sempre il chiaro desiderio di seguirne il passo a giudicare dai passaggi che le sono stati cari.
Basti pensare a volumi come Matriarcato e potere delle donne (1978), in cui compaiono alcuni passi sulle società matriarcali e una inedita traduzione del poderoso testo Das Mutterrecht di Bachofen. Solo due anni prima, aveva fondato la storica rivista dwf.
È del 1982 La femmina dell’uomo e poi c’è lo studio in cui si concentra su Santa Teresa di Lisieux. Una romantica ragazza dell’Ottocento (1994), quello su La Madonna (1987), fino a un’interessante edizione aggiornata, dieci anni dopo, La Madonna, dalla Donna alla Statua; cruciale è stato La sessualità maschile (1989) e il suo studio sulla Storia laica delle donne religiose (1995).
Insieme ai testi forse più conosciuti vi è stato l’impegno costante verso l’antropologia che ha percorso sempre con disinvoltura e originalità di posizioni. È suo il più generale manuale di Introduzione all’antropologia culturale (1983) così come si deve a lei la fondazione e direzione (dal 1989 al 1992) della rivista Antropologia culturale.
Il nodo sessualità-religione è stato per Magli uno dei più frequentati, là dove entrambi i punti sono stati sempre interpretati con una certa ritrosia anche nella discussione politica pubblica.
Ida Magli in realtà, come ricorda Lea Melandri, che abbiamo raggiunto per telefono, è stata precorritrice lucidissima di alcuni snodi fondamentali: «Certo, non si può leggere solo parzialmente, bisogna guardarla nel suo intero e in quanto è stata capace di offrirci alla lettura. È rimasta sempre abbastanza in disparte, ma il femminismo l’ha intersecato; forse non è stata così riconosciuta come avrebbe meritato, e molto ci possono raccontare ancora i suoi libri; vi sono per esempio frammenti folgoranti, coraggiosi che mettono in chiaro alcuni aspetti forti: sessualità, immaginario e fantasie maschili sui corpi delle donne e il grande nodo religioso». Melandri prosegue citando alcuni passaggi cruciali, per esempio quelli che attengono il corpo delle donne, la sessualità e il potere che disciplina i corpi fino a diventare violenza.
Su quest’ultimo punto, infatti, anche la stessa attenzione di Melandri si è soffermata. «Ho letto e riletto alcuni suoi frammenti perché penso ci siano preziosi. Non sono stati mai scontati e andrebbero ascoltati. Ma penso anche alla lezione sulla storia laica delle religiose, un lavoro straordinario che andrebbe accolto con maggiore generosità».
Addio al Padre *
"[...] Abbiamo ricostruito questo percorso per mostrare chiaramente come oggi non vi sia più spazio non soltanto per il cristianesimo, ma per tutti i valori che in questi duemila anni hanno concorso alla formazione e allo sviluppo della civiltà europea. Per quanto forse i credenti cristiani non se ne rendano del tutto conto, non può sussistere una religione fondata su un Dio «Padre» laddove la figura del padre ha perso qualsiasi rilevanza e autorità. Come abbiamo ormai più volte detto, le religioni sono specchio e proiezione di ciò che pensano e che desiderano i popoli. L’immagine di un Dio-Padre è ormai priva di senso.
Non può sussistere una religione fondata sull’importanza del «Figlio» laddove la procreazione è considerata un fatto personale e gravoso e la società provvede gratuitamente ai numerosissimi aborti confermando così che vuole la propria morte. D’altra parte il figlio è ormai inutile per il padre in quanto non gli serve più a garantirne la sopravvivenza. Non serve né per l’al di là né per il di qua. Le dinastie, le successioni, le eredità sono state quasi del tutto abolite, oppure vengono significativamente caricate di tasse. Nessun genitore conta sui figli per la propria vecchiaia. Alla vita nell’aldilà è ormai quasi impossibile credere e di fatto gli uomini in Europa preferiscono non pensarci.
La dichiarazione di «morte cerebrale», i trapianti d’organi hanno tolto concretamente e simbolicamente ogni trascendenza alla morte, di cui il cadavere, fino a questa orrida decisione, sembrava racchiudere il mistero; per non parlare di ciò che il corpo era (o meglio «è», visto che il dogma non è stato abolito) nella teologia cristiana con la fede nella resurrezione dei corpi, inclusa nel Credo, alla quale però nessuno evidentemente pensa più.
Sembra quasi impossibile che vi sia stato un tempo (oggi appare lontanissimo ma in realtà si tratta soltanto di pochi anni fa) in cui gli uomini si toglievano il cappello davanti a un morto a onorarne, appunto, la sacralità. Tutto questo è stato voluto dallo Stato e dalla Chiesa in modo ossessivo, come se la realizzazione dei trapianti d’organi costituisse il centro del loro potere e dei loro desideri.
Ma il trapianto d’organi significa l’annullamento delle specifiche individualità (oltre che il consenso e la legittimazione dell’istinto sempre presente nell’uomo di sopravvivere uccidendo, mangiando l’altro); significa avvicinarsi concretamente a quella nuova forma di uguaglianza che, invece di affermare l’esistenza del singolo, afferma la sua non-forma, la sua mancanza d’identità, la sua integrazione nell’identico. Passaggio indispensabile per giungere ad annullare la differenza posta dalla natura con il Dna maschile e femminile, la differenza di genere, e affermare la «normalità» dell’omosessualità.
Non si può trarne che una sola conclusione: hanno voluto che l’omosessualità vincesse su tutto e su tutti. Ma il primato dell’omosessualità non sarebbe stato proponibile fin quando fosse stato in vigore non soltanto il primato del «padre», dei legami di parentela, dei legami di sangue, ma anche e soprattutto l’assoluta «differenza» del genere maschile e femminile, ossia la differenza per antonomasia. L’interscambiabilità dei corpi l’ha annientata. Dunque: nessun «Genere», nessuna «Paternità», nessun «Figlio», nessuna «Famiglia», nessuna «Società», nessun «Futuro».
Naturalmente questo significa che si vuole la fine non soltanto del cristianesimo, ma di tutta la civiltà e della società europea, la fine dei «bianchi». L’omosessualità è strumentale soltanto a questa fine e il suo primato sparirà insieme ai bianchi".
* Cfr. Ida Magli Dopo l’Occidente, Rizzoli, Milano, 2012.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE "GIUSEPPE" E DELLO STESSO "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PRE-EVANGELICO PREFERITO, "IL PADRINO"!!!
FLS
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E MATEMATICA. NOTE PER RISCRIVERE UN “ROMANZO FAMILIARE” NUOVO...
ACHERONTA MOVEBO. “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei, muoverò Acheronte: Virgilio, Eneide, VII, 312). A partire da questa citazione virgiliana, volendo, è possibile tentare di "rileggere" l’intero percorso della ricerca di Freud. Ricordando con lo stesso Freud della "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), l’altra importante citazione sempre ripresa dall’Eneide (IV, 625 ) : "Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor" (che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore), si comincia a capire cosa c’è nel "coraggio degli inizi" (Rubina Giorgi, 1977) e in questa identificazione di Freud con Giunone/Era (non solo la moglie di "Zeus", ma anche la sua stessa madre) con Didone e con Annibale, il grande nemico di Roma.
IL PROBLEMA DEL LIBERATORE. L’esergo dell’Interpretazione "dichiara" semplicemente la "natura" teologico-politica del suo progetto: cercare di fermare il matrimonio di Enea e la nascita della nuova Troia (Roma)! Con la stessa determinazione di Giunone/Era (Virgilio), Freud lavora a portare alla luce della coscienza europea la struttura edipica del sogno del Dio greco e cattolico-romano (di Platone come di Paolo di Tarso), e venir fuori dall’orizzonte della tragedia (come Dante e lo stesso Nietzsche). Con l’aiuto di "Zeus/Giove"" e di "Era/Giunone", pur tra mille difficoltà, egli riesce a venir fuori dall’inferno e a "nascere, di nuovo"! Nel 1938 arriva a Londra e porta a compimento il suo ultimo lavoro "L’uomo Mosè e la religione monoteistica". Un grande respiro di sollievo! Morirà l’anno successivo.
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova educazione civica e a una nuova educazione sessuale per una "società sana" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (comel’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria.
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello edipico! Che dire?! Che fare?! Non è meglio uscire dal "sonnodogmatico"?!
Federico La Sala
L’ORDINE SIMBOLICO DI MAMMASANTISSIMA: LA LUNGA MARCIA DI UNA CATASTROFE ANTROPOLOGICA IN CORSO.
Senza riandare indietro nel tempo, cosa che ha già fatto una grande tradizione critica (e da cui poco è stato appreso), ipnotizzati da concetti-specchio come patriarcato e matriarcato, ancora non è stato capito che cosa significa Edipo (Freud), tragedia (Dante, Nietzsche), e rapporto sociale di produzione (Marx). C’è solo da accogliere il film “L’événement” (Audrey Diwan, Leone d’oro, Venezia 2021) come una buona sollecitazione a ripensare questi problemi legati a mammane, mammona, cucchiai d’oro e moloch vari e riprendere il filo da quanto successo (in Europa) almeno (non solo a Granada nel 1492, ma anche) su "quel ramo del lago di Como" nel 1628 in un altro modo e in un’altra direzione. E così, possibilmente, buttare via l’acqua sporca e salvare la memoria di chi ha lottato da sempre per non restare all’inferno e vuole ri-nascere. O no?
DANTE 2021: LA DOMANDA ANTROPOLOGICA DI KANT (""Che cos’è l’uomo?": "Logica", 1800), IL "FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE DI PAROLA (LOGOS, NON LOGO!).
"Ecce Homo" (gr. «idou ho #anthropos»): "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
MESSAGGIO EVANGELICO E "DUE CRISTIANESIMI": "SEGUITEMI, VI FARO’ #PESCATORI DI UOMINI [piscatores hominun, ἁλιεῖς ἀνθρώπων] come da parola di Gesù (Mt. 4,19) o come da sollecitazione di Paolo di Tarso:"Diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo... sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [lat. vir, gr. ἀνήρ]"(1 Cor. 11, 1-3)?!
11 SETTEMBRE 2011/2021, STORIA, E FILOLOGIA: "ECCE HOMO". Sempre a ripetere le famose parole dell’Ulisse di Dante (Inf. XXVI, 118-120: "Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza"), ma ancora oggi (2021), dopo Dante e dopo Kant, tutta l’Europa e l’intero Pianeta è immerso in un letargo profondissimo! Alla questione antropologica ("Che cos’è l’uomo?": Kant,1800), si continua a rispondere truccando la Parola (il Logos) e a scambiarla (e a esportarla) come un Logo di un’azienda, proprietà di quegli uomini "più uguali degli altri" della orwelliana "Fattoria degli Animali"!
PREISTORIA (DI "VIRTUS" E "VIRUS"). La parola uomo (gr. anthropos, homo) vale solo come uomo-maschio (gr. anér/andròs, lat. vir/viri) e l’antropologia si coniuga solo al maschile, come andrologia: a tutti i livelli, immersi nel regno dell’Homo cosmo-te-andricus - nella "realtà" di una teologia ("Dio"), di una cosmologia ("Mondo") e di una antropologia "andrologica" ("Uomo"), la cosmoteandria del Pianeta Terra...
METANOIA: CAMBIARE MENTE! A che gioco giochiamo? Non è meglio uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dall’inferno (Inf. XXXIV, 90) e riprendere la navigazione nell’oceano celeste (Keplero a Galilei, 1611)?! O che?!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA FILOLOGIA E DIVINA COMMEDIA: AL DI LÀ DELLA COSMOTEANDRIA
RINASCERE. Beatrice chiede al "gran viro" San Pietro di esaminare Dante (suo figlio!) sulla fede (Par. XXIV, 34-45: " Ed ella: «O luce etterna del gran viro /a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, /ch’ei portò giù, di questo gaudio miro, /tenta costui di punti lievi e gravi, / come ti piace, intorno de la fede,/ per la qual tu su per lo mare andavi. // S’elli ama bene e bene spera e crede, /non t’è occulto, perché ‘l viso hai quivi /dov’ogne cosa dipinta si vede;/ ma perché questo regno ha fatto civi /per la verace fede, a gloriarla, /di lei parlare è ben ch’a lui arrivi»").
San Pietro chiede: «Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: /fede che è?» (52-53). Dante , illuminato dalla Grazia (58: «La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»), accetta le parole di San Paolo, risponde: "«Come ’l verace stilo/ ne scrisse, padre, del tuo caro frate/ che mise teco Roma nel buon filo, /fede è sustanza di cose sperate /e argomento de le non parventi; /e questa pare a me sua quiditate»" (61-66), e va oltre!
Con la luce della Grazia (Amore), egli ha ben chiaro che la sua sua strada non è quella né di Enea né di San Paolo, che dell’ "Ecce Homo", della figura di Cristo ha fatto un "vir-o", anzi un superuomo ("Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3), e prosegue!!!
Il viaggio continua, fino a capire che è "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145): "La gloria di Colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende/ in una parte più e meno altrove. /Nel ciel che più della sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire /né sa né può chi di là sù discende: / perché appressando sé al suo Disire, / nostro intelletto si profonda tanto/ che dietro la memoria non può ire" (Par. I, 1-9). E a ri-nascere: aggrappato al "vello" di Lucifero (e... dello stesso San Paolo), con l’aiuto di Virgilio (e Maria e Beatrice e Lucia, Dante ce l’ha fatta! Il suo cammino non sì è interrotto! Dopo 700 anni, come direbbe Raffaella Carrà (in memoria), egli è qui! O no?!
Dante2021: Dante Alighieri non "cantò i mosaici" dei "faraoni" ...
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, GEOLOGIA, E FILOLOGIA. L’arca di Noè e il rompicapo dell’antropocene.... *