"DI VELLO IN VELLO". COME VIRGILIO PORTA DANTE FUORI DALLA "CAVERNA" DI LUCIFERO: "Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;/ed el prese di tempo e loco poste,/e quando l’ali fuoro aperte assai,//appigliò sé a le vellute coste;/di vello in vello giù discese poscia/tra ’l folto pelo e le gelate croste" (Inf. XXXIV, 70-75).
INTRODUZIONE:
“MITIDEOLOGIA”: MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA ...*
SICCOME “La memoria è ospite del tempo. Viene ricevuta come lui crede e lo accoglie a modo suo” e RICHIAMA attenzione “ai corsi dell’Escorial in Spagna, dove assistemmo, con Giulia Sissa, a un incontro di Sumo!” (cfr. Paolo Fabbri, "Marcel Detienne: memorie felici e concetti indelebili", "Alfabeta-2", 31.03.2019), FORSE, è proprio l’occasione giusta per RICORDARE che “Fu una bella trovata quella di Marcel Detienne e Giulia Sissa di dedicare un libro (edito da Laterza, in Italia) alla «vita quotidiana degli dei greci». Agli dei greci può succedere infatti di ricevere una ferita se si immischiano troppo in una battaglia tra esseri umani. È il caso della divina Afrodite, madre ansiosa di Enea, la quale accorre a difenderlo dal brutale Diomede e da costui viene malmenata e ferita ai polsi, nel quinto libro dell’Iliade. Per non parlare delle risse, passioni, sofferenze, stanchezze di cui questi dei sono partecipi, pur immortali” (cfr. Luciano Canfora, “Quegli dei troppo umani che non avevano la verità. La collera di Posidone, le vendette di Zeus, l’ansia di Afrodite”, Corriere della Sera, 08.06.2009)! E VOLENDO, unitariamente, RILEGGERE qualche “vecchia” pagina di OVIDIO. La tela di Aracne apre il libro sesto delle “Metamorfosi”, la storia di Filomela lo chiude (...) Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare.
P. S. 1 - ALL’ESCORIAL - “UN INCONTRO DI SUMO!” - CON FILIPPO II, NEL 1584:
Il punto esclamativo, posto alla fine della frase del secondo capoverso della nota su “Marcel Detienne: memorie felici e concetti indelebili”, “Alfabeta-2”, 02.04.2019) di Paolo Fabbri dallo stesso Paolo Fabbri (“[...] fino ai corsi dell’Escorial in Spagna, dove assistemmo, con Giulia Sissa, a un incontro di Sumo!”), dice di una sorpresa, che sorprende - a sua volta!
La cosa sollecita non solo a “ricordare - come scrive Spagnoletti a proposito del suo “Filippo II” - che la prima globalizzazione fu quella operata da Filippo, che il nome delle Filippine e la diffusione della lingua castigliana (spagnola?) nell’America del centro-sud e, ormai, anche in parte dell’America settentrionale sono un suo lascito culturale dal quale nessun uomo avvertito può oggi prescindere [...] e che forgiò la storia di tanta parte del Vecchio e del Nuovo Mondo [...]” (op. cit., p. 14), ma anche e ancora a rimeditare il prezioso contributo di Arnaldo Momigliano sui limiti della storiografia europea, a partire da “L’errore dei Greci” (cfr. Id., “Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture”, Torino 1980, pp. 157-174).
P. S. 2 - "VERSAILLES è un ESCORIAL tradotto in francese” (Ernst R. Curtius, 1934).
Se è vero che “nella House Beautiful di «Letteratura europea» non c’è spazio - come ha scritto Corrado Bologna (Alias/il manifesto, 31.01.2016) - “per Kafka e per il suo Don Chisciotte migrante che viaggia lungo l’Europa fino a giungere a Milano. Commenta fulmineo lo spitzeriano Mancini: «Don Chisciotte milanese, come Stendhal»”, è altrettanto vero che “La Francia stessa è stata tributaria a Madrid della sua civiltà fino all’epoca di Luigi XIV, e Versailles è un Escorial tradotto in francese. Soltanto dopo la pace dei Pirenei nel 1659, la Francia comincia ad avere la supremazia in Europa, e da allora questa supremazia si afferma e si radica così potentemente con tutti i mezzi della politica e della cultura, che ancora oggi ha quasi cancellato la vecchia egemonia ispano-austriaca”(Ernst R. Curtius).
Abbiamo dimenticato troppo presto che l’ombra minacciosa del Sacro Romano Impero era giuridicamente ancora in piedi nell’Europa di Napoleone!
Non è male ricordare, come fa Spagnoletti nel suo “Filippo II”, “Al lungo regno di Filippo corrispose quello di tre imperatori: Ferdinando I (1556-1564), Massimiliano II (1564-1576) e Rodolfo II (1576-1612)” (op. cit., p. 190) e, al contempo, rimeditare su quanto scriveva Curtius nel 1934: “Se ancora oggi la scuola d’equitazione spagnola attira i visitatori alla Hofburg di Vienna, si tratta in fondo dell’ultimo, minimo residuo di quella comunione storica e culturale che univa nello stesso splendore imperiale Vienna e Madrid, senza passare per Parigi”!!! Forse, se si tiene a mente che di lì a poco sulla Tour Eiffel sventolerà la svastica (14 giugno 1940), ci si può rendere conto di quanto l’Europa è stata (e per molti versi è) ancora cieca e sorda all’altro dentro di se e all’altro fuori di sé, e quanto e come un sorprendente “punto esclamativo” possa essere decisivo per svegliarsi da un “sonno dogmatico” di lunga durata. O no?!
P.S. 3 - LA STATUA DELLA LIBERTÀ - CON LA SPADA SGUAINATA: “GUAI AI VINTI”!!! LA LEZIONE DI FRANZ KAFKA.
“Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “Statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia.”.
P. S. 4 - EUROPA, STRASBURGO 1770: CON “MARIA ANTONIETTA” IN VIAGGIO PER VERSAILLES.
Nel 1770 a Strasburgo, nei pressi del confine del Sacro Romano Impero con la Francia, Goethe “guarda un arazzo che narra le storie di Giasone, di Medea e di Creusa”, preparato “per le feste in onore dell’arrivo della sposa” di Luigi XVI di Borbone, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena che si stava trasferendo a Versailles, e così commenta: «dunque un esempio del più infelice matrimonio»!
Goethe mostra di avere una conoscenza superficiale della leggenda di Giasone, e della sua nave Argo, e del come e del perché sia arrivata proprio lì, sulle sponde del Reno, in quell’ambiente e per quella occasione, e, colpito, ne resta segnato per moltissimi anni: “era «estremamente» indignato dalla scelta e glien’è restato - commenta Curtius - il ricordo se dopo quarant’anni lo ritiene ancora degno di esser raccontato (Dichtung und Warheit, II, 9)”.
Nel 1950, Ernst R. Curtius, che ha già pubblicato nel 1947 “Letteratura europea e Medio Evo latino”, in un saggio intitolato “La nave degli argonauti” (cfr. Id.,“Letteratura della letteratura”, Saggi critici a cura di Lea Ritter Santini, Bologna 1984, pp. 301-325), quasi a conclusione, dopo aver ricordato che per Dante “il viaggio di Giasone è la più stupefacente impresa di tutti i tempi” e premesso che “il pensiero storico di Dante ha bisogno di prospettive millenarie - come quello di Goethe,” così prosegue e commenta: “A guardarlo oggi, Goethe si avvicina sempre più a Dante, e non solo nel tempo. Come Dante, anche egli rappresentò ancora una volta il Thesaurus della tradizione europea. Anche in lui troviamo il mito degli Argonauti”.
Curtius cosa sta cercando di dire - e di fare con le parole, con queste parole? Cambiata di segno, la sua affermazione appare essere una forma di sollecitazione subliminale volta ad avvicinare sempre più Goethe a Dante, sino a portarci a pensare: «dunque un esempio del più felice “matrimonio”»! Ma qualcosa resiste, sia nella memoria di Goethe sia di Curtius e fa emergere un non-detto del messaggio. Un’ipotesi: forse, e per caso, sono le stesse parole “sussurrate” al cuore e alla mente di Maria Antonietta dalla madre, l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, al momento del suo trasferimento a Parigi: «Rimanete una buona tedesca!», «Rimanete un buon tedesco!»?!
Incredibilmente Curtius - pur sapendo che “Giasone, nel XVIII canto dell’Inferno, compare fra i seduttori e Virgilio glielo presenta con ammirazione”, che “la nobile e bella figura giovanile di Giasone era già piaciuta ad Ovidio” e, ancora, che “Dante va oltre” lo stesso Ovidio e gli attribuisce “i tratti dell’eroe ideale” riservati “ai suoi prediletti” - fa sua la maschera di Goethe (“Der Brautigam” è il titolo di una sua poesia del 1829), divenuto egli stesso un Argonauta (“Linceo è l’Antifaust, Linceo è Goethe, l’argonauta trasformato”) e, nel tentativo di avvicinarsi “sempre più a Dante”, ricorda più il Thesaurus (il “Tresor” e il “Tesoretto”) della tradizione di Brunetto Latini, che quello della “Divina Commedia”, della nuova Argo, la nave del viaggio terrestre e celeste di Dante - più il Vitello (“T-aurus”) d’oro della tradizione egiziana, che il Vello d’oro dell’Ariete di Giasone e del Vello d’oro dell’Agnello di Dante. Che cagliostrosità!
Dopo i “venticinque secoli a la ‘mpresa” di Giasone (Dante, Par., XXXIII, 95), Curtius - ipnotizzato dalla magia di Goethe, che “scherzando” si autodefiniva “un Argonauta”, prende la sua maschera tratta fuori “dall’esatta descrizione storica dei mitologi”, e fa suo “il suo testamento. In ogni età c‘è una Argo, come aveva predetto Virgilio: «Ci saranno ancora un altro Tifi e un’altra Argo a trasportare eroi eletti»”.
Ma per quale destinazione?! Ancora e sempre per Versailles?!
Non è meglio uscire dal “letargo”, svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e uscire “a rivedere le stelle”?!
P. S. - 5 L’EUROPA, DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA.
A commento dei “tratti dell’eroe ideale”, attribuiti da Dante a Giasone, in nota, Curtius così scrive: “Una anticipazione del romanticismo burgundo che circonda Giasone. Filippo il Buono di Borgogna sposò nel 1430 Isabella del Portogallo. In questa occasione - o forse quale omaggio alla popolazione di allora, stupenda nel navigare - fondò l’ordine del Toson d’Oro. I suoi protettori erano Giasone e Gedeone. Anche nella loro storia un vello miracoloso aveva avuto la sua parte (Libro dei Giudici, VI, 36-40). Un auto sacramentale di Calderón si intitola La Piel de Gedeon (1650), stampato nella edizione di Pando y Mier (1717), vol. III; in tedesco in F. Lorinser: Calderóns geistliche Festpiele, vol IX. Sul romanticismo di Giasone: v. Georges Doutrepont, La Littérature Française à la Cour des Ducs de Bourgogne, 1909, pp. 147-176” (cfr. Ernst R. Curtius, Letteratura della letteratura..., op. cit., pp. 317-318).
Benché nella “Letteratura europea” (1947) abbia citato il lavoro dello storico olandese Johan Huizinga (morto nel 1945), in particolare l’opera “L’autunno del Medio Evo” (del 1919), una straordinaria lettura del “secolo della Borgogna”, ove si racconta diffusamente di “ordini e voti cavallereschi”, della nascita dell’ordine del Toson d’oro, ecc - ora, qui, nel saggio “La nave degli Argonauti” (1950), Curtius non ne fa alcun cenno; e, addirittura, delle opere di Calderón cita solo “La Piel de Gedeon” (ma non “El divino Jasón”, “El divino Orfeo”, “El Laberinto del Mundo”, ecc.)!
Cosa è successo?! La “maschera” di Goethe, forse, gli ha giocato un brutto scherzo e lo ha costretto a rimettersi nei panni di Faust? Incredibilmente, già in “Letteratura europea e Medio Evo Latino”, dato per valido il calcolo dei “venticinque secoli” di Dante dall’impresa di Giasone (Par., XXXIII, 95), tre anni prima (1947), egli aveva già scritto: “La letteratura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura europea, comprende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe)”(p. 20).
Che dire? Davvero “Goethe si avvicina sempre più a Dante”?! Boh?! Bah!
P. S. - 6 CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!
Nel 1929, in un breve saggio dedicato a "Hugo Hofmannsthal. In memoriam" (op. cit., pp. 165-176), Curtius scrive: "La regalità era la figurazione più interiore nel rapporto tra Hofmannsthal e il mondo. La funzione di poeta non era per lui che una delle forme in cui essa si manifestava [...] tutte le opere di Hofmannsthal tendono verso la forma ideale di un theatrum mundi, un poema cosmico allegorico-simbolico che eleva il caso dell’esistenza all’ordine delle grandi leggi, che nel temporale, fanno apparire l’eterno. L’allegoria non è qui indebolita ricchezza di vita e la maschera non è apparenza, al contrario, soltanto quando riusciamo a vedere la deformazione, la maschera della nostra esistenza, ne comprendiamo il senso e la verità più profonda".
E poco oltre, condividendo il programma e lo spirito della sua “rivoluzione conservatrice”, così prosegue : "La nostra poesia ha molto sentimento del mondo (Weltgefuhl), ma poco mondo: ha molte visioni del mondo (Weltanschauungen), ma mediocre ne è la sua conoscenza. In Goethe esisteva la possibilità di unire i due aspetti e ristabilire le giuste proporzioni. Ha dovuto condurre il suo Faust alla corte dell’imperatore: era anzi ancora legato all’impero e colorate feste d’incoronazione avevano illuminato la sua infanzia. Non ha sentito più battere il cuore dell’impero [...] L’orizzonte universale del vecchio impero asburgico era stato dato in eredità a Hofmannsthal. Vienna e Madrid non ne facevano meno parte [...]". E, così chiude: “Hofmannsthal ha raccolto nel suo tesoro reale, i beni più preziosi del linguaggio e dell’anima dei paesi latini: noi lo conserviamo come la sua eredità, come «munus Austriacum»”.
Nel 1932 fa il passo “decisivo”: pubblica “Deutscher Geist in Gefahr “ (“Lo spirito tedesco in pericolo”), un libro (una raccolta di articoli di quegli anni), e nella postfazione, confidando nella “metafisica dello spirito”, chiude con il richiamo al “Veni creator spiritus” - “l’inno del franco-renano Rabano Mauro” (“Mille anni più tardi un altro franco-renano, Goethe, ha tradotto questo “splendido canto religioso” e lo ha definito un “appello al genio”) - e con l’auspicio che “sotto questo segno la fede nella Germania e la fede nello spirito possono trovarsi legate e confermate” (cfr. Ernst R. Curtius, “Lo spirito tedesco in pericolo”, in Annamaria Bercini, “Il discorso politico culturale del «Deutscher Geist in Gefahr» di Ernst Robert Curtius”, Bologna 2015)
Le illusioni di Curtius di diventare una guida spirituale della “rivoluzione conservatrice” sono infondate e vengono spazzate via in un baleno: “Il 24 marzo del 1933, subito dopo l’ascesa al Reichstag di Hitler, sul Beiblatt del «Völkischer Beobachter», il giornale ufficiale del partito nazista sin dal 1920, comparve un durissimo articolo di Hermann Sauter (che di lì a qualche anno diverrà direttore della Stadtbibliothek di Monaco), Deutscher Geist in Gefahr?, che era in effetti una stroncatura senza appello del libro di Curtius. L’assenso di Curtius alla missione tedesca è, come si può vedere, in realtà una negazione del nuovo, potente volere tedesco. Ma questo è il nostro credo: che il vero spirito tedesco otterrà nuovamente onore, e sarà capace di avere valenza mondiale, quando sarà ripulito dal peso accumulato nella cosiddetta libertà spirituale del decennio passato. Sauter concludeva con quello che appare un vero avvertimento da mafioso. Curtius può avere ancora un ruolo importante nella nuova Germania, ma a patto di non tentare più di fare il Kulturpolitiker, perché non capisce nulla dei fondamenti autentici - cioè biologici - della cultura tedesca.” (cfr. Carlo Donà, “Lo spirito tedesco e la crisi della mezza età: «Deutscher Geist in Gefahr» (1932)” ).
Dopo la catastrofe della Germania del “Terzo Reich”, Curtius ancora non capisce: continua il suo “sogno” calderonico e la “vacanza” nel suo “illuminato” (contro e) pre-illuministico “stato di minorità” (I. Kant, 1784). E nel 1947, come se niente fosse successo, alla fine del primo capitolo di “Letteratura europea Medio Evo latino”, intitolato “Letteratura europea”, con un “occhiolino” a Benedetto Croce (e alla memoria di Hegel), riprende il lavoro per il “nuovo ordine culturale”, già proposto nel “Deutscher Geist in Gefahr” del 1932, e ricomincia: “Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe. Ciò che questi rappresenta per la Germania lo ha riassunto Hofmannsthal [...] La letteratura del secolo XIX e dell’inizio del XX non è stata ancora scandagliata, in essa non è stato ancora distinto ciò che è vivo e ciò che è morto. Ciò potrà dare materia per molte dissertazioni, la parola decisiva sarà però pronunciata non dalla storia della letteratura, ma dalla critica letteraria. Per questo compito noi, in Germania, abbiamo Friedrich Schlegel - e seguaci” (op. cit., p. 24)!
Purtroppo, per Curtius, che è vissuto e cresciuto all’interno di coordinate storico-culturali da Sacro Impero (romano, spagnolo, e germanico), e nelle cui orecchie risuona ancora l’ordine dato a Maria Antonietta dalla Madre-Imperatrice (“Rimanete un buon tedesco!”), “la vita è sogno” e non c’e alcuna possibilità di riconsiderare critica-mente né il lavoro di Ernst H. Kantorowicz (anch’egli vicino al “cerchio” di Stefan George) sulla figura dell’Imperatore Federico II (1927/1931), né tantomeno “l’autunno del Medio Evo”, il “declino del simbolismo” e la lezione su Dante di Johan Huizinga ("L’autunno del Medio Evo" [1919, 1921, 1928]): “[...] per indicare il rapporto fra l’autorità spirituale e quella temporale il Medioevo si serviva costantemente di due similitudini simboliche [...] La forza del simbolo è tale da intralciare l’indagine sullo sviluppo storico dei due poteri. Dante, avendo riconosciuto la necessità e il valore decisivo di tale indagine, si vede costretto, nel suo Monarchia, a spezzare prima la forza del simbolo, contestando la sua applicabilità, ed aprendosi così la strada alla ricerca storica".
La totale incomprensione del “relazionismo” proposto da Karl Mannheim in “Ideologia e Utopia” (1929), esaminato e rigettato nel capitolo quarto dello “Spirito tedesco in pericolo”, impedisce a Curtius di aprire gli occhi su stesso e sul mondo, di uscire dal relativismo-assolutismo dogmatico in cui naviga, e di smetterla di sognare il “sogno dei visionari” (sul tema, mi sia lecito, cfr.: “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi”).
“Sogno o son desto?”: a che gioco si continua a giocare? Non è meglio cambiare gioco!? Per l’Europa - e per l’intero Pianeta? Boh? e bah!?
ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO. Se Curtius avesse seguito il filo (etico e metodologico) rintracciato nell’analisi dell’opera di Marcel Proust (il "relazionismo", poi, proposto da Mannheim in "Ideologia e utopia" ) e, al contempo, esplorato di più e meglio i "topoi" della «retorica antica» (R. Barthes), forse, avrebbe condiviso con Marcel Detienne "la divertita scoperta che nella Grecia della geometria e della logica, le dicerie avevano una loro dea, «Femé»" (Paolo Fabbri), sarebbe stato molto più critico nei riguardi della "Fama" di Goethe, più attento nei confronti del lavoro di Karl Mannheim e del vincitore del "Premio Goethe" dell’anno 1930 (Sigmund Freud) e meno fiducioso in una prospettiva di "individuazione" (Carl G. Jung) ancora segnata dalla figura di Edipo.
SU COME E QUANTO CURTIUS avesse ragione, però, è da dire che Harold Bloom lo ha ben chiarito nel capitolo dedicato al «Faust: seconda parte di Goethe: il poema controcanonico» nel suo "Canone occidentale", richiamando "[...] la straordinaria fantasticheria su Elena, meravigliosa quanto oltraggiosa trasposizione della Germania in Grecia":
"Con la solita audacia, Goethe - così prosegue Bloom - parodizza Omero e le tragedie ateniesi per offrirci uno dei più singolari poemi mai scritti: la resurrezione di Elena di Troia, la sua unione con Faust, la nascita e morte del loro figlio Euforione, e il ritorno di Elena tra le ombre. Al pari della notte di Valpurga classica, e al pari dei cori celestiali che concludono la «Seconda parte», la Elena che Goethe ci offre è un poema controcanonico, una impensabile revisione di Omero, Eschilo ed Euripide, come se la Notte di Valpurga classica rivoltasse come un guanto le origini della mitologia greca, e i cori conclusivi parodiano il Paradiso di Dante con una verve sottilmente crudele".
CURTIUS - scrive Bloom - "aveva ragione: Goethe ha messo fine a un aspetto della tradizione. [...] è davvero l’ultimo grande scrittore dell’età inaugurata da Dante. Per scrivere un epos controcanonico o un dramma cosmologico come «Faust, Seconda parte», occorre un intimo rapporto con il Canone di cui nessun’altro, dopo Goethe, ha sofferto (o goduto). Ciò conferisce particolare pregnanza al decesso di Faust, perché a morire è ben più che non il personaggio Faust" (cfr. H. Bloom, "Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età", Milano 1996, pp. 208-209).
Sul tema, infine (mi sia lecito), si cfr. -«L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”» di Enzo Paci (dal "Diario fenomenologico") , e le mie note sul suo dialogo "Nicodemo o della nascita".
P.S. 8 - L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della “Preistoria”?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
P.S. 9 - “DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE”: L’AUTOCTONIA, IL MITO DI EDIPO, E L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE-TERRA... *
A) MITIDEOLOGIA. Il cielo della preistoria (Marx) getta ancora le sue terribili ombre sul nostro presente! Cogliere le cose alla radice non è facile. A richiamare tutta l’attenzione sul lavoro di Marcel Detienne è bene ricordare quanto scrive Fabbri: “[...] È il concetto di Autoctonia, antica e moderna, che ha occupato gli ultimi anni dell’antropologo (Essere autoctoni. Come denazionalizzare le storie nazionali, Sansoni 2004). Un problema politico che Heidegger aveva evitato attribuendo a “polis” la falsa etimologia di “essere”. Per Detienne non c’era autoctonia in Atene e in Roma, e il concetto è l’esempio d’una “mitideologia” impiegata nella costruzione dei nazionalismi passati e, purtroppo, presenti e futuri (Paolo Fabbri, “Marcel Detienne: memorie felici e concetti indelebili”, Alfabeta-2, 31.03.2019).
B) LA STRUTTURA DEI MITI: L’AUTOCTONIA. Il problema era già stato posto con grande chiarezza da Claude Lévi-Strauss, nel 1955: “[...] il mito di Edipo [...] esprimerebbe l’impossibilità in cui si trova una società, che professa di credere all’autoctonia dell’uomo (si veda ad esempio Pausania, VII, XXIX, 4: il vegetale è il modello dell’uomo), di passare da questa teoria al riconoscimento del fatto che ciascuno di noi è realmente nato dall’unione di un uomo e una donna. La difficoltà è insuperabile. Ma il mito di Edipo offre una specie di strumento logico che permette di gettare un ponte tra il problema iniziale - nasciamo da uno solo o da due? - e il problema derivato che si può approssimativamente formulare così: il medesimo nasce dal medesimo o dall’altro? [...] Il problema posto da Freud in termini «edipici» non è più probabilmente quello dell’alternativa fra autoctonia e riproduzione bisessuata. Ma si tratta pur sempre di capire come uno possa nascere da due: come avviene che non abbiamo un solo genitore, ma una madre e in più un padre?” (C. Lévi-Strauss, “Antropologia strutturale”, Il Saggiatore, Milano 2015).
C) L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE - TERRA. UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA “EDIPICA” REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO.
* COME NASCONO I BAMBINI (Enzo Paci). Sul tema, mi sia lecito, si cfr. Federico La Sala, “Della Terra, il brillante colore”, pref. di Fulvio Papi, Roma-Salerno, Edizioni Ripostes, 1996 (Milano, Nuove Scritture, 2013), in particolare, il cap. 5° e il cap. 6° della Parte III; e, Federico La Sala, “Freud, Kant, e l’ideologia del superuomo”.
Federico La Sala (20.04.2018)
*
Federico La Sala
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA".
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO --- La politica nobiliare del Regno d’Italia 1861-1946. Actes du colloque de Rome, 21-23 novembre 1985 (Giorgio Rumi)
Disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
LA PROVVIDENZA, IL PASSERO, E LA CRITICA DELLA RAGIONE METAFISICA ("PURA"). #TEATRO (#TEMPO) E #METATEATRO (#ETERNITÀ ): SHAKESPEARE E NIETZSCHE, AL DI LÀ DEL #PLATONISMO E DEL #PAOLINISMO HEGELIANO.
Un buon punto di partenza per approfondire il tema del rapporto tra tempo ed eternità nell’opera di Nietzsche, e, in particolare, per riflettere - di più e meglio e ancora - "sulla utilità e il danno della storia per la vita", (la II delle "Considerazioni Inattuali" del 1874), ricordando la sua conoscenza sia dei testi evangelici e sia anche delle poesie di #GiacomoLeopardi (e del suo "passero solitario"), appare essere il seguente:
Nietzsche, a mio parere, sembra aver capito con Shakespeare, quale legame profondo esista tra lo stare sempre sveglio, "l’essere pronto" ("the readiness is all") di cui parla Amleto, e la maturità («Ripeness is all»), di cui dice Edgar al padre cieco e disperato in "Re Lear" (V. 2).
Cosa questo possa significare proprio per Nietzsche (e per il suo tentativo di pensare l’#eternoritorno), forse, è stato antropologicamente e metafisicamente chiarito da #WalterBenjamin nelle sue "Tesi di filosofia della storia", quando dice che "Il #passato reca con sé un #indice segreto che lo rinvia alla #redenzione [...] Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni #generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto" (W. Benjamin, "Tesi di filosofia della storia", n. 2).
ANTROPOLOGIA, MESSAGGIO EVANGELICO, "#SÀPERE #AUDE (#ORAZIO - #KANT), E "#COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (S. #FREUD, 1937): UNA QUESTIONE DI TESTIMONIANZA.
LE #PERSONE, LE #PAROLE E LE #COSE. Parole di #PapaFrancesco all’Arcidiocesi di Benevento (20 febbraio 2019): "[...] È questo che gli uomini e le donne anche nel nostro tempo attendono dai discepoli del Signore. Testimonianza. Pensate a san #Francesco - che il vostro Vescovo conosce bene - cosa ha detto ai suoi discepoli? “Andate, fate testimonianza, non sono necessarie le parole”. Alle volte si deve parlare ma incominciate con la testimonianza, vivete come cristiani, testimoniando che l’#amore è più bello dell’#odio, che l’#amicizia è più bella dell’#inimicizia, che la #fratellanza fra tutti noi è più bella della #guerra." ("PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALL’ARCIDIOCESI DI BENEVENTO. Basilica Vaticana - Mercoledì, 20 febbraio 2019" ).
CULTURA, #SOCIETÀ, #STORIA, E #METASTORIA:
RIPENSARE "COSTANTINO" (NICEA, 325-2025) E IL "SACRO ROMANO IMPERO" (PREMIO "CARLO MAGNO", 2016).
"SÀPERE #AUDE" (#ORAZIO-#KANT). ALLA LUCE DELLA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SU "LA #GERMANIA SENZA #IDEE, VENTRE MOLLE D’#EUROPA" (cfr. Donatella Di Cesare, "Il Fatto Quotidiano", 16 aprile 2025), FORSE, è IL CASO DI USCIRE DAL #LETARGO (#DANTE ALIGHIERI) in cui "naviga" la "nave" europea, ripartire da #Kant ( e dal presente "legame" #Koenigsberg - #Kaliningrad), e, seguendo il filo "dimenticato" di Herman v. #Helmholtz, e, di #Marya #Sklodowska-#Curie ("cum grano salis", rileggere i paragrafi a loro dedicati da Friedrich #Heer, nel capitolo finale della sua "Europa, madre di rivoluzioni", il Saggiatore, 1968, vol. II, pp. 556-561, e pp. 580-589), cercare di recuperare il "#tempo #perduto" (#Marcel Proust).
A tal fine, non è male rileggere il "Discorso pronunciato dal presidente del Parlamento europeo Martin Schulz", in occasione della consegna del "Premio Carlo Magno", a Papa Francesco, il 6 maggio 2016 (cfr. "Il Sole-24 Ore", 6 maggio 2016) e, possibilmente, riprendere a lavorare "per la #pace #perpetua".
STORIA, STORIOGRAFIA, E TEOLOGIA-POLITICA:
"COSTANTINO" E "COSTANTINISMO": IL NODO DA SCIOGLIERE:
FLS
LA "DIVINA COMMEDIA" E LA TEOLOGIA-POLITICA DEL FAMOSO «CINQUECENTO E DIECI E CINQUE, MESSO DI DIO» (Purg. XXXIII 43-44) ANCORA PENSATA, CONTRO DANTE E LA SUA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI", ALL’INTERNO DELLA LOGICA ("IN HOC SIGNO VINCES") DELL’IMMAGINARIO DELL’IMPERATORE COSTANTINO (NICEA 325-2025):
B) Memoria, Storia e Filologia:#Dantedi (#25marzo 2025). Un’indicazione per uscire dal " #sottosuolo" (Don DeLillo, "Underworld", 1997): «Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba.» (#DanteAlighieri, Par. I, 70-71)..
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA), ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E FILOLOGIA TEOLOGICO-POLITICA: "REMEMBER ME" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.5).
Dantedi (#25marzo 2025). Un’indicazione per uscire dal "sottosuolo" ("underworld"): «#Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba.» (#Dante Alighieri, Par. I, 70-71).
TEATRO (AMLETO), METATEATRO (SOVRANITÀ), E TEOLOGIA-POLITICA (CRISTOLOGIA): UNA "QUESTION" DI VITA ("ESSERE") O DI MORTE ("NON-ESSERE"), DA "ULTIMA CENA".
In memoria di #DanteAlighieri e di Frances Amelia #Yates ...
LA "RAPPRESENTAZIONE" DI #SALOME’, REALIZZATA DA TIZIANO (DATABILE INTORNO AL 1515), CONSIDERATE anche le sue numerose copie esistenti, "tra cui una, con varianti, già nella collezione Benson di Londra, forse pure autografa" , sembra veicolare della FIGURA DI SALOME’ una iconografica INTERPRETAZIONE, che sollecita ad associarla molto alla figura di una #Maddalena, immaginata come possibile sposa di Gesù ("Cristo Re"), che, segnata da questa ambiguità, porta acqua al #mulino di #Shakespeare (alla luce degli opposti punti di vista, quello del principe #Amleto e quello del "Re" #Claudio, che lo vuole morto, con la "testa" sul "#piatto"), alla elaborazione di un "pensiero" teologico-politico del "corpo mistico" e del "prendete e mangiate" della "Ultima cena" evangelica, al di là delle autodistruttive #guerre di #religione dell’#Europa del secolo e del "tempo fuori dai cardini".
LA STORIA (TEATRO), L’ARATRO (TERRA), LO STILO (SCRITTURA ALFABETICA), LO STORYTELLING ("GLOBE THEATRE"), E L’ANTROPOLOGIA DELLA "INTELLIGENZA ARTIFICIALE" (AI=IA).
CONSIDERANDO la storia dell’ "agricoltura" e l’importanza dell’invenzione dell’aratro per la seminagione del grano e del suo mito fondante connesso al rapimento di Persefone/Proserpina, la figlia di Demetra /Cerere, da parte di Ade/Plutone, si comprende meglio quale "matrimonio" impone la Legge della antica Grecia e cosa "nasconde" la nascita della tragedia: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (Eschilo, "Eumenidi", 657 ss.). #Shakespeare insegna: "The time is out of joint" ("Hamlet", I.5).
TRACCE PER UNA SVOLTA ANTROPOLOGICA. A reimpostare, antropologicamente e matematicamentre, la questione, è da dire che aveva ragione #Whitehead (con #BertrandRussell, autore dei "Principia Mathematica"): "Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine a #Platone".
Se è vero, come è stato scritto, che "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1978), che fare, oggi, se non andare oltre l’antico programma, codificato nella "macchina" di "scrittura" della tragedia, e portarsi fuori dal rapporto sociale di produzione "cinematografico" platonico?
A mio parere, la "question" è epocalmente hamletica - alla Shakespeare (#Freud): antropologica. Il nodo è che la narrazione della intelligenza artificiale (AI = IA) di questa odierna "società elettronica" è fondata sul codice di una "immaginazione sociologica" (vale a dire, alla Karl #Marx e alla Charles Wright Mills, su un "rapporto sociale di produzione"), proprio e ancora di quello della tragedia (Eschilo, Sofocle, Euripide) della Grecia antica (cfr. Jesper Svenbro, "Phrasikleia, anthropologie de la lecture en Grèce ancienne", Paris 1988).
DIVINA COMMEDIA E CREATIVITA’. Il grande racconto cosmoteandrico di un "mondo come volontà e rappresentazione" di un #Autore - #Sovrano, a tutti i livelli, è finito, e, se non si vuole finire asfissiati nella sua "caverna", non si può non seguire #DanteAlighieri e cercare di ritrovare la "diritta via" della #Commedia!
Meglio riprendere con "Il Nome della rosa (#UmbertoEco), il filo del "maestro di color che sanno" (Inf., IV, 131), #Aristotele, rileggere criticamente "La sposa meccanica" (Marshall McLuhan), e, dopo millenni, uscire dallo storico inferno epistemologico e riequilibrare la teoria del campo cosmo-politico e antropologico: "il resto è silenzio" ("Amleto", V.2).
#Dantedì, #25marzo 2025
INDIVIDUO E SOCIETA’: COME NASCE LO STATO?
LA "ROBINSONATA" DI UN "PLATONISMO" DI MILLENNI: SOCRATE RISPONDE ALLA DOMANDA SUL COME NASCE LA SOCIETA’, MA NON ANCHE SUL COME NASCE L’INDIVIDUO.
UNA "CITAZIONE" DALL’OPERA DI PLATONE, "REPUBBLICA ["POLITEIA"]" (II, 368-371):
L’EUROPA, L’ HAMLETICA QUESTIONE DI UNA ACCA (H), E UNA "SORPRENDENTE" LEZIONE DALLA #GAIA SCIENZA E DALLA #DIVINA COMMEDIA. Materiali sul tema
"Sàpere aude!"(#Kant). Siccome, ormai e "finalmente" non solo gli "analfabeti" ma anche i "litterati", tutti e tutte non riescono più a "orientarsi nel pensiero" e nella realtà, nemmeno a capire "un’ acca", o, che è lo stesso, "un’ostia", forse, è il caso di ricominciare dal "principio" (dalla "Alfa") e, possibilmente, cercare di arrivare alla fine (alla "Omega")!
ANTROPOLOGIA INFANZIA STORIA E FILOLOGIA. Come ha scritto in Giorgio #Agamben, in una sua nota su "L’invenzione del nemico" (Quodlibet, 31 maggio 2024), "Se nella religione - con la quale l’Europa si identificava - non credono più nemmeno i preti, anche la politica ha perduto ormai da tempo la capacità di orientare la vita degli individui e dei popoli", significa proprio non riuscire più a distinguere "eu-#carestia" da "eu-#charistia", "dio-mammona" ("#caritas") da "dio-amore" (#charitas), non significa che "Dio è morto", che "non c’è più religione", e che il #nichilismo trionfa e trionferà, alla grande (come ha scritto e chiarito #Nietzsche)?!
Non è meglio rimettersi in cammino e seguire Dante e i suoi "due Soli", il suo "#Virgilio" e la sua "#Beatrice"?! (#Dantedì, #25marzo 2025)?!
"UN SOGNO ACCAREZZATO IN EUROPA SIN DAI TEMPI DI DANTE" (FRANCES A. YATES, 1974): CULTURA E SOCIETA’ NELL’EUROPA DI SHAKESPEARE E HAENDEL.
TEATRO E #MUSICA NELL’ #INGHILTERRA DELLA #REGINA #ELISABETTA TUDOR, DI RE #GIACOMO I #STUART, E RE GIORGIO I (Giorgio Ludovico di #Hannover, asceso al trono con il nome di Giorgio I di Gran Bretagna), UN FILO CHE NON SI SPEZZA NONOSTANTE LA #GUERRA DEI TRENT’ANNI (1618-1648).
A) "L’ILLUMINISMO DEI ROSA-CROCE" (FRANCES A. YATES). CONTRARIAMENTE A QUANTO generalmente si pensa, anche sul piano storiografico, senza il diffondersi dello spirito della #RiformaProtestante e della #Riforma #Anglicana in Inghilterra, probabilmente, a Londra, non solo #GiordanoBruno ma neanche Georg F. #Haendel vi sarebbe mai andato.
Quando si scrive che, dopo le "felici intuizioni contenute nei primi lavori" di Frances A. #Yates, "poi abbandonate dalla studiosa negli successivi dominati da un eslusivo interesse per l’ermetismo" (Nuccio Ordine, 2006), non solo non si coglie tutta l’importanza del legame teologico-politico e culturale esistente, poi rinsaldato nel 1613 dal matrimonio della figlia di Giacomo I d’Inghilterra, Elisabetta [Stuart] (1596-1662), con #FedericoV (1596 -1632), principe elettore del #Palatinato e re di #Boemia, figlio dell’elettore Federico IV e di Luisa Giuliana d’Orange, ma si trascura (e si oscura) la lezione della stessa Yates su "Giacomo I e il Palatinato: un capitolo dimenticato nella storia delle idee" (tenuta a Oxford nel 1970, e, proseguita nel libro dedicato a "L’Illuminismo dei Rosa-Croce", 1974) e la continuità con l’importante lavoro dedicato a "Giordano Bruno e la tradizione ermetica" (1969).
B) Georg Friedrich Händel (Halle, 23 febbraio 1685 - Londra, 14 aprile 1759):
"[...] in Italia [...] conobbe in Roma lo splendido Agostino Steffani, maestro celeberrimo il quale, in età ormai matura, era diventato arcivescovo e adesso faceva l’ambasciatore del Principe di Hannover [...] questo finissimo artista e diplomatico s’interessò molto al giovane Sassone e, [...] lo convinse a seguirlo nel suo ritorno ad Hannover. [...] Ma la combinazione di Hannover ebbe ben altra portata. Per via di parentele e di ragioni politiche, la Corte dell’Elettore era in stretti rapporti con la Corte inglese; Hannover si trovava sempre affollata di gentiluomini e di emissari britannici. Così, nel 1710, Giorgio Federico fu invitato a Londra allo scopo di comporvi un’opera e vi si recò con entusiasmo dopo aver ricevuto licenza dal Principe. [...] La regina Anna [Stuart] si compiacque molto dell’inviato speditole dal suo cugino di Hannover [...] Spentasi la regina Anna senza lasciare eredi al trono, la corona d’Inghilterra passò proprio al suo vecchio padrone, il Principe Elettore di Hannover." (Giulio Confalonieri, "Storia della musica", 1975).
C) Händel, "Giulio Cesare". Il «Giulio Cesare in Egitto» di Händel all’Opera di Roma (Dino Villatico: Alias - il manifesto, 1 ottobre 2023): "[...] L’opera - su libretto di Nicola Francesco Haym, che riscrive quello del 1677 di Gianfrancesco Bussarli - ebbe un immenso successo, non solo in Inghilterra. Si inserisce in un filone di riflessioni teatrali sulla storia: Shakespeare a Londra era sempre attuale e Händel era un assiduo frequentatore di teatri, ma anche un appassionato lettore, soprattutto del teatro francese. Come non pensare allora al Britannicus di Racine? Winton Dean, nella voce che dedica a Händel per il Grove Dictionary of Music and Musicians, sostiene che il compositore di Halle è la figura di drammaturgo musicale più complessa che incontriamo tra Monteverdi e Mozart, sia per varietà di caratteri e intensità espressiva, sia per forza e costruzione drammatica.[...]"(cit. ).
LA MUSICA DELLE SFERE, LA COSMOTEANDRIA "BIBLICA" E "APOLLINEA", E LA #DIVINACOMMEDIA: LA INCOMPRENSIONE DI JOSEPH CAMPBELL.
ANTROPOLOGIA #ARCHEOLOGIA E #CRITICA: "#SAPEREAUDE!" (#KANT). Nella sua "#Mitologia #creativa" (Milano, 1992), Joseph Campbell, dopo aver premesso che "anche Dante invocò le #Muse - all’inizio dell’inferno, nel Canto II - e fu guidato sia attraverso l’Inferno sia sulla cima paradisiaca del Monte del Purgatorio dal pagano #Virgilio" (p. 128) e aver analizzato in dettaglio la Figura di «la Musica delle Sfere», "tratta da un’opera neoplatonica del quindicesimo secolo, la Pratica musicae di Franchino #Gaffurio, pubblicata a Milano nel 1496", scrive che "[...] l’intera Divina Commedia di Dante esprime questa visione pagana di una dimensione spirituale dell’universo", e, al contempo, lo "imbottiglia" (senza resti) nella #tradizione cattolico-romana: "[...] Il fatto che, in Dante, il potere di guida dei pagani termini alla sommità del Purgatorio, nel #ParadisoTerrestre, si accorda con la formula di san #Tommaso secondo cui la ragione può condurre, come fece con gli antichi, fino al vertice delle virtù terrene, ma solo la fede e la grazia soprannaturale (personificata da #Beatrice) possono portare oltre la ragione, fino alla sede di Dio".
Pur, se con incertezze e difficoltà, infine, continua e finisce paradossalmente col riportare Dante Alighieri nell’orizzonte della tragedia e dell’antico patto edipico (di "#mammasantissima", altro che patriarcale):
"Tuttavia, analizzando questo Dio Trinitario che, nella dottrina cristiana delle tre persone divine in un’unica sostanza divina, abbiamo una trasposizione delle tre Grazie e dell’Apollo Iperboreo in un ordine mitologico di maschere escusivamente maschili di Dio, il che si accorda bene con lo spirito patriarcale dell’Antico Testamento, ma sbilancia radicalmente le connotazioni simboliche, e quindi spirituali, non solo del sesso e dei sessi, ma anche dell’intera natura".
"IL NOME DELLA ROSA" (UMBERTO ECO, 1980). E, come fan tutti e fan tutte, Joseph Campbell rimette la "commedia" nella #tragedia, e, rimuove per l’ennesima volta la radicale novità "eu-angelica" della #cosmogonia e della #antropogonia dantesca, nata e fondata sulla roccia: "L’amor che move il sole e le altre stelle" (Par., XXXIII, 145).
ANTROPOLOGIA (TEATRO) E CRISTOLOGIA (METATEATRO):
AMLETO (SHAKESPEARE) E LA TEOLOGIA DELL’EUROPA, DOPO LA RIFORMA PROTESTANTE (1517) E IL MATRIMONIO DI LUTERO E KATHARINA VON BORA (1525) E LA RIFORMA ANGLICANA (1534), DOPO IL MATRIMONIO DI ENRICOVIII E ANNA #BOLENA E DOPO LA NASCITA DI ELISABETTA (1533), REGINA D’INGHILTERRA (1558-1603).
LODEVOLE la "traccia" seguita da #Dennis #Taylor, nella sua opera "Shakespeare and the Elizabethan Reformation: Literary Negotiation of Religious Difference" (Lexington Books, 2022: ):
LODEVOLISSIMA, MA ANCORA RIDUTTIVA, QUESTA IPOTESI DI "LETTURA": NON COGLIE, A MIO PARERE, IL VASTO RESPIRO "FILOSOFICO" DELLA "ANALISI" PORTATA AVANTI E PROPOSTA DA SHAKESPEARE. Ricordando la presenza di Giordano Bruno a Londra dal 1583 al 1585 e, al contempo, la sua condanna al rogo a Roma nel 1600, non è meglio pensare, forse, che Shakespeare non «immagina modi cooperativi di risolvere la "commedia degli errori" nazionale», ma sollecita a porre all’ordine del giorno dell’Europa dell’epoca (e, addirittura, di #oggi), alla luce di una "#question" teologico-politica (non solo religiosa e non solo anglicana) di #lungadurata ("#essere, o non essere"), la necessità storica di risolvere il problema antropologico e cristologico e aprire la strada a una "idea" di cittadino "cristiano" e di cittadina "cristiana", cioè di una #cittadinanza europea, che si portasse oltre il #cattolicesimo androcentrico, paolino e costantiniano (#Nicea 325-2025)?!
ARCHEOLOGIA E FILOLOGIA DELLA TRADIZIONE CULTURALE EUROPEA:
CON SHAKESPEARE (DANTE ALIGHIERI E GIORDANO BRUNO), PER UNA ANALISI CRITICA DEL"CESARICIDIO" E UNA COMPRENSIONE ANTROPOLOGICA DELLA #MONARCHIA DEI "#DUE SOLI" ("DIVINA COMMEDIA").
CHE NELLA MODALITA’ IN CUI SHAKESPEARE PRESENTA LA "RESA" DI BRUTO ALLE ARGOMENTAZIONI DI #CASSIO (ALLA "SOCRATE") PER COINVOLGERLO (COME UN "ALCIBIADE") NELL’AVVENTURA DEL "CESARICIDIO", IN CUI APPARE evidente il rinvio critico al "gioco" narcisistico del guardarsi nell’occhio dell’altro per conoscere sé stesso del dialogo di #Platone ("Alcibiade primo", 132c - 133b ), è già ben chiaro che egli pensi al di là del #platonismo e del #paolinismo storico:
"BRUTO
No, Cassio; perché l’occhio non vede se stesso
se non di riflesso, attraverso altri oggetti.
CASSIO
È così;
e ci si rammarica molto, Bruto, che tu non abbia
specchi che volgano ai tuoi occhi il tuo valore
nascosto, così che tu possa vedere la tua immagine
riflessa. Ho sentito molte persone di alta reputazione
qui a Roma - eccetto l’immortale Cesare -
che, parlando di Bruto, e gemendo sotto il giogo
di questa epoca, hanno espresso il desiderio
che il nobile Bruto abbia occhi.
BRUTO
In quali pericoli vorresti spingermi, Cassio,
invitandomi a cercare in me stesso
quello che in me non c’è?
CASSIO
Per questo, caro Bruto, preparati ad ascoltare.
E poiché tu sai di non poterti vedere bene
se non per riflesso, io, il tuo specchio,
rivelerò con discrezione a te stesso
quello che di te stesso tu ancora non conosci.
E non essere sospettoso con me, gentile Bruto.
Se io fossi un buffone qualsiasi, o fossi avvezzo
a svilire con volgari giuramenti il mio affetto
al primo venuto che mi assicuri il suo; se ti risulta
che scodinzolo con le persone e prima le abbraccio forte
e poi le calunnio; o se ti risulta
che, alle feste, io mi professo amico
di tutta la marmaglia, allora ritienimi pericoloso. "
("Giulio Cesare," Atto I, Scena 2).
Shakespeare, nel solco e sul filo della lezione di Dante e di Bruno, sollecita la riflessione sul legame antropologico-politico e teologico dei "due soli" della "Monarchia" di Dante, e delle "#Tre corone" dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno: sotto la spinta della #RiformaProtestante (1517) e Anglicana (1534) e della #Rivoluzionescientitica (#Copernico, 1543), egli insegna a "vedere" nella figura di "Giulio Cesare" (e di "Amleto") la unità e la unificazione - nelle mani e nella testa - non solo del sovrano ("cristiano") o della sovrana ("cristiana") ma di ogni "cristiano" e "cristiana", di ogni "cittadino" e di ogni "cittadina", del potere sia politico ("#sovranità universale") che religioso ("#sacerdotalità universale"): "Sàpere aude!" (#Kant, 1784).
#Dantedì, #25marzo 2025
STORIA (TEATRO) E METASTORIA (METATEATRO): LA QUESTIONE DELLA "EREDITÀ" DI "ROMA" E L’ANALISI DI SHAKESPEARE NEL "GIULIO CESARE" E NELL’ "AMLETO"... *
Nell’ Atto I, Scena 2, del "Giulio Cesare" si fa riferimento alla festa e alla corsa dei Lupercali, che a Roma si svolgeva nei giorni degli Idi di febbraio. in onore del dio Luperco, patrono della fertilità, e si accenna al problema all’ordine del giorno:
"CESARE - Calpurnia!...
CALPURNIA - Eccomi, son qui, signore.
CESARE - Appena Antonio inizierà la corsa,
cerca di metterti sul suo percorso...
Antonio!
ANTONIO - Cesare, signore mio...
CESARE - Non ti scordare, durante la corsa,
di toccare Calpurnia con la mano;
ché secondo che dicono gli anziani,
le donne sterili che son toccate
in questa corsa sacra,
si scrollano di dosso il maleficio
dell’infecondità".
Nell’atto III, scena 2, ANTONIO, nel suo discorso agli "amici, romani, popol mio", sul suo "diritto" ad essere il degno "successore" di Giulio Cesare, astutamente insinua nell’ orecchio: "[...] Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa; eppure Bruto dice che egli fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore. Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re che egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione? Eppure Bruto dice che egli fu ambizioso; e, invero, Bruto è uomo d’onore. Non parlo, no, per smentire ciò che Bruto disse, ma qui io sono per dire ciò che io so. [...]" (#Shakespeare, "Giulio Cesare", III.2).
*
LA MEMORIA DI #SANVALENTINO (#14FEBBRAIO) NELL’ "AMLETO" DI SHAKESPEARE: TEATRO (#STORIA) E METATEATRO (#METASTORIA)...
LA MEMORIA DI #SANVALENTINO (14 FEBBRAIO) NELL’#AMLETO DI SHAKESPEARE: #TEATRO (#STORIA) E #METATEATRO (#METASTORIA). *
OFELIA, A BEN RILEGGERE IL TESTO DELLA "CANZONE DI SAN VALENTINO" ("AMLETO", 4.5.51-71), RICHIAMA IN MODO "CIFRATO" AL RE CLAUDIO IL DELITTO DEL #RE #AMLETO ("#GIULIO #CESARE") E, AL CONTEMPO, ALLA CHIESA CATTOLICO-SPAGNOLA CHE LA "FESTA DI SAN VALENTINO" NON E’ ALTRO E ANCORA CHE LA "FESTA" DEL "#COME NASCONO I BAMBINI" SECONDO LA "MARZIANA" #TRADIZIONE ROMANA DEL "#LUPERCALE".
SUL TEMA, MI SIA LECITO, SI CFR.:
ARCHEOLOGIA, #STORIA, E #TEOLOGIA: IL #RITORNO DEL #RIMOSSO. IL #LUPERCALE, IL «#PRESEPE» DI #ROMOLO E #REMO, E IL #NATALE COSTANTINIANO-CATTOLICO: IL "LUPO" DIVENTA" "AGNELLO" E LA "PREISTORIA" CONTINUA!!! Una recensione di Rosita Copioli di "La leggenda di Roma" (a c. di Andrea Carandini - Fondazione Valla/Mondadori )
"APRITI SESAMO": TEATRO (LINGUA) E METATEATRO (METALINGUA). LA "TRAGEDIA" DEL PRINCIPE "AMLETO" E LA "COMMEDIA" DEGLI "IMBROGLI" DELLA "DODICESIMA NOTTE", PRIMA DELLA "EPIFANIA".
Alla "soluzione" del "legame" tra le due opere, un contributo molto "comico"» (#Dantedì, 25 marzo 2025) è suggerito da una lezione di #UmbertoEco, ricordata dal prof. Franco Lo Piparo.*
CHANGELING. SE E’ VERO, COME E’ VERO CHE «la commedia di Shakespeare, "La dodicesima notte", e la sua tragedia, "Amleto", furono scritte più o meno nello stesso periodo: alcuni dettagli di temi, motivi e meccanismi della trama suggeriscono una varietà di connessioni» (cfr. P. A. Fried, "Lettera e trappola per topi, La dodicesima notte e Amleto", 31 gennaio 2025), E CHE IL TEMA FONDAMENTALE della tragedia di Amleto è quello del #FURTO DELLA SUA #CORONA (o, "quel che volete"), DEL SUO #ANELLO, DEL SUO #TRONO, E DEL SUO #REGNO; e, ancora, che una di queste connessioni «[...] è la funzione della lettera che provoca la morte del maggiordomo Malvolio nella "Dodicesima notte", e la commedia "La trappola per topi" usata da Amleto per catturare la coscienza dei suoi monarchi» (cit.), appare essere più che illuminante la notazione filologica relativa al termine "changeling" (e al "gioco" degli "scambi" e degli "inganni").
COSTITUZIONE, #MOUSETRAP E "TONDODONI" ("SACRA FAMIGLIA"). CONSIDERATO CHE "Amleto in una conversazione con Orazio", per dire della scoperta del messaggio della lettera portata da Rosencrantz e Guildenstern e del cambiamento di segno e di senso apportato nella stessa lettera, usa il termine "changeling", una parola che ricorre solo "qui ed ora" ed è «un riferimento al folklore sulle fate che sostituiscono un #bambino con un altro non molto tempo dopo la nascita», si chiarisce meglio a cosa mirava la comunicazione "metateatrale" di Shakespeare: portare avanti, per dirla con Giordano Bruno, lo "Spaccio della bestia trionfante", e, mettere fine all’ avanzata del "marcio nello stato" della "danimarca" europea!
*
"IL NOME DELLA ROSA": LA "PAROLA D’ORDINE" ("PASSWORD") E IL FURTO DEL PORTAFOGLIO. Una lezione di "cittadinanza attiva" di Umberto Eco, ricordata dal prof. Franco Lo Piparo:
#PIANETATERRA: LO SVEGLIARSI DAL "#LETARGO" (#DANTEALIGHIERI, Par. XXXIII, 94) E "LA #PRIMAVERA CHE SI AVVICINA" (#DANTEDì, #25MARZO 2025).
"DOTTA IGNORANZA" (1440) E "DE BERYLLO" (1458).
Una nota a margine del "Ritratto dei coniugi Arnolfini" del pittore fiammingo Jan van Eyck (1434).
Arte, Antropologia, Filosofia e Scienza nello "Occhio ("Specchio") polifemico e tragico di Niccolò Cusano (il cardinale Nicola di Kues ).
"VEDERE COME IN UNO SPECCHIO, IN MANIERA CONFUSA" (1 Cor. XIII, 12). A ben analizzare l’opera il "Ritratto dei coniugi Arnolfini" del pittore fiammingo Jan van #Eyck, realizzato nel 1434 (come sollecita a fare Vincent De Luise , in "SPECULUM SINE MACULA: The Eye behind the Mirror in the Arnolfini Double Portrait"), il senso che emerge appare essere (come del resto è storicamente) una apologia della "dotta ignoranza" della tradizione socratica, una astuzia della cosmoteandria platonica e paolina (cfr. Cusano, "De Beryllo", i capp. XIV e XV), molto lontana dallo spirito della tradizione evangelica (e dall’ idea di "sacra famiglia" di memoria francescana), e, ovviamente, anche da una logica della ricerca scientifica antropologicamente fondata!
A mio parere, accogliendo il contributo di Vincent de Luise, si tratta storiograficamente di riconsiderare l’analisi di Scott Horton ("Cusano e Van Eyck: l’occhio dietro lo specchio") e "capovolgere" il senso della interpretazione del suo stesso lavoro.
Come, ad aprire gli occhi, ben aiuta a capire Johan Huizinga, siamo storicamente alla fine della "Prima #Rinascita" (Gioacchino da Fiore, Francesco di Assisi, e Dante Alighieri), all’ "Autunno del Medioevo" (1919), all’inizio dell’ inverno del cosiddetto "Rinascimento", avviato dallo "straordinario" programma teologico-politico di Filippo il Buono di Borgogna, con la sua fondazione dell’ordine del "Toson d’oro" (o, meglio, del "#Vitello d’oro"), ripreso e rilanciato poi "alla grande" da Massimiliano I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero e CarloV d’Asburgo.
STORIA FILOSOFIA E LETTERATURA E STORIOGRAFIA: UNA IPOTESI DI RILETTURA DELLA "DIVINA COMMEDIA" (2007)
DANTE. ALLE ORIGINI DEL MODERNO *
Dante corsaro
Modernità di Dante di Giacomo Marramao
di Chiara Scarlato (FataMorgana Web, - 16 Dicembre 2024)
Sono ormai ampiamente percorse le ragioni che portano la teoresi filosofica a ricorrere, quasi di necessità, al confronto con una serie di campi altri di applicazione grazie ai quali la filosofia stessa può trarre un vantaggio nell’esemplificazione concreta di concetti e idee che resterebbero altrimenti ancorati a un piano distaccato dalla realtà materiale e concreta. Alla luce di questa necessità o bisogno, spesso, il pensiero filosofico si è rivolto a un linguaggio differente dal suo (si pensi al ricorso al linguaggio letterario o, più genericamente, artistico) allo scopo altresì di favorire il passaggio da uno scenario teorico unico alla costruzione di un immaginario di stampo plurale. Una simile attitudine è riscontrabile nel volume Modernità di Dante (Bollati Boringhieri, 2024), che Giacomo Marramao ha dedicato al “sommo poeta”, elaborando al suo interno alcune fondamentali idee teoriche utili per riflettere sull’articolazione tra linguaggio e politica, pur mantenendo aperto lo sfondo di problematizzazione all’interno del quale vengono affrontati alcuni temi dirimenti per la contemporaneità quali il ruolo e la funzione dell’essere umano nel mondo a partire dalla sua dimensione di azione quale singolo individuo.
L’operazione compiuta in Modernità di Dante - che, per molti aspetti, è analoga anche a quanto da Marramao proposto in Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo (2022) - assume uno specifico valore teoretico poiché, ponendo al centro l’esperienza di un particolare essere umano (in questo caso Dante ma, come si è appena ricordato, lo stesso vale anche per Pasolini), intende mettere a tema i modi in cui, sia con la scrittura sia con il corpo, si ha l’opportunità di esercitare una forma di resistenza nei confronti del mondo. Questa forma di resistenza riguarda tanto un piano formale quanto un livello concreto di applicazione, dacché non si può sperare di intervenire sul presente senza unire le parole alle azioni rendendo, in certo senso, tali parole effettive grazie a una serie di gesti concreti che, per mutuare un termine del lessico pasoliniano, sono gesti corsari. Gesti corsari capaci di convogliare l’attenzione su questioni che, pur essendo originate da una riflessione sul presente, aprono squarci su un tempo a venire che risulta, pertanto, inatteso nella sua esposizione. Da qui deriva il carattere di modernità di autori come Dante e come Pasolini, tra gli altri.
L’accostamento tra Dante e Pasolini è stato in certo modo abilitato dallo stesso Pasolini che instaura un dialogo a distanza con Dante componendo la sua divina mimesis (progetto avviato nel 1963, mai completato e pubblicato, per volere dello stesso Pasolini, nel 1975) in cui l’Inferno del neocapitalismo si impone con le sue storture di fronte al presentarsi di due domande: «Chi può segnare il momento in cui la ragione comincia a dormire o, meglio, a desiderare la propria fine? Chi può determinare le circostanze in cui essa comincia a uscire, o a tornare là dove non era ragione, abbandonando la strada che per tanti anni aveva creduto giusta, per passione, per ingenuità, per conformismo?» (Pasolini 2011, p. 17). Le questioni chiariscono in modo limpido le due istanze che si trovano alla base di ogni tentativo di comprensione del reale a partire dalla mediazione di un pensiero altro, riproducendo un meccanismo analogo a quello in atto nella congiunzione della filosofia alla letteratura, che rimanda inevitabilmente all’oscillazione della loro disgiunzione. Dal presente attuale al presente possibile, dalla ragione alla disragione per poi tornare, ancora una volta, al presente ma con uno sguardo differente. Ecco allora che Pasolini sembra tradurre quel sentimento corsaro che lo accomuna allo spirito dantesco: l’essere naufrago per aggrapparsi di nuovo e ancora al mondo ma con l’innocenza sporcata dalla consapevolezza di essere parte di quel mondo e non di un altro.
Nella rotta tracciata da un corpo approdato dal mare a una terra sconosciuta si può collocare anche l’operazione che Marramao compie su Dante, articolando il suo percorso in due momenti: il primo rivolto a un’esplorazione del concetto di “Politico” a partire da un attraversamento di opere come il De monarchia, il Convivio e la Commedia; il secondo consistente in un lavoro di accostamento critico tra le visioni di Dante e Machiavelli intorno alla questione politica. La posizione centrale che la politica (o il Politico) - come questione, problema e tema - occupa all’interno del testo è sintomatica del progetto di osservare non solo la modernità di un autore, bensì il valore che tale pensiero assume per la nostra stessa contemporaneità. Anche per questa ragione alla base del primo studio sta la proposta di osservare Dante come antesignano dell’autonomia del Politico a partire dall’ipotesi che il De Monarchia sia una prolessi della Commedia, tracciando l’una e l’altra un virtuoso rapporto di complementarità che per Marramao lascia «emergere la dimensione poetica come un viaggio attraverso i molteplici “corpi” dell’esperienza: corpo linguistico, corpo umano, corpo politico, corpo celeste» (ivi, pos. 20).
I quattro corpi - che rimandano rispettivamente al linguaggio, all’esistenza, alla dimensione del mondo e alla dimensione ultraterrena - sono anche indicatori dei diversi piani in cui tale autonomia trova la sua realizzazione. In particolare, stando alla prospettiva delineata dal testo, la modernità di Dante sta nella «netta distinzione tra la finalità teologica della salvezza e l’obiettivo politico della felicità» delle quali la prima si aggancia «ai percorsi di vita individuali, l’altra alla dimensione collettiva e alla vita della comunità» (ivi, pos. 18). L’autonomia politica dell’individuo getta, di conseguenza, nuova luce anche sulle nozioni di umano e umanità fino a condurre di fronte alla scelta radicale di pensare che «i principi etici e filosofici degli antichi» fossero «sufficienti alla realizzazione del fine politico della pace e della felicità terrena» (ivi, pos. 25), scelta rivendicata, per Marramao, anche dalla decisione dantesca di collocare Catone l’Uticense a custodia del Purgatorio.
In quest’ottica vi è una distinzione tra politica e fede che si mantiene inalterata con l’eccezione unica dell’idea di plenitudo temporum in cui le due si congiungono per la realizzazione dell’eschaton, il momento dell’avvento di Cristo che rimanda a «una pienezza dei tempi che non ha nulla a che fare con una promessa messianica, bensì piuttosto con un evento già accaduto nella storia, ma di tale portata da determinare un punto di non ritorno nel viaggio dell’umanità» (ivi, pos. 37). Ciò significa che l’autonomia del Politico non esclude una visione teologica del mondo, bensì individua due diversi piani di realizzazione in base alle dimensioni di riferimento: da un lato la felicità terrena, dall’altro la beatitudine celeste; da un lato i principi della filosofia, dall’altro i precetti della religione; da un lato il «destino del Comune», dall’altro «quello del Singolare, che rappresentava, per Dante, la sola via per affermare, nell’autunno del Medioevo, la radicale autonomia del Politico» (ivi, pos. 39). La modernità del gesto di Dante sta allora, in questo caso, nello sforzo di pensare una distinzione tra ciò che era canonicamente riunito in un unico e solo sfondo di riferimento. In senso analogo è operato il confronto tra Dante e Machiavelli che occupa la seconda parte del testo.
Obiettivo principale di tale lettura comparativa è superare la dicotomia tra «un Dante immerso nella spiritualità medievale a fronte di un Machiavelli cinico realista» (ivi, pos. 42). A tal fine, Marramao evoca il concetto di dignitas che si trova alla base dell’umanesimo dantesco e dell’“umanesimo tragico” machiavelliano che, a partire dall’autonomia del Politico del primo, opera una ridefinizione ampia e radicale della nozione di politica concepita «concepita come un’anomalia tassonomica: come il diagramma di un plesso dinamico capace di tenere insieme due opposti» (ivi, pos. 48). Entro tale prospettiva, si delinea anche un’apertura rispetto a quanto si diceva in merito alla congiunzione/disgiunzione tra un pensiero filosofico e un pensiero altro o, meglio, sulla tensione che conduce il pensiero necessariamente di fronte a una pratica. In questo caso, è dirimente quanto Marramao scrive in merito al fatto che la «politica non innova mai, se non a partire da un rivolgimento culturale dei linguaggi: del linguaggio della scrittura come del linguaggio del teatro e della musica, del linguaggio dell’arte come del linguaggio della scienza, del linguaggio della poesia come del linguaggio dei corpi» (ivi, pos. 55).
Ed è questo l’aspetto sul quale occorre concentrarsi per capire appieno il senso di una modernità capace ancora oggi di offrire strumenti per rinnovare un sistema di pensiero. Se, riprendendo quanto scrive Gilbert in merito a Machiavelli, sono poche le persone che, «dopo aver guardato dritto in faccia che cosa sia l’uomo nella realtà, siano state capaci di attenersi a quanto hanno visto e non si siano rifugiate nel sogno di quello che l’uomo dovrebbe essere» (1977, p. 245), allora il punto è riuscire a risalire la china seguendo la rotta tracciata da quel pensiero corsaro che - di volta in volta - occorre convocare per rendere effettiva ogni pratica di rivoluzione.
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FLS
TEATRO FILOSOFIA E METASTORIA: EDUCAZIONE "BIBLICA", "INTERPRETAZIONE DEI #SOGNI" (S. FREUD, 1899), "COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (S. #FREUD, 1937), E "CHÂTIMENT DE L’ORGUEIL" (#BAUDELAIRE,1861).
"FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO" (HEGEL) ED "ECCE HOMO" (NIETZSCHE). SE SI CONSIDERA CHE, dalla cosiddetta nascita di Cristo, non solo al tempo di Elisabetta I d’Inghilterra e di #Shakespeare, "Un modo per vedere la storia di Natale è che Giuseppe fu tradito dallo Spirito Santo; sua moglie che gli diede un figlio bastardo del cielo" ("One way to view the #Christmas story is that Joseph was cuckolded by the Holy Spirit; his wife who bore him a bastard son of heaven", cfr. Paul Adrian Fried, "First Sunday After Christmas - Jesus of King David’s Bloodline (Series, Part 5.b.)", cit.), ma anche OGGI, nell’attuale presente storico, fine-anno 2024 secondo il #calendario gregoriano (Gregorio XIII, 1582), si "tramanda" la stessa "storia", vuol dire che non si è ancora ben compresa tutta l’importanza della "silenziosa" costante presenza storica e "legale" (di "Principio", secondo la #Legge, secondo il "Logos") della figura di "Giuseppe" accanto alla figura di "Maria" e della stessa lezione del "#presepe" di #Francesco di #Assisi (Greccio, 1223).
STORIA E LETTERATURA E STORIOGRAFIA: "#DIVINA COMMEDIA" E #COSTITUZIONE DEI "#DUE SOLI" (#DANTE ALIGHIERI) . A mio parere, c’è da pensare che, nonostante le "dicerie sacre" di un Gesù, nato da un altro "Giuseppe" (e secondo una concezione cosmoteandrica "biblica", "platonica" e "plutonica" della donna-#femmina come "Terra - #Vaso", che deve nutrire e far crescere il #seme del "supremo" uomo-#maschio), non si sia ben meditato sul fatto che "la punizione dell’#orgoglio" è già stata evangelicamente ben "scritta" (Baudelaire, "I Fiori del Male", XVI) e, "qui e ora", l’hegeliano "Spirito Santo" di #Mammona (come da enciclica del 2006, "Deus #caritas est") deve solo inginocchiarsi dinanzi a "Giuseppe" e alla stessa "Maria" e chiedere ad entrambi "perdono" e "benedizione". #GiselePelicot insegna...
#Buon2025
L’ALBERO DI NATALE NELL’EUROPA MODERNA E IL "SIDEREUS NUNCIUS" DI GALILEO GALILEI: LA PUNTA DI UN ICEBERG DELL’IMMAGINARIO OCCIDENTALE
UNA NOTA sulla considerazione che "Nella sua concezione moderna, l’albero di Natale casalingo sarebbe stato creato quasi casualmente da una nobildonna tedesca nel 1611, desiderosa di illuminare un angolo vuoto della casa, la duchessa di Brieg." (cfr. Elisa Chiari, "Albero di Natale, la vera storia dalle radici antiche a noi", "Famiglia cristiana", 18.12.2024 )
CULTURA E SOCIETA’. Tenendo conto di quanto sta succedendo nella società europea, a partire dalla #RiformaProtestante (1517), e dal "Sacco di Roma" dei lanzichenecchi al soldo dell’imperatore Carlo V (1527), dalla #Riforma #Anglicana (1534), dalla stampa dell’opera di #Astronomia di #Copernico (1543) e dell’opera di #Anatomia di #Vesalio (1543), dalla #Controriforma Cattolica (#ConciliodiTrento,1545-1563), e, ancora, dalla introduzione del #CalendarioGregoriano del 1582 (non accettato né dalla Germania e dall’Olanda fino al 1700, né dall’Inghilterra fino al 1752), e, al contempo, dall’attacco della cattolicissima "Invincibile Armada" spagnola di Filippo II all’Inghilterra di Regina Elisabetta I d’Inghilterra (1588), si può comprendere meglio (e subito) perché all’#Amleto di #Shakespeare non piaccia il "#presepe" della "Danimarca" cattolica, e, al contempo, nella Germania protestante si comincia a diffondere in occasione del Natale la tradizione dell’#albero, sia come critica della tradizione religiosa cattolico-spagnola sia come sollecitazione a ripensare all’albero del #Paradisoterrestre e anche a un rinnovato legame matrimoniale tra "#Adamo ed #Eva" (come già indicato e fatto da Lutero e da #EnricoVIII, padre della regina Elisabetta).
"SIDEREUS NUNCIUS" (GALILEO GALILEI, 1610). Alla #luce di questa "contestualizzazione" relativa al diffondersi della tradizione dell’ Albero di Natale nei Paesi Protestanti, forse, è bene ricordare che l’Annuncio Sidereo (il "Sidereus Nuncius"), relativo alla "scoperta" della #Luna come la Terra e della #Terra come la Luna, di Galileo Galilei è del 1610 ed è salutato da #Keplero proprio nel 1611 con parole augurali che fanno tremare ancora oggi di "paura" tutta la teologia-politica cattolico-costantiniana dell’epoca: "Vicisti, Galilaee!" (Hai vinto, o Galileo!).
PIANETA TERRA: SPERANZA. Forse, oggi, alla fine del 2024, la navigazione nell’#oceano celeste (come da indicazione e sollecitazione dello stesso Keplero al Galileo, nella lettera del 1611) può riprendere.
#Buonanno, #Buon2025.
CON "IL PANTHEON SUL PARTENONE", FATTO "SAN PIETRO DI ROMA" (VICTOR HUGO, 1831):
MICHELANGELO E IL TRAMONTO DEL "RINASCIMENTO" (O, DIVERSAMENTE, L’INIZIO DEL "CONTRORINASCIMENTO").
L’ ARCHITETTURA E IL LIBRO: L’INVENZIONE DELLA #STAMPA. Victor Hugo, in "Notre-Dame de Paris 1482", pubblicato nel 1831, in poche pagine sottolinea tutta l’importanza dell’#apertura di infiniti occhi, connessa al grande "occhio" che si apre nel #cielo culturale dell’#Europa #moderna con la invenzione di Gutenberg.
Nel cap. II del L. VII dell’opera, Hugo così inizia:
PIANETA TERRA: UN PANTHEON DA RIPENSARE E IL SOLSTIZIO D’INVERNO. UNA TRACCIA PER UN "RIORIENTAMENTO GESTALTICO" E UNA "#SVOLTA_ANTROPOLOGICA": APRIRE LA "PORTA" DELLA "#TERRA" ALLA #LUCE DEL #SOLE...
ARCHITETTURA ECOLOGIA FILOSOFIA E OCULISTICA. Una nota sull’#occhio del Pantheon:
"[...] L’Oculus è un’apertura nel soffitto della cupola, realizzata con un diametro di oltre 8 metri, e rappresenta l’unica fonte di luce naturale all’interno dell’edificio. La sua creazione risale al I secolo d.C., quando l’imperatore romano Adriano fece ristrutturare l’antico Pantheon, che originariamente risaliva al 1 a.C.
Questo misterioso occhio circolare non solo illumina con la luce del sole l’interno del Pantheon, ma ha anche una funzione simbolica e mistica. L’Oculus rappresenta una connessione tra l’edificio e il cielo, come se un raggio di luce divina scendesse in quel santuario dedicato agli dei.
Inoltre, l’Oculus è stato progettato in modo tale da favorire una perfetta distribuzione dei pesi della cupola, che ha contribuito alla straordinaria stabilità e durevolezza di questo monumento. La cupola è in cemento e la sua costruzione fu una straordinaria opera di ingegneria per l’epoca.
L’Oculus del Pantheon offre anche un affascinante spettacolo naturale durante i giorni di pioggia. La pioggia che entra dal foro forma un effetto suggestivo, simile ad una cascata rovesciata, creando un’atmosfera mistica all’interno del tempio. [...]" (cfr. Accademia Studio Italia, "Il misterioso occhio del Pantheon: un buco nel paradiso!").
ARTE #STORIA #FILOSOFIA E STORIOGRAFIA:
"LA PRIMA RINASCITA", GIOTTO, E IL COSIDDETTO "RINASCIMENTO" SENZA "DIVINA COMMEDIA".
"SAPERE AUDE! (#KANT, 1724 - 2024). A mio parere, Giotto è con Dante al culmine della cosiddetta "prima rinascita", segnata da #GioacchinodaFiore, #Francesco di #Assisi, e lo stesso #DanteAlighieri (come ha proposto Ernesto Buonaiuti agli inizi del XX secolo). Con il cosiddetto "gran rifiuto" (la "rinuncia") di papa #CelestinoV (san Pietro Celestino) nel 1294 e la elezione l’anno successivo a papa di BonifacioVIII la istituzione Chiesa imbocca decisamente (come testimonia per sempre Dante) la via costantiniana (#Nicea 325 - 2025) e comincia la sua discesa all’inferno!
"LASCIATE OGNI SPERANZA" (V. #HUGO, "Notre-Dame de Paris 1482"). Dante si salverà per miracolo, così come le sue stesse ossa e le sue opere (soprattutto la "Monarchia" dei famosi #DueSoli), e l’Italia e l’Europa non troveranno più pace. Già dopo la morte di Dante (1321) e di Giotto (1337), a partire dal 1346, la peste nera segnerà la fine dell’autunno del Medioevo (come scrive Huizinga agli inizi del XX secolo, anch’egli) e darà il via alla stagione "rinascimentale" (invernale e infernale) dell’Europa moderna, promuovendo l’imbozzolamento del messaggio evangelico nella cultura della "#dottaignoranza" (Cusano,1440) e di una "pace della fede" (Cusano, 1453) molto paolina e costantiniana e nient’affatto francescana. La caduta di #Costantinopoli (1453) e il via libera alla cacciata dei mori e degli ebrei dalla Spagna e dall’Europa darà la linea teologico-politica del cosiddetto "Rinascimento", a tutti i livelli.
I #PROFETI, LE #SIBILLE, E IL "#PRESEPE" DI #MICHELANGELO BUONARROTI (il "#Tondo Doni"). Michelangelo, sulla strada di Dante e di Giotto, lotterà come un leone, o, meglio, come un arcangelo per tenere aperto il varco antropologico e teologico per permettere agli uomini e alle donne, ai profetti e alle sibille, di pensare la via di uscita dalla #tragedia e cercare di ritrovare la "diritta via" della #Commedia e rinascere...
BUON NATALE 2024.
IL "BATTESIMO" DEL "NATALE" E L’ENIGMA DEL DESTINO DELLA NECESSITA’ ("ANANKE"): "MA COSA HANNO SCRITTO SULLA TUA TESTA?!". UNA NOTA SUL PERCHE’ E’ NECESSARIO RILEGGERE IL "CORSO DI #LINGUISTICA GENERALE" (#SAUSSURE), RIPARTIRE DALLA #MEMORIA ERODOTEA DI #ISTIEO, E RIPORTARE #LACAN SULLA #DIRITTA VIA DI #FREUD E DI #DANTE ALIGHIERI. Una ipotesi di lavoro
IN #MEMORIA DI VICTOR HUGO E DELLA SUA "NOTRE-DAME DE PARIS 1482"
"L’ENIGMA DEL DESTINO. Lo storico Erodoto di Alicarnasso racconta nelle celebre opera “Storie” che nell’anno 499 a.C., Istieo, avventuriero e tiranno di Mileto, si trovava alla corte del re Dario I e non aveva modo di mettersi in contatto con il suo compatriota e tiranno della città Aristagora.
In quel tempo le città ioniche preparavano la grande ribellione contro il dominio persiano e Istieo voleva comunicargli che era il momento di dare il via alla sollevazione.
Alla fine ebbe un’idea: fece rasare la testa al suo schiavo più fedele e gli tatuò sul cuoio capelluto il messaggio che desiderava trasmettere, poi aspettò che i capelli ricrescessero, in modo da nascondere il messaggio.
Solo allora inviò lo schiavo a Mileto, dove gli rasarono nuovamente la testa e poterono leggere il messaggio. Il procedimento aveva diversi vantaggi, perché neppure il latore del messaggio ne conosceva il contenuto e pertanto non avrebbe potuto rivelarlo neanche se fosse stato sottoposto a interrogatorio o tortura.
Già Freud nello scritto “Isteria” (1888) aveva notato come i sintomi isterici seguissero una logica diversa da quella della mera anatomia. Tra il sintomo e la base organica non vi era un legame diretto, bensì l’emergere di una sorta di “dialetto”, di fenomeno linguistico.
Lacan porterà all’estremo la lettura freudiana, parlando di “crivellatura” del corpo per effetto del significante. Le parole, osserva Lacan, possono essere veri e propri “proiettili” che toccano, feriscono e perforano il corpo.
Abbiamo qui l’aspetto centrale della psicoanalisi: il rapporto fondamentale tra corpo e parola.
Il soggetto viene al mondo parlato dall’Altro, prima ancora di accedere direttamente al linguaggio.
Il primo significante che incontra è spesso il nome proprio, intraducibile per definizione, presente quindi nella sua dimensione di significante che si sgancia da ogni significato.
Tuttavia sappiamo bene che il significato è presente nel luogo dell’Altro e per questo può divenire come un “destino” per il soggetto che lo porta: il nome proprio può essere un destino.
Perché un certo nome? Perché non altri? Nel nostro nome e nelle parole che circolano nella nostra infanzia è evidente l’effetto di scrittura, di incisione che il significante opera su di noi.
Ciascuno di noi assomiglia quindi allo schiavo della storia di Erodoto: portiamo su di noi le tracce di un messaggio che non conosciamo e che ci resta enigmatico, misterioso, inaccessibile.
Compito dell’analisi è svelare questo messaggio inconscio: far emergere il discorso che l’Altro ha fatto per noi e su di noi, per assumere questo discorso e farlo nostro, riformularlo alla luce del nostro desiderio. [...]" (cit.).
FILOLOGIA CRITICA E STORIOGRAFIA EUROPEA. 7 DICEMBRE 2024: L’ «ANANKE» DI "NOTRE-DAME PARIS 1482" (VICTOR HUGO, 1831) E "LA FORZA DEL DESTINO" (GIUSEPPE #VERDI, 1862).
UN OMAGGIO A #PARIGI (A "NOTRE-DAME") E A #MILANO (A "LA SCALA"): #7DICEMBRE2024.
Una #citazione dall’opera di #VictorHugo: "[...] Jean lo perse di vista dietro l’enorme schienale. Per qualche minuto vide solo il suo pugno convulsamente contratto su un libro. Ad un tratto si alzò, prese un compasso, e silenziosamente incise sulla parete a lettere maiuscole questa parola greca:
«ANANKE»
«Mio fratello è pazzo», disse Jean fra sé; «sarebbe stato assai più semplice scrivere "#Fatum". Non sono tutti tenuti a conoscere il greco».
L’arcidiacono andò a sedersi sulla poltrona e posò il capo sulle mani, come fa un malato con la fronte pesante e febbricitante.
Lo studente osservava suo fratello con sorpresa. [...] Lo studente rialzò risolutamente lo sguardo. «Monsignor fratello, vi piacerebbe che vi spiegassi in buon francese quella parola greca che è scritta là sul muro?».
«Quale parola?»
«’𝛢𝛮𝛢𝛤𝛫𝛨» [«ANANKE»]
Un leggero rossore venne a diffondersi sui gialli pomelli dell’arcidiacono, come lo sbuffo di fumo che preannuncia all’esterno i segreti scotimenti di un vulcano. Lo scolaro lo notò appena.
«Ebbene, Jean», balbettò il fratello maggiore sforzandosi, «cosa vuol dire questa parola?».
«#FATALITÀ».
Don Claude si fece di nuovo pallido, e lo studente continuò con noncuranza: «E quella parola che sta sotto, incisa dalla stessa mano, «Ἀναγνέια», significa #impurità. Vedete che conosco il greco?».
L’arcidiacono rimaneva silenzioso. Quella lezione di greco l’aveva reso pensieroso. [...]" (V. #Hugo, "Notre-Dame de Paris 1482", L.VII, cap. IV).
NOTE:
"[...] Don Claude ascoltava in silenzio. All’improvviso il suo occhio infossato assunse
un’espressione astuta e penetrante a tal punto che Gringoire si sentì, per così dire, frugato
fino nel fondo dell’anima da quello sguardo.
«Benissimo, mastro Pierre, ma per quale motivo siete ora in compagnia di quella
ballerina d’Egitto?».
«In fede mia», disse Gringoire, «il fatto è che ella è mia moglie ed io sono suo
marito».
L’occhio tenebroso del prete si infiammò.
«Avresti fatto questo, miserabile?», gridò afferrando con furore il braccio di
Gringoire; «saresti stato a tal punto abbandonato da Dio da mettere le mani su quella
fanciulla?».
«Sulla mia parte di paradiso, monsignore», rispose Gringoire tremando in tutte le
sue membra, «vi giuro che non l’ho mai toccata, se è questo che vi preoccupa».
«E allora, perché parli di marito e moglie?», disse il prete.
Gringoire si affrettò a raccontargli il più succintamente possibile tutto quello che il
lettore sa già, la sua avventura della Corte dei Miracoli e il suo matrimonio con la brocca
rotta. Sembrava del resto che questo matrimonio non avesse avuto ancora alcun esito, e
che ogni sera la zingara gli rifiutasse la sua notte di nozze come il primo giorno.
«È una delusione», disse concludendo, «ma ciò deriva dal fatto che ho avuto la
sventura di sposare una vergine».
«Che volete dire?», domandò l’arcidiacono che si era andato gradatamente
calmando a quel racconto. [...]
[...] nella sua anima e nella sua coscienza il filosofo
non era molto sicuro di essere perdutamente innamorato della zingara. Amava quasi
altrettanto la capra. Era un animale incantevole, dolce, intelligente, arguto, una capra
sapiente. Niente di più comune nel Medio Evo di questi animali sapienti che suscitavano
grande meraviglia e che frequentemente conducevano al rogo i loro istruttori. Comunque
le stregonerie della capra dalle zampe dorate erano malizie molto innocenti. Gringoire le
spiegò all’arcidiacono, che sembrava vivamente interessato a questi dettagli. Nella
maggior parte dei casi, era sufficiente presentare alla capra il tamburello in un modo o in
un altro per ottenere da lei il gioco che si desiderava. Era stata addestrata a far ciò dalla
zingara, che aveva per queste finezze un talento così raro che le erano bastati due mesi per
insegnare alla capra a scrivere con delle lettere mobili la parola Phoebus.
«Phoebus?», disse il prete. «Perché Phoebus?».
«Non lo so», rispose Gringoire. «Forse è una parola che ella crede dotata di qualche
virtù magica e segreta. La ripete spesso a mezza voce quando si crede sola».
«Siete sicuro», riprese Claude con il suo sguardo penetrante, «che è soltanto una
parola e non un nome?».
«Nome di chi?» disse il poeta.
«Che ne so?», disse il prete.
«Ecco quello che immagino, messere. Questi zingari sono un po’ Ghebri e adorano il
sole. Da ciò Phoebus».
«Non mi sembra chiaro come a voi, mastro Pierre».
«Del resto non mi importa. Che borbotti il suo Phoebus quanto le piace. Di sicuro
c’è che Djali mi ama già quasi quanto ama lei». [...]
«Chi è questa Djali?».
«È la capra».
L’arcidiacono posò il mento sulla mano e sembrò per un momento pensieroso.
Tutto ad un tratto si rivolse bruscamente verso Gringoire:
«E tu mi giuri che non l’hai toccata?».
«Chi?», disse Gringoire, «la capra?».
«No, questa donna».
«Mia moglie! Vi giuro di no».
«E tu sei spesso solo con lei?».
«Tutte le sere, per un’ora buona».
Don Claude aggrottò le sopracciglia.
Il pallido volto dell’arcidiacono divenne rosso come la guancia di una fanciulla.
Restò un momento senza rispondere, poi con visibile imbarazzo:
«Ascoltate, mastro Pierre Gringoire. Non siete ancora dannato, che io sappia. Mi
interesso a voi e vi voglio bene. Ora il minimo contatto con questa egiziana del demonio vi
renderebbe vassallo di satana. Sapete che è sempre il corpo che perde l’anima. Guai a voi
se vi avvicinate a quella donna. Ecco tutto».
«Ho tentato una volta», disse Gringoire grattandosi l’orecchio. «Era il primo giorno,
ma mi ci sono punto».
«Avete avuto questa sfrontatezza, mastro Pierre?».
E la fronte del prete si rabbuiò.
«Un’altra volta», continuò il poeta sorridendo, «prima di coricarmi ho guardato
attraverso il buco della sua serratura, e ho visto la più deliziosa dama in camicia che abbia
mai fatto cigolare le cinghie di un letto sotto il suo piede nudo».
«Vattene al diavolo!», gridò il prete con uno sguardo terribile e, spingendo per le
spalle Gringoire tutto stupito, sprofondò a grandi passi sotto le più oscure arcate della
cattedrale. "(Victor Hugo - Notre Dame de Paris).
ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA, MEDICINA, FISICA E METAFISICA:
DIALOGO CON UN AMICO IN OCCASIONE DEL SUO ONOMASTICO NEL GIORNO DELLA MEMORIA DI SAN FRANCESCO SAVERIO:
a) "Messaggio (inoltrato)":
Memoria di san Francesco Saverio, sacerdote della Compagnia di Gesù, evangelizzatore delle Indie, che, nato in Navarra, fu tra i primi compagni di sant’Ignazio. Spinto dall’ardente desiderio di diffondere il #Vangelo, annunciò con impegno Cristo a innumerevoli popolazioni in India, nelle isole Molucche e in altre ancora, in Giappone convertì poi molti alla fede e morì, infine, in Cina nell’isola di Sancian, stremato dalla malattia e dalle fatiche.
è il mio onomastico quindi...
b) Risposta:
Ma "Gesù" non aveva nessuna "Compagnia" ... e la compagnia che lo seguiva lo portava là dove si "va-n-gelo".
Francesco I, per or-goglio, si richiama a Ignazio di Loyola, è un "gesuita" non un "cristiano" né un "francescano". È tempo di rifare il presepe e restituire a Giuseppe e Maria, il loro ", Bambino...
Molti auguri e buon compleanno, a te e ai tuoi genitori, "Giuseppe e Maria" ... E padre di Andrea, ginecologo.
La X dell’Apostolo Andrea richiama X di "IXTHUS", "Christos", non dell’ "Ictus", così la Caritas, da non confondere con "caritas" ("mammona"). Buona ri-nascita e buon onomastico ... Buona giornata.
c) Risposta
Dante aspetta ancora. Dalla tragedia "divina" alla "divina" Commedia
d) Messaggio dell’Amico:
La vita dei continui passaggi, per metterla in filosofia, del continuo divenire di Eraclito. Senza la tragedia( il negativo assoluto) non ammireremmo neanche la Bellezza e la Bontà.
e) Risposta:
infatti! Eraclito era di Efeso ed è suo il principio ripreso e rilanciato dall’ Apostolo Giovanni (non dal Paolo, Saulo di Tarso): il Logos. Il Logos, non è il logo di un’azienda, di una setta,o di un partito: è "l’amore che move il sole e le altre stelle" (Dante Alighieri). Della Terra, il brillante colore...
STORIA #FILOSOFIA #LETTERATURA E #STORIOGRAFIA: DANTE ALIGHIERI.
Una nota a margine della presentazione sull’Editio Princeps della Commedia:
FILOLOGIA E #CRITICA. PARTIRE DALLA #DIVINA COMMEDIA DEL 1472, E’ PROPRIO UN BRILLANTE #SEGNAVIA DI RIFERIMENTO CHE SI "AGGANCIA" ALL’OPERA DI #VICTORHUGO, "NOTRE-DAME DE PARIS 1482" (PUBBLICATA NEL 1831) E ALLA RIAPERTURA DELLA CATTEDRALE DI NOTRE-DAME, L’#8DICEMBRE 2024, ED E’ ANCHE [UN GRANDE AUGURIO A TUTTA L’#EUROPA, AFFINCHE’ SIA CAPACE DI USCIRE DAL #LETARGO (Par. XXXIII, 94) E DALLA "#AIUOLA CHE CI FA TANTO FEROCI" (Par. XXII, 151) E SAPPIA RITROVARE LA #DIRITTA VIA DELLA ##PACE E DEL #RISPETTO CON TUTTE LE GENTI DEL #PIANETATERRA.
NOTE:
DOC.:
#STORIA E #LETTERATURA (#DANTE ALIGHIERI), #FISICA (#GALILEO #GALILEI), "#METAFISICA" (#EINSTEIN), E #COSMOLOGIA #QUANTISTICA:
CON DANTE (E GOETHE) ALLA RICERCA DEL "TEMPO PERDUTO" ("TEMPS PERDU"), E FUORI DAL "BUCO NERO".
"L’ORDINE DEL TEMPO" (ANASSIMANDRO). PUR VOLENDO ACCOGLIERE E CONDIVIDERE LA SEGUENTE MAGISTRALE RIFLESSIONE ESPRESSA da J.W. Goethe, in una lettera a Friedrich #Schiller, il 27 ottobre 1797 :
FORSE, NON E’ MALE RIFLETTERE PRIMA SU UNA BELLA E ILLUMINANTE CHIARIFICAZIONE FILOLOGICA E CRITICA di #Ennio #Flaiano nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia” Divina Commedia": "L’amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galilei”.
ALLA LUCE DELLE ULTIME RICERCHE E DELLE RECENTI SOLLECITAZIONI a cercare di realizzare "una conoscenza sempre più profonda" sia antropologica sia cosmologica sia teologica, forse, è bene riflettere sulla ipotesi di lettura che Carlo Rovelli fa dell’opera di Dante Alighieri, nel suo libro "Buchi bianchi", e, abbandonata una logica egolatrica e cosmoteandrica, capire finalmente che il "re dell’universo", il "signore" che regola il "grande gioco" del "cosmo" non è un "macroantropo" alla "uomo vitruviano" leonardesco, ma il "sator arepo" del famoso e sillogistico "quadrato magico", il #logos eracliteo del #principio, "l’amor che move il sole e le altre stelle" (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, 145).
A PARTIRE DA #AMLETO, CON #PIRANDELLO ED #EDUARDODEFILIPPO: «TE PIACE ’O PRESEPIO?» DEL #PIANETATERRA?!
INTRODUZIONE. Si racconta che Saulo / Paolo di Tarso, un "cittadino romano"(At. 22, 25-28), sia stato portato fino al terzo cielo (2 Corinzi 12:2): va bene! Da ricordare, però, che #DanteAlighieri ("Io non Enëa, io non Paulo sono") è andato ben oltre i cieli di #Aristotele, come racconta l’astrofisico Carlo Rovelli, una volta uscito dal "buco nero" in cui lucifericamente era caduto!
#METATEATRO E #STORIOGRAFIA: UNA DOMANDA #HAMLETICA PER "RE-SHAKESPEARE" BENE. Antropologicamente (e cristologicamente), c’è da chiedersi, se Paolo ha visto “Gesù Cristo”, come mai - contriamente a quanto visto e insegnato da #Francesco di Assisi con il suo “presepe” (#Greccio, 1223) - non ha notato, accanto a “Cristo” che lo “sgridava” («Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?»), “Giuseppe” accanto a “Maria”?! Dov’è finito il "Giuseppe", discendente della "casa del #ReDavide" ("de domo David")?
UNA "#IMITAZIONEDICRISTO" ALLA PAOLO DI TARSO DI LUNGA DURATA: #NICEA (325 -2025). La domanda logico-storica è: come mai alla sua proposta di imitarlo e seguirlo, tutti e tutte si sono sbagliati e sbagliate a tal punto da seguire lui, Saulo (Paolo di Tarso), e non Gesù: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e #capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3)?
"ECCE HOMO" (F. #NIETZSCHE, 1888): QUALE #PRESEPE SI VUOLE CONTINUARE ANCORA A "COSTRUIRE", OGGI? Quello di Paolo di Tarso o quello di #FrancescodiAssisi? #Dante, cosa aveva già capito, come anche Shakespeare, e Pirandello e, infine, #Eduardo De Filippo (1931)?
"#SIDEREUSNUNCIUS" (#GALILEOGALILEI, 1610): QUALE FUTURO PER IL "#DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" (#GALILEO GALILEI, 1632)?
CAMBIARE ROTTA ("#SVOLTADISALERNO", 1944-1948): "NON E’ MAI TROPPO TARDI" (#ALBERTOMANZI, 1924-1997).
ALL’ORIGINE DEL "CONTRORINASCIMENTO" EUROPEO, LA "#SVOLTA DI #SALERNO" (REGNODINAPOLI,1547-1548).
LA "SVOLTA DI SALERNO": L’#IMPERATORE #CARLOV E DON #PEDRODITOLEDO, ALL’INTERNO DI UN ORIZZONTE EUROPEO E MEDITERRANEO BELLICOSO (CADUTA DI #COSTANTINOPOLI,1453) GIUNGONO A METTERE AL BANDO IL PRINCIPE FERRANTE SANSEVERINO (Luca Addante)] E DANNO IL VIA LIBERA ALLA #TEOLOGIA-#POLITICA DELLA #SPAGNA E DELLA #CHIESACATTOLICA #CONTRO LA #RIFORMA DI #LUTERO (1517) E LA RIFORMA #ANGLICANA DI #ENRICOVIII (1534). NEL SEICENTO IL "MARCIO NELLO STATO DI DANIMARCA" CRESCE SEMPRE DI PIU’(#Shakespeare, #Amleto, 1602): LA #GUERRA DEI TRENT’ANNI (1618-1648) E’ ALLE PORTE.
#STORIA D’#ITALIA E #STORIOGRAFIA: "LE COLONNE DELLA #DEMOCRAZIA" (#LUCA #ADDANTE). SCHEDA EDITORIALE (Editori Laterza, 2024): "Negli anni della Rivoluzione francese i giacobini in Francia furono all’avanguardia nel reclamare la libertà e l’uguaglianza, la giustizia sociale e la sovranità popolare. Un programma fatto proprio da moltissimi italiani, confluiti in un movimento unitario che entrò in scena nel Triennio repubblicano (1796-1799), animando la nascita dell’associazionismo e del giornalismo politici.
Il principale obiettivo del movimento era l’unificazione dell’Italia in un unico Stato repubblicano, democratico e costituzionale. Era la prima generazione del Risorgimento che avviava la sua lunga lotta, nel crogiolo politico e ideologico che vide forgiarsi le correnti protagoniste dei due secoli seguenti: il liberalismo, la democrazia, il repubblicanesimo, il socialismo, il comunismo, l’anticolonialismo, il femminismo.
Quel primo movimento politico italiano nascondeva al suo interno una società segreta, le Colonne della Democrazia, da cui sorse la misteriosa Società dei Raggi, la prima società segreta del Risorgimento sul cui tronco ne fiorirono altre, tra cui la più nota è la Carboneria.
Il libro racconta la nascita del movimento che diede avvio al Risorgimento, perseguendo un programma politico avanzatissimo attuato solo in parte con l’Unità d’Italia e più compiutamente - ma non appieno - realizzato dopo la Resistenza al nazi-fascismo e la Costituente." (cit.).
PSICOANALISI, LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA...
"LUCIFERO-AMORE": UN NODO DA RIPENSARE E SCIOGLIERE. IL PROGRAMMA DI RICERCA E DI VITA DI SIGMUND FREUD
CONSIDERANDO CHE il titolo della #rivista di #storia della psicoanalisi, "#Luzifer-#Amor" (https://lnkd.in/darRW_ca ), rinvia consapevolmente a una lettera dello stesso #Freud, al suo amico #Fliess, del 10 luglio 1900, in cui egli scrive con grande lucidità che "I grossi problemi non sono ancora risolti. Tutto ondeggia e albeggia, un #inferno intellettuale, una cosa sopra l’altra, dall’abisso più profondo si profilano alla vista i tratti di Lucifero-Amore", a un anno dalla pubblicazione della "#Interpretazione dei #sogni" (1899), a ben ricordare, forse, è opportuno riflettere ancora su queste parole e ripensare a quelle connesse all’#Acheronta #movebo" (#Eneide VII, 312) in epigrafe all’opera.
L’associazione da parte di Freud, della figura della tradizione ebraico-cristiana di Lucifero e della figura greco-latina di Amore (#Virgilio, #Bucoliche, X. 69: "Omnia vincit Amor, et nos cedamus #Amori"), di #Eros-#Cupìdo, getta inedita #luce sul suo programma di #ricerca e sul suo cammino di #vita. (Sul tema, mi sia lecito, si cfr. FEDERICO LA SALA, "KANT, FREUD, E LA BANALITÀ DEL MALE").
NOTA:
Federico La Sala
PSICOANALISI, LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA...
"LUCIFERO-AMORE": UN NODO DA RIPENSARE E SCIOGLIERE. IL PROGRAMMA DI RICERCA E DI VITA DI SIGMUND FREUD
CONSIDERANDO CHE il titolo della #rivista di #storia della psicoanalisi, "#Luzifer-#Amor" (https://lnkd.in/darRW_ca ), rinvia consapevolmente a una lettera dello stesso #Freud, al suo amico #Fliess, del 10 luglio 1900, in cui egli scrive con grande lucidità che "I grossi problemi non sono ancora risolti. Tutto ondeggia e albeggia, un #inferno intellettuale, una cosa sopra l’altra, dall’abisso più profondo si profilano alla vista i tratti di Lucifero-Amore", a un anno dalla pubblicazione della "#Interpretazione dei #sogni" (1899), a ben ricordare, forse, è opportuno riflettere ancora su queste parole e ripensare a quelle connesse all’#Acheronta #movebo" (#Eneide VII, 312) in epigrafe all’opera.
L’associazione da parte di Freud, della figura della tradizione ebraico-cristiana di Lucifero e della figura greco-latina di Amore (#Virgilio, #Bucoliche, X. 69: "Omnia vincit Amor, et nos cedamus #Amor"), di #Eros-#Cupìdo, getta inedita #luce sul suo programma di #ricerca e sul suo cammino di #vita. (Sul tema, mi sia lecito, si cfr. FEDERICO LA SALA, "KANT, FREUD, E LA BANALITÀ DEL MALE").
NOTA:
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, LINGUISTICA, E PSICOANALISI:
SULLE ALI PARADIGMATICHE DI UN MATRIMONIO, UN "VIAGGIO IN SICILIA" (GOETHE) CON DANTE, SAUSSURE, E FREUD.
A NON SOTTOVALUTARE l’importanza del lavoro di Franco Lo Piparo, "Sicilia isola continentale. Psicoanalisi di una identità" (Sellerio 2024), forse, è opportuno tenere presente il punto di vista (e di partenza) e l’oggetto (il punto di arrivo, il risultato) della ricerca, che riesce a riannodare strutturalmente e magistralmente (senza ricadere dentro lo "strutturalismo") insieme #lingua #istituzioni e #società.
IL SEGNAVIA è una formula di #matrimonio in volgare siciliano scritta in caratteri greci, forse, degli anni 1259/1266, durante il #regno di Manfredi di Svevia. Un percorso illuminante, a mio parere.
Per non sprecare questa occasione "storica", credo che sia opportuno non lasciarsi accecare (edipicamente) dal legame (per lo più giocastico) con la propria "santissima" #Mamma, la "Madre mediterranea", e accogliere al meglio cio’ che appare essere una straordinaria "risposta" di un "alunno" alle lezioni dei suoi "maestri" (a cominciare da Renato Guttuso, da Tullio De Mauro, e da Umberto Eco->), e, in particolare, una sollecitazione (da un "alunno" diventato "maestro", a pieno titolo) a ri-leggere antropologicamente il "Corso di Linguistica Generale" di Ferdinand de #Saussure, riprendendo il filo dal "circuito della #parole": "Siano, dunque, due persone che discorrono: A e B."!.
ANTROPOGENESI FILOLOGIA E FILOSOFIA: CHE GRANDE "PREISTORIA" DELL’INTERA #UMANITA’ DEL PIANETA TERRA!
RIPARTIRE DA CAPO, E IMPARARE A #CONTARE, A #CALCOLARE...
INDIVIDUO E SPECIE: "L’ONTOGENESI RICAPITOLA LA FILOGENESI" (ERNST HAECKEL).
MA QUALE "RICAPITOLAZIONE", COME DA #ANTROPOLOGIA COSMICA, QUALE QUELLA DI #DANTE ALIGHIERI ("L’#AMOR CHE MUOVE IL #SOLE E LE ALTRE #STELLE") O COME QUELLA (DELL’ATTUALE #PRESENTE STORICO) DA #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DA "#CAVERNA" PLATONICA E PAOLINA?!
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1784). NON E’ IL CASO DI CORRERE AI RIPARI E, FINALMENTE, uscire dall’orizzonte della #tragedia e dal #letargo epistemologico e #correggere un’operazione #matematica "sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#Franca Ongaro #Basaglia, 1978)!!!
COSMOTEANDRIA E STORIA. LA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio [ ὅτι παντὸς ἀνδρὸς ἡ κεφαλὴ ὁ Χριστός ἐστιν, κεφαλὴ δὲ γυναικὸς ὁ ἀνήρ, κεφαλὴ δὲ ⸀τοῦ Χριστοῦ ὁ θεός.]"(1 Cor. 11, 1-3).
ANTROPOLOGIA (KANT), TEATRO (#SHAKESPEARE), E #PSICOANALISI (#FREUD):
IL "MOUSETRAP" DI "AMLETO ED OFELIA" ("HAMLET", III.2) E L’ "ONORA IL PADRE E LA MADRE" ANTROPOLOGICO E "BIBLICO".
QUALE "MODELLO" DI #RELAZIONE IN UNA MODERNA SOCIETA’ DEMOCRATICA? QUALE RAPPORTO TRA LE #GENERAZIONI? CITTADINI SOVRANI E CITTADINE SOVRANE, FIGLI E FIGLIE DI ’MARIA’ E ’GIUSEPPE’, O DI ’GIOCASTA’ E ’LAIO’? O, PER CASO E ANCORA, FIGLI E FIGLIE DELLA LUPA (DI REA SILVIA E MARTE)?
LO "SPETTRO" DI "#GIUSEPPE" SI AGGIRA ANCORA PER LA "#DANIMARCA" ..... MA IN VATICANO NON LO SANNO. Vivono tutti ancora a Tebe, nella città del re Edipo! Con un’antropologia preistorica, la Chiesa Cattolica avanza sicura, verso il tremila prima di Cristo E SI PREPARA A FESTEGGIARE #NICEA (325-2025)!
Fino a quando zoppicheremo con i due piedi?: questa è una domanda - già di molti secoli prima di Cristo - del profeta Elia (1 Re: 18, 21), ma - come si sa - rilanciata da #SigmundFreud, nel XX secolo dopo Cristo! A CHE "GIOCO" SI VUOLE CONTINUARE A GIOCARE?
ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI: DANTE ALIGHIERI, LA #DIVINACOMMEDIA, "LA SACRA #FAMIGLIA" (#MARX-#ENGELS), E L’#ANDROCENTRISMO CONTEMPORANEO.
STORIA #LETTERATURA E #FILOLOGIA. CONSIDERANDO CHE il #23settembre richiama anche il giorno della morte di #SigmundFreud, e RICORDANDO, ancora , che all’inizio della sua "#Interpretazione dei sogni (1899) c’è il virgiliano #AcherontaMovebo", personalmente, devo dire che resto sempre più che sorpreso dell’accettazione del #fatto che si accolga acriticamente non solo il "giudizio" di #UmbertoEco ma anche dell’intero mondo accademico delle scienze storiche logiche e filologiche (dopo i #maestridelsospetto), e non si aprino gli occhi sugli innumerevoli #segnavia posti dallo stesso #Dante Alighieri sul suo cammino.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! COME E’ (STATO) POSSIBILE (ADDIRITTURA PER SETTE SECOLI) ACCREDITARE la #madre di #Dante, #Bella (che a #Virgilio così parla:
come la giovane Beatrice ... fino a fare del Poeta una persona incapace di essere spiritualmente fedele alla sua sposa #GemmaDonati, di essere un #padre onesto e leale con i propri figli e, infine, di capire persino la ragione del perché sua figlia Antonia, entrata in convento, prenda il nome di suor #Beatrice? Boh e Bah?! Mistero dell’altro mondo? Chi ha paura di Beatrice?
USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA, CON DANTE E #FREUD: INVERTIRE IL #PRESENTE...
DA DOVE VENGONO I BAMBINI?" (Emma Eckstein) E #COMENASCONOIBAMBINI (Sigmund Freud, 1937)?
Sul piano dell’antropologia, delle tradizioni linguistiche e popolari, e della psicologia (e dell’amletico "marcio nello stato di Danimarca"), partendo dal "#gattonare" dei bambini e delle bambine e, passando dal "#gattaro" e dalla "#gattara", c’è da pensare anche al #verbo "gattare" e, infine, alla simulazione giocosa della "#Mousetrap" realizzata da Amleto e Ofelia nell’opera di #Shakespeare, per smascherare chi ha distrutto la "trappola per topi" realizzata dal "Re Amleto" e dalla "Regina Gertrude" nel loro #giardino e ucciso il Re! Non è meglio rileggere l’opera di Shaespeare e celebrare la #memoria di Santa Gertrude di Nivelles?!
INVERTIRE IL PRESENTE E RIATTIVARE LA MEMORIA (E IL SERVIZIO POSTALE): RIANNODARE LE FILA DELLA #STORIA "LOCALE" E DELLA STORIA "GLOBALE".
Una nota a margine di un evento della seconda metà del 1600 (v. allegato), del #RegnodiNapoli, #Vicerame #spagnolo: l’apertura di un "ufficio postale con procaccia" nella città di #Contursi (nel #PrincipatoCitra: l’attuale città di #ContursiTerme, in #provincia di Salerno).
PER UN SECONDO (E ALTRO) RINASCIMENTO, CONTRO LA "#MALINCONIA BAROCCA", UNA SOLLECITAZIONE STORIOGRAFICA A SVEGLIARSI DAL "#SONNODOGMATICO" E RICONSIDERARE L’IMPORTANZA STRUTTURALE E STRATEGICA DEL #SERVIZIOPOSTALE NELLA #ECONOMIA #POLITICA DELL’IMPERATORE #CARLOV E NELLA VITA DELL’#EUROPA:
“Tutta la storiografia recente converge verso un’idea del rapporto fra Spagna e Italia nel Cinque e nel Seicento assai diversa da quella tradizionale. Gli Asburgo non furono solo i dominatori di gran parte della penisola per due secoli. Il loro impero costituì un importante quadro di integrazione politica che consentì all’Italia una partecipazione non proprio marginale alla grande storia europea” (cfr. #AurelioMusi, "Alla periferia dell’impero (ma non troppo)", L’identità di Clio, 4 Marzo 2020).
NOTE:
MEDEA E ULISSE, IL «POLUTROPOS ANER» DELL’ODISSEA: "IO MI CHIAMO NESSUNO" ("JE M’APPELLE PERSONNE) E IL PROBLEMA DELL’ «ESSERE, O NON ESSERE» (SHAKESPEARE, "AMLETO", III.1).
IL "VELLO D’ORO" DI GIASONE E MEDEA, E LA FIGURA ("TROPICALLY") DELLA "TRAPPOLA PER TOPI" ("THE MOUSETRAP") DI AMLETO E OFELIA (HAMLET, III.2).
ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA. CONSIDERANDO CHE Medea" (in greco antico: Μήδεια, Mḕdeia), a mio parere, richiama... "Ou-tis" (Odissea IX,366: Οὔτις ἐμοί γ’ ὄνομα), "Ne-Homo", "#Nessuno", "Nulla", "Niente" (in greco antico: Mηδείς, Medéis) è una figura "duplice" (allude a Sé e a Nessuno), come quella di Odisseo (di Ulisse con Polifemo), il nodo genealogico resta, e il problema "ontologico" (dell’ essere) della risposta alla questione della Sfinge anche: "Chi" sei?
"METAMORFOSI" E "DIVINA COMMEDIA": "TRASUMANAR" (Par., I. 70). #DanteAlighieri, a quanto risulta, ha ben riflettuto sia su "Ulisse e Penelope" sia su "Giasone e Medea", come su "#Edipo e #Giocasta", e ha saputo trovare l’uscita antropologica dall’orizzonte "olimpico" della "tragedia", dalla "caduta" all’inferno: egli non ha fatto naufragio. Forse è bene tenerne conto.
STORIA (TEATRO), METASTORIA (METATEATRO), LETTERATURA, E STORIOGRAFIA:
"AMLETO IN PURGATORIO" E "NEOSTORICISMO" ("NEW HISTORICISM")?
"SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784; MICHEL FOUCAULT, 1984). Con i "maestri del sospetto" (P. #Ricoeur), #Marx e #Freud e #Nietzsche, e #WalterBenjamin, forse, è bene riprendere la lettura dell’opera di Shakespeare e cercare di uscire dal più che millenario "letargo" (Dante Alighieri).
CULTURA E SOCIETÀ: "NEW HISTORICISM". "WWGD?" ("Cosa farebbe Greenblatt?"). "Cum grano salis": le indicazioni di Kermode, come i lavori di Greenblatt, sono importanti sollecitazioni, ma dicono solo dell’immane "ritardo" storiografico (a tutti i livelli) relativo alle conoscenze della nostra stessa storica realtà (composta di storie di storie di storie...). Già solo i titoli: "Amleto in Purgatorio" ("𝘏𝘢𝘮𝘭𝘦𝘵 𝘪𝘯 𝘗𝘶𝘳𝘨𝘢𝘵𝘰𝘳𝘺") e "Arte tra le rovine" ("Art Among the Ruins"), cosa cercano di far capire?
"THE TIME IS OUT OF JOINT"("Hamlet", I.5). SHAKESPEARE, cosa fa con "Amleto"? A partire dal proprio "presente storico" (dallo "stato di Danimarca"), con ben altra radicalità, non riprende dall’immaginario ereditato il filo del "#principio" (antropologico e teologico-politico), non lo riporta in #luce con la sua "trappola di topi" ("The #Mousetrap"), e non sollecita a portarsi oltre il proprio tempo, un "tempo fuori dai cardini"?! A quale "storicismo" si vuole continuare a "#giocare", oggi?
Nota:
MICHELANGELO, I PROFETI, LE SIBILLE, E LE "STREGHE" DI BENEVENTO: CONTRORIFORMA E CONTRORINASCIMENTO.
ANTROPOLOGIA CULTURALE #ARTE E #STORIA. A lume di #antropologia storica e "#immaginazione sociologica", si può ben pensare che Michelangelo (associandosi al santo patrono di Benevento, all’apostolo Bartolomeo, con la "#sindone" del suo "#autoritratto": ), nel #GiudizioUniversale, protestava "cristianamente", contro la #gerarchia di un #cattolicesimo istituzionalizzato (assetato di potere, all’ombra e al servizio del dio "#Mammona", incapace di accogliere le sollecitazioni della #Riforma Luterana e Anglicana), che aveva rifiutato la proposta di far camminare insieme profeti e sibille, come da chiara indicazione ecumenica e "francescana, nella "Volta" della #CappellaSistina e nel "#presepe" del #TondoDoni) e contro l’equiparazione di #janare e #sibille (come da tradizione "cattolica", delle "streghe", che si riunivano presso l’antico albero di "noce di benevento", per il famoso "concerto" sabbatico.
LETTERATURA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (KANT): QUALE "LEGAME" PER DANTE TRA BERNARDO DI CHIARAVALLE E FRANCESCO DI ASSISI?
CON LA #NAVE DI "#GIASONE" ("#DANTEALIGHIERI") E LA SUA #DIVINACOMMEDIA ("L’OMBRA D’#ARGO"), UN "INVITO" A PORTARSI FUORI DALL’ORIZZONTE DELLA "#CADUTA" E DELLA #TRAGEDIA... *
A MIO PARERE, LA #DIVINA COMMEDIA, IL PERCORSO DELL’ #AUTORE E DEL #PERSONAGGIO, #DANTE ALIGHIERI, E’ LA SUA "SALOMONICA" RISALITA ALLA #SORGENTE DELL’AMORE COSMOLOGICO E ANTROPOLOGICO, E, CON L’AIUTO DELLA #MEMORIA DI "#BERNARDO" ("GIUSEPPE") E "#BEATRICE" ("MARIA"), LA "EVANGELICA" RINASCITA DI SE’ STESSO, COME DI UN "ALTRO #CRISTO" (COME UN ALTRO FRANCESCO DI ASSISI).
OLTRE LA #COSMOTEANDRIA "ADAMITICA" ED "EDIPICA": "ECCE HOMO" ("#ANTHROPOS"). IL "VIAGGIO" DI DANTE E’ UN CHIARIMENTO ANTROPOLOGICO FONDAMENTALE SU COME SI DIVENTA CIO’ CHE OGNI #ESSEREUMANO E’, IL "FIGLIO", IL "CRISTO" (IL "CRISTIANO", LA "CRISTIANA") DEL "DIO" ("DEUS") DELL’AMORE ("CHARITAS") CHE "MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" (Dante, Par. XXXIII, 145): IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS.
NOTA:
TEATRO METATEATRO E PIANETA TERRA:
IL "MULINELLO" DI SHAKESPEARE, LA GLOBALIZZAZIONE CATTOLICO-SPAGNOLA DEL SEICENTO EUROPEO, LA CRISI CONTEMPORANEA DELL’IMPERO AMERICANO, OGGI: "SAPERE AUDE! (KANT, 1784), E LA "RIPENESS" DEL "NOSTRO TEMPO".
CON L’ARTICOLO "Hamlet, Prince of #Denmark: Conspiracy Theorist for Our Times", Paul Adrian Fried propone un’ottima sintesi e un’aggiornata #analogia:
ESSERE, O NON ESSERE: "RIPENESS IS ALL" ("KING LEAR", V.2). A mio parere, tuttavia, la #consapevolezza di #Amleto è da collocarsi (come Shakespeare sembra volere e come sembra che lo stesso autore voglia fare) a un livello più propriamente "biblico", storico e metastorico: vale a dire, sul piano della "#caduta" (antropologica e teologica), e sulla determinazione #critica di portarsi fuori dall’orizzonte teologico-politico del #Mentitore, del "#Serpente" - di uscire dall’infernale "vicolo cieco" e, possibilmente, riprendere la via per recuperare l’orizzonte del "#paradisoterrestre" e celeste (come da indicazione di Dante Alighieri). Si tratta di portarsi, accogliendo i vari "rimandi" evangelici dello stesso Shakespeare, fuori dallo "#stato di #minorità", e, al contempo, aver il #coraggio di servirsi della propria intelligenza" (Kant), non ci sono altre vie: “Che c’è, ancora cattivi pensieri? Gli uomini devono sopportare / la loro uscita dal mondo come la loro venuta; / la #maturità è tutto. Andiamo” (Shakespeare, "#ReLear", V. II).
EARTHRISE (L’ALBA DELLA MERAVIGLIA, IL "SORGERE DELLA TERRA"). Ciò che nel tempo presente, qui ed ora, appare essere importante e urgente (dal punto di vista di un possibile ONU = UNO o dI astronauti e di astronaute che guardano dall’esterno il Pianeta Terra), da una parte, capire che il "serpente" non è altro che un’#anguilla alla #ricerca dell’via di uscita per raggiungere l’#oceano e, dall’altra, comprendere che occorre alimentare al massimo la fiamma del desiderio di "seguir virtute e canoscenza" (Inf. XXVI, 119), di "rivedere le stelle" (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 139), e di riprendere la navigazione nell’oceano celeste (#Keplero a #Galileo #Galilei, 1611).
"X AGOSTO" (10 AGOSTO): "DA COPERNICO IN POI L’UOMO ROTOLA VERSO UNA X" (NIETZSCHE, 1886).
MEMORIA, STORIA E LETTERATURA
Aicune note intorno alla poesia di Giovanni Pascoli:
X Agosto
San Lorenzo, io lo so perchè tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perchè sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole, in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano, in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
ANTROPOLOGIA CHIASMATICA ("NEXOLOGIA") E COSMOLOGIA:
TERRA E CIELO. Nel suo testo, Pascoli tocca corde molto prossime alle riflessioni di Nietzsche sul tema della cosiddetta "morte di Dio" (e dell’Uomo). La questione appare essere personale, ma si contestualizza in un orizzonte universalmente umano, antropocosmico: la "X", posta davanti ad "Agosto", non richiama solo l’incognita e l’ignoto, ma anche e soprattutto la "X" greca (il "Chi" della relazione, della "nexologia" antropologica e cosmologica.
"DA COPERNICO IN POI L’UOMO ROTOLA VERSO UNA X" (NIETZSCHE, 1886). Con Carducci (v. "Pianto antico": Il testo autografo, legato alla morte del figlioletto Dante avvenuta nel 1870, reca la data giugno 1871) e, con Pascoli (v. "X agosto": il testo fu pubblicato il 9 agosto 1896, ma è legato alla morte del padre Ruggero, ucciso mentre tornava a casa dal mercato in circostanze misteriose il 10 agosto 1867, il giorno in cui si celebra san Lorenzo, quando Pascoli ha appena 12 anni), e, volendo, con Nietzsche, si comprende meglio da una parte il senso dell’euforia tecnologica dell’ inno "A Satana" (Carducci, 1863) e, al contempo, l’allarme di Nietzsche, che, riaggiornando la lezione di Diogene di Sinope, ricorda
e, ancora, dello stesso Pascoli, della incapacità epocale dell’uomo del suo tempo (che annuncia già Kafka) di leggere "sotto le stelle, il libro del mistero" (G. Pascoli, "Il libro", 1907).
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA: L’EUROPA E LE OLIMPIADI DI PARIGI 2024.
CON HEGEL (E PAOLO DI TARSO), OLTRE: UN PROBLEMA DI RICONOSCIMENTO, ALL’ORDINE DEL GIORNO DEL PIANETA TERRA.
DOPO IL FORMIDABILE PUNTO FERMO SUL TEMA DELL’#AUTOCOSCIENZA E DEL RICONOSCIMENTO MESSO DA HEGEL NELLA "#FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO" (1807), una rimemorazione "storiografica" epocale (da #Delfi a #Jena, e da Socrate e Platone allo stesso Hegel), arrivati a #Paris2024, c’è ancora da riflettere ancora e ancora proprio sul "ri-conoscere" ("an_erkennen"), e, possibilmente e urgentemente, fare un passo oltre lo storico "#compromesso olimpico" della #cosmoteandria della #tragedia! Come mai dopo millenni (e, dopo Napoleone, dopo Auschwitz, e dopo Hiroshima e Nagasaki), si continua a "cantare" il #ritornello dell’ «aner», dell’«uomo» di Paolo di Tarso, e dell’universale #paolinismo:
#Achegiocogiochiamo? A quali "Giochi" si vuole continuare ad aggiogare l’intero Pianeta, la "nave" Terra, nell’oceano celeste (#Keplero)?! Non è ora di cambiare rotta?! E, con #DanteAlighieri, uscire dall’#inferno?!
NOTE:
ANTROPOLOGIA #CRITICA (#KANT) E #VITAEFILOSOFIA (NIETZSCHE, "ECCE HOMO", 1888): "LA SOCIETA’ APERTA" (KARL POPPER) O LA SOCIETA’ CHIUSA?!
RICORDANDO la frase di #Hugo: "Io sono parigino di nascita e «parrisiano» nel parlare, dal momento che «parrhisia» in greco significa libertà" ("Notre Dame de #Paris", L. I, cap. III), OGGI, NON POSSIAMO NON DIRCI "POPPERIANI" E, AL CONTEMPO, NON DIRCI "CRISTIANI" (CON #BENEDETTOCROCE): SI TRATTA DI CAMBIARE ROTTA E ANDARE #OLTRE "L’UOMO" , OLTRE L’#ANDROCENTRISMO E LA #COSMOTEANDRIA DELL’ANTICA #ALLEANZA DELL’ORIZZONTE DELLA "CADUTA", DELLA TRAGEDIA (#PLATONE ED #HEGEL), E DEL #PAOLINISMO COSTANTINIANO (#NICEA, 325-2025).
RICONOSCIMENTO (ANERKENNUNG): RICONOSCER-SI. Tra "Parresia" (parlare chiaro e liberamente) e - #Parousia ("Parusia", #presenza del "divino" nel mondo, nell’ottica teologico-politica socratico-platonica e paolino-hegeliana), corre un rapporto "metafisico" strettissimo che dice proprio se si sta parlando con lo #spirito critico ed evangelico (di libertà uguaglianza fratellanza e sorellanza, nel rispetto della differenza e delle differenze), all’aria aperta e alla luce del Sole ("#Logos"), o nel recinto ("#Logo") dell’ombra del "dio" di turno (quale #AlessandroMagno di fronte a #Diogene di Sinope) di una "preistoria" di lunga durata.
SORGERE DELLA TERRA (#EARTHRISE): CONSIDERAZIONI IN-ATTUALI (2001). "Intorno a noi, la Terra, c’è il "cielo puro" e il "libero mare" - come scriveva Nietzsche, non ci sono gli extra-terrestri, che ci verranno a salvare o a distruggere. Gli extra-terrestri siamo noi! Cosa vogliamo fare? Forse ci conviene deporre le armi e cominciare a dialogare in spirito di verità" (Cfr. Federico La Sala, "L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, Karol Wojtyla e, p. c., a Nelson Mandela)", Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, p. 48).
PSICOANALISI E LETTERATURA: UNA "STRAORDINARIA" IDEA DI DANTE ALIGHIERI.
SEGUIRE LACAN, PER IMPARE A RI-LEGGERE LA "DIVINA TRAGEDIA".
QUANDO L’INTERA CULTURA ACCADEMICA (LAICA E RELIGIOSA), ANCORA E PER LO PIU’, NAVIGA NELL’ORIZZONTE (v. allegato) DEL "SAPIENTE" (1510) DI BOVILLUS, IN UN ANDROCENTRISMO CHE IGNORA ADDIRITTURA "COME NASCONO I BAMBINI", E’ SEMPLICEMENTE "PANE QUOTIDIANO" LEGGERE DELLA SEGUENTE OPINIONE, TEORICAMENTE "DIMOSTRATA", SULLA VITA DELL’AUTORE DELLA "DIVINA COMMEDIA":
DOPO 700 ANNI E OLTRE DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, COME NON SI PUO’ NON CONTINUARE A DESIDERARE (VIVERE, SOGNARE E RAGIONARE) IN UN MARE DI "TRAGICHE" ED "EDIPICHE" PREMESSE E, NEL CONTEMPO, A PORTARE LO SVILUPPO DEL "MARCIO NELLO "STATO DI DANIMARCA" (SHAKESPEARE, "AMLETO") OLTRE OGNI LIMITE?!
"COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (SIGMUND FREUD, 1937). Contrariamente a quanto la scuola "platonica" di Lacan sostiene, a ben riflettere, non è "un amore senza desiderio [che] è un amore morto", ma è un desiderio ("Eros", "cieco" e "saettante", violento) senza amore ("grazia") che è un desiderio morto: #apriregliocchi, e #amare "sé come un altro", alla luce del sole (e del "padre" e della "madre"), è vietato, come dinanzi a un "padre" edipicamente #morto (#Freud, in movimento autoanalitico, insegna).
UNA "CADUTA" NELLA "PREISTORIA". Solo una "bella" storiografia e, altrettanto, una "bella" #filologia, segnate da un comune e profondo #sonnodogmatico (#Kant), probabilmente, hanno potuto rendere possibile il permanere di questa concezione tragica del desiderio e ri-consegnare la #Commedia di #Dante #Alighieri nella mani di #Socrate e #Platone e "costringere" a ri-leggerla come una "divina tragedia"!
NOTA. Sul tema, per eventuali approfondimenti, si cfr. Federico La Sala, «La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia"», «il dialogo», 2007 ).
RIPENSARE LA "LETTURA DANTESCA E LETTURA UMANISTICA NELL’IDEA DI IMPERO" DI MERCURINO GATTINARA PROPOSTA DA GIUSEPPE GALASSO, RICONSIDERANDO CON ATTENZIONE IL CLIMA TEOLOGICO POLITICO E SOCIALE DELLA NAPOLI E DELLA SALERNO ALL’EPOCA DEL PRINCIPE FERRANTE SANSEVERINO:
A) RICONSIDERARE LA FIGURA DI FERRANTE SANSEVERINO.
B) RIPRENDERE E RIPENSARE L’ANALISI DELLA "Lettura dantesca e lettura umanistica nell’idea di impero del Gattinara" DI GIUSEPPE GALASSO:
"«L’ideale imperiale» del Gattinara -affermó il Brandi- «non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante». II giudizio del Brandi merita una considerazione particolare. E noto che la svolta fondamentale negli studi sul cancelliere di Carlo V è stata segnata dalle ricerche e dai lavori di Carlo Bornate tra la fine del secolo xix e i primi decenni del secolo xx. E anche noto, pero, che «i risultati del Bornate sarebbero passati inosservati, se non fosse stato per le ricerche di Karl Brandi, due decennii dopo, nella preparazione del suo grande studio su Carlo V», il cui primo volume apparve nel 1937 e il secondo, contenente appunto, con le note al primo volume, gli esiti di quelle ricerche, nel 1941. Eppure, l’importanza del Gattinara nell’ entourage di Carlo V fu ben nota agli stessi contemporanei’’. Sarebbe di grande interesse spiegare l’oblio al quale la sua figura storica appare consegnata fino a che, da Bornate e Brandi in poi, egli è riemerso come un punto di riferimento fondamentale nella storiografia su Carlo V per gli anni ’20 del lungo regno dell’Imperatore’. Qui noi ci vogliamo, pero, fermare piuttosto sull’idea di impero, per la quale si ha un consenso generale degli studiosi nel vedere in essa uno dei motivi piü importanti, se non proprio il piú importante, della sua influenza su Carlo V. [...]
[...] attraverso un’acuta riflessione sul mutare delle circostanze secondo il corso degli eventi; é nella centralita della posizione dinastica asburgica, perno di quella tradizione; che Gattinara maturo le convinzioni e le posizioni per cui esercitò su Carlo V, specialmente in alcuni momenti o su alcuni problemi, un’influenza notevole.
Ben poco c’entra, come si è visto, l’idea imperiale di Dante; e ben poco anche
l’Umanesimo, erasmiano o non erasmiano che fosse. Molto, invece, c’entrava il tipo di cultura giuridico-amministrativa, che fu suo; e molto anche O rápido assorbimento dei principii e delle spinte dell’ideologia e della politica asburgica: una restaurazione della maestà imperiale in tutto ñ suo prestigio, vigore, ampiezza, specialmente dacché, grazie ai matrimoni borgognoni e iberici, «la potenza mondiale della casa offriva a questeaspirazioni di dominio sopranazíonale una base moderna e concreta». Ed è, quindi, alla luce di queste considerazíoní che vanno letti anche gli indirizzi di politica italiana e imperiale di cui il Gattinara si fece interprete e propose all’attenzione del suo Imperatore, sulla base di valutazioni molto più realistiche, modeme, pregne di «ragion di
stato» e di Real-politik e molto meno ideologiche e volte al passato di quanto molti studiosi ancora ritengono. " (cfr. G. Galasso, "Lettura dantesca e lettura umanistica nell’idea di impero del Gattinara", pp. 93-114, - ripresa parziale, senza note).
C) RILEGGERE LA MONARCHIA DI DANTE ALIGHIERI, FOCALIZZANDO L’ATTENZIONE SULLA DOTTRINA DEI "DUE SOLI", E, IN PARTICOLARE, SULLA LETTERA DI MERCURINO GATTINARA AD ERASMO DI ROTTERDAM DEL MARZO DEL 1527 PER SOLLECITARLO A PROMUOVERE UNA EDIZIONE DELL’OPERA DI DANTE (cfr. Enrico Castelli, "Machiavellismo e Cristianesimo", in: E. Castelli," I presupposti di una teologia della storia", Padova 1968, p. 217).
Federico La Sala
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO, E LA FILOSOFIA. UNA NOTA PER NON PERDERE DEFINITIVAMENTE LA BUSSOLA TRA I VARI CATTOLICISMI (ATEI E DEVOTI) E PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO", SULLA #HAMLETICA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA (#KANT, 1800).
IN VIAGGIO CON #ULISSE: "CONSIDERATE LA VOSTRA SEMENZA" (INF. XXVI, 118), "COME NASCONO I BAMBINI"?
L’ALLEANZA DI #FUOCO, L’AMORE, E LA "DIVINA COMMEDIA": UN SEGNAVIA PER USCIRE DALLA "PREISTORIA"! UNA NUOVA #ANTROPOLOGIA E UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA: "#MARIA" E "#GIUSEPPE" UGUALI DAVANTI A "DIO" (#AGAPE, #CHARITAS).
RIPARTIRE DAL "#PRESEPE" (#FRANCESCO DI #ASSISI, 1223).
L’AMORE DI "#DUE SOLI" (#DANTEALIGHIERI) E IL
BAMBINO: "ECCE #HOMO" (#CRISTOLOGIA).
NOTE:
FRANZ KAFKA, IL #BAMBINO DI PRAGA, E UNA "ARCHAICA" PREMESSA DI CIVILTÀ.
UNA NOTA di ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT2024), SULLO STORICO PRESENTE DELL’#EUROPA:
"[...] Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia. Milano,20.01.2001 d.C».
NOTE:
IL "SAPERE AUDE" (#ORAZIO), LE "FRUTTIFERE" OPERE DELL’IMPERATORE RODOLFO (ARCIMBOLDO), E LA "PACE PERPETUA" (#KANT): #ARTE, #LETTERATURA, TEOLOGIA-POLITICA E... "PARADISO PERDUTO" (JOHN #MILTON)?!
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LA LUNGA ONDA DEL #RINASCIMENTO, IL SOGNO "UTOPICO" DEL GIARDINO, E IL "CORPO MISTICO" DELL’IMPERATORE RODOLFO II D’ASBURGO...
LA LEZIONE DI ARCIMBOLDO ( https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Arcimboldo ): UN GRANDE INVITO AD AVERE L’ORAZIANO (E KANTIANO) CORAGGIO DI ASSAGGIARE E A FARE UN BUON USO DELLA PROPRIA FACOLTÀ DI #GIUDIZIO.
NOTE:
QUALE "NESSO"* TRA IL MITO E LA STORIA DELL’EUROPA? UNA IPOTESI DI CHIARIMENTO A MARGINE DEI "SOGNI DI UN VISIONARIO CHARITI CON I SOGNI DELLA METAFISICA".
DEL #PIANETATERRA E DEL SUO BRILLANTECOLORE: IL #CORPOMISTICO DELL’#ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DI PLATONE E COSTANTINO (#NICEA 325-2025) BLOCCA DA MILLENNI LA #NAVIGAZIONE NELL’#OCEANOCELESTE (#KEPLERO, 1611) DEL #GALILEO #GALILEI "CHE HA VINTO" SIA SUL PIANO CELESTE SIA SUL PIANO TERRESTRE E, ancora oggi (#2giugno2024) RENDE DIFFICILE CAPIRE UN’ #ACCA E PORTARSI FUORI DALL’ORIZZONTE DI #MAMMONA ("CARITAS").
"COME NASCONO I BAMBINI": INCARNAZIONE (#MENSCHWERDUNG), ANTROPOLOGIA, E #FILOLOGIA. Riprendendo il filo della "#Charitas" di #GioacchinodaFiore e #DanteAlighieri, forse, è meglio uscire dal "letargo" (Par. XXXIII, 94), e con il #Boehme della "De incarnatione Verbi" riflettere sulla "Charis" (gr. #Xapis") e sul Cristogramma.
NOTA: IL "TRATTATO" DEL "MASTRILLO" (#MAASTRICT), E LA "DIRITTA VIA" (DANTE ALIGHIERI). L’amicizia e l’amore della parola sono decisivi e fondamentali: senza filologia non si va da nessuna parte e non si comprende più il #nesso tra il #prima e il #dopo, si dimentica che "in #principio era il #Logos", e tutti gli erculei esseri umana finiscono per indossare le camicie con il "logo" di #NESSunO.
DIVINA COMMEDIA. Rileggere i "Tre Moschettieri" con Beniamino Placido (1994)... per imparare a ben distinguere il "giglio" di "Milady" dal giglio della Firenze e di (Maria) Beatrice (di Dante Alighieri). *
IL GIGLIO DI MILADY
di Beniamino Placido ["la Repubblica", 8 settembre 1994] **
Ci sono delle buone ragioni per rileggere, d’ estate, I tre moschettieri? Certo che ce ne sono. Tanto per cominciare, non è poi mica così sicuro che l’ abbiamo veramente mai letto (e quindi tantomeno riletto). Non è improbabile che la nostra prima, appassionata ma approssimativa, conoscenza di quei personaggi sia avvenuta per merito (e demerito insieme) di qualche edizione per ragazzi. Dove la traduzione era abborracciata, la vicenda raccorciata, i nomi scarabocchiati male. Non è improbabile che tutto quel che sappiamo di Athos, Porthos, Aramis e d’ Artagnan, sia dovuto al cinema (il film di George Sidney e Gene Kelly, il film di Richard Lester) piuttosto che al romanzo di Dumas.
Il quale romanzo (seconda ragione per affrontarlo) fu pubblicato a puntate su Le Siècle giusto centocinquant’ anni fa: fra l’ undici marzo e l’ undici luglio del 1844. Abbiamo celebrato, ed onorato di scritti commemorativi, tanti anniversari letterari. Sembra giusto celebrare anche questo.
Tanto più (terza ragione) che di buona letteratura si tratta. Si dà il caso che l’ Editore Adelphi abbia ripubblicato quest’ anno La Poesia di Benedetto Croce. Dandoci modo di rileggere il giudizio che il severo, austero don Benedetto ebbe ad esprimere in proposito: "Da parte mia, non provo il rossore di cui altri sentirebbe inondato il volto nel dire che mi piacciono e giudico condotti con grande brio e spigliatezza i Trois mousquetaires di Alessandro Dumas padre. Ancora molti li leggono e li godono senza nessun’ offesa della poesia, ma nascondendo in seno il loro compiacimento come si fa per gli illeciti diletti, ed è bene incoraggiarli a deporre la loro falsa vergogna e il loro congiunto imbarazzo".
La quarta, la quinta, la sesta, l’ ennesima ragione (ci sono anche quelle) aspettano il loro turno, se mai verrà. Ma una ragione addizionale, e tuttavia fondamentale, per una lettura-rilettura estiva va esplicitata subito. Quest’ estate è stata molto calda. Insopportabilmente calda. Informatevene da chi è rimasto in città, voi che eravate invece ai monti o al mare: ve lo confermeranno.
Quando il termometro sfiora i quaranta gradi ci si fa furbi, bisogna pur sopravvivere. Si trova subito una scusa per mettere da parte i faticosi studi progettati, le serissime letture programmate in gennaio, e raccontare a se stessi: sai che ti dico? Adesso mi leggo o rileggo I tre moschettieri. Anche Benedetto Croce me ne dà il permesso.
Così ho fatto. L’ ho affrontato in una ottima edizione francese - peraltro anche economica, anche maneggevole - della "Pocket" (Parigi, 1993) dotata di tutto. Note, contronote, tavole cronologiche, indice dei luoghi, dei nomi, dei personaggi storici. Dossier fotografico e documentario.
Perché in francese? Intanto, per continuare a tentare di imparare quella lingua. In modo da essere in grado di chiedere senza arrossire: "Che cos’ è questo palazzo?" ("Qu’ est-ce que c’ est que cet édifice?") la prossima volta, a Parigi. E poi lo so per esperienza, che c’ è sempre un premio per chi si sobbarca alla fatica di leggere un libro nell’ originale. Per ricompensarti l’ autore - lusingato - ti offre una, due cose in più da capire.
Per esempio. Tutti lo sappiamo che al centro di questo romanzo ci sono loro quattro, i tre moschettieri Athos, Porthos, Aramis, più d’ Artagnan. E il Re Luigi XIII, quel Re fatuacchione, perennemente annoiato (grazie, non faceva niente tutto il giorno); e il Cardinale Richelieu; e la Regina Anna (fedele? infedele?); e il Duca di Buckingham; ed altre persone ancora.
Ma sappiamo che c’ è soprattutto lei, Milady. La seconda parte del romanzo ne è totalmente dominata. Lei l’ angelica (in apparenza) la perfida, la dolce, la seducente, la spietata, la crudele Milady. Degnamente interpretata da Lana Turner nel film di Sidney e Kelly, che è del 1948. Degnamente interpretata da Faye Dunaway nel film di Richard Lester, che è del 1975.
E’ lei che cerca di far morire tutti (quasi tutti) i personaggi maschili e femminili che le capitano fra le mani - dopo averli variamente sedotti - e quasi sempre ci riesce. E pensare che basta guardarle - con la dovuta ammirazione - le bellissime spalle per capire chi veramente è. Sulla spalla sinistra lei porta impresso a fuoco il marchio del disonore, il giglio di Francia. Che la qualifica - malgrado il fascino, le moine, le lusinghe - come una volgare delinquente.
Così per seicento e passa pagine. Finalmente, al capitolo sessantacinquesimo, quello che comincia con la frase proverbiale, celeberrima: "Era una notte buia e tempestosa" ("C’ était une nuit orageuse et sombre") eccola lì smascherata - finalmente! - e condannata, che sta per essere giustiziata sulle rive della Lys.
Ciò che a un italiano non dice niente. Si trattasse delle rive della Senna, sarebbe per noi assolutamente la stessa cosa.
Ma per un lettore francese, per un lettore del testo originale, in francese, no. Non è la stessa cosa. Perché in francese giglio si dice "lis" (scritto a volte anche "lys"). E questo suggerisce una corrispondenza che sa di contrappasso. Tu, marchiata dal giglio ("lis" o "lys") di Francia sulle rive della Lys dovrai morire, brutta mascalzona.
Corrispondenza rafforzata da alte ricorrenze foniche. Il boia incaricato dell’ esecuzione è il boia di Lilla. Il paese che deve attraversare per raggiungere il luogo dell’ esecuzione si chiama Lillers. E poi c’ è tutto un gioco sottilissimo organizzato intorno al verbo "flétrir" ("far appassire" e insieme "macchiare"); intorno al sostantivo "flétrissure" ("appassimento, avvizzimento", e insieme "marchio d’ infamia").
Come a dire: un giglio, tu? Ma tu sarai tutt’ al più un giglio avvizzito, appassito, maleodorante. Il tuo destino è quello di decomporti adesso, sulle rive della Lys. Un destino che è però anche una resa dei conti, una vendetta. Tutti i personaggi del romanzo, e insieme a loro tutti i lettori del medesimo, si vendicano della perfida donna che li ha tanto sedotti. Tanto insidiati. Che ha fatto morire l’ adorabile Constanza Bonacieux, fidanzata di d’ Artagnan. Che ha tentato di far fuori anche d’ Artagnan. Che ci ha - confessiamolo - sedotti e abbandonati (quando non ammazzati): tutti.
Dove si vede che Alessandro Dumas padre è qualcosa di più del romanziere divertente, spregiudicato (e superficiale?) presentato con benevolenza da Benedetto Croce. Non possiede brio e spigliatezza soltanto. Sa anche giocare con corrispondenze ed assonanze significative, in modo raffinato.
Di più: sa giocare - come nessun altro prima, nessun altro prima di lui - con un tema esplosivo, il tema della vendetta. Lo si vede ne Il Conte di Montecristo, scritto nello stesso periodo. Lo si vede ne I tre moschettieri. Di recente lo scrittore Sebastiano Vassalli ha sostenuto proprio su queste pagine (la Repubblica, 27 luglio 1994) che "Odio ergo sum". Che finché ci sarà odio, in questo mondo, ci sarà il romanzo. L’ odio soltanto? E’ sicuro che basti? Non ci vuole anche - per scrivere un romanzo o per raggiungere, da lettore, la pace dei sentimenti leggendolo - anche un certo appagamento dell’ odio, nella forma di una bella vendetta?
Il romanzo I tre moschettieri è una serie ininterrotta di vendette, dal principio alla fine. C’ è una vendetta ad ogni pagina. Ogni tanto, una esaltazione tutta esplicita della vendetta, definita qualche volta come "le plaisir des dieux", il piacere degli Dei. Addirittura.
Il piacere della vendetta - che alberghiamo dentro, evidentemente - è così intenso da consentire ad Alessandro Dumas un clamoroso colpo di mano, un gioco di prestigio spericolato: ai nostri danni. C’ è un momento, un momento cruciale del racconto in cui ci prende in giro, ci mena per il naso. Spudoratamente.
Ho cominciato a sospettarlo verso la fine. Quando più insistente si faceva la pressione del romanziere sul tema del giglio di Francia e sul gioco di parole fra "lis" e "Lys". Dev’ essere stato il caldo, che rende insofferenti e sospettosi. Dev’ essere stata l’ euforia estiva, che ti mette in testa l’ idea di un incontro sorprendente. Nel mio caso l’ idea di un incontro filologicamente sorprendente con un "luogo" testuale trascurato da altri. Che nessuno si spaventi. Si tratta di filologia estiva, stagionale. E provvisoria, come ho doverosamente avvertito nel precedente articolo dedicato alla biblica storia di Giuseppe (la Repubblica, 1 settembre 1994).
Ma tornate con me a metà del romanzo, al capitolo ventisettesimo. Ecco la svolta. Athos racconta a d’ Artagnan la storia tragica della sua vita. Non è mica nato moschettiere, lui. Lui era un gran nobile un tempo. Era il conte de La Fère. Un giorno nel villaggio che le sue proprietà dominavano si affacciò una fanciulla. Capelli biondi, occhi azzurri, ciglia e sopracciglia nere. Bellissima. Un angelo.
Tu mi capisci d’ Artagnan, avrei potuto averla senza sposarla, ero il signore del luogo; ma me ne innamorai perdutamente, volli sposarla. Quand’ ecco che una mattina, andando a caccia, lei cadde da cavallo e svenne. Corsi a soccorrerla, e siccome la vedevo in affanno le lacerai le vesti con la punta del pugnale, le scoprii una spalla e cosa mi apparve? Mi apparve, impresso sulla di lei spalla il marchio del disonore: il giglio di Francia. Quell’ angelo era un demonio; tu mi capisci, d’ Artagnan.
Stropicciatevi pure gli occhi. Rileggete ancora una volta, se lo ritenete necessario. Ma è proprio così. Dumas vuol darci ad intendere, per i suoi biechi interessi narrativi, che quel marito di nome Athos aveva bisogno dell’ incidente di caccia, della caduta da cavallo, della conseguente difficoltà respiratoria della moglie per guardarle - finalmente - le spalle e scoprire che cosa c’ era stampato sopra. E prima, non aveva avuto nessuna occasione di guardarle, di ammirarle (non oso dire: di toccarle) quelle spalle?
Da quel momento in poi è stata un’ estate di fuoco, nel vero senso del termine. Ho preso a tenzonare con i miei amici francesisti, ne conosco di giovani e bravissimi: e dunque, mi sapete spiegare come mai nessun lettore se ne accorge, se n’ è accorto? Siccome questi accalorati seminari di filologia si svolgevano generalmente intorno ad un tavolo di pizzeria, la sera, vi venivano implicate anche le mogli dei francesisti suddetti.
Che pudicamente suggerivano: forse a quel tempo le donne non si presentavano mai completamente svestite, nemmeno ai mariti. Specie le spalle, le coprivano sempre. E promettevano di interpellare - col dovuto tatto - le loro mamme, le nonne, le bisnonne, le trisavole. Le quali mandavano a dire, dopo qualche giorno, che ai loro tempi effettivamente era tutta un’ altra cosa, tutto un altro senso del pudore.
Suvvia, nonne bisnonne trisavole: nemmeno voi ce la contate giusta. E quando andava a ballare, Milady, anche lì con le spalle rigorosamente coperte? E quando faceva il bagno (ne avrà fatto qualcuno) sotto l’ occhio vigile della "femme de chambre" (o cameriera), e quando si vestiva con l’ aiuto della "femme de charge" (o guardarobiera) e quando si svestiva in compagnia della "suivante" (o dama di compagnia, confidente) e quando si faceva pettinare i lunghi capelli biondi dalla "coiffeuse" (o pettinatrice) nessuno, nessuna se ne accorgeva di quel marchio di infamia sulla spalla? Oltretutto, se il Re di Francia gliel’ aveva fatto imprimere addosso era perché facilmente si vedesse, e denunciasse la portatrice: com’ è che è così facile nasconderlo?
Credo che Alessandro Dumas lo sapesse, di avere la coda di paglia. Difatti in un capitolo successivo, il trentottesimo, prova a mettere le mani avanti. Quel fiore di giglio era - chissà, forse - quasi cancellato ("comme effacée") dagli strati di pomata ("les couches de pate") che Milady ci applicava sopra. Quasi cancellato, non proprio del tutto...
Niente da fare. A noi non la si fa, quando leggiamo i libri nell’ atmosfera irritata, sospettosa dell’ estate. Niente da fare. Al centro nevralgico de I tre moschettieri c’ è un vistoso buco logico, un sostanzioso ammanco di verosimiglianza narrativa.
Perché non ce ne accorgiamo? Perché non vogliamo accorgercene. Perché siamo troppo interessati alla storia, vogliamo che continui, malgrado tutto. Vogliamo goderci tutte le perfidie, tutte le diaboliche seduzioni di Milady, fingendo di detestarle. Vogliamo subito dopo, ma non tanto presto, liberarcene. Condannarla alla decapitazione sulle rive di quel fiume ("Lys") che porta il nome del giglio di Francia ("lis") stampato sulla sua sinistra spalla.
L’ autore lo sa. Ci conosce benissimo. "Hypocrite lecteur!" ci dice. So di poterti portare dove voglio, sfruttando le tue viltà, le tue debolezze. Per concludere, e per quanto mi riguarda: con queste letture, accompagnate da filologici sospetti, è stata una bella estate, malgrado tutto. Adesso mi propongo di continuare ad essere un lettore sospettoso anche d’ inverno. Se proprio è necessario, mi aiuterò alzando al massimo il riscaldamento di casa.
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ANTROPOLOGIA FILOLOGIA E PEDAGOGIA: "SAPERE AUDE!" (ORAZIO-KANT). Ripartire dalla Costituzione e dalle lezioni delle 21 "Moschettrici" dell’Assemblea Costituente: "Avere il coraggio di dire ai nostri giovani che sono tutti sovrani" (don Lorenzo Milani).
FILOLOGIA STORIOGRAFIA, E "VITA NUOVA": USCIRE DALL’INFERNO.
Premesso che la “donna mia” di “Tanto gentile” vale “signora” (del cuore)”, come è possibile continuare a pensare, oggi, anche dopo i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud), che Dante ami Beatrice, tradisca Gemma Donati, i figli, e la figlia Antonia, suor Beatrice?
Sul tema, si cfr. L’Arca dell’ Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech. La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”.Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
PER UNA PENTECOSTE IN UN PIANETA TERRA IN FIORE: COME NASCONO I BAMBINI (20MAGGIO2024).
ARTE IMMAGINAZIONE ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA...
"DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021). Flavio Piero Cuniberto, in una nota di commento all’opera di "Andrea Orcagna (e Jacopo di Cione), Pentecoste, 1362-1365; Firenze, Gallerie dell’Accademia" intitolata "La pentecoste fiorentina", scrive e sollecita a pensare:
Ma, una domanda (una "question" hamletica) sorge "spontanea", come mai nella tradizione iconografica dell’altro "Vas d’elezione" (dell’altro «strumento della scelta»), lo sposo di Maria ( la stessa Madre di Gesù e della Chiesa della intera "umanità", la nuova #Eva) quello con l’altro ramo del #giglio, quello "offerto dall’Arcangelo" proprio di colui che è il "Vero_giglio", il "Vir_gilio", l’Uomo ("Vir") con il ramo altrettanto fiorito, il #padre di #Gesù, quel "#Giuseppe", della "casa di Davide" ("de domo David"), e si parla solo del "Vas" paolino (Atti ap., IX, 15)?!
A che edipico gioco giochiamo? Non ha forse ragione #DanteAlighieri ("io non Enea, io non Paulo sono ") con la sua "Monarchia" dei #DueSoli, Shakespeare con il suo "Amleto, #Nietzsche con il suo "Zarathustra"?! E #Freud con la sua "Interpretazione dei sogni?! Jakob #Böhme, cosa pensava del tempo in cui allo #sposo sarà possibile finalmente incoronare la #sposa, non pensava a un nuovo "mondo #possibile", a un #sorgeredellaTerra (#Earthrise), e a #Gioacchino da Fiore - per "caso", per "#charitas"?
NOTE:
LA FINE DELL’ ERA "ICEBERGHIANA" E DEL #DESTINO DELLA #NECESSITA’ ( #ANANKE: #VICTORHUGO):
LO SCIOGLIMENTO DELL’ANDROCENTRICO #CORPOMISTICO DEL "RE DELL’UNIVERSO" E L’USCITA DALLA "#PREISTORIA" (K. #MARX) .
Una breve nota su una metafora "ghiacciata" e "agghiacciante"!
PSICOANALISI, #ANTROPOLOGIA, ED #ECOLOGIA: SOTTO LA #MONTAGNA (#BERG) DI #GHACCIO (#ICE), COSA C’E’ SE NON SOLO L’ ACQUA "SPORCA" E "RISCALDATA" DELLO STESSO CHIACCIO? Continuare ad usare l’ #iceberg, come metafora della coscienza della "specie" umana, non porta fuori dalla "diritta via" e impedisce di conoscere sé e, al contempo, che ciò che "galleggia" sull’oceano è solo la #testa, la #coscienza capovolta del luciferino Signore del #ghiaccio infernale, come aveva ben capito #Dante, nel momento stesso in cui con #Virgilio riesce ad attaccarsi al #vello di #Lucifero e venir fuori dalla #caverna in cui si era smarrito e da cui pensava di non poter più uscire? Non è forse meglio rimettere i piedi a terra (Inf. XXXIV, vv. 88-90: "Io levai li occhi e credetti vedere /Lucifero com’io l’avea lasciato, /e vidili le gambe in sù tenere") e rileggere non solo con Dante e Virgilio, ma anche con Maria Beatrice e Lucia il viaggio di ogni essere umano nello spazio-tempo cosmico in cui si svolge la #Commedia umana, la "divina Commedia"?
NOTA:
LA FESTA DELLA MAMMA, LA STORIA DELL’EUROPA, E IL "SAPERE AUDE!" (DI ORAZIO E DI KANT).
ANTROPOLOGIA, #LETTERATURA, E #STORIOGRAFIA: UNA INDICAZIONE DI JOHAN #HUIZINGA E UNA SOLLECITAZIONE A RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DAL 144O (#LORENZOVALLA), DAL 148O ("MARTIRI DI #OTRANTO") E DAL "6 GENNAIO 1482" (CHE "NON E’ PERO’ UN GIORNO CHE LA STORIA RICORDI ": #VICTOR #HUGO, "NOTRE-DAME DE PARIS").
J. HUIZINGA: "XVIII. L’ARTE NELLA VITA. La civiltà franco-borgognone del tardo Medioevo è generalmente nota oggigiorno per la sua arte, specialmente per la sua pittura. I fratelli Van Eyck, Ruggero van der Weyden e il Memlinc [Memling], insieme allo scultore Sluter, dominano nell’idea generale che noi ci facciamo di quell’epoca. Ma non fu sempre così. Cinquanta e più anni or sono , quando si scriveva ancora Hemlinc invece di Memlinc, il profano colto conosceva quell’epoca attraverso la storia [...] dall’Histoire des ducs de Bourgogne del De Barante, che si fondava su di essi. E forse per i più non era De Barante, bensì Victor Hugo a fornire, col suo Notre Dame de Paris, l’immagine di quei tempi." (J. Huizinga, "L’autunno del Medioevo", Introduzione di Eugenio Garin, Sansoni editore, I ed., Firenze 1940).
STORIA, FILOLOGIA, E FILOSOFIA: L’ OPERA INCOMPIUTA DELL’EUROPA E IL PERDURARE DEL "SONNO DOGMATICO"
Un piccolo invito "filologico" a riaprire la riflessione sulla domanda kantiana del "che cosa posso sapere?" e, possibilmente, cercare, mangiando sano e con gusto, di riprendere il cammino nell’#oceanoceleste (#Keplero, 1611)
SALUTE E SAPERE. L’aver dimenticato la lezione di Orazio ("Chi bene incomincia è già a metà dell’opera; risolviti a diventare saggio: incomincia [dimidium facti, qui coepit, habet: sàpere aude, incipe]") dice di una cosa terribile non solo a ogni persona e a ogni cittadino e a ogni cittadina della luminosa e solare Venosa (Basilicata, Potenza), ma dell’intera Europa (e del Pianeta Terra)!
ANTROPOLOGIA E PEDAGOGIA. "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" (FEUERBACH), A TUTTI I LIVELLI. Materialmente e spiritualmente, è un cosiddetto segreto di "Pulcinella. Il filosofo che fu chiamato pazzo" (Romeo De Maio, 1989), non si sa più nemmeno mangiare e, cosa ancora più grave, non sapendo nemmeno più assaporare e "as-saggiare", si ignora che cosa mangia e "che cosa" sia (diventato) il cosiddetto "uomo", antropologicamente!
COSTITUZIONE, "RAPPORTO SOCIALE DI #PRODUZIONE", E CIBO. Non solo a Casa, ma nelle Scuole e nelle Università e nelle Accademie (atee e devote), cosa insegnano, cosa danno da "mangiare": "Prendete e mangiate", ma che cosa?! Non è il caso di suonare le campane a martello, uscire dal letargo, e decidersi a riprendere lo studio della filologia e della letteratura e della #storia e della filosofia e ad affrontare i lavori dell’Incompiuta, del "Complesso della Santissima Trinità"?!
L’INNO ALLA GIOIA ("AN DIE FREUDE") E LA FILOLOGIA: KANT, SCHILLER, BEETHOVEN, "FREUD ... E" LACAN.
LA CULTURA EUROPEA, SIGMUND #FREUD, E L’INNO ALLA #GIOIA (F. #Schiller, "An die #Freude", 1785).
NEL "NOME DI FREUD", LA "PSICOANALISI" DEL «JOYOSO» JACQUES LACAN. Due brevi note a margine della seguente "dichiarazione":
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. A CHE GIOCO GIOCHIAMO?!
FREUD O LACAN? "SÀPERE AUDE" (ORAZIO - KANT). Nella ricorrenza del XXI Congresso Nazionale della Societa’ Psicoanalitica italiana, RICORDANDO ELVIO FACHINELLI (con le parole di Francesco Marchioro: "Spirito curioso, ironico, indipendente e analista non ortodosso denuncia con forza una sorta di «freudolente» uso della terapia e accusa la sua stessa istituzione di praticare una “psicoanalisi della risposta”, nel senso che si limita a «dare ragione all’esistente, razionalizzare le irrazionalità, tamponare i conflitti», offrire una terapia dell’adattamento invece di essere una psicoanalisi interrogante, capace di sollevare domande radicali sullo statuto del soggetto e la sua relazione alla Lebenswelt, al mondo della vita.": Altoadige.it, 22.12.2019), non è il caso di svegliarsi dal sonno dogmatico e riprendere il filo da Kant (1724-2024), dalla interpretazione dei "sogni di un visionario" (1766), e riprendere coraggiosamente a "servirsi della propria intelligenza ("1784), e, insieme, far un so critico della propria facoltà di giudizio, come ha fatto e sollecitato a fare in prima persona Michel Foucault nel 1984?
STORIA E LETTERATURA: LA "BEATA E #BELLA" DONNA DI #DANTEALIGHIERI, LA #DIVINACOMMEDIA, E LA #FILOLOGIA "ROMANZA_TA".
A #ONORE E #MEMORIA DI #FRANCISCO #RICO, UNA NOTA A MARGINE DI UNA SUA INTERVISTA, APPARSA NEL 2017 SU "INSULA EUROPEA" A CURA DI ROBERTA #ALVITI:
RIFLETTENDO "sul canone dei suoi autori e maestri" (come sollecita a fare Carlo Pulsoni), forse, non è il caso di rimeditare sull’ importante affermazione relativa a uno dei suoi "maestri, il grande Giuseppe #Billanovich, [che] diceva che cercando bene, si sarebbero trovate perfino le #lettere di #Dante a #Beatrice..." (cit.)?! A partire da questo #abbaglio storiografico di lunga durata sulla figura della "donna #beata e bella" (Inf. II, 53), non è ora di pensarci su e mettere in discussione il "buon senso" con cui da sempre è stata attinta l’acqua alla #fonte del #Boccaccio e del #Petrarca?! A 700 aanni e più dalla morte di Dante, è ancora "lecito" condividere filologicamente del petrarchista Marco #Santagata (cfr. "Le donne di Dante", Il Mulino, 2021) l’idea di una giovane "Beatrice", come un «#manichino senza corpo», messa a confronto di una "#Laura", «personaggio pieno, sfaccettato»?! Non è il caso di svegliarsi dal #sonnodogmatico e uscire dall’orizzonte infernale, con l’aiuto del saggio "#Virgilio" e della #Bella "Beatrice"?!
NOTA:
ARTE E STORIOGRAFIA: "IL POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO", UN MANIFESTO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DEL CATTOLICESIMO EUROPEO.
"Il Polittico dell’Agnello Mistico, o Polittico di #Gand, è un’opera monumentale di Jan van Eyck (e del misterioso Hubert van Eyck), dipinta tra il 1426 e il 1432 per la cattedrale di San Bavone a Gand, dove si trova tutt’oggi. Si tratta di un polittico apribile composto da dodici pannelli di legno di quercia, otto dei quali sono dipinti anche sul lato posteriore, in maniera da essere visibili quando il polittico è chiuso. La tecnica usata è la pittura a olio e le misure totali sono 375x258 cm da aperto. [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Polittico_dell%27Agnello_Mistico ):
Per una contestualizzazione di questo straordinario "testo", forse, è proprio necessario ri-#leggere il lavoro di Johan #Huizinga, "L’autunno del Medioevo" (Sansoni Editore, I ed. it. 1940): "Il desiderio di conoscere - egli scrive nella "Prefazione alla prima edizione dell’opera" del 1919 - un po’ meglio l’arte dei van Eyck e dei loro successori, in stretto rapporto colla vita di quel tempo, m’indusse a scrivere questo libro". Su quanto sia importante il risultato di tale sforzo, è bene ricordare gli anni della metà del Quattrocento con le sue tensioni riformistiche di tipo teologico-politico all’interno della Chiesa e i crescenti attacchi del mondo musulmano: del 1453 è la caduta di #Costantinopoli).
CORPO MISTICO DI #CRISTO. PER COGLIERE IL SENSO SIMBOLICO DEL #SACRIFICIO DELL’«AGNELLO MISTICO», occorre richiamare il tema (e il problema) delle #indulgenze (che darà il via alla #RiformaProtestante), e chiarire, con lo stesso Huizinga, "la dottrina del «thesaurus ecclesiae» o tesoro delle opere superogatorie di Cristo e dei santi. L’idea di tale tesoro, di cui è partecipe ogni credente, come membro del corpo mistico di Cristo, cioè della Chiesa, è molto antica, ma la dottrina che tali buone opere costituiscano una riserva inesauribile, che può essere distribuita dalla Chiesa e più precisamente dal papa, fa la sua comparsa solo nel secolo XIII. [...]. La dottrina si diffuse non senza opposizioni, finché trovò la sua perfetta enunciazione ed illustrazione nella bolla papale «Unigenitus» di Clemente VI nel 1343. In essa il tesoro è considerato come un capitale, che Cristo affidò a S. Pietro e ai suoi discepoli [...]".
NOTE:
"QUIS UT DEUS?". UNA NOTA SUL TEMA TEOLOGICO-POLITICO DEI "DUE CORPI DEL RE" - E I DUE CORPI DELLA #REGINA...
PLAUDENDO ALL’INIZIATIVA ANNUNCIATA DAL PROF. AURELIO MUSI ,
FORSE, è da pensare che sia opportuno riprendere la riflessione a tutti i livelli "sulla sovranità femminile: i due corpi sono quello fisico e quello politico" (Aurelio Musi) e, al contempo, ricordare il "caso" di Elisabetta I d’Inghilterra (e della #Riforma anglicana), e, unitariamente, considerare il #cruciverba e l’#enigmistica della #hamletica #question (#Shakespeare) del "#corpomistico" sia del #re (E. H. #Kantorowicz) sia della #regina (#AurelioMusi), e, quindi, non solo del corpo fisico, ma anche il #corpo teologico-politico.
"CHI E’ COME DIO?". Il problema, come aveva già capito e indicato Kantorowicz, è riprendere a riflettere sulla "#regalità #antropocentrica: #Dante" (così il titolo di un capitolo conclusivo del libro "I due corpi del re") e, possibilmente, tentare di uscire dalla caverna platonica e dall’orizzonte della #cosmoteandria logico-filosofica e teologico-politica del PianetaTerra.
MUSICA, #FILOSOFIA, E #COSMOLOGIA:
#KANT2024.
"Beethoven nomina Kant due volte nei Konversations-Hefte. Una volta con noncuranza là dove egli commenta la noia delle lezioni universitarie tenute dal filosofo kantiano Johann Gottfried Kiesewetter (1766-1819). Un’altra volta con forte commozione, citando senza commento ma con evidenza anche grafica: “La legge morale in noi, e il cielo stellato sopra di noi. Kant!!!“. [...]" (https://www.lvbeethoven.it/biografia08/ ).
NOTA:
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA E LA STORIA DELLA COSMOLOGIA E DELLA FILOSOFIA (#KANT2024): CON #DANTEALIGHIERI E #GALILEO #GALILEI, DALLA LUNA IL SORGERE DELLA TERRA:
INFANZIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA: USCIRE DALLA #CAVERNA DEL POLIFEMICO PLATONISMO DI SOCRATE E RICORDARE IL "SEGRETO" DEL VIAGGIO DI "ULISSE" ("#DIVINACOMMEDIA"):
ITACA, LE "ITACHE": L’#ODISSEA, LE "ODISSEE". Un piccolo passo del cammino della #coscienza terrestre sulla importanza di #storiciżżare il legame con il proprio #Sé, con la propria #Tradizione, e con il proprio Pianeta, con la propria "#Terra" - con le proprie "Itache", come precisa Konstantinos #Kavafis.
EARTHRISE
NOTA
LA "#STORIA" DEL "CAPROESPIATORIO" (RENE’ GIRARD): COME UN #ARIETE, UN #MONTONE, DIVENNE UN "CAPRONE".
PRIMAVERA2024, #21MARZO: UNA "NOTA" SULLE "COSE NASCOSTE SIN DALL’ORIGINE DELLA FONDAZIONE DEL MONDO" (Mt. 13, 35).
Ariete ♈️: #25marzo (#Dantedì). Considerando (e accogliendo) astrologicamente che da #oggi "il segno dell’Ariete, simbolo per eccellenza dell’#Equinozio di Primavera", è il #segno "che ci accompagnerà fino al 20 aprile, e che la sua "figura mitologica si collega al Dio primaverile che nelle varie culture poteva rappresentare colui che apre l’anno, colui che abita il bosco sacro, il guardiano del Ponte #Arcobaleno, colui che si sacrifica, ecc." e, ancora, che l’ Ariete "è un segno cardinale di fuoco, governato da #Marte e opposto al segno della #Bilancia" (#LeaCimino, "#Calendariopagano"), forse, è opportuno ricordare che l’Ariete ė una delle figure centrali della storia dell’immaginario occidentale, decisiva per la comprensione stessa non solo dell’importanza dell’ impresa di #Giasone alla ricerca del "Vello d’Oro", come della fuga di #Ulisse dall’antro di #Polifemo, ma anche e soprattutto della "Divina #Commedia" di #DanteAlighieri (e della stessa possibilità di uscita dall’orizzonte della tragedia e dall’inferno, a tutti i livelli).
ARCHEOLOGIA FILOLOGICA A E ANTROPOLOGICA. BENCHE’ SULLA IMPORTANZA DELLA FIGURA DELL’ARIETE SI SIA IN UNA CONFUSIONE "BESTIALE", E SI FACCIA FINTA DI NULLA, FORSE, VALE LA PENA PRENDERE ATTO DI UNA ELOQUENTE "RISPOSTA" DELL’ANTROPOLOGO RENE’ GIRARD.
Per Girard (ma così per tutte le storiche Accademie della tradizione culturale europea), un capro, un "capro espiatorio», non è altro che l’«#agnello di Dio», il #Figlio del "Padre Nostro":
"DISAGIO DELLA #CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929). René Girard confonde ’ciecamente’ i livelli e nega l’immortale acquisizione di Sigmund Freud. L’ "edipo completo" permette di capire la rivalità dei #fratelli (e delle #sorelle) e lo stesso messaggio evangelico, non viceversa. L’incomprensione della lezione di Freud spinge ad una cieca apologia del cattolicesimo costantiniano (#Nicea 325 - 2025): il #cristianesimo non è un cattolicismo... e in #Principio non c’era un #Logo (altrimenti, si cade e si ricade sempre e ancora tra le "braccia" del ’tragico’ #caprone)!
STORIA E IMMAGINARIO: GUGLIELMO IL CONQUISTATORE, NAPOLEONE (E IL #SOGNO DI #FREUD, ARRIVANDO IN #INGHILTERRA, DI SBARCARE A #PEVENSEY, 1938).
Arazzo di #Bayeux: "[...] L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito di varie pezze per una lunghezza totale di 68,30 metri, sino alla fine del XVIII secolo era conservato nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre ora è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant di Bayeux.
Nel 2007 l’#UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. [...].
Progettando l’invasione dell’Inghilterra, Napoleone lo volle a Parigi a fini di propaganda nel novembre 1803 [...].
il 6 dicembre 1803, nel pieno dei preparativi per l’invasione, su #Dover era apparso un luminoso corpo celeste (probabilmente un bolide) con traiettoria sud-nord, che consentiva paragoni benauguranti, ai fini della spedizione, con la #cometa apparsa nel 1066. L’arazzo tornò a Bayeux nel febbraio 1804, ormai noto a livello nazionale ed internazionale [...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Arazzo_di_Bayeux).
PSICOANALISI E #CRISTIANESIMO: #PAOLINISMO ("#ANDROLOGIA", "#VIROLOGIA", DEL "#CORPOMISTICO"). Freud scrive nell’estate-autunno del 1929 “Il disagio della civiltà”, in cui discute del senso del comandamento biblico “amerai il prossimo tuo come te stesso” ... e comprende anche, come precisa, che "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" ("Disagio della civiltà", 1929), ma non riesce ad andare oltre l’orizzonte della tragedia della polis tebana (e della biblica "caduta").
"KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE". Avendo mosso l’#Acheronte (con l’aiuto di Virgilio), Sigmund Freud riesce sì a venir fuori dall’inferno ma, sognando di essere Guglielmo il Conquistatore, a raggiungere Londra nel 1938 e a non sciogliere il #nodo della tradizione mosaica, cristiana, e romana, e, cum grano salis, a essere trascinato fino alla fine dalla corrente "acherontica" della tradizione faraonica, paolina, e costantiniana (#Nicea 325-2025):
CREATIVITÀ E SOCIETÀ: ARITMETICA, PSICHIATRIA, PSICOANALISI, E COSTITUZIONE (#Europa2024: #Francia)
Una "citazione" in #memoria di FRANCO BASAGLIA E DI FRANCA ONGARO:
"un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, "Donna", Enciclopedia, V, Einaudi, Torino 1978).
NOTE:
PENELOPE-IDEA E COMMEDIA: FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Con lo spirito dell’opera “The Penelopiad” di Margaret Atwood e della "Divina Commedia" di Dante Alighieri, un segnavia di uscita dall’orizzonte della tragedia...
#STORIAELETTERATURA. Data la immersione totale di tutta la cultura occidentale nell’immaginario dell’#Odissea, "étudier, très succinctement, la technique d’« écriture féminine » de Margaret Atwood, à travers son ouvrage «The Penelopiad» et plus précisément, à travers l’ironie dans son rapport aux «métamorphoses» apportées au texte de l’Odyssée d’Homère" (cfr. Rebecca Plewinski, "La technique d’«écriture féminine» de Margaret Atwood: l’exemple de The Penelopiad») che con mente "penelope-idea" sa catturare e aggiogare persone e popoli con il proprio "canto" e l’ esperienza tragica della sua "fenomenologia dello #spirito".
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA ("Earthrise"). Per #Dante, con l’aiuto del "padre" #Virgilio ("Eneide") su sollecitazione della "#bella e beata" #madre Beatrice (sollecitata a sua volta da Lucia, inviata da Maria, madre di Gesù "Cristo"), la "folle impresa" di uscire dalla "selva oscura" e ritrovare la "diritta via", con il vecchio "Ulisse" e con la vecchia "Penelope" sulle proprie spalle, è possibile: è l’amore che muove il sole e le altre stelle.
DANTEDI’, STORIA E LETTERATURA, E #FRANCOSTORIE:
LA "STORIA POSTALE", I #MESSAGGI DELLE #SIBILLE (#MICHELANGELO, "VOLTA DELLA #CAPPELLA SISTINA",1512), IL SERVIZIO POSTALE DELLA FAMIGLIA DI BERNARDO TASSO (1493-1569) E TORQUATO TASSO (1544-1595), E LA MEMORIA DI #ANTONIO ROSMINI ( #24MARZO 1797 - 1 LUGLIO 1855).
ACCOGLIENDO LA SOLLECITAZIONE A RICORDARE ANTONIO ROSMINI SERBATI "(#Rovereto 1797 - #Stresa 1855), sacerdote e filosofo vissuto nella prima metà dell’Ottocento", forse, è possibile far emergere e mettere in evidenza un legame stretto con la cultura dell’#Europa del #Cinquecento, la "storia postale" e gli avvii dell’impresa dei #Tasso: degno di nota è il fatto che la tesi di laurea di Rosmini è una breve dissertazione sulle Sibille->https://media.agiati.org/page/attachments/01-pag-09-patricia-salomoni-antonio-rosmini-lettore-e-traduttore-dei-classici.pdf] (1822).
#Dantedi #25marzo 2024: vista e considerata la presenza nella "Casa natale di Antonio Rosmini" della #SibillaCumana, è bene riannodare il filo tra Dante e Rosmini e non far disperdere "al vento ne le foglie levi [...] la sentenza di #Sibilla." (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, vv. 65-66).
EPOCALISSE: "APRIRE GLI OCCHI" (S. #FREUD, 1899), PER #CARITÀ! #FILOLOGIA E #ARCHITETTURA FILOSOFICA E ANTROPOLOGICA (#KANT2024).
#DANTEDI’, 25 MARZO 2024: UNA NOTA SULLA TRASVALUTAZIONE STORICA DELLA "VIOLENTA CARITÀ" ("VIOLENTAE CHARITATIS") DI RICCARDO DI SAN VITTORE.
STORIA E LETTERATURA. Nel bimillenario percorso planetario del #cattolicesimo romano (#Nicea 325-2025), la "#diritta via" (#Dante Alighieri) del filologico legame significante e significato tra il luogo dell’#amore e il luogo dell’#occhio ("Ubi amor, ibi oculus") è stata smarrita insieme con l’#acca ("h").
Incredibilmente, e inauditamente, l’amore, la #charitas dello stesso #Riccardo di San Vittore ("Riccardo /che a considerar fu più che #viro", più che uomo, come scrive Dante nel X del "Paradiso") è diventata la parola-chiave della teologia della ricchezza materiale e spirituale: la "caritas", senza più "h", senza più l’acca, è diventata semplicemente #Mammona, il dio ("#Deus #caritas est") dell’#economia mondiale, garante del "buon-andamento" del #carro delle borse e del #caro-prezzo del #mercato: la religione del #capitalismo, vecchio e nuovo (come aveva capito Karl #Marx, #WalterBenjamin, e, ovviamente, #DanteAlighieri).
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PACE PERPETUA" (#KANT2024):
A CHE #GIOGO GIOCHIAMO?! ANCORA ALLA "SPADA DI DAMOCLE"?!
RIPETIZIONE E DIFFERENZA: EUROPA 2024. Dopo millenni di #cosmoteandria, si ricorda ancora la lezione del vecchio dogmatico pro-ver-#dio "chi di spada ("gladio") ferisce, di spada ("gladio") perisce"?!
A quanto pare la filologia e la teologia-politica della #tragedia non sa nulla dell’#hamlet _ ica questione dell’#enigma (e della visione) del "#crepuscolo degli #idoli": «Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?».
Nonostante la sollecitazione dell’ #EcceHomo (#Nietzsche, 1888) si continua a non aver il coraggio di fare buon uso della propria facoltà di giudizio ("#Sàpere aude!", #Koenigsberg 1784/ #Kaliningrad 2024) nulla del "buon messaggio" (Matteo 26,52) e, l’anno prossimo, ci si appresta a celebrare, l’imperatore cosmoteandrico, il figlio del dio Mammona, #Costantino (Nicea, 325-2025)?!
Non è forse meglio, per il #Dantedì, per il #25marzo, rileggere la "divina commedia", la fenomenologia dello spirito dei due Soli e cercare di uscire dall’orizzonte della tragica #caduta nel luciferino #buconero?!
#DANTEALIGHIERI, LA #DIVINA COMMEDIA E L’#IMMAGINAZIONE SCIENTIFICA:
LA "#CADUTA" DI UNA "#STELLA", #LUCIFERO (Inf. XXXIV), E LA FORMAZIONE DI UN "BUCO NERO".
IL MULINO A VENTO DI LUCIFERO (iNF. XXXIV, 1-9):
STORIA E LETTERATURA ANTROPOLOGIA E "SAPERE AUDE!" (#KANT2024): CON #DANTEALIGHIERI, OLTRE I "#BUCHI NERI" E I "BUCHI BIANCHI".
DIVINA COMMEDIA: "ULISSE", SEGUENDO LA LINEA DELLA CADUTA DI LUCIFERO, ESCE FUORI DALL’IMBUTO DELL’ INFERNO TERRESTRE E RIPRENDE LA NAVIGAZIONE NELL’OCEANO CELESTE. Alcuni appunti sul tema...
COLLOCANDOSI "Dentro l’orizzonte" di Carlo Rovelli, contrariamente a quanto egli pensa, a ben interpretare il suo convincimento relativo al fatto che, "Dopo aver salito la montagna del Purgatorio Dante perde Virgilio [la paterna guida], ma in quello stesso momento, travolto dall’emozione, vede apparire Beatrice - conosco i segni de l’antica fiamma!" (C. Rovelli, "Buchi bianchi", Adelphi 2023, pp. 74-75 ), forse, è opportuno e precisare (dopo secoli) che "conosco i segni dell’antica fiamma!" (Pg. XXX, 48) sono parole di un figlio, Dante, rivolte alla sua paterna guida (vv. 50-52: "Virgilio, dolcissimo patre, /Virgilio a cui per mia salute die’mi; né quantunque perdeo l’antica matre"), nel momento stesso in cui riconosce la "#bella e #beata" (Inf. II, 53), #Beatrice, la guida materna, e "vola al di là dello spazio e del tempo" (C. Rovelli, cit., p. 75).
A questo punto, al di là di quanto generalmente si è pensato e si pensa ancora, è bene riconoscere che "i segni della fiamma antica" non rimandano affatto a una #Didone-Beatrice, ma, più precisamente, a "#Ulisse", "Lo maggior corno della fiamma antica" (Inf. XXVI, 1), che in questo caso, accompagnato dal padre, riconosce e ritrova "la antica matre" (Eva) e la nuova #madre, la giovane #Maria-Beatrice, e... Sé stesso, divenuto un #altro #Cristo - antropologicamente e cristianamente (al di là della teandrica logica di #BonifacioVIII)!
DANTE ALIGHIERI, Purgatorio, XXX, 55--57, 73-84:
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
[...]
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di subito ‘In te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.
(Dante Alighieri, Purg. XXX, vv. 55-57, 73-84)
L’ #ODISSEA DI DANTE ALIGHIERI. Nella loro indagine scientifica e antropologica, "Il #Mulino d’#Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo" (Adelphi 1983 e 2003), Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, hanno già detto parole fondamentali sull’inaudito legame "cosmoteandrico" (antropologico, cosmologico, e teologico) nella visione e nella "scelta esistenziale dell’uomo Alighieri. I poeti non sanno custodire la loro verità. Ulisse che si mette in viaggio verso sud-ovest in un ultimo, disperato tentativo predestinato dall’ordine delle cose al fallimento, che cerca di raggiungere «il mondo sanza gente» e viene inghiottito dal gorgo in vista della meta: eccolo il simbolo. Ed è rivelato non dal pensiero cosciente del poeta, ma dalla potenza degli stessi versi, così incomparabilmente remoti, come luce proveniente da un «oggetto quasistellare». [...] egli fu colui che volle fino all’ultimo, anche contro Dio, acquistare esperienza e conoscenza. La sua nobiltà luciferina rimane nella nostra memoria più della suprema armonia dei cori celesti" (op. cit.).
***
B) - NUOVI ORIZZONTI LETTERARI. Né realismo né fantasie. Allo scrittore piace farlo strano: "[...] Sperduti nella selva. Il ‘900 si apre con la confessione di Kafka a Milena. Questi vorrebbe solo posare la guancia nel conforto luminoso e rasserenante, ordinario offerto della mano dell’innamorata, eppure egli avverte anche il continuo oscuro richiamo alla “selva, a questa origine, a questa vera patria”. Impossibile per un lettore italiano e non solo evitare la suggestione dell’avvio immaginativo di un altro padre fondatore della letteratura moderna, 600 anni prima. Anche Dante aveva preso le mosse dalla “selva”, luogo del traviamento, dell’informe, declinazione continentale del mare oscuro per generazioni di europei, passaggio di tutte le “incertezze della ioventude”, nelle sue stesse parole, ma anche luogo iniziatico delle avventure cavalleresche, dei loro bivi e sentieri ambigui. E, ovviamente, incipit di innumerevoli fiabe.
L’intera “Commedia” è una sorta di potatura, che per giungere alla purezza della Candida Rosa deve passare da un Giardino dell’Eden laddove Dante capisce che in fondo la selva era lui stesso (Purg. XXX, 118-20). Ma il carattere di sperimentazione e ibridazione permangono fino all’ultimo verso, nella sua perenne fusione di realismo, fantastico, teologia della storia, “quest” eroica, memoir proustiano e itinerario mistico-visionario. Un’operazione sperimentale, spiazzante persino a quei tempi. In essa è possibile ravvisare semi e fermenti che poi, al pari delle sentenze della Sibilla, si sparpagliano al vento, e ognuno afferra quel che riesce.
Per C. S. Lewis la scalata di Lucifero e l’inversione dei poli al centro della terra costituiva la prima grande scena di fantascienza dell’era moderna, secoli prima di Jules Verne. Col senno di poi, la foresta attorta e sanguinante dei suicidi di Inferno XII ove le Arpie “versi fanno in su li alberi strani”, con tutta l’ambiguità di quello “strano” che sembra riferirsi tanto alle strida che ai rami, pare davvero condensare tutte le bizzarrie biologiche dell’Area X del lovecraftiano Jeff Vandermeer. Petrarca non solo rifiuterà un simile coacervo di sperimentazioni e fusioni ma compirà un’opzione, urlare i suoi gabbiani dei circoli polari con voce sinistra, umana. “Tekeli-lì, Tekeli-lì.” E sarà proprio quel grido a essere ripreso dal suo erede H. P. Lovecraft per tratteggiare la propria mitologia d’orrore cosmico su “Weird Tales”.
[...]
La guerra tra fantastico e realistico è finita, o è cambiata. Siamo tornati nella Selva, tra rami spezzati, fruscii, minacce, fantasmi soccorritori che ci tengono forse la mano e propongono “un altro viaggio”. E molti sentono che per raccontarlo occorre non essere semplicemente ciechi e per questo poeti, come già il gran padre Omero, ma pure “uomo e donna” come Tiresia il veggente, abbattere così ogni steccato, rifiutare persino la dialettica feconda tra opposizioni, giacché “ogni vera conoscenza è sempre un sacrilegio”. È così che Nietzsche descrisse la dolorosa vocazione di Prometeo ed Edipo." (EDOARDO #RIALTI, "Il Foglio", 02 mag. 2023).
RECENSIONE
La lezione di Dante nell’Epistola a Cangrande: Ci vuole audacia per scalare la Commedia
Una nuova edizione critica della lettera con cui il poeta dedica il Paradiso allo Scaligero riaccende il dibattito critico È una dichiarazione di poetica, un’introduzione, ma anche il memoriale difensivo proprio di un momento di crisi
DI EDOARDO RIALTI (La Stampa, 17 febbraio 2014)
«Il nostro problema sta nel fatto che non abbiamo ancora narrazioni pronte non solo per il futuro, ma nemmeno per l’oggi concreto, per le trasformazioni ultrarapide del mondo di oggi. Mancano il linguaggio, mancano i punti di vista, le metafore, i miti e le nuove favole. In una parola, ci mancano nuovi modi di raccontare il mondo». Sono le parole di Olga Tokarczuk al conferimento del Nobel da cui forse è possibile prendere le mosse per riflettere sull’unicità e la rilevanza di Dante per le sfide della scrittura oggi, sollecitati anche dall’edizione monografica della sua Epistola a Cangrande (Antenore), a cura di Luca Azzetta. Montale definì quanto ottenuto dall’Alighieri l’ultimo miracolo della poesia, e magari aveva ragione nel sancirne l’irrepetibilità. Il recente centenario ha visto iniziative, convegni, pubblicazioni, e ciò resta giusto e doveroso, sebbene talvolta insidiato dal tarlo della retorica monumentale che sigilla una voce in catafalco o la riduce a marchio d’esportazione. Dante funziona sempre, notava Paolo Poli, come il nero, sfila e fa fare bella figura. Resta tuttavia un salto tra scrivere bene e scrivere davvero di qualcosa, così come tra il leggere bene e il leggerlo davvero. Prendi e mangia, intimava l’angelo dell’Apocalisse a Giovanni porgendogli un libro. Poesia e visione si accolgono con le viscere, permettendole di impattare i nodi più profondi e oscuri della nostra attuale posizione sulla terra. È proprio la capacità di Dante di coinvolgerci ancora in un sogno collettivo - un inconscio più antico del linguaggio stesso, nelle parole di McCarthy, riesponendoci a una capacità penetrativa del presente storico e concreto, particolare, che consente al contempo di proferire i verbi del futuro - a mettere in discussione l’asfissia di tanta scrittura e comunicazione, in pendolo perenne tra l’egotismo rattrappito di un io superficiale - dal narcisismo scriviamo per diventare ancora più narcisisti - e le narrazioni massificanti di qualche noi partitico, ottuso e violento. Il tutto in una prospettiva comunitaria ridotta a mera sopravvivenza, dove l’unico valzer ballabile resta quello del consumismo rapace e l’autorevolezza è stata barattata con la visibilità.
La lupa dell’avidità dopo ogni pasto ha più fame di prima. Rispetto a questo ricatto Dante sa ancora mostrare cosa vuol dire tatuarsi l’anima, come ha dichiarato Mircea Cartarescu, sfidarci a un diverso modo di vedere, e quindi di scrivere, l’io e il noi saldati fin dai primi due versi dell’Inferno. Nostra vita... mi ritrovai... Forse quella porta rimane sbarrata alle nostre spalle, ciò che l’ha consentita resta effettivamente inaccessibile. Pure, tornando a fissare quanto non può essere ripetuto, possiamo comunque attingere forze ed enzimi per esprimerlo in altro modo.
Si deve dunque sottolineare l’importanza d’una nuova pubblicazione monografica di un testo così decisivo, in cui l’autore medesimo - e che autore - fornisce categorie e appigli su come poterlo scalare, in quale relazione porsi con l’esperienza della Commedia - con ampia introduzione e commento a ripercorrere il dibattito sulla controversa attribuzione e illustrare i rapporti dell’epistola al signore di Verona con la precedente e coeva ars dictandi delle dediche, e le circostanze contingenti che indussero Dante a offrire questa introductio operis, questa chiave per schiudere la Commedia che è anche «un memoriale difensivo proprio di un momento di crisi», negli ultimi anni dell’esilio e del lavoro al poema che ha fatto macro e grigio il poeta.
Ma tutto ciò resta in fondo per tornare a fronteggiare «una sconcertante dichiarazione di poetica» in virtù della quale Dante stesso ci chiede di leggerlo «con un’audacia che non ha riscontro in alcuno degli antichi esegeti» come faremmo con la Bibbia o il Maharabatha, secondo quattro sensi che vanno dal letterale all’anagogico, come un prisma che si rigiri tra le mani e resti lo stesso nelle sue varie sfaccettature. In una clamorosa declinazione laica, storica e in italiano volgare dell’esperienza visionaria e profetica di Paolo, degli apostoli con Cristo e delle invettive di Ezechiele sulla corruzione di preti e politici - «finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis».
Trasportare, strappare i lettori dalla miseria e condurli, nuovo Mosè, alla felicità stessa. In questa vita - hac vita, non dopo. Forse non c’è davvero più stata una così radicale fiducia nel valore trasformativo dell’esperienza poetica. Che si creda o no all’eternità dell’anima e nel giudizio di Dio, resta l’interrogativo su quale sia il fondamento che ci possa consentire di mettere in discussione realtà e società, realizzando opere capaci di abbracciare gli affanni e gli struggimenti delle esistenze altrui. Come constatò una mia studentessa messicana all’università «Sembra che Dante abbia sempre saputo che lo avremmo letto a secoli di distanza».
STORIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA E IL NEPOTISMO DEL CATTOLICESIMO DELL’ETA’ MODERNA.
IL CATTOLICESIMO "COSTANTINIANO" (NICEA, 325-2025) E L’INDICAZIONE "ERETICA" DI #DANTEALIGHIERI: PARTENDO DALLA RICERCA SU "Le donne dei papi in età moderna. Un altro sguardo sul nepotismo (1492-1655)" di Maria Antonietta Visceglia (Viella Editrice, Roma 2023), FORSE, SI PUO’ OSSERVARE MEGLIO LA RADICALE SVOLTA "COSTANTINIANA" DELLA VITA DELLO "STATO" DELLA CHIESA CATTOLICA, GIA’ E SUBITO PRIMA DELLA #CADUTA DI #COSTANTINOPOLI (1453) IN MANO TURCA, CON IL SINTOMATICO PASSAGGIO DI NICCOLO’ #CUSANO ( L’AUTORE DIVENTATO CARDINALE, PER I MERITI DELLA POCO EVANGELICA "DOTTA IGNORANZA" DEL 1440 E DELLA "PACE DELLA #FEDE" DEL 1453) DA SOSTENITORE DEL "PARTITO" DELLA SOVRANITA’ DEL #CONCILIO A SOSTENITORE DEL POTERE SUPREMO DEL #PAPA, E, NELLO STESSO TEMPO, CON IL SILENZIAMENTO E LA NEUTRALIZZAZIONE DEL LAVORO CRITICO DI LORENZO VALLA SULLA FALSA "DONAZIONE DI COSTANTINO" (1440).
ALL’INTERNO DI QUESTO ORIZZONTE, MIO PARERE, SI COMPRENDE MEGLIO LA SPECULARE LOTTA DELLO STATO DELLA CHIESA CON LO STATO DELLA SPAGNA (DOPO LA RICONQUISTA DI #GRANADA, 1492) PER L’EGEMONIA TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA; E, UNITARIAMENTE, L’INCAPACITA’ AD ACCOGLIERE LA "INAUDITA" ED "ERETICA" INDICAZIONE DELLA "#MONARCHIA" DEI "#DUESOLI" DI DANTE ALIGHIERI E, INFINE, LE SUCCESSIVE SOLLECITAZIONI TEOLOGICHE E ANTROPOLOGICHE DELLA #RIFORMA PROTESTANTE (1517) PRIMA E DELLA RIFORMA ANGLICANA (1534) POI, ECC.
DANTE ALIGHIERI E MERCURINO ARBORIO DI GATTINARA. Sul tema, è bene ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di #KarlBrandi che, a conclusione della sua "lettura" della biografia di "Carlo V" (1935), rievoca (con le seguenti testuali parole) la figura del "gran cancelliere Mercurino di Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità" (Einaudi, Torino 2001); e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante" (Einaudi, Torino 2012).
P. S. - #MACHIAVELLI CON DANTE ALIGHIERI CONTRO IL #FAMILISMO TEOLOGICO-POLITICO. NICCOLO’ MACHIAVELLI, “DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO”:
"Della religione de’ Romani. (...) gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d’uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:
Non è, adunque, la salute di una republica o d’uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l’ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. (...)" (“DISCORSI”, Libro I, cap. XI).
TEATRO E METATEATRO DEL DRAMMA STORICO D’EUROPA:
"AMLETO", LA TRAPPOLA PER TOPI ("THE MOUSETRAP"), "A TALE OF FOUR GERTRUDES", E LA MEMORIA DI SANTA GERTRUDE DI NiVELLES.
Una nota a commento della "Part 30 (Interlude/Prelude): A Tale of Four Gertrudes" del lavoro in corso di Paul Adrian Fried (February 06, 2024)
TEATRO E METATEATRO: MEMORIA DI SANTA GERTRUDE DI NIVELLES.
UNA DOMANDA:
MA DALLE TANTE INTERPRETAZIONI DELLA #HAMLETICA FIGURA DI GERTRUDE, NON NE EMERGE ALCUNA CHE PONGA L’ACCENTO SUL TEMA DEI TOPI E SULLA FIGURA DI SANTA GERTRUDE DI NIVELLES? "Eccola assalita dai topi neri, uno dei quali le morde un orecchio. Così appare Gertrude in un’illustrazione del XVI secolo che fa senso, ma che testimonia una singolare tradizione: Gertrude è stata a lungo venerata come protettrice contro le invasioni di topi. La narrazione, priva di base storica, è tuttavia segno dell’ammirazione che l’ha sempre accompagnata." (https://www.santiebeati.it/dettaglio/45800).
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, "RELIGIONE DEL DOVERE", E "DIVINA COMMEDIA":
BENEDETTO CROCE E LA PUNTA FILOSOFICA DI UN ICEBERG COSMOTEANDRICO.
Sul "lascito morale di Benedetto Croce", forse, è opportuno ricordare storiograficamente (filologicamente e antropologicamente) che "la lingua batte dove il dente duole": può essere condivisibile, oggi, la considerazione che “ciò che si richiede e che si ubbidisca ad una necessità morale. La quale comanda che si attenda con ogni rischio, a tutelare gli umani valori e le umane virtù, il rispetto della personalità, il dir no al male e sì al bene, ciò che si chiama insomma il culto della libertà; la quale è il principio direttivo a cui sempre deve si deve far ricorso. Quale che sia lo schema di ciò verso cui il mondo va, quello schema sarà riempito da uomini e sarà reale solo nei pensieri, nei sentimenti e negli atti degli uomini, e avrà quella realtà che essi gli daranno, e tanto migliore quanto migliori quegli uomini. Non vi date dunque pensiero di dove vada il mondo, ma dove bisogna che andiate voi, per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi di voi stessi” (cfr. Tito Lucrezio Rizzo, "Il lascito morale di Benedetto Croce", L’Opinione delle Libertà, 08 febbraio 2024)?!
All’interno dell’attuale presente storico (dell’Europa del 2024), proprio per non vergognarsi di sé e ri-accogliere come indicazione antropologica piena l’affermazione che «L’uomo morale - affermerà nuovamente il #Croce - è il "Vir bonus agendi peritus", chiamato ad operare nel quotidiano sorretto da una retta #coscienza che ne ispirava l’agire concreto, perseguendo i fini di utilità generale da raggiungere e di cui farsi strumento» (T. L. Rizzo, cit.), non è , forse, necessario re-interrogarsi e re-interpretare il rapporto tra la tradizione greco-romana e la tradizione cristiana (con spirito critico, con le famose "virgolette" crociane, del saggio del 1942), proprio a partire da questa "ovvia" (ma indebita) generalizzazione, in cui l’uomo (#Vir) vale immediatamente come l’Uomo (#Homo), come il #genereumano nella sua totalità (cioè, per l’#uomo e per la #donna, per "Adamo ed Eva", e per "Giuseppe e Maria")?
Non è bene riprendere il filo almeno dalla "Divina Commedia" e reinterrogarsi non solo sul significato della lezione di #Beatrice a #Dante sul senso di quel "sarai meco sanza fine cive / di quella #Roma onde #Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102), ma anche sul "Tu devi" kantiano, sul problema dell’imperativo categorico di Immanuel Kant, se si vuole vivere secondo Coscienza, cioè secondo la Costituzione della Repubblica italiana?
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, ARCHEOLOGIA, E #FILOLOGIA (PROTAGORA: "L’UOMO E’ LA #MISURA" ), FILOSOFIA TEOLOGIA E DEMIURGIA (PLATONE: #ZEUS, "IL DIO E’ LA MISURA"), E LA LOGICA DELLA COSMOTEANDRIA DELL’ #OCCIDENTE...
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. Quando la filologia è in #letargo (Par. XXXIII, 94), perso il senso stesso del #principio antropologico e cosmologico di tutte le cose come di tutti gli esseri umani ("arché"), anche la possibilità filosofica di comprendere la semplice massima del sapiente #Pittaco di Mitilene viene meno:
quando "uno dei due" dei componenti del "genere umano" assume il comando dell’uno e dell’#altro componente, mostra chiaramente la sua parzialità andrologica e androcentrica e, al contempo, permette di comprendere il trucco dell’operazione "zeus_ica" del demiurgo platonico e le radici stesse della teologia-politica costantiniana (Nicea 325) della in-segnatura rinascimenale della "Scuola di Atene" e del "Sapiente" di #Bovillus (1510).
LINGUISTICA STORIOGRAFIA E PSICOANALISI:
RIFLETTENDO sul #nodo etimologico di #cuore e #cardine (in connessione con l’ #hamlet-ico tempo di #Shakespeare, "fuori dai cardini"), la memoria ha richiamato l’attenzione su una #immagine (qui, v. allegato) che continua a "#parlare" di un problematico #letargo di secoli (quantomeno a partire da #LorenzoValla, 1440), di uno strano "lapsus" storico e storiografico sul tema dell’#Amore per eccellenza: la #Carità, la #Charitas (gr. "#Xapitas"), e sulla famosa e falsa "donazione di Costantino".
IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS: CHARITAS (AMORE). Questa parola-chiave, la "password" del "regno dei cieli", è diventata nel tempo la Carità - #elemosina, la #Caritas (fatta derivare dal lat. "carus", "caro") e così, persa la "h" (l’#acca), anche in lingua greca (v. allegato) è diventata (addirittura) "#Kapitas" ( "Karitas").
"RIPENSARE #COSTANTINO"? NO! #DANTE2021? NO! RICORDARE L’ANNIVERSARIO DI #NICEA 325, 2025!
OVVIAMENTE, così permanendo e stando le cose in tutte le Università e le Accademie del #PianetaTerra (con la loro forte segnatura culturale di epoca "rinascimentale"), il "sonno dogmatico" continua a tutti i livelli, sul piano non solo etimologico, ma filologico, antropologico, teologico e politico.
COSMOLOGIA #ARTE #ANTROPOLOGIA E DIVINA COMMEDIA: MEMORIA DELLO "SPOSALIZIO DI GIUSEPPE E MARIA" (#23GENNAIO) E UN "VECCHIO" INVITO AD ACCOGLIERE IL "MORMORIO SOTTILE" DELL’OPERA DI DANTE ALIGHIERI.
STORIA E LETTERATURA: #RICAPITOLAZIONE E #POESIA. Dopo le sollecitazioni "#cosmicomiche" (#ItaloCalvino) di #DanteAlighieri a uscire dal "#letargo" (Par. XXXIII, 94), forse, è proprio il tempo di riaprire la #Commedia e non rinchiuderla per sempre nell’orizzonte del "#Boccaccio" e del "#Petrarca"; e, togliendo le virgolette al "Perché non possiamo non dirci «cristiani»"(Benedetto Croce, 1942), comprendere antropologicamente, che, come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO": e, riprendere proprio quel filo perduto (quel "#paradigma perduto") che collega benevolmente e cosmologicamente il passato e il presente, l’alto e il basso, il sopra e il sotto, e #cielo e la #terra: in principio era il #Logos...
#FILOLOGIA E #AMORE (#CHARITAS), NON #MAMMONA (#CARITAS)! Dante non "cantò i #mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore "che muove il Sole e le altre stelle".
NOTE:
PER L’ EPIFANIA 2025 : ALCUNE NOTE SULLA "STORIA NOTTURNA" DELLA TRAGICA FIGURA DEL "GIOCASTOLAIO" (EDIPO) DEI MAGI.
STORIA E LETTERATURA E PSICOANALISI. Memoria di un evento epocale: i Magi erano sapienti e sapevano distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone (#Erode). Ma, oggi, dove sono i Magi?
Archeologia e Storiografia. Dopo papa Gregorio I, detto papa Gregorio Magno (Roma, 12 marzo 604), e dopo papa Bonifacio IV e l’imperatore bizantino Foca (609), alla "altezza" del tempo storico del "sarcofago dell’esarca Isacco (625 - 643 d.C.)", a quanto appare epifanicamente (oggi, 6 gennaio 2024), era già in grande diffusione e costruzione la ideologia costantiniana imperiale (con le sue radici paoline) della figura della "Theotókos" (Concilio di Efeso, 431), della immagine della "Madre di Dio", la Madre del Dio - Figlio (#Imperatore - Cristo), fino a portare con san Bernardo di Chiaravalle (come scriverà Dante) a celebrare la "Vergine Madre, figlia del tuo figlio" (Par. XXXIII, 1), e a mettere "fuori campo", anzi "dalla porta", la stessa figura di #Giuseppe (#padre di Gesù, il discendente "de domo David"): il passo è costante e troverà - al di là del presepe di Francesco e dello spirito di #Assisi (Greccio, 1223) e nella messa all’indice come eretica della "Monarchia" di Dante Alighieri (con la sua teoria dei "#dueSoli") - una sollecitazione decisiva nell’opera papa francescano #SistoIV della Rovere (intorno al 1477), nella costruzione della #CappellaSistina, il cammino prosegue, arriva fino ad oggi (Epifania 2024), ed oltre - alla prossima tappa, all’anno prossimo, al 2025, al Giubileo e alla celebrazione dell’anniversario del Concilio di #Nicea del 325.
DOTTA IGNORANZA (1440), "PACE DELLA FEDE" (1453), E RILANCIO DI UN "NUOVO" PRESEPE "FRANCESCANO" (ALL’ORIGINE DELLA "CAPPELLA SISTINA"): ARCHEOLOGIA, FILOLOGIA, E STORIA E LETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTO IV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
Federico La Sala #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
PIANETA TERRA: TEATRO, METATEATRO, LETTERATURA, PSICOANALISI, E QUESTIONEANTROPOLOGICA (E CRISTOLOGICA).
"A CHE GIOCO GIOCHIAMO": A "CORONE" O "COR_NE" ("CORNE")?!
DANTE ALIGHIERI E WILLIAM SHAKESPEARE. Un grande problema, quella della #regalità antropocentrica (dei "due corpi del re" e dei "due soli"), e del suo fondamento teologico: questa la #question di #Amleto e di #Ofelia! #Essere, o non essere: #comenasconoibambini?! Di chi sono #Figlio io? Di chi sono Figlia io?! Del dio #Amore (#Charitas) o del dio #Mammona (#Caritas)?!
GLOBALIZZAZIONE. Quale #Monarchia, quale #Impero, quale #Europa, quale #Terra?! Ai posteri, l’ardua sentenza! Con la #Danimarca, #oltre! Oltre le colonne d’Ercole, fuori dall’orizzonte della #tragedia...
L’EUROPA, "L’ELOGIO DELLA FOLLIA" (1511) E L’UTOPIA (1516). CULTURA E SOCIETÀ: "LA MONTAGNA INCANTATA" (1924) e "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929).
Una nota a margine di una "citazione" di una lettera di #Tommaso Moro a #Erasmo di Rotterdam:
«Non puoi immaginarti quanto ora io m’imbaldanzisca, quanto mi gonfi, quanto mi tenga più su. Immagino di continuo che i miei Utopiani mi vorranno eleggere loro sovrano perpetuo, tanto che mi vedo già incedere del diadema di frumento, mi vedo cospicuo nel paludamento francescano, mi vedo portare lo scettro venerabile di un covone di messi. Circondato da un’insigne accolta di cittadini di Amauroto, mi vedo, in pompa solenne, andare incontro agli ambasciatori e ai principi delle genti straniere, ben miseri al nostro confronto, pieni di sciocca superbia, perché ornati fanciullescamente, pieni di vanità femminile, carichi di disprezzabile oro, ridicoli per la porpora, per le gemme, per altre bazzecole.» (Cfr. E. Scelza, "LE CITAZIONI: il sogno ad occhi aperti di Tommaso Moro", "Gente e Territorio", 15 novembre 2023).
SE SI CONSIDERA CHE TOMMASO MORO (1478-1535) scrive quello che scrive ad ErasmodiRotterdam (1469-1536) il 4 dicembre 1516, e che, al contempo, Martin #Lutero (1483-1546) nell’ottobre del 1517 diffonde le sue #95Tesi, c’è da pensare che ognuno sognasse un proprio #sogno ad occhi aperti e non avessero affatto un #mondo "unico e comune" (#Eraclito) : questo spiega, soprattutto da parte di Erasmo e Moro, anche la loro presa di distanza dalle sollecitazioni di riforma della Chiesa da parte di Lutero.
Non è un caso che, pochi anni dopo (al tempo di Carlo V, dopo il Sacco di Roma nel maggio del 1527), la richiesta di un tentativo di edizione della "#Monarchia" di #DanteAlighieri, fatto da Alonzo de #Valdès (1490 - 1532) e Mercurino di #Gattinara (1465-1530), è lasciato cadere nel vuoto da Erasmo da Rotterdam (nel marzo del 1527), e, ancora e purtroppo, di lì a poco c’è la rottura di #EnricoVIII con Chiesa cattolica e l’avvio della Riforma Anglicana (1534).
All’indomani della Prima Guerra Mondiale, alla fine della sua "Montagna Incantata" (#Zauberberg, 1924), #ThomasMann scrive: "Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?" (trad. di E. Pocar).
Nel 1929, in Italia, la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano sottoscrivono il "Concordato" (#PattiLateranensi, 11 febbraio 1929): a Vienna, intanto, #SigmundFreud porta avanti il suo lavoro e pubblica il risultato delle sue ricerche e delle sue riflessioni sul "Disagio della civiltà" (e nella civiltà).
P.S. - STATO ITALIANO E STATO PONTIFICIO (CHIESA CATTOLICA): LA QUESTIONE ROMANA E IL "#20SETTEMBRE 1870" (Festa della liberazione della capitale e dell’unificazione nazionale, abolita dal Fascismo). #BENEDETTOCROCE, NELLA "STORIA D’ITALIA DAL 1871 AL 1915" (1928), A PROPOSITO DEL PERSONAGGIO "LUDOVICO SETTEMBRINI" DELLA "MONTAGNA INCANTATA" ("DER ZAUBERBERG", 1924) DI THOMAS MANN, COSI’ SCRIVE:
#Agenda_UBU | Congreso Internacional “Hispanismo. Un pasado con futuro”.
INFORMACIÓN ►https://www.ubu.es/agenda/congreso-internacional-hispanismo-un-pasado-con-futuro
• Del miércoles 15 al viernes 17 de noviembre .
• Paraninfo de la Universidad de Burgos.
Nota:
HISPANISMO: "UN PASSATO CON FUTURO". Con gli auguri di "buon lavoro!" al Congresso Internazionale, un invito a riprendere anche (e ancora) la riflessione e l’indagine sul tentativo della edizione della "Monarchia" di Dante Alighieri, fatto da Alonzo de Valdès e Mercurino di Gattinara (1465-1530) e lasciato cadere nel vuoto da Erasmo da Rotterdam ( nel marzo del 1527), al tempo di Carlo V (e del Sacco di Roma del maggio del 1527 e prima della Riforma Anglicana del 1534).
STORIOGRAFIA D’EUROPA, FILOLOGIA, E LETTERATURA:
LA "CESURA" STORICA E CULTURALE SEGNATA DAL LAVORO CRITICO "SULLA #DONAZIONE DI #COSTANTINO" DI #LORENZOVALLA (1440) E DALLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453). *
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STORIOGRAFICAMENTE, forse, è ora di #capovolgere, il "tempo" proprio dell’#Umanesimo e del #Rinascimento: per la società e la cultura del cosiddetto "Medio Evo" degli "umanisti", l’epoca "fu sentita - così scrive E. #Gilson - come un’età di innovazione in tutti i sensi della cultura, una #modernità in progresso". A mio parere, il formidabile processo della "prima #rinascita" (E. #Buonaiuti) cominciata con #GioacchinodaFiore, #FrancescodiAssisi, e #DanteAlighieri trova il suo punto culminante nella "Monarchia umanistica aragonese" e, al contempo, comincia a imboccare un vicolo cieco, segnato dall’#orizzonte cusaniano della "#DottaIgnoranza" (1440) e della "#Pace della #fede" (1453) senza l’#Islam, nella caduta di Costantinopoli nelle mani di #Maometto II(1453), e, complementarmente, nella Guerra di #Granada, portata avanti dai Re Cattolici, Ferdinando II di Aragona e Isabella di Castiglia (1482-1492), contro gli ebrei e contro gli arabi. A partire dal 1517/1534 (#RiformaProtestante e Anglicana), inizia un lungo inverno per l’#Europa (#ConciliodiTrento, #Lepanto, #InvincibileArmata, #ElisabettaI d’Inghilterra); dopo il 1616 (morte di #Shakespeare, #Cervantes, e #Garcilaso El Inca de la Vega), prende il via la Guerra dei Trent’anni (1618-1648).
LA "MEMORIA DEL MONDO", LA CELESTE "CORRISPONDENZA D’AMOROSI SENSI" DI FOSCOLO (OMERO/ULISSE), E LA RICERCA DI ITALO CALVINO DI USCIRE "FUORI DEL SELF" DELLA TRADIZIONE SOFISTICA (IDEALISTICA E MATERIALISTICA), PER COMPRENDERE ANTROPOLOGICAMENTE (NON ANTROPOMORFICAMENTE) LE RADICI COSMICOMICHE DELLA INFINITA E COMPLESSA MOLTEPLICITÀ... *
CALVINO (OMERO/ULISSE): "IO HO ASCOLTATO IL CANTO DELLE SIRENE" ("La letteratura e la realtà dei livelli", 1978). Non dimentico della lezione di #DanteAlighieri, #Calvino cerca di trovare la via che lo possa portare al "punto di arrivo cui tendeva #Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto di arrivo cui tendeva #Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose" ( "Molteplicità", "Lezioni Americane").
I "LIVELLI DI REALTÀ" (Feltrinelli, Milano 1984) E LA PSICOANALISI. Una traccia, per orientarsi nell’attraversamento dei livelli di realtà delle opere di #Calvino100: ricordare il suo incontro ("Anch’io cerco di dire la mia"), nella "taverna dei destini incrociati", con "Sigismondo di #Vindobona", e ricordare il ruolo di #Venere (#Afrodite) e di #Eros (#Cupìdo) nella mitica versione di Ovidio del "Ratto di #Proserpina", di #Persefone, figlia di #Demetra (#Cerere), da parte di #Ade (#Plutone):
#Eleusis2023
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L’UMANITÀ (ANTROPOLOGIA), IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" (ECONOMIA POLITICA) E IL PERSISTERE DI UN "PREISTORICO" SIMPOSIO ALL’OMBRA DELLA "EU+CARESTIA"!!!
MINIMALISMO ED ESSENZIALISMO: "SÀPERE AUDE" (DECIDERSI A DIVENTARE SAGGIO, AD AS-SAGGIARE, A USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ" (ORAZIO E KANT). A ben riflettere sulla "essenza del cristianesimo" di Ludwig Feuerbach, e, al contempo, sul problema della "eucharistia", del cibarsi della grazia ("charis") di Dio ("charitas"), forse, si può meglio cominciare a capire la profondità teologico-politica ed economica della sua "banalizzatissima" considerazione che «L’uomo è ciò che mangia»!
IN UN TESTO BRILLANTISSIMO, all’interno di un "presente storico" di secoli, segnato da una grande carestia filologica e logica, così è scritto: "La vita spirituale - di chi «nasce un seconda volta» aderendo a Cristo - poggia sulla preghiera continua e sull’#eucarestia [...]" (cfr. Flavio Piero Cuniberto, "SUL CRISTIANESIMO COME MITO E COME MISTERO). E, proseguendo; si arriva a fare propria la tesi di #RenéGirard: "L’idea che la morte di Cristo sulla croce sia il prezzo del riscatto («redenzione» da «red-imere», «riscattare») non è che una versione cristianizzata della pratica ancestrale del #bouc #émissaire, il #caproespiatorio di Girard. Una versione mitologica del mistero cristiano." (op. cit.).
IL CANTO DEL CAPRO E LA FENOMENOLOGIA DELLA TRAGEDIA: "ECCE HOMO" (PILATO). Accecati dall’astuzia della ragione platonico-hegeliana, invece di fare chiarezza sul "capro espiatorio", si rinnova la confusione e la condanna a morte proprio dell’agnello (dell’#ariete, del montone) che ha portato Ulisse (e Dante) in salvo, fuori dalla caverna e dall’inferno!
Dopo Nietzsche ("Ecce Homo", 1888), che ha denunciato l’imbroglio storico-antropologico del #paolinismo, a partire dalla morte di Dio, e di Gesù ("Ecce Homo"), chi ha mai più visto sulla Terra un cristiano, una cristiana?
Nonostante Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi, Chiara di Assisi, Dante Alighieri, e, addirittura, il lavoro iperstorico ("preistorico" e archeologico) sulle radici "Cosmicomiche" della Terra (Italo Calvino), Diogene di Sinope, definito dalla tradizione "Socrate pazzo", continua ad andare con la sua lanterna accesa, alla luce del sole, per i mercati, a cercare l’uomo ("anthropos") e a sognare il #sorgeredellaterra...
L’#EUROPA (#GRANADA), #KOENIGSBERG / #KALININGRAD (E #ODESSA), LA "#DEMOCRAZIA" (COME "#STATO DI #MINORITÀ"), E IL PROBLEMA DELLA #TRASPARENZA TEOLOGICO-POLITICA. Alcuni appunti...
Un omaggio alla memoria di Dante Alighieri e William Shakespeare...
LA #TALPA E LA #CIVETTA: LA TRACCIA DI UNA FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO DI "#DUE #IO" (DI #DUESOLI"). Già per #Shakespeare, ai suoi tempi (1600), Amleto e Ofelia (con il metodo della loro #follia) guardano ben oltre la linea dell’orizzonte teologico-politico di #Erasmo di Rotterdam e #TommasoMoro e lottano per portarsi fuori da un’Europa ormai avviatasi nella "marcia" del tramonto (#Nicea 325/2025).
LE PAROLE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE. Al centro e al fondo della questione posta da #CarloGalli, nel recente "Democrazia, ultimo atto?"(cfr. estratto: https://www.einaudi.it/.../democrazia-ultimo-atto-carlo.../ ), al di là dei suoi contributi e risultati specifici, vi sono "le idee moderne di libertà, di uguaglianza, di trasparenza, che sono esposte alla contingenza (...) e che meritano ancora una volta di essere il centro intorno a cui ruota la politica".
"DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (#FREUD, 1929). Sul tema, nel suo commento, Francesco Fistetti accoglie con riserva la proposta di variazione e scrive: "[...] Al terzo termine del trinomio #libertà / #eguaglianza / #fraternità Galli sostituisce quello di "trasparenza". Trasparenza nell’accezione già di Bobbio che non devono esserci zone oscure e opacità nell’esercizio del potere e nel governo delle istituzioni, ma il sale della critica e del dibattito razionale. Ma in questo modo, cancellando la fraternità, può cassare senza colpo ferire tutta la storia del socialismo e della lotta per il socialismo come organici alla storia della modernità democratica e dello stesso liberalismo (il liberalsocialismo di un Rosselli e tanti altri). Operata questa amputazione "genealogica’ (almeno per la Modernità) resta una pallida e spettrale idea di liberaldemocrazia. Peraltro, quest’ultima viene declinata come l’ideologia e la pratica di quello che l’autore chiama il "secondo Occidente", quello degli Usa e delle istituzioni dell’Onu: un nuovo Occidente "a guida americana", di cui dalla fine della Seconda Guerra Mondiale "fa parte l’Europa" e la cui "espressione è la Nato" [...]"(cfr. https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5/posts/10211262489754567).
"LA SOCIETÀ TRASPARENTE" (GIANNI VATTIMO, 1989), A mio parere, sulla trasparenza, un nodo decisivo legato al problema proprio di una "#societàtrasparente" (#GianniVattimo, 1989) , il dibattito è in alto mare ed è ancora tutto da affrontare, al suo livello antropologico-politico fondamentale, dalla radice (#Marx)!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E CULTURA CRITICA. La questione è "metafisica", ma, a quanto pare, nessuno si ricorda più di #Kant e del suo illumiNATO "sàpere".
#PACEPERPETUA, Se non si rende trasparente il nodo antropologico e teologico-politico, non è possibile (come è stato dimostrato storicamente, almeno fino ad oggi, fino alla "tappa" europea di Granada 1492/2023) alcuna fraternità (libertà e uguaglianza) e la "pace perpetua" (Kant) è definitivamente assicurata.
Nota:
#FILOSOFIA #STORIA E#METATEATRO: #METAFOROLOGIA.
"La #civetta e la #talpa. Sistema ed epoca in #Hegel" di #RemoBodei (1975, 2021): "[...] Quale il rapporto fra la civetta della filosofia, che interpreta coscientemente l’epoca, e la talpa dello spirito, che la trasforma inconsciamente con il suo cieco lavorio? A tali interrogativi Remo Bodei cerca una risposta in questo saggio ormai classico, che ha offerto una prospettiva originale della filosofia hegeliana." ( https://www.mulino.it/isbn/9788815291226 ).
FLS
[Una recensione]
C. Pisano, "Hermes, lo scettro, l’ariete. Configurazioni mitiche della regalità nella Grecia antica" Napoli, M. D’Auria Editore, 2014, 304 p.
di Daniela Bonanno *
In un saggio divenuto ormai un classico, J.-P. Vernant affermava : “Lo studio di un dio come Ermes, molto complesso, deve definire innanzitutto i suoi rapporti con Zeus, per cogliere l’apporto particolare di Ermes all’esercizio della sovranità, e poi confrontare Ermes con Apollo, Estia, Dioniso, Afrodite. Con tutti questi dèi Ermes ha delle affinità, ma si distingue da ciascuno per certe modalità d’azione” 1. Quasi raccogliendo l’invito dello studioso francese, C. Pisano esplora, in questo volume, proprio le logiche di funzionamento dei rapporti tra Hermes e le forme del potere e dell’autorità regale, concentrandosi sulla relazione con Zeus.
Il libro, frutto di una ricerca dottorale, si articola in tre lunghi capitoli preceduti da una corposa introduzione, in cui C. Pisano si pone anche dichiaratamente sulla scia dei lavori di J.-P. Vernant e di M. Detienne, adottando, da un lato, l’approccio “differenziale e classificatorio” sperimentato dai due studiosi sulla religione greca e, dall’altro, sforzandosi di ricostruire la “modalità d’azione”, che, stando ai lavori di G. Dumézil, caratterizza una divinità greca, in modo più marcato, di quanto non faccia la sua “sfera di competenza”.
L’obiettivo è esaminare, come suggerito da M. Detienne, la “reattività” di un dio come Hermes a determinati oggetti quali lo scettro o il vello d’oro. La proposta metodologica, richiamata a più riprese, affianca il livello della ricostruzione “etica” della relazione di Ermes con la sovranità a quello “emico” dei “nativi greci”, assimilando, pur con tutte le cautele del caso, l’indagine sulle rappresentazioni antiche a quella di una ricerca antropologica sul campo.
La ricerca prende le mosse da un passo chiave del secondo libro dell’Iliade (II 100-108), che racconta il ruolo di Hermes nella trasmissione dello scettro regale da Zeus ad Agamennone, passando per Pelope, Atreo e Tieste. L’intervento del dio, designato nei versi omerici quale anax (sovrano), è stato percepito come problematico dagli stessi commentatori antichi che si sono sforzati di accordare la funzione di messaggero (keryx) di Hermes con tale epiteto.
Gli interrogativi da cui prende avvio tutta l’indagine sono quindi i seguenti : può un keryx essere un anax ? Può la funzione di messaggero degli dèi, concordemente riconosciuta dalla tradizione ad Hermes, accordarsi con quella regale ? Come si spiega l’attribuzione ad Hermes dell’epiteto anax nell’Iliade ? È forse questa una traccia di una funzione regale esercitata dal dio riconducibile a un non ben definito “passato miceneo”, come hanno ipotizzato alcuni studiosi ? A questi problemi, sui quali tanto i commentatori antichi, quanto gli esegeti moderni si sono molto esercitati, il volume di C. Pisano si propone di fornire una risposta, esaminando in senso diacronico una documentazione di tipo essenzialmente letterario.
A partire dai poemi omerici, nel primo capitolo, ad essere prioritariamente esplorata è la condizione sociale dell’araldo, capace di gestire la comunicazione a distanza ; quella che regola le riunioni assembleari ; la prassi sacrificale, nonché la diakonia nell’ambito della ripartizione delle carni e del vino in occasione dei banchetti. L’approccio “classificatorio e differenziale” rivela qui tutta la sua efficacia nella diversa “modalità di azione” che C. Pisano individua nei passi omerici relativi ai due “messaggeri divini” : Hermes e Iris. Dall’analisi emerge la capacità dell’uno di muoversi in spazi distanti fra loro, aprendo vie di passaggio tra territori apparentemente non comunicanti ; laddove invece gli spostamenti di Iris appaiono più circoscritti e limitati. Inoltre, Hermes si differenzia da Iris, semplice “porta-parola” di Zeus, nella forza persuasiva di cui appare dotato il suo messaggio. Il dio appare così decisamente associato alla sfera della “mediazione linguistica”, come mostra, tra l’altro, l’analisi dell’Inno omerico a Hermes, proposta nel secondo capitolo del volume, che racconta del confronto del dio con il fratello Apollo, da cui verrà fuori un’attenta ripartizione e riconfigurazione delle timai assegnate a entrambi. Il dio di Delfi, interessato alla conservazione e la tesaurizzazione, avrà il controllo dei beni, minacciati dal fratello appena nato con il furto degli armenti ; prerogativa del dio di Cillene sarà invece la cura degli armenti che ne prevede quindi il moltiplicarsi e il loro ingresso nel circuito commerciale ; ad Apollo andrà la lira ; ad Hermes la rhabdos, l’oggetto che garantisce l’immunità dell’araldo e conferisce efficacia ai decreti divini, consentendo al keryx di rappresentare l’anax ; di Apollo infine sarà il controllo su una divinazione, il cui messaggio obliquo per essere compreso necessita di un interprete ; mentre appannaggio di Hermes sarà una divinazione supportata da un corretto e misurato impiego delle parole, il cui messaggio raggiunge l’uomo senza bisogno di intermediari.
Il terzo capitolo prende in esame un altro simbolo di sovranità, rappresentato dall’agnello o dall’ariete dal vello d’oro. L’oggetto, assente come tale nei poemi omerici, compare nella tragedia, affiancando lo scettro che viene così a perdere il carattere di esclusività nella rappresentazione del potere regale. Lo studio della tradizione argiva relativa agli Atridi, della saga di Frisso e Atamante e dell’impresa degli Argonauti consente di riconoscere la funzione legittimante dell’agnella e dell’ariete dal vello d’oro inviati da Hermes, in una situazione di grave crisi interna derivante da problemi di successione. Come lo scettro, trasmesso dal dio per conto di Zeus, conferisce autorità al sovrano e capacità persuasiva, l’ariete ne supporta la legittimità dell’aspirazione al trono. In entrambi i casi di costruzione e definizione della regalità, Hermes svolge la funzione che gli è propria, quella cioè di inviato e di araldo di Zeus, da cui discende il potere sovrano.
L’ultimo capitolo del volume insegue il filo della ricerca dei “significati emici”, recuperati in filigrana dall’esame delle interpretationes di Hermes con divinità straniere in alcuni testi tratti dalla letteratura giudaica e cristiana. Il punto di partenza è, in questo caso, fornito da un passo del Cratilo di Platone che, riletto alla luce delle considerazioni di G. Dumézil, consente di rintracciare nel testo antico una prima conferma della percezione che i Greci avevano delle modalità di intervento di Hermes e della sua capacità di agire come “interprete” e “messaggero di Zeus”. Che tale percezione facesse leva sul “sapere condiviso” dei Greci emerge anche dall’analisi di tre testimonianze di epoca più tarda.
Si tratta, in primo luogo, del frammento 3 Jacoby di Artapano, storico ebreo di Alessandria d’Egitto (III-II sec. a.C.), in cui Mosè è identificato con Hermes, quale tramite delle “sacre scritture” (hiera grammata) di Dio. La seconda testimonianza è costituita da un passo degli Atti degli Apostoli in cui si racconta dell’arrivo nella città di Listra di Barnaba e Paolo, giunti ad evangelizzare i pagani, e riconosciuti dagli abitanti del luogo quali Zeus ed Hermes.
L’ultimo testo, preso in considerazione alla ricerca della modalità attraverso cui la figura di Hermes era percepita e descritta dai parlanti greco, è un passo di Giustino (II sec. d.C.), i cui interlocutori sono gli intellettuali greci e romani del tempo, convinti che la religione cristiana fosse priva di tradizione. Per rispondere a questa critica, l’apologeta presentava la nuova religione come una manifestazione ben più forte del Logos di cui già parlavano Eraclito e Socrate e individua in Gesù il Logos, colui che trasmette la parola di Dio, espressione di una “concezione comune” - afferma Giustino - a quella di coloro che ritengono che Hermes è il “Logos messaggero di Dio”.
Il volume termina con delle conclusioni ben argomentate in cui C. Pisano riprende i termini della questione posta in apertura: può un keryx essere un anax e viceversa ? Ed Hermes è keryx o anax ? Dai dati raccolti emerge la figura di un dio che diventa anax, nel momento in cui riceve lo scettro da Zeus, l’oggetto cioè tramite il quale la funzione regale e quella araldica si legano l’una all’altra. Lo scettro del re non è infatti diverso dalla rhabdos dell’araldo, che non fa altro che dare voce al sovrano. Quando Agamennone, nell’Iliade, parla al centro dell’assemblea con lo scettro in mano egli è “l’interprete e il messaggero” di Zeus : egli è, per l’appunto, keryx e anax. Si conclude con questa proposta originale di soluzione dell’“enigma”, sollevato in apertura, il volume, i cui contenuti, resi in uno stile piano e piacevole alla lettura, mostrano tutta l’efficacia euristica di una corretta articolazione tra indagine storico-filologica e approccio antropologico.
Notes
1 J.-P. Vernant, “La società degli dèi”, in Id., Mito e società nell’antica Grecia, Torino 20072 (ed. or. Paris 1974), 105.
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Daniela Bonanno, « C. Pisano, Hermes, lo scettro, l’ariete. Configurazioni mitiche della regalità nella Grecia antica », Anabases, 25 | 2017, 295-297.
Daniela Bonanno, « C. Pisano, Hermes, lo scettro, l’ariete. Configurazioni mitiche della regalità nella Grecia antica », Anabases [En ligne], 25 | 2017, mis en ligne le 01 avril 2017, consulté le 02 octobre 2023. URL : http://journals.openedition.org/anabases/6148 ; DOI : https://doi.org/10.4000/anabases.6148.
FILOSOFIA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, POLITICA, E RELIGIONE E STORIA E LETTERATURA:
LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL.
Una nota *
Il tramonto della cristianità
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 18 Settembre 2023)
La crisi della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Naturalmente preoccupa soprattutto i cristiani, ma non riguarda soltanto loro perché essa è l’effetto di una crisi sottostante, quella della civiltà cristiana che è la base delle nostre società. Per questo non riguarda soltanto la fede cristiana, ma la società contemporanea nel suo insieme.
In che modo e con quali conseguenze è l’argomento di un breve e interessante saggio della filosofa politica francese Chantal Delsol dal titolo esplicito, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo (ed. Cantagalli). Il punto di partenza della sua analisi è la constatazione che stiamo assistendo al tramonto della cristianità, la civiltà fondata sul cristianesimo che ha dominato l’Europa e il mondo Occidentale per sedici secoli. Il suo declino è certamente provocato «dal cedimento della base che ne sosteneva l’esistenza: la fede in una verità trascendente, in questo caso quella in un Dio unico venuto nel mondo», tuttavia non comporta necessariamente la fine del cristianesimo. Una religione, infatti, resta viva anche quando raccoglie un piccolo numero di credenti. Quanti e fino a quando, impossibile dirlo e, a questo punto, viene inevitabilmente alla memoria la frase forse più sconcertante pronunciata da Gesù, riportata nel Vangelo di Luca (18,8): «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»
La civiltà cristiana, invece, scrive Delsol, come tutte le costruzioni umane è «effimera, soggetta ai tempi e alle mode, ed eminentemente fragile, mortale». È del tutto ragionevole pensare che possa finire. Il suo inizio è convenzionalmente stabilito dagli storici nel 394 d.C., data della battaglia del fiume Frigido e della definitiva sconfitta del paganesimo. Da quel momento ha preso il sopravvento una civiltà nuova «ispirata, ordinata e guidata dalla Chiesa», con un nuovo «modo di vivere» e una nuova concezione del bene e del male. Il suo declino inizia molti secoli dopo, con il movimento culturale dell’Illuminismo e la Rivoluzione Francese che cercò di fare piazza pulita della Chiesa con abbondante uso della ghigliottina contro chierici e fedeli laici. Poi divenne sempre più rapido, fino ad assomigliare a una vera débâcle culturale a partire dagli anni Sessanta del Novecento, quando i movimenti della contestazione giovanile in tutto il mondo occidentale scompaginarono la società cambiando i costumi e affossando le tradizioni, e gettarono le basi del mondo odierno. Chantal Delsol pensa che quegli anni rappresentino il punto di non ritorno della crisi e che oggi all’orizzonte, a vista d’uomo, sia impossibile immaginare una rinascita della cristianità.
Già nel 1969 Joseph Ratzinger, allora giovane teologo e professore universitario, fece questa previsione sul futuro della Chiesa: «Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi... Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali, ... non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra» e diventerà più spirituale.
Il futuro papa immaginava che un processo lungo e difficile ma positivo l’avrebbe condotta a liberarsi della mondanità, della pomposità e del settarismo permettendole di essere di nuovo, come all’origine, l’assemblea (questo è il significato della parola chiesa) dei ‘piccoli’, termine con cui il linguaggio biblico chiama coloro che non cercano potere, riconoscimenti o ricchezze ma Dio, e a lui si affidano con semplicità e fiducia. Purificata dalla zavorra accumulata lungo i secoli del suo predominio, dopo grandi sommovimenti e una lunga crisi che, a suo parere, era appena cominciata sarebbe rimasta «non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede... Conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte» (Cfr. La profezia dimenticata di Ratzinger sul futuro della Chiesa, reperibile on line o nel libro Faith and Future, Ignatius Press, 2009). Una Chiesa nuova e antica capace di annunciare sempre lo stesso messaggio di speranza affidatole duemila anni fa. Per quale altro scopo se non per conoscerlo la gente dovrebbe avvicinarsi alla Chiesa, si domanda senza tergiversare il filosofo polacco Kolakowski in un breve saggio incompiuto solo ora tradotto in italiano: «Se non è Dio e Gesù che la gente cerca nella Chiesa, la Chiesa non ha alcun compito specifico da realizzare...è Dio che tutti vorrebbero trovare nel cristianesimo», non un’ideologia o una lobby politica (L. Kolakowski, Gesù. Saggio apologetico e scettico, ed. Le Lettere).
Fine del cristianesimo, dunque, fine della morale e trionfo dell’ateismo? Tutt’altro. Se il XXI secolo vedrà la fine della cristianità, scrive Delsol, non vedrà però la fine della moralità, come paventano alcuni cristiani convinti che i principi morali derivino solo dalla religione. Lo dimostrano le società pagane la cui moralità era determinata dai costumi, dalle leggi e dalle tradizioni. Allo stesso modo la società post-cristiana segue una morale che rispecchia i costumi condivisi dalla maggioranza dei cittadini e confermata dalle leggi dello Stato il quale provvede anche alle sanzioni a sua tutela non più affidate alla Chiesa.
Per quanto riguarda l’ateismo, Delsol è certa che non trionferà perché non ha presa sull’animo umano, portato piuttosto a riempire il vuoto provocato dalla fine del trascendente con altre forme di sacro. Le religioni e le filosofie orientali rispondono perfettamente alle nuove esigenze di spiritualità, perché «non brandiscono alcun Dio, alcun dogma, alcun obbligo» e il loro «sforzo per eliminare la sofferenza è molto simile alle sessioni di sviluppo personale, ed è proprio quello che i nostri contemporanei cercano». Anche l’ecologismo è perfetto per l’uomo di oggi. Egli non riconosce più gerarchie e separazioni tra uomo e natura, e nella ricerca di una sacralità senza divinità rigetta ogni monoteismo avvicinandosi piuttosto all’antico animismo; la sua visione è una sorta di cosmo-teismo «preoccupato più dello spazio che del tempo» perché non immagina niente al di sopra del mondo. La fede ecologista, inoltre, bilancia almeno in parte l’individualismo esasperato reintroducendo il concetto di responsabilità personale verso il futuro del pianeta e di chi lo abiterà. Forse, prospetta prendendo a prestito le riflessioni del filosofo tedesco Odo Marquard, dopo il regno di Dio e dopo quello dell’uomo è giunto il regno della natura.
Dall’analisi della Delsol, dalle parole di Ratzinger, dalle considerazioni di Kolakowski emergono pensieri convergenti, non pessimisti, che indicano una via percorribile per il futuro. La Chiesa può sopravvivere tornando all’essenza della sua missione, alla sua originaria ragione d’essere: l’annuncio e la testimonianza del messaggio di Gesù, semplicemente così come lo raccontano i Vangeli. La speranza di un amore che va oltre la morte, oltre le nostre fragilità, gli errori, le mancanze. La consapevolezza di condividere un destino che dovrebbe farci sentire responsabili gli uni degli altri e tutti del mondo. La perdita del potere politico, del riconoscimento sociale, della ricchezza potrebbe essere un beneficio piuttosto che una catastrofe, argomenta Chantal Delsol. Forse non deve essere la cristianità a lasciarci, ma potrebbero essere i cristiani ad abbandonarla rinunciando alla forza e all’ideologizzazione per tornare ad essere quello che devono essere: testimoni. «Non possiamo inventare un altro modo di essere se non quello dell’egemonia? La missione dev’essere necessariamente sinonimo di conquista?» E conclude: «Probabilmente sarebbe meglio se rimanessimo solamente dei testimoni silenziosi e, in fondo, degli agenti segreti di Dio».
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LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL:
Nonostante Hegel sapesse che "The time is out of joint" (Shakespeare, "Hamlet", I.2), la visione COSMOTEANDRICA di Napoleone a cavallo a Jena (1806) in parte lo accecò e non poté più portarsi fuori dalla DIALETTICA della "strada di Damasco" (e "protestante" e "cattolica"). Con Amleto (e Marx), tuttavia non si può non ripetere: "Ben detto, vecchia talpa!" (I.5).
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, TECNOCRAZIA, E COSMOTEANDRIA: IL"NOVUM ORGANUM" (BACONE). L’ AVANZATA DEL GIGANTE, ormai, con i suoi stivali dalle sette leghe, è diventata inarrestabile: è un "golem-antico" progresso sulla strada aperta dal demiurgico sogno tragico dell’Accademia platonico-socratica, paolina, baconiana-hobbesiana, e schmittiana. "Il parto maschio del tempo ovvero la grande instaurazione del dominio dell’uomo sull’universo" è ormai a "buon" punto.
DANTE ALIGHIERI, L’HAMLETICA “QUESTION” CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA), E LA FILOLOGIA.
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#ANTROPOLOGIA, #LETTERATURA, E #DIVINACOMMEDIA: #LETARGO (Pd. XXXIII, 94) E #SONNODOGMATICO (#Kant).
LA #FEDE DI #DANTE, E DI SAN PIETRO, E LA FEDE DI SAN PAOLO.
A 750 ANNI E OLTRE DALLA [NASCITA E A 700 ANNI E OLTRE DALLA] MORTE DI DANTE ALIGHIERI, UNA “PREMESSA” A UNA ”VECCHIA’ NOTA DI ENNIO ABATE A COMMENTO DI UN ‘VECCHIO’ ARTICOLO DI CLAUDIO GIUNTA (“[Dante dopo l’Apocalisse”, Le parole e le cose, 21 maggio 2015->https://www.leparoleelecose.it/?p=19052]):
DANTE ALIGHIERI, L’HAMLETICA “QUESTION” CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA), E LA#FILOLOGIA:
(LA MADRE, MARIA-) #BEATRICE (Pd. XXIV, 34) chiede al “gran viro”(San Pietro) di verificare se Dante ha capito la differenza tra la fede in “Nostro Signore” Gesù (Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho #anthropos») oppure nel “Nostro Signore” (secondo la ‘precisazione’ androcentrica e mammonica) di San Paolo, l’Uomo (#Vir): “sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio” (1 Cor. 11, 1-3).
“DANTE DOPO L’ APOCALISSE” - OGGI (15 settembre 2023):
STORIA E LETARGO STORIOGRAFICO: NON SCAMBIARE DANTE ALIGHIERI CON GIOVANNI BOCCACCIO. Se il “diciottenne” Dante racconta - come scrive Alessandro Barbero ( https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141649) - il sogno e la visione di Beatrice nuda “[...] con un tocco così leggero che di solito gli esegeti non lo commentano”, non è meglio interrogarsi su questa dantesca “lezione americana” (alla Italo Calvino) di leggerezza e pensare meglio che Dante abbia ri-visto in sogno la madre “beata e Bella”?!
Non è ancora ora di cambiare registro , e, cominciare a pensare semplicemente che la figlia di Gemma Donati e Dante Alighieri, (Maria-) Antonia, diventata suora, abbia voluto rendere omaggio a Bella, alla sua nonna paterna, e ricordare per tutta la sua vita proprio (Maria-) Beatrice?!
UN #LETARGO DI #XXVSECOLI (Par. XXXIII, 94-95). LA #MEMORIA OMERICA DELL’#USCITA DAL POLIFEMICO #INFERNO E LA #RIPRESA DEL VIAGGIO DI #ULISSE E DI #GIASONE:
COME #DANTE VIENE PORTATO DA #VIRGILIO FUORI DALLA "#CAVERNA" DI #LUCIFERO: "Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;/ed el prese di tempo e loco poste,/e quando l’ali fuoro aperte assai,//appigliò sé a le vellute coste;/di vello in vello giù discese poscia/tra ’l folto pelo e le gelate croste" (Inf. XXXIV, 70-75).
PSICOANALISI, #DIVINACOMMEDIA, ED #ELEUSIS2023: IL LEGAME DI VIRGILIO E DANTE, GOETHE, E FREUD CON IL REGNO DELLE #MADRI. Appunti sul filo di M_Arianna, che lega #Freud, #Virgilio, #Milton, #Goethe, e #DanteAlighieri...
A) - #DANTE E LA DISCESA ALL’#INFERNO DI FREUD. "L’Interpretazione dei Sogni" (1899/1900) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, #Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo #Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di Dante Alighieri.
B) - FREUD, #MEFISTOFELE, E LA DISCESA NEL "REGNO DELLE MADRI". Una chiarificazione sulla fondamentale determinazione "giunonica" da parte di Freud è ben evidente nella sua "scelta" della citazione virgiliana che apre la via alla "Interpretazione deisogni: “Chi è disceso fino alle Madri non ha più nulla da temere.” (J.W. #Goethe, #Faust, II. 2).
C) - FREUD E MILTON. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, #SigmundFreud scrive che, nel "#Paradiso #perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
Federico La Sala
ELOGIO DELLA FOLLIA E DELLA GUERRA (degli "uomini") , UN’ANTROPOLOGIA "ANDROCENTRICA", STORIOGRAFIA, E RINASCIMENTO MERIDIONALE.
"Cum grano salis", e con tutte le differenze implicite ed esplicite.... se si tira un filo, dagli inizi del Cinquecento (l’ "Elogio della Follia" è degli anni 1509-1511) al "29 agosto 2023" e alla dimensione talebanica della "vita moderna", diffusa su tutto il pianeta, io proporrei di ripercorrere questo "tratto di storia", rileggendo un bel lavoro dal titolo "Donna e Rinascimento: l’inizio della rivoluzione-" (Romeo De Maio, il Saggiatore, 1987), da cui riprendo la seguente citazione: "La potestas maritalis aveva per fondamento che la moglie fosse sempre educanda, per legge. Lo credeva pure Erasmo". Questa la "question" radicata nell’orizzonte del "tempo fuori dai cardini" (Shakespeare, "Amleto", I.2).
Sul tema, come si sa, non la pensava affatto allo stesso modo, se non ricordo male, il Principe di Salerno, Ferrante Sanseverino.
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CIVILTÀ DELL’ AMORE E VOLONTÀ DI GUERRA ... *
La liberazione, un’incompiuta che soffoca ancora
60 ANNI DI «I HAVE A DREAM». Ma per la giustizia e i diritti degli afroamericani, è sempre una soffocante estate, in cui - come Eric Garner, strangolato a New York, e come ha ripetuto per un’intera estate il movimento Black Lives Matter, la parola d’ordine è I can’t breathe
di Alessandro Portelli ([il manifesto, https://ilmanifesto.it/la-liberazione-unincompiuta-che-soffoca-ancora])
Come finisce il discorso di Martin Luther King del 28 febbraio 1963, lo ricordiamo tutti - la perorazione sul sogno, la luminosa visione futura. Quello che ci ricordiamo in pochi è come comincia: con un doppio riferimento alla storia. Le prime parole sono «Five score years ago» (e cioè «Cento anni fa»: score vuol dire venti).
Evocano l’incipit («Four score and seven years ago», 87 anni fa) del discorso del 1863 in cui Abraham Lincoln annunciava l’emancipazione degli schiavi rinviando al 1776 e all’indipendenza. Fin dalle prime parole, King avverte che la liberazione degli afroamericani è il compimento della liberazione del paese; ma questa liberazione è incompiuta, e quindi incompiuto è il paese.
King prosegue con una metafora che sembra quasi preparare l’immaterialità della perorazione conclusiva appoggiandola a una base di rapporti concreti - prepara il volo utopico finale partendo dal linguaggio mercantile, del commercio, del business: gli autori della Costituzione e della Dichiarazione d’Indipendenza, dice, «firmarono una cambiale (a promissory note) che ogni americano avrebbe ereditato. Era la promessa che tutti gli uomini - si, uomini neri come i bianchi - avrebbero goduto dei diritti inalienabili di vita, libertà e ricerca della felicità (...) Invece di onorare questa sacra obbligazione, l’America ha dato ai neri un assegno a vuoto (...) E noi oggi siamo qui per incassare questo assegno».
Ecco, il sogno resta sogno finché la cambiale non è pagata. Se li mettiamo insieme ci rendiamo conto che il sogno non era mero desiderio ma un concreto programma politico, basato sulle fondamenta stesse del paese. La ribellione all’America realmente esistente si legittima con il richiamo all’America nascente idealizzata. Finché questo debito non è saldato, l’America tradisce se stessa.
E continua a farlo. Molti anni prima di King, il poeta afroamericano Langston Hughes domandava: «Che ne è di un sogno rimandato? Avvizzisce come un chicco d’uva al sole, marcisce come una piaga purulenta, puzza come carne marcita, si affloscia come un carico troppo pesante - o esplode?». È esploso molte volte questo sogno differito per una cambiale non pagata - a Harlem, a Watts, a Detroit, a Milwaukee, a East Saint Louis...
Per due volte, King usa una bella parola sonora: sweltering. Vuol dire «soffocante»: «Questa soffocante estate del legittimo scontento nero» ... «il Mississippi, uno stato che soffoca nell’afa dell’ingiustizia». Le rivolte dei ghetti avvengono quasi sempre d’estate. Ma per la giustizia e i diritti degli afroamericani, è sempre una soffocante estate, in cui - come Eric Garner, strangolato a New York, e come ha ripetuto per un’intera estate il movimento Black Lives Matter, la parola d’ordine è I can’t breathe, non respiro.
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NOTA:
UNA QUESTION HAMLETICA, DI CADUTA "BIBLICA", NELLA CAVERNA "PLATONICA", E UNA MILLENARIA RICAPITOLAZIONE , ATEA E DEVOTA, NELLA LOGICA DEL "SAPIENTE" DI BOVILLUS) : "THE TIME IS OUT OF JOINT" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.2). Non nei millenni passati, la teologa Wilma Gozzini scriveva: “La donna è l’altro dell’ uomo , uguale per diritti e doveri, ma anche diversa [...] L’ altro che sta faccia a faccia è inquietante e scomodo e apre una sola alternativa. O lo si accoglie come unica possibilità data per vivere umanamente la propria storia, o lo si nega, assimilandolo - facendo simile ciò che altro - neutralizzando così l’alterità, non riconoscendogli autorità ma sottomissione, negandogli uguaglianza” ("L’Unità", 1990).
Federico La Sala
P.S. 4 *
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE. DA GIOVAN BATTISTA MARINO A... OVIDIO... “RIVISITATO”:
ADE, ADONE, E... IL NODO “INVISIBILE” DEL LEGAME TRA EROS E THANATOS.
[VENERE] lamentandosi col destino disse: “Non, però, di ogni oni cosa il destino potrà disporre. Un ricordo del mio lutto, o Adone, rimarrà in eterno: ogni anno si ripeterà la scena della tua morte, a imitazione del mio cordoglio. E il sangue sarà mutato in un fiore. [...] Detto questo, versò nèttare odoroso sul sangue, e il sangue al contatto cominciò a fermentare [...] E un’ora intera non era passata: quando dal sangue spuntò un fiore dello stesso colore, un fiore come quello del melograno, i cui frutti celano tanti granelli sotto la duttile buccia. E’ un fiore, tuttavia, che dura poco. Fissato male, e fragile per troppa leggerezza, deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali ” (Ovidio, "Metamorfosi", X, Einaudi, Torino, vv.731-739).
Allegato: Immagine di “Adonis Annua”.
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STORIA, LETTERATURA, E IMMAGINARIO COSMOLOGICO E TEOLOGICO-POLITICO:
EUROPA, 5 AGOSTO 2023...
A) RICORRENZA (E MEMORIA FACOLTATIVA) DELLA CHIESA CATTOLICA: "MADONNA DELLA NEVE. 5 AGOSTO".
"Santa Maria della Neve. Dedicazione della basilica di Santa Maria Maggiore":
B) "L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO" (J. HUIZINGA). "Filippo il Buono di Borgogna sposò nel 1430 Isabella del Portogallo. In questa occasione - o forse quale omaggio alla popolazione di allora, stupenda nel navigare - fondò l’ordine del Toson d’Oro. I suoi protettori erano Giasone e Gedeone. Anche nella loro storia un vello miracoloso aveva avuto la sua parte (Libro dei Giudici, VI, 36-40)" (cfr. DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA: P. S. 5).
C) "Sul valore simbolico del Toson d’oro: Giasone, Gedeone e il Vello d’oro in un’enciclopedia medievale": "Una nutrita serie di studi recenti testimonia dell’ininterrotto interesse destato dal più famoso e prestigioso degli ordini cavallereschi fondati nel Medio Evo, l’ordine del Toson d’oro . Pur analizzando la nobile confraternita, istituita il 10 gennaio del 1430 a Bruges, da molte angolature, i lavori degli ultimi anni non hanno portato novità importanti per la soluzione d’un problema senz’altro centrale, il perché della scelta del vellus aureum quale insegna della comunità. In questa nota vorrei gettare qualche luce sulla questione.
D) VOCAZIONE DI GEDEONE: "LA PROVA DEL VELLO" ("GIUDICI", VI. 36-40)
[36]Gedeone disse a Dio: «Se tu stai per salvare Israele per mia mano, come hai detto, [37]ecco, io metterò un vello di lana sull’aia: se c’è rugiada soltanto sul vello e tutto il terreno resta asciutto, io saprò che tu salverai Israele per mia mano, come hai detto». [38]Così avvenne. La mattina dopo, Gedeone si alzò per tempo, strizzò il vello e ne spremette la rugiada: una coppa piena d’acqua. [39]Gedeone disse a Dio: «Non adirarti contro di me; io parlerò ancora una volta. Lasciami fare la prova con il vello, solo ancora una volta: resti asciutto soltanto il vello e ci sia la rugiada su tutto il terreno». [40]Dio fece così quella notte: il vello soltanto restò asciutto e ci fu rugiada su tutto il terreno.
E) CAPPELLA SISTINA (ROMA, 14775-1481). "La Cappella Sistina (in latino: Sacellum Sixtinum), dedicata a Maria Assunta in Cielo, è la principale cappella del palazzo apostolico, nonché uno dei più famosi tesori culturali e artistici della Città del Vaticano, inserita nel percorso dei Musei Vaticani. Fu costruita tra il 1475 e il 1481 circa, all’epoca di papa Sisto IV della Rovere, da cui prese il nome. È conosciuta in tutto il mondo sia per essere il luogo nel quale si tengono il conclave e altre cerimonie ufficiali del papa (in passato anche alcune incoronazioni papali), sia per essere decorata da opere d’arte tra le più conosciute e celebrate della civiltà artistica mondiale, tra le quali spiccano i celeberrimi affreschi di Michelangelo, che ricoprono la volta (1508-1512)[2] e la parete di fondo (del Giudizio universale) sopra l’altare (1535-1541 circa). È considerata forse la più completa e importante di quella «teologia visiva, che è stata chiamata Biblia pauperum». [...] Esiste anche una "Cappella Sistina" nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, edificata da Sisto V, e una nella cattedrale di Savona, fatta edificare da Sisto IV come mausoleo per i propri genitori defunti [...]" (Wikipedia).
F) ANTROPOLOGIA, ARTE, E CRISTOLOGIA ("ECCE HOMO"). La "memoria" di Michelangelo Buonarroti: Sacra famiglia, detta “Tondo Doni”.
G) UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (1613).
Federico La Sala
CRISTIANESIMO E GEOPOLITICA, SENZA PREGIUDIZI, ALLA LUCE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEI "DUE SOLI" (DANTE 2021):
STORIA DI EUROPA, DI IERI E DI OGGI: "THE BOOK OF SIR THOMAS MORE". Partendo dal suo tempo (quasi cento anni dopo), Shakespeare cerca di chiarire il percorso che l’Inghilterra di EnricoVIII ed Elisabetta ha fatto e che cosa ha guadagnato, a partire dagli eventi del 1517 e dopo la rottura con la Chiesa Cattolica e dopo la Riforma Anglicana!
Una possibile chiave interpretativa sta proprio nella natura del conflitto teologico-politico (e nel legame di Tommaso Moro con le indicazioni di san Paolo, e del Papa):
" Voi volete schiacciare gli stranieri [...]"Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora?
Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in #Francia o nelle #Fiandre, in qualsiasi provincia della #Germania, in #Spagna o in #Portogallo, anzi no, un luogo qualunque #diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che [...] vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli [...]?". Questo il problema, a mio parere.
TEATRO, METATEATRO, ANTROPOLOGIA E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: CON SHAKESPEARE E DANTE ALIGHIERI, OLTRE LA TRAGEDIA DI EDIPO E GIOCASTA...
HEGELISMO, PLATONISMO, FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA)*
"MENSCHWERDUNG" ("DIVENTARE UN ESSERE UMANO"). "Dio è amore" ("Deus charitas est"), condivido (è una questione di "h": "Charitas", gr. "Xapitas"). Hegel ha messo il dito nella piaga: "La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’#amore ["ein Spielen der Liebe"] con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio ["Arbeit"] del negativo" ("Fenomenologia dello Spirito", §19).
A ben "orientarsi nel pensiero" (Kant) e, al contempo, nel sollecitare una ri-considerazione unitaria della "Prefazione" ("Vorrede") della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel e la figura della profetessa di Mantinea, Diotima, a mio parere, emerge chiaramente il #nodo antropologico di fronte a cui Hegel si è trovato e che ha sciolto in modalità tragica, edipica e paolina, con tutta la "socratica" potenza di un #Napoleone (Alessandro Magno); non con lo spirito del #Logos (di Eraclito e dell’evangelista Giovanni) né della #Giustizia di Parmenide, egli ruba "alla #Platone" l’anima a Diotima ("Simposio") e ripropone una demiurgica e demogorgonica #cosmoteandria t(al)ebana: "[...] che il vero sia effettuale solo come sistema o che la sostanza sia essenzialmente soggetto ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’#assoluto come #spirito - elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua #religione" (Fenom. d. spir., § 22).
A che gioco giochiamo, a che giogo vogliamo continuare a giocare? Non è meglio, forse, riprendere il filo proprio da Diotima e, con Dante Alighieri ("Due Soli") e portarsi fuori dalla tragedia dei "Tempi moderni" (Charlie Chaplin)?
P. S. 1 - «Senza Hegel non sarebbe stato possibile neppure Darwin, afferma Nietzsche, e l’avrebbe potuto dire anche di se stesso; infatti chi si ammali una volta di hegelite - così mordacemente si era espresso un decennio prima - non ne guarirà mai del tutto. E che cosa sarebbe la critica alla religione di Fuerbach e di Marx, o anche quella odierna di Ernst Bloch e Georg Lukács senza Hegel?» (Hans Küng, "Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia", Queriniana, 1972).
P. S. 2 - EUROPA: CRISTIANESIMO CATTOLICESIMO COSTITUZIONE E SPIRITO DI ASSISI (1986). Quando Benedetto Croce pubblicò il suo «Perché non possiamo non dirci "cristiani"» (1942), don Giuseppe De Luca ’confessò’ al Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: si è "rincristianito per dispetto". Come concordato...!!!
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CINEMA, LETTERATURA, FILOLOGIA, E CRITICA:
BOCCACCIO, “IL MIO DANTE” E “DIECI FIORINI D’ORO“. *
Un omaggio a Pupi Avati...
Se è vero, come Pupi Avati scrive (“Il mio Dante”, Insula europea, 3 febbraio 2020), che «”L’origine delle idee non la si percepisce mai” lo asseriva il Budda e per quello che mi riguarda ho da sempre la sensazione che sia assolutamente vero» .... allora bisogna solo ringraziarlo per la schiettezza (sveglia da un sonno storiografico di lunga durata!) e, al contempo, prendere atto che, con il suo film “il mio Dante”, si assiste solo all’ennesimo ritornello storiografico che del viaggio di Dante (dell’uomo e del poeta), per “dieci fiorini d’oro”, si compra lo spirito fondante (“l’amor che move il sole e le altre stelle”) e si finisce per celebrare il desiderio di fama e di gloria di Boccaccio (non di Dante Alighieri): “Insomma Boccaccio voleva davvero che si facesse questo film” (Pupi Avati)!
Ma non è il caso e il tempo di uscire dal letargo (Pd. XXXIII, 94) e ricordare che la primavera è già arrivata e che uscire dall’inferno è possibile?!
Dopo i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare, all’altezza del Dantedì ( 25 marzo 2023 ), che Dante tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice? (Sul tema, forse, può essere utile tenere presente una mia “vecchia” ipotesi di ri-lettura della vita e delle opere di Dante.
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HAMLETICA-MENTE E APOCALITTICAMENTE.
Storia, filologia, antropologia e letteratura:
oltre la tragedia, la divina commedia.
Dopo sette secoli dalla morte di Dante Alighieri non è ora di svegliarsi dal sonno dogmatico e uscire dallo stato di minorità (Kant)?
In memoria di Gioacchino da Fiore ...
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#ACHEGIOCOGIOCHIAMO? A ben considerare, dopo i #maestridelsospetto e, in particolare, dopo #Freud, non è possibile cominciare a pensare che il #sogno di Dante relativo a "Beatrice nuda" sia da interpretare come la visione della sua #beata e #Bella #madre? Non è #ora e qui ("now-here") necessario mettere in conto, filologicamente, che la figlia di Dante Alighieri, Maria #Antonia, quando entra in #convento, prende il nome di (Maria) #Beatrice, e al contempo, che la #Commedia è opera di Dante Alighieri, non di #GiovanniBoccaccio?!
Non è ancora il tempo di uscire dal #letargo (Pd. XXXIII, 94)?
UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA DI "RICAPITOLAZIONE", SECONDO UMANITÀ ("ECCE HOMO"), NON SECONDO VIRILITÀ ("ECCE VIR"), E L’URGENZA DI USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA #COSMOTEANDRIA DELLA TRADIZIONE PLATONICA.
Una nota a margine dell’intervista, di Francesco Antonio Grana, apparsa su "il fatto quotidiano" (12 marzo 2023):
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MEMORIA E PROFEZIA. Considerando e accogliendo nel suo massimo valore la dichiarazione di Papa Francesco relativa a don Tonino Bello, "Lo si sta riscoprendo oggi. Un profeta!", forse, è cosa buona riconsiderare l’affermazione e mettere l’accento sull’appellativo "un #profeta".
Se non si vuole lasciar cadere il filo, bisogna, a mio parere, tornare, prima, nella Roma del XVI secolo, e poi tornare, nella Città del Vaticano del XXI secolo, nella #CappellaSistina, guardare in alto, e #apriregliocchi alla presenza delle #Sibille e dei #Profeti nella Volta, che camminano insieme nella storia della tradizione ebraica e della tradizione degli altri popoli, e, sulle basi delle indicazioni di #Michelangelo, riprendere il cammino, #oggi.
"LA SACRA FAMIGLIA". Già nel #TondoDoni, senza trascurare la #cornicelignea (con la testa di Cristo in alto, e con ai lati le teste di #due Sibille e due Profeti), è data la chiave di lettura della narrazione nella Volta della Cappella Sistina (sul filo della lezione del #presepe di Francesco d’Assisi e dei "#dueSoli" di #Dante), al di là di ogni #ricapitolazione androcentrica (da "dotta ignoranza" socratico-platonica): Michelangelo, come si sa, è stato anche un grande #anatomista. Che dire? Non è ora di cambiare #paradigma e uscire dall’#infernoepistemologico?! Se non ora, quando?!
#FILOLOGIA E #STORIA. Nella scheda della Galleria degli Uffizi, si scrive che nella cornice lignea sono "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti".
LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E PSICOANALISI:
IL "DE AMORE" (Andrea Cappellano), LA "VITA NUOVA" (Dante Alighieri), E IL "DECAMERON" (Giovanni Boccaccio). Una nota su un nodo non sciolto... *
STORIA E STORIOGRAFIA. Sulle ragioni da parte di Boccaccio della costruzione nell’analisi della vita di Dante, forse, concorrono insieme
A) la non comprensione della "Vita Nuova" e della "Commedia" stessa di Dante, che, con l’aiuto di #Virgilio (e di #Beatrice, sollecitata da #Lucia, su intervento di #Maria), cerca di riprendere il filo di tutta la storia dell’#umanità e ri-indicare la "diritta via" per ritrovare il #paradisoterrestre, con la ricostruzione del #presepe (come da indicazione di Francesco d’Assisi),
B) e, al contempo, la volontà di rinchiudere il messaggio di Dante nel suo tempo, quello segnato ancora dall’ amore, entro le coordinate non chiare e non risolte della "sintesi", proposta nel "De amore" di Andrea Cappellano, della letteratura «#cortese»,
C) e, non ultima, una interpretazione della tradizione religiosa diversa dalla radicalità teologico-politica di Dante. Il risultato si vede (ancora) dinanzi agli occhi delll’attuale presente storico: il "De amore" di Cappellano si confonde con l’amore della Divina Commedia e con l’amore del Decameron; e lo sguardo antropologico (prima che politico) dei "due soli" di Dante è ancora addirittura difficile da concepirsi e si confonde ancora "charitas" (amore), con "caritas" (#mammona) e con l’avidità di Eros (#Cupìdo).
#DANTE, #MILTON, E #FREUD. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo #amore, ho trovato consolazione e conforto».
#EARTHRISE #METAPHYSICS #ANTHROPOLOGY #ELEUSIS2023 #ROMA2024
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"DIVINA COMMEDIA" FILOLOGIA E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (FREUD, 1929).
In onore e in memoria di Gemma Donati e Bella Degli Abati...
Se non si vuol continuare a credere alla tradizionalissima "costruzione" di #Boccaccio su #Dante e la sua famiglia, credo sia opportuno proseguire su questi passi d’indagine #critica (*) e cominciare a pensare che #Gemma, la moglie di Dante, nella #Commedia, sia la figura di #Lucia, e, al contempo, #Beatrice sia la madre di Dante, #Bella degli Abati.
Dopo i #maestridelsospetto (#Marx #Nietzsche e #Freud), come è possibile (#Kant) continuare a pensare, all’altezza del #Dantedi2021, che l’uomo e il poeta Dante tradisca spiritualmente non solo la sua sposa #GemmaDonati ma anche i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor #Beatrice?
Non è meglio, forse, uscire dal #letargo e dall’#inferno a rivedere il Sole e le altre stelle... e riflettere un poco su una ipotesi di rilettura della Commedia, avanzata nel 2007? 🌞🌞🙏
* Cfr. Arnaldo Casali, "Gemma, la moglie di Dante", Festival del Medioevo.
#EARTHRISE #METAPHYSICS #ANTHROPOLOGY #ELEUSIS2023 #ROMA2024
Gemma, la moglie di Dante
Dante Alighieri è nel suo studio, intento a correggere il manoscritto della Commedia. “Questo m’è venuto proprio bene - commenta - Lucevan li occhi suoi più che la stella”.
“Sempre a parlare di donne, eh. Ma nessuna, nessuna delle tue poesie parla di me!” sbotta Gemma, entrata nella stanza.
“Ma che c’entra? Tu sei mia moglie!”
“E allora? Sembra sconveniente, per i poeti, scrivere della moglie. Chissà perché invece è del tutto naturale scrivere di un’altra donna. Peraltro moglie anche lei. Di un altro, però...”.
Non è improbabile come potrebbe apparire, questa immaginaria scenata di gelosia ai danni del Sommo Poeta da parte della legittima consorte: l’unica donna di cui Dante Alighieri non parla mai nei suoi scritti, che hanno reso immortali figure femminili come Francesca, Pia, Costanza, Cunizza da Romano, Matelda e persino Piccarda Donati, cugina della stessa Gemma e strappata al monastero per un matrimonio imposto dai parenti.
Gemma Donati era nata a Firenze il 3 marzo 1265, figlia del nobile ser Manetto, ed era coetanea di Dante e un anno più vecchia di Bice Portinari, la donna che le ruberà il posto nella Storia. E certo la povera donna non doveva essere troppo contenta del fatto che tutta Firenze parlasse dell’amore immortale di suo marito per Beatrice.
D’altra parte, di fronte a qualsiasi obiezione il capo famiglia le avrebbe risposto che “le donne non capiscono queste cose. L’amore di cui scrivo è una cosa diversa. Tu sei mia moglie, sei la madre dei miei figli”.
E la moglie non può mai essere la donna che si ama. Basti pensare alle storie di Francia: qualche volta succede che si arriva a sposare la donna che si ama, però poi la storia finisce subito. L’amata può diventare la moglie, ma la moglie non può diventare l’amata. Che cosa sarebbe successo, se Tristano avesse sposato Isotta o se Romeo e Giulietta fossero vissuti felici e contenti?
Certo Dante non avrebbe mai potuto - e probabilmente nemmeno voluto - sposare Beatrice. E anche solo a pensare una cosa del genere, gli sarebbe sembrato di sminuire quell’amore così nobile.
Quanto a Gemma, il 9 gennaio 1277 - quando avevano appena undici anni - era stata promessa a Dante con un atto firmato presso il notaio ser Oberto Baldovini e una dote di 200 fiorini.
I Donati - a cui apparteneva il barone Corso, capo della fazione dei Neri, e Forese, amico di Dante - erano una delle famiglie più influenti di Firenze e storica rivale degli Alighieri. Le nozze erano quindi strategiche per entrambe le casate.
Una decina di anni dopo viene celebrato il matrimonio. La datazione è tutt’altro che sicura: alcuni lo collocano tra il 1283 e il 1285, altri tra il 1290 e il 1295. Dall’unione nascono comunque quattro figli: Iacopo, Pietro, Antonia e Giovanni.
Secondo una teoria piuttosto improbabile di Giovanni Boccaccio, i genitori decidono di far prendere moglie a Dante per consolarlo della morte di Beatrice.
Dante sembra rispondere al più classico stereotipo dell’uomo distrutto: spento, trasandato, con la barba lunga, passa le giornate fissando il vuoto. Quando sembra aver finalmente superato il lutto, racconta l’autore del Decameron, i genitori decidono che è venuto il momento di farlo sposare:
“Rincominciarono a sollecitare lo sconsolato; il quale, come che infino a quella ora avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie chiuse, alquanto le cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che intorno al suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoi parenti, acciò che del tutto non solamente de’ dolori il traessero ma il recassero in allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar moglie; acciò che, come la perduta donna gli era stata di tristizia cagione, così di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E, trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, con quelle ragioni che più loro parvero induttive, la loro intenzione gli scoprirono. E dopo lunga tencione, senza mettere guari di tempo in mezzo, al ragionamento seguì l’effetto: e fu sposato”.
Le conseguenze del matrimonio, però, sono disastrose. D’altra parte, dice Boccaccio, “qual medico s’ingegnerà di cacciare l’aguta febbre col fuoco, o il freddo delle medolla dell’ossa col ghiaccio o con la neve?”.
Secondo il primo dantista il matrimonio per il poeta si rivela una gabbia. Dante non sopporta di dover rendere conto delle sue azioni e dei suoi sentimenti a qualcuno:
“Egli, usato liberamente di ridere, di piagnere, di cantare o di sospirare, secondo che le passioni dolci o amare il pungevano, ora o non osa, o gli conviene non che delle maggiori cose, ma d’ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che ’l mosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell’altrui amore, la tristizia esser del suo odio estimando. Oh fatica inestimabile, avere con così sospettoso animale a vivere, a conversare, e ultimamente a invecchiare o a morire!”.
Insomma Gemma è una donna invadente e indiscreta. In una parola insopportabile, di certo non remissiva e sottomessa e l’insofferenza di Dante è tanta da portare ad una vera e propria separazione dei coniugi:
“Egli, una volta da lei partitosi, che per consolazione de’ suoi affanni gli era stata data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che là dove egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di più figliuoli egli insieme con lei fosse parente”.
Che le nozze combinate per strategia politica non si fossero rivelate particolarmente esaltanti è probabile. Ma è pur vero che Boccaccio, per sua stessa ammissione, nutre un certo pregiudizio nei confronti del matrimonio, che - a suo avviso - non è roba per intellettuali. -“Lascino i filosofanti lo sposarsi a’ ricchi stolti, a’ signori e a’ lavoratori - commenta infatti subito dopo - e essi con la filosofia si dilettino, molto migliore sposa che alcuna altra”.
D’altra parte è difficile che Boccaccio abbia inventato tutto di sana pianta, visto che per scrivere la biografia aveva effettuato delle vere e proprie interviste a persone che avevano conosciuto personalmente Dante, a cominciare dalla figlia Antonia, monaca a Ravenna; che peraltro, assumendo il nome di suor Beatrice aveva a sua volta dimostrato più venerazione per la musa del padre che per la sua stessa madre.
Se dunque la versione dello scrittore certaldese - pur molto discussa - fosse attendibile, non dovrebbe stupirci vedere Gemma impegnata a chiedere conto al marito del suo amore per Beatrice.
“Se l’avessi amata davvero magari anche nel modo in cui Paolo amava Francesca, l’avresti almeno pensato, di sposarla! Fra te e lei non c’è mai stato altro che un saluto vero? Un saluto suo, peraltro... non si capisce nemmeno se tu rispondevi. Oppure questo è quello che scrivi, e nella realtà le cose sono andate diversamente?”.
“Io non le ho mai sfiorato l’orlo della veste se è questo che vuoi sapere - replica lui, insofferente - nemmeno con il pensiero! E lei è morta da anni, ormai”.
“Lei è morta, lo so - dice Gemma - ma più passa il tempo e più è viva... e se fosse una donna vivente, anche amata da te, non mi darebbe da pensare. I morti sono più forti dei vivi, contro di loro non si può combattere”.
“Lei per me - ribatte Dante - era... un annuncio. Una via d’accesso a un’altra realtà, diversa da questa nostra terrena. Era un’elevazione. -Amandola senza chiedere nulla e senza volere nulla, io mi innalzavo al di là di me stesso. Al di là di questo mondo di vane parvenze. Lei era un’intenzione di Dio fatta visibile. Lei era la più pura immagine vivente di Dio. Tu vivi accanto a me. Lei non ti ha tolto nulla, come tu non potevi togliere nulla a lei. Io ho sposato te”.
“Insomma, io la carne e lei lo spirito”.
“Ecco, sì, qualcosa del genere”.
È pur vero che se della moglie non scrive, con la sua famiglia Dante rimarrà sempre in ottimi rapporti; segno che a prescindere da quanto fosse forte l’intesa tra i due coniugi, una rottura vera non ci fu mai.
Opinione abbastanza diffusa è comunque che Gemma - a differenza dei figli - non abbia seguito il marito nell’esilio. Sarebbe dunque questa la separazione a cui allude Boccaccio.
L’unica certezza è che alla morte di Dante - avvenuta a Ravenna nel 1321 - Gemma era ancora viva, e nel 1329 reclamò presso le autorità fiorentine la parte della sua dote dai beni confiscati al marito.
Trasferitasi dal borgo di San Martino del Vescovo in quello di San Benedetto, Gemma morì tra gli ultimi mesi del 1342 e i primi del 1343: in un atto del 9 gennaio del 1343, infatti, Iacopo Alighieri si dichiara erede della madre.
“Senti un’altra cosa - fa la donna prima di lasciare il marito alle sue pergamene - c’è Nella, la moglie di mio cugino Forese, che è molto offesa con te, lo sapevi sì? In quei sonetti orribili, pieni di oscenità che tu e Forese vi scrivete, devi avere detto qualcosa anche di lei... che Forese a letto non vale niente, che sua moglie ha freddo. Non ho capito nemmeno tutto, di quella roba, ma Nella ha tolto il saluto anche a me”.
“Mai dai, si fa per scherzare - risponde il Sommo Poeta ridendo - Voi donne non le capite queste cose. Tu comunque quelle poesie non le dovresti nemmeno leggere. Mi stupisco di te: non sono cose da donne oneste”.
“Com’è che gli uomini onesti possono scrivere cose che le donne oneste non possono leggere?”.
“Uomini e donne sono fatti da Dio in modo diverso, per diversi destini” conclude il capo famiglia con spocchia e insofferenza, ritornando a lavorare al suo libro. Un libro in cui Beatrice arriverà addirittura a guidarlo in Paradiso, e da cui la moglie resterà completamente esclusa.
Eppure, nel finale del canto quinto del Purgatorio, potrebbe essere nascosto un affettuoso omaggio del poeta a Gemma. Facendo parlare Pia dei Tolomei del suo matrimonio, infatti inerisce - pur se “nascosto” - il nome della moglie.
“Ricorditi di me, che son la Pia: Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma”.
Arnaldo Casali
PSICOANALISI, FILOLOGIA, E "DIVINA COMMEDIA": INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1899) E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (SIGMUND FREUD, 1937).
CHIARISSIMA International Psychoanalytical Association (IPA), SULLE ALI DEL VENTO, UNA BRILLANTE "CONSONANZA" PRIMAVERILE CON LA LONDRA DI MARESFIELD ("Freud Museum London") E DINTORNI, IL SUO POST SU BELLA FREUD.
DIVINA COMMEDIA. Avendo richiamato da poco alla memoria il nome della madre di Dante Alighieri - Gabriella (Monna Bella) degli Abati, meglio nota come Donna Bella degli Abati - e, da tempo (almeno dal 2007), fatta l’ipotesi che la ragione per cui la figlia di Dante, Maria Antonia, abbia scelto il nome di Beatrice quando entrò in convento e divenne suora, stia proprio nel fatto che Bella era il nome della nonna, quella donna 🌞"bella e beata"🌞(Inf. II, 54), che sollecita Virgilio ad aiutare Dante, oggi☀️(15.02.2023), ho trovato molto significativa la coincidenza con il fatto che la pronipote di Freud sia (e per davvero), già solo per il nome e cognome, legata alla figura di Freud e, al contempo, di Virgilio e Dante. 🌞🙏
N.B. - Dopo i maestri del sospetto (Marx Nietzsche e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare all’altezza dI DANTE2021 che il Sommo Poeta tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice?
"L’Interpretazione dei Sogni" (1899) ha il suo legame con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante.
FILOLOGIA, LETTERATURA E STORIOGRAFIA. OGGI (11 FEBBRAIO 2023).
EUROPA 2023. Nella ricorrenza della giornata della firma dei PATTI LATERANENSI (11 Febbraio 1929), brillante la ripresa da parte del Centro documentazione Piero Delfino Pesce di questo articolo di Luca Mazzocchetti, dedicato a "Quella volta che Leopardi decise di arrabbiarsi ..." ("Terza web", 24 Novembre 2016).
DANTE 2021 E LA #MONARCHIA DEI "DUE SOLI". Al di là della polemica "personale" e "momentanea", nell’epigramma contro Niccolò #Tommaseo dell’agosto del 1836, ("poi però non reso pubblico" e poco conosciuto), nel richiamo al dantesco "Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre...", emerge con forza tutta la tempra eroica di Giacomo Leopardi e la sua consonanza con lo #spirito di #DanteAlighieri critico del potere temporale dei Papi e, anche e ancora, la sua #indignazione contro tutta la sudditanza della intera cultura italiana alla lettura storiografica tradizionale.
Giacomo Leopardi studioso di Dante Alighieri
Tra le pagine dello «Zibaldone» poesia filologica e fraterno incanto
di RITA ITALIANO (La Stampa, 22 Gennaio 2021
In occasione del suo celebrato anniversario si può anche cercare e trovare Dante in uno scrigno tra i più preziosi che il pensiero umano abbia mai offerto, lo «Zibaldone» di Giacomo Leopardi. Basta scorrere le occorrenze del nome di Dante Alighieri in quelle pagine accurate ed emozionanti, per schiudere le porte di un magico regno nel quale il rigore dell’analisi critica viaggia alle altitudini del genio. La lettura data da Giacomo Leopardi si fa poesia filologica, fraterno incanto.
Originalissimo esame che della produzione di Dante registra il carattere, lo stile, la lingua, l’interesse per la filosofia, giungendo sino a cogliere le qualità peculiari de «La Divina Commedia». Scegliendo di soffermarsi attento soprattutto sulla rivoluzione linguistica che in questa è evidente. E illustrando le motivazioni che animarono il suo autore: «ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si fa manifesto sì dal poema sacro, ch’egli considerava, non come trastullo, ma come impresa di gran momento».
Da tale svolta si avvia la possibilità di definire Dante «quasi il primo scrittore italiano». È infatti proprio il modo del tutto nuovo che egli ha dato al suo operare che ha avuto per conseguenza non dappoco d’essere «propriamente, com’è stato sempre considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana». Inoltre, la disamina di Leopardi giudica che nel lavoro di Dante anche lo stile sia assai meritevole di ammirazione. A questo nodo dedica uno spazio di rilievo.
Con righe illuminanti. Si chiede: «Perché lo stile di Dante è il più forte che mai si possa concepire, e per questa parte il più bello e dilettevole possibile?» La risposta spiega con semplicità: «perché ogni parola presso lui è un’immagine». A Ovidio «bisogna una pagina per farci veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina». E se «Ovidio descrive» e «Virgilio dipinge», è solo Dante che «non solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di pennello; non solo dipinge senza descrivere [...] ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le proprie idee, concetti, immagini, sentimenti».
Leopardi si sente forse prossimo a Dante Alighieri, ch’era autore e uomo dal temperamento «grave, passionato, ordinariamente (ai nostri tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a soffrir grandemente della vita». Una sensibilità difficile e rara, in grado di infondere lo spirito della Storia nel mistero della dottrina. Infatti «il suo poema non è epico, ed è misto di narrativo e di dottrinale, morale». È sapere che diventa sapienza.
Leopardi annota: «Omero e Dante per l’età loro seppero moltissime cose, e più di quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d’oggidì». Ma non basta. È chiaro che per la propria espressione poetica, tessuta alle vette più alte dell’arte compositiva, occorrevano a Dante, combinate e inestricabili, la rivoluzione dello stile e quella della lingua. Di quest’ultima Leopardi attesta l’enorme valore. Perché «Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l’ardire de’ composti» e aveva fatto «espressa professione di non voler restringere la lingua a veruna o città o provincia d’Italia, e per lingua cortigiana l’Alighieri, dichiarandosi di adottarla, intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e governi d’Italia in que’ tempi». La scrittura di Dante è ricca, screziata. La conoscenza che Leopardi ne ha, gli consente di parlarne senza esitazioni. «Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino, ma dall’altre lingue o dialetti ch’avevano una tal qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione».
Leopardi spazia e approfondisce. Riconosce a Dante meriti che vivono nella letteratura e ne superano i confini, entrando nella Storia. Ricorda «quanto debbano a Dante, non pur la lingua italiana, come si suol predicare, ma la nazione istessa, e l’Europa tutta e lo spirito umano». Da qui l’attribuzione che a Dante spetta del serto d’alloro di un vero primato: «ardì concepire e scrisse un’opera classica e di letteratura in lingua volgare e moderna». Impresa temeraria e suprema che eleva «una lingua moderna al grado di lingua illustre» a dispetto dell’opinione corrente che sino a quel momento aveva ritenuto la lingua latina «unica capace di tal grado».
Leopardi indaga la natura della «Commedia», vera pietra miliare della letteratura, e afferma che «non fu solo poetica, ma come i poemi d’Omero, abbracciò espressamente tutto il sapere di quella età, in teologia, filosofia, politica, storia, mitologia ecc». Classica da subito e per sempre: «non rispetto solamente a quel tempo, ma a tutti i tempi, e tra le primarie; né solo rispetto all’Italia ma a tutte le nazioni e letterature». Il passo di Dante in questo senso è stato dunque quello di un pioniere. La sua è stata la marcia risoluta di un apripista. In sostanza, «Dante diede l’esempio, aprì e spianò la strada, mostrò lo scopo, fece coraggio e col suo ardire e colla sua riuscita agl’italiani: l’Italia alle altre nazioni. Questo è incontrastabile».
Nel prosieguo, lo studio condotto da Leopardi giunge a rimarcare quanta applicazione e quanta ponderazione stessero dietro al rivolgimento dantesco, «né il fatto di Dante fu casuale e non derivato da ragione e riflessione, e profonda riflessione. Egli volle espressamente sostituire una lingua moderna illustre alla lingua latina». Sentiva che i tempi erano ormai maturi, e che anzi esigevano la radicalità di un cambiamento di questa portata. Perciò «volle espressamente bandita la lingua latina dall’uso de’ letterati, de’ dotti, de’ legislatori, notari, ecc., come non più convenevole ai tempi». Un atto di grande perspicacia e ponderazione dal quale venne lo splendido frutto che nelle sue terzine custodisce, tra l’altro, la prova d’eccellenza della risolutezza encomiabile con la quale il poeta Dante Alighieri derivò i propri principi di stile «da proposito e istituto, e mirò ad uno scopo; e il proposito, l’istituto e lo scopo» furono quelli di un «acutissimo, profondissimo e sapientissimo filosofo».
MEMORIA E STORIA DI LUNGA DURATA. APPUNTI SU PROBLEMI DI PATRIMONIO CULTURALE, ARTE, E ANTROPOLOGIA
A) SPAGNA: A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE L’OPERA DI "EL GRECO" ("LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ", TOLEDO 1586 -1588) ... E PER RIMEDITARE LO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE (CARICO DI TEORIA E DI FUTURO) DI TERESA D’AVILA (1515-1582).
B) TERESADAVILA (Avila 1515 - Alba de Tormes 1582): "[...] Teresa (Teresa Sánchez de Cepeda Ávila y Ahumada) nasce in una famiglia ricca; il padre era figlio di un ebreo convertito - dunque tTeresa fu di origini ebree. La madre trasmette alla figlia l’amore per i romanzi cavallereschi, ma muore quando Teresa ha solo 13 anni.
Diventa una donna determinata, affascinante e trascinatrice, estrema nelle sue scelte e insieme capace di amministrare i monasteri e di trattare con diplomazia coi grandi dell’epoca. Da ragazza convince il fratello a fuggire per andare a combattere contro gli infedeli. Sempre col fratello scrive un romanzo cavalleresco; manifesta, insomma, subito due grandi amori della sua vita: la fede e la scrittura.
È l’epoca della grande crisi della Chiesa, che all’apice della propria magnificenza è percorsa da profonde inquietudini, divisa dalla predicazione di #Lutero e Juan de Valdés, una ferita profonda e interna. Teresa ha trent’anni all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), tappa di quella “rifondazione” della chiesa cattolica, che si impegna tanto nella guida delle anime, con la fondazione di nuovi ordini religiosi e la promozione di una rinnovata austerità e spiritualità, quanto nel controllo delle stesse, imponendo nuove e più severe regole monastiche e potenziando i tribunali dell’#Inquisizione. In in Spagna in particolare, dopo il culmine della potenza raggiunto sotto il regno di Carlo V (1500-1558), suo figlio Filippo II (1527-1598) si fa paladino della ortodossia cattolica. [...]" (Cfr. Maria Rosa Panté, "Teresa d’Avila", Enciclopedia delle donne)
C) CARMELITANISCALZI: L’ULTIMA LEZIONE DI TERESA D’AVILA. A CONTURSI TERME, IN PROVINCIA DI SALERNO, NELLA TERRA DEL "PRINCIPE DI EBOLI" (Rui Gomes da Silva), L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (IN STATO DI PROGRESSIVO DEGRADO).
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI: LA STORIA NON LA FANNO SOLO I PROFETI, MA ANCHE LE SIBILLE. Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo Buonarroti e al suo "Tondo Doni" (e al suo Mosè), sollecita anche a riproblematizzare (Julia Kristeva, "Teresa, mon amour", 2009) il rapporto tra Freud e Lacan ("Encore", 1972-1973) ) e, infine, a portarsi oltre la logica del "superuomo" del cattolicesimo costantiniano!
ARTE STORIA E STORIOGRAFIA:
NELL’EUROPA DEL XVI SECOLO, DOPO LA RIFORMA PROTESTANTE (1517), IL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563) E LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1571), UNA ALLEANZA "CATTOLICISSIMA" TRA ALTARE E TRONO:
a) FILIPPO II, ALLA VIGILIA DELL’ATTACCO ALL’INGHILTERRA, VIENE "IMMORTALATO" NELLA CERIMONIA FUNEBRE DELLA ARTISTICA CELEBRAZIONE DELLA "SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" DA EL GRECO (TOLEDO 1586-1588).
b) QUADRO INGLESE DELLA CELEBRAZIONE DELLA DISFATTA DELLA FLOTTA SPAGNOLA NEL1588. "Il cosiddetto Ritratto dell’Armada, dipinto dopo il 1588 per commemorare la disfatta dell’Invincibile Armata. Elisabetta tiene la mano sul globo, simbolo di autorità, mentre sullo sfondo è raffigurato l’evento."
EUROPA 2023: ARTE, STORIA, ANTROPOLOGIA.
A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE E RI-PENSARE L’OPERA DI "EL GRECO": "LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" (1586-1588)... E ANCHE IL NASCERE (IN TERRA) E IL RINASCERE (IN TERRA E IN CIELO) - OGGI
NELLA SPAGNA DI FILIPPO II, IN UNA EUROPA, SEGNATA GIA’ DALLA RIFORMA PROTESTANTE (WITTENBERG, 1517), DALLA RIVOLUZIONE DEI "CORPI TERRESTRI" IN ANATOMIA (Realdo Colombo, amico di Michelangelo Buonarroti e professore alla Sapienza, 1448; Andrea Vesalio, medico di Carlo V prima e di Filippo II poi, 1553; e Juan Valverde de Hamusco, medico del cardinale Giovanni di Toledo, 1556/1560) E DEI "CORPI CELESTI" IN ASTRONOMIA (Niccolò Copernico, "De revolutionibus orbium coelestium,1543), E, DOPO I LAVORI DEL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563), E DOPO GLI ANNI DELLO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE DI #TERESADAVILA (1515-1582), A TOLEDO, NEGLI ANNI 1586-1588, L’ARTISTA DOMENICO THEOTOKOPULOS, DETTO "EL GRECO", PORTA A COMPIMENTO IL SUO CAPOLAVORO.
DANTE E LA TEORIA DEI "TRE SOLI":
"OCEANO CELESTE" (KEPLERO, 1611). Per non buttare il #bambino (Dante Alighieri) con l’acqua sporca ("Dante è di destra"), un invito storiografico a riprendere la navigazione nella #nave di Galileo (quella del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632) e rileggere Giordano Bruno:
FILOLOGIA E FILOSOFIA. Da ricordare che la ’casa’ di Dante Alighieri (la sua opera, la "Monarchia") era la "Casa dei Due soli", e ogni "potere" era non l’accoppiata "platonica" di un servo e di un signore, ma "due in uno" (al contempo, re e sacerdote) alla #luce del Sole - non di un solo Sole (come pretendeva Tommaso Campanella con la sua "Città del Sole" e le varie "monarchie" cosmoteandriche). Dante, a mio parere, è in sintonia con lo spirito di Giordano Bruno e le "TRE CORONE" dello "Spaccio de la Bestia trionfante" e con Keplero che a Galileo Galilei, e al suo "Sidereus Nuncius" (1610). da Praga (1611) quasi grida: "VICISTI, GALILAEE" ("HAI VINTO GALILEO")!
Per Dante, svoltare a destra
di Stefano Jossa (Doppiozero, 16 Gennaio 2023) *
Dante di destra? Lo ha dichiarato, col compiacimento di chi ritiene di lanciare una provocazione dirompente («so di fare un’affermazione molto forte»), il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano in un’intervista al direttore di «Libero» Pietro Senaldi durante un evento elettorale di Fratelli d’Italia a Milano. Il ministro ha individuato in Dante Alighieri «il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese», perché ritiene che «quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia sia profondamente di destra».
Sangiuliano sperava di suscitare reazioni indignate, com’è effettivamente avvenuto, per cui come provocatore alla Marco Pannella, alla Renato Zero o alla Aldo Busi ha decisamente funzionato bene. Molto meno bene ha funzionato come pensatore originale, perché la sua battuta ha una lunga storia, che si radica almeno in quel «Dante fascista» che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime.
Rivelandosi estremamente difficile assimilare Dante alla prospettiva politica e culturale del PNF, perché l’etica francescana e la concezione universalista del poeta non potevano coincidere con il nuovo orizzonte aggressivo e nazionalista delle camicie nere, gli ideologi del tempo non trovarono di meglio che aggregare Dante al Pantheon eroico della Nazione, facendolo entrare in una lunghissima lista di campioni dell’italianità, da Giulio Cesare al Duce in persona, passando per, fra gli altri, Giangaleazzo Visconti, Emanuele Filiberto, Ugo Foscolo, i fratelli Bandiera, Goffredo Mameli, Camillo Benso Conte di Cavour, Alfredo Oriani, Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e Nino Oxilia (così Vittorio Cian nel 1928): lista che di Dante faceva un santino come gli altri, ormai svincolato dalla sua reale esperienza letteraria e dalla sua concreta identità storica.
Dante veniva presto ridotto a una controfigura del Duce, di cui del resto avrebbe profetizzato l’avvento in quel verso del trentatreesimo canto del Purgatorio in cui si annuncia un DVX liberatore dell’Italia dalle divisioni e dalle guerre: «nel quale un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque» (dove il numero romano per 515, DXV, viene anagrammato per indicare l’avvento di un vendicatore dell’alleanza a delinquere tra la puttana, la curia papale corrotta, e il gigante, la monarchia di Francia). Lo sintetizzava perfettamente lo storico Domenico Venturini nel volumetto di poco più di cento pagine intitolato Dante Alighieri e Benito Mussolini, stampato a Roma dalla Nuova Italia nel 1927, con prefazione di Amilcare Rossi, Presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti. Il volume era «pubblicato a beneficio dell’Opera Nazionale per il cimitero monumentale del Grappa, sotto l’alto patronato di S. M. il Re».
L’associazione con l’eroismo militare, da un lato (essendo il sacrario militare del monte Grappa, in Veneto, uno dei più imponenti e significativi monumenti alla memoria dei caduti della Grande Guerra), e con la monarchia, dall’altro (essendo pur sempre il Re il garante dell’unità della nazione), inseriva fin dall’inizio il libretto in un orizzonte d’italianità, come si affrettava a chiarire il prefatore nella pagina introduttiva.
Il risultato era una raccolta di corbellerie che istituivano il parallelo tra il Poeta e il Condottiero, accomunati dalla triste esperienza dell’esilio, che vissero entrambi con «acutissimo dolore per la lontananza della patria», e dalle nobili aspirazioni politiche, perché «Mussolini è il Dux che sta operando, conforme voleva Dante, quella riforma politica e morale da cui il Poeta sperava salute per l’Italia travagliata da fierissime discordie derivanti dai colluttanti partiti, riforma, ripeto, che schiude la via al conseguimento de’ più alti destini d’Italia, destini che renderanno imperituro alla memoria de’ posteri il meraviglioso secolo di Mussolini».
Gli avrebbero fatto seguito il «Dante Italiano e Imperiale» di Emilio Bodrero (Dante, l’Impero e noi, sulla «Nuova Antologia» del 1931) e il Dante precursore di Mussolini di Tommaso Vitti (Dante e Mussolini, Caserta, Tip. Sociale Jacelli & Saccone, 1934). Di qui discendeva il culto di Dante, che culminava nel progetto di quel Danteum che avrebbe sintetizzato la visione della nazione contenuta nella Divina Commedia. Alle ossa di Dante il segretario del Fascio di Salò Alessandro Pavolini affidava addirittura, simbolicamente, l’ultimo sussulto d’italianità dei repubblichini, proponendo di trasferirle nel «ridotto della Valtellina», il luogo dove i fascisti avrebbero dovuto organizzare la difesa finale della Repubblica Sociale Italiana. Dante ridotto, è proprio il caso di dirlo, a icona vuota, insomma, dentro cui si potevano accomodare i contenuti dettati dalle convenienze e dalle contingenze: se il simbolo uccide la cosa, hegelianamente e lacanianamente, il piano trascendente del linguaggio e delle rappresentazioni strutturate in termini linguistici negherà la cosa, l’oggetto, i contenuti, la storia, a favore di un sistema di significati altri, costruiti altrove e determinati altrimenti.
Un Dante di destra, quindi, nell’ottica dei fascisti e dei loro seguaci, è già abbondantemente esistito e come provocazione è risibile. Dalle parole del ministro, tuttavia, emerge quella vaghezza del linguaggio del politico, che riduce tutto a slogan senza contenuti, che è persino più preoccupante del proclama di un Dante di destra (che, inutile dirlo, Dante non fu, per il semplice fatto che le categorie politiche del suo tempo erano guelfi e ghibellini, con i primi divisi, a Firenze, in bianchi e neri, anziché destra e sinistra). Che vuol dire, ad esempio, «pensiero di destra»? Quali sono la «visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri»? Qual è la «costruzione politica» nei saggi diversi dalla Divina Commedia (che non è un saggio)? Secoli di esegesi e critica danteschi sono ridotti a due massime capitali che non significano nulla, perché ciascuno può riempirle del contenuto che preferisce, chiamandolo «di destra» per partito preso, per ragioni di schieramento politico oppure per semplice preferenza di una mano sull’altra.
Al quale si può senz’altro contrapporre il suo uguale e contrario, quel Dante di sinistra che emergerebbe prima di tutto dalla richiesta di veicolare istanze di libertà, come avvenne quando i neri d’America nelle piantagioni adottarono versi danteschi per i loro canti spiritual, in un processo descritto magnificamente da Dennis Looney in Dante for Freedom (assumendo, con Norberto Bobbio, che la sinistra tenda verso la comunità e la destra verso l’individualismo, con le dovute scuse per la sempflicazione da citazione en passant).
La «vision dell’Alighieri» era del resto il richiamo decisivo dell’inno nazionale fascista, la canzone Giovinezza, cui lo scrittore Salvator Gotta imprimeva nel 1925 una risoluta svolta dantesca nel segno della continuità tra momento profetico e realizzazione storica con l’aggiunta di due versi: «la vision dell’Alighieri | oggi brilla in tutti i cuor». Dante nazionalista, insomma, secondo una retorica di lunga durata, che discende dalla lezione risorgimentale, incarnandosi nella famosa sentenza di Cesare Balbo secondo cui «Dante fu l’Italiano più italiano che sia stato mai» (Vita di Dante, 1839), e si esalta nella sintesi capitale di Giovanni Gentile, per il quale «con Dante comincia ad affermarsi idealmente l’Italia» (Dante nella storia del pensiero italiano, 1904). In mezzo c’era l’incoraggiamento del grande teorico dell’eroismo romantico, lo storico e filosofo scozzese Thomas Carlyle: «La nazione che possiede un Dante è unita come nessuna muta Russia può esserlo» (On Heroes, 1941).
Questa retorica è appartenuta tanto alla destra quanto alla sinistra, poiché è soprattutto una retorica delle Istituzioni (in quanto tale, perciò, tendenzialmente di destra), al punto che personalità di certo immuni dal contagio delle destre, come l’allora Ministro della Cultura Dario Franceschini e l’ancora presidente della Repubblica Sergio Mattarella hanno potuto dichiarare, rispettivamente, che «Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia» (Comunicato del Ministero della Cultura del 17 marzo 2021) e che «Dante è in realtà il grande profeta dell’Italia, un patriota visionario, destinato, quasi biblicamente, a scorgere ma non a calcare la Terra vagheggiata e promessa» (Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione delle celebrazioni per il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri).
La risposta più sciocca possibile e immaginabile al ministro Sangiuliano è dunque che Dante non è né di destra né di sinistra, perché è soltanto italiano: cosa che Dante, storicamente, non fu mai, semplicemente perché per lui non era neppure concepibile esserlo, muovendosi il suo orizzonte politico tra il municipale (Firenze) e l’universale (l’Impero). È di destra, tuttavia, ridurre ogni discorso a una «pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile». Così scriveva uno dei grandi interpreti della cultura di destra, l’antropologo Furio Jesi, che proseguiva definendo i caratteri di questa cultura: una «cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari» e «in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto tradizione e cultura ma anche giustizia, libertà, rivoluzione». La conclusione era drammatica, perché identificava la destra col partito del tradizionalismo fine a se stesso, della difesa ottusa delle identità statiche e della chiusura ideologica su malintese proprietà: «La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra».
I due grandi miti del padre della patria (che Dante non fu) e del padre della lingua (che Dante neppure fu), congiunti mirabilmente in endiadi («padre della lingua italiana, e quindi della Nazione») da Benito Mussolini in un discorso del 27 giugno 1932, in occasione dell’apposizione della targa commemorativa al monumento di Dante a Napoli, andranno definitivamente decostruiti, smontati e ricalibrati. Su questo forse dovremmo continuare a interrogarci: non se Dante sia di destra o di sinistra, che è una boutade che lascia il tempo che trova e ha la sua risposta nell’effimero di una risata, ma cosa vogliano dire destra e sinistra. La destra al governo continua a tenerlo nascosto, ma è arrivato il momento di stanarla, smontandone il linguaggio e individuandone le incoerenze.
Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista, in «The Italianist», XVI (1996), 1, pp. 117-42.
Luigi Scorrano, Il Dante “fascista” (2000), in Id., Il Dante “fascista”. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna, Longo, 2001, pp. 89-125.
Dennis Looney, Dante for Freedom. The African American Reception of Dante Alighieri and the Divine Comedy, Notre Dame: University of Notre Dame Press, 2011.
Martino Marazzi, Danteum. Studi sul Dante imperiale nel Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2015.
Guy P. Raffa, Dante’s Bones. How A Poet Invented Italy, Cambridge (Mass.) - London, Harvard University Press, 2020.
* Ripresa parziale - senza allegati (FLS).
#DIVINACOMMEDIA E #DISAGIODELLACIVILTÀ (#Freud, 1929): #Dante2021.
Per meglio comprendere, a mio parere, la inaudita portata antropologica e teologica della #Monarchia di #Dante, occorre porsi all’altezza del nostro presente storico e sedersi a fianco della "ottantenne (che si) toglie l’hijab" e ascoltare le parole di (Maria) #BEATRICE che, a Dante che le chiede : "#Madonna, mia bisogna / voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono", risponde: "Ed ella a me: "Da tema e da vergogna/voglio che tu omai ti disviluppe,/ sì che non parli più com’om che sogna" (Purg. XXXIII, 26-33 ).
#FILOLOGIA E #MITOLOGIA. #Europa2023: #Eleusis2023 (Memoria di #Demetra e #Persefone). Dopo millenni di #Ci-#Viltà e #Cosmoteandria (laica e religiosa), il gesto della donna e madre iraniana (che #ovviamente si sta rivolgendo non solo agli uomini, ma soprattutto alle donne e alle madri dell’Iran - e non solo!) indica la via della #critica alla ragione olimpica: uscire dal tragico "stato di minorità" (#Kant, #Koenigsberg 1784 - #MichelFoucault, 1984), e, possibilmente, fare qualche passo di coraggiosa chiarezza sulla logica pestilenziale di #Edipo e di #Giocasta - a livello planetario.
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA...
A PRAGA, IL PIACERE DELLA SCOPERTA: ULISSE CON DANTE RICORDA LA "CASA DEI "DUESOLI".
Se l’Odissea è un libro per Nessuno, la Divina Commedia è per Everyman (Ezra Pound), come anche la Monarchia
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Dante 2021 (#divinacommedia) ed Europa 2023: Praga.
PRAGA. L’altra sera, Alberto Angela ha proposto una visita nella città di Praga e, nel suo percorso per il Il "Piccolo Quartiere" (in ceco, "Malà Strana") e per via Nerudova, ha ricordato che al n. 47 di questa via c’è la "Casa dei #DueSoli". Si sentiva proprio una "strana" aria di casa ... DANTE. Nel corso delle celebrazioni dantesche del 2021, chi ha mai sentito parlare del tema e del problema dei "due Soli", nella Commedia e nella #Monarchia?!
ULISSE. Se è vero, com è vero, che l’#Odissea è "un libro per tutti e per #nessuno", e, quindi, è per tutti e per #Ulisse, non è così anche per la Divina Commedia, che è un libro per Dante ma anche per "#Everyman" (come voleva #EzraPound), allora non ci resta che cercare di capire #chi è quel Dante Alighieri che è uscito dall’inferno, è risalito fin sulla montagna del Purgatorio, è uscito dalla Terra, nell’"oceano celeste" (#Keplero, 1611), e a 702 anni dalla morte (1321) lo ricordiamo ancora?!
#BEATRICE. Chi era un "cretino"? Un "rimbambito" che se ne andava in giro per il mondo con il fantasma della sua "amata" nella sua testa, abbandonando la sua compagna Gemma e i suoi figli, compresa suor Beatrice?!
ITALIA. E gli italiani e le italiane, chi sono? e perché hanno deciso di dedicare il giorno #25marzo proprio a lui, il #Dantedì, a Dante Alighieri?! Non è forse "l’ora che volge al disio" e sollecita a riprendere la navigazione?!
L’#ALBA DELLA #MERAVIGLIA: IL #SORGEREDELLATERRA (https://it.wikipedia.org/wiki/Sorgere_della_Terra). Ricordo che questo anno una delle capitali europee della cultura è Eleusi: #Eleusis2023. E, oggi, l’antica Terra-Madre (#Demetra) splende (ancora) davanti agli occhi (e non solo) degli astronauti e delle astronaute, in tutto il suo meraviglioso brillante colore.
QUESTIONE ANTROPOLOGICO-POLITICA: "DUE SOLI". Non è questo il tempo di rileggere meglio la #Monarchia e cercare di uscire dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784) e capire, alla luce della nostra terrestre #Costituzione, che ogni #essereumano ("Everyman") è già sé con sé (due-in-uno) "#papa" e "#imperatore" e che abita già in una "casa" di "due Soli"?! Non è il caso di svegliarsi e riprendere il cammino alla luce del #Sole?
#STORIA #LETTERATURA #FILOLOGIA E #STORIOGRAFIA: #DANTE, #BOCCACCIO, E #PETRARCA.
#Considerazioni #inattuali a margine della novella dei #tre #anelli (#GiovanniBoccaccio) e della scoperta di "un nuovo Livio di Petrarca":
A) IL #PRIMATO DI #ROMA (E DI #PIETRO), #BEATRICE E L’#AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE, E LA #MONARCHIA DI #DANTE:
B) BOCCACCIO CON DANTE. Nel #Decameron, Boccaccio pone il suo cammino sotto la guida di "#Filomena", sotto il segno della #Legge, della #Giustizia e della #Pace - di "#MELCHISEDECH GIUDEO CON UNA NOVELLA DI TRE ANELLA CESSA UN GRAN PERICOLO DAL SALADINO APPARECCHIATOGLI" (terza novella della “prima giornata” ), e, di #SOLONE (nel "Trattatello in laude di Dante").
C) #FRANCESCOPETRARCA FA DI #LAURA LA SUA #BEATRICE E DELLA #ROMA ANTICA (DANTE) LA BASE #POLITICA DEL SUO #SOGNO MODERNIZZATO:
"Nel capitolo intitolato a Tito Livio dei Rerum memorandarum libri (1, 18, 2-3), composti dall’estate del 1343 fino all’inizio del 1345, Petrarca lamentava che solo un’esilissima parte dei 142 libri degli Ab urbe condita era giunta alla sua epoca e rammentava come si fosse messo sulle tracce della seconda decade sollecitato da re Roberto d’Angiò:
Questa sua affannosa ricerca fu vana ma l’insuccesso non comportò una diminuzione d’interesse nei confronti dell’opera che narrava le gesta e la gloria di Roma antica e si prestava a essere utilizzata sia come fonte per la sua produzione storica sia come strumento per la sua rivendicazione politica del primato dell’Urbe presso i contemporanei. [...] (Monica Berte, "Un nuovo Livio di Petrarca: il manoscritto Arch. S. Pietro C. 132 della Biblioteca Apostolica Vaticana", Insula Europea, 24 maggio 2022).
RIPENSANDO A CELESTINO V E A DANTE ALIGHIERI.
Nota a margine dell’attuale presente storico e del pontificato di papa Bendetto XVI...
A 700 anni (più 1, 701 anni) dalla morte (1321) di #DanteAlighieri, tenendo conto degli "ultimi ritocchi al #Paradiso (1319)" [M. Feo] e della consapevolezza dello stesso #Dante di essere "cive di quella Roma onde Cristo è romano" [Purg. XXXII, 102], si può pensare (come alcuni hanno proposto) che sia #Pilato (e non #CelestinoV) la persona del "gran rifiuto", e che il comportamento di Pilato in campo romano possa essere messo in corrispondenza speculare con il comportamento di #Giuda in campo ebraico.
Se questo è accettabilmente vero, e la cosa appare celestinamente convincente seguendo il percorso di Pietro da Morrone prima e dopo della sua elezione a papa, tutto il castello storiografico costruito in sette secoli crolla e apre a nuovi orizzonti e a inediti punti di vista sia sulla lettura del lavoro di Dante, sia della storia della Chiesa e, al contempo, della stessa storia d’Italia.
Alla luce dello spirito di cittadinanza costituzionale di #Dante (e, su questo, ricordare l’amore del presidente della Repubblica italiana, #Carlo #Azeglio #Ciampi, per il cittadino #Dante), non è possibile non pensare immediatamente al #doppio #tradimento, quello della #monarchia del #Regno d’Italia (#Pilato) e della Chiesa Cattolico-costantiniana (#Giuda), nei confronti della intera popolazione italiana di religione ebraica ("Leggi per la difesa della razza", 1938), e, ancora e subito, riesaminare e rilanciare il programma dei #dueSoli in #terra e dell’unico Sole in #cielo (Giordano Bruno, "Lo spaccio della bestia trionfante") e tentare di portarsi "Fuori dall’Occidente" (Asor Rosa, 1992) e aprire gli occhi (#Freud) su tutta la Terra?
Oggi, nel 2023 (appena iniziato) #Eleusi è una delle capitali europee della #cultura, forse, può essere una buona occasione per riattivare la #memoria della Terra-Madre (#Demetra), riabbracciare la "antica madre" (#Virgilio) e, con #Astrea, ripensare il problema antropologicamente, in spirito di #Giustizia.
SUL TEMA, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
FLS
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO. STORIA E LETTERATURA:
"AMLETO", "BABBO NATALE", E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA.
LA LEZIONE DI SHAKESPEARE AL "PRINCIPE DELL’ EUROPA" DI OGGI, NATALE 2022.
Appunti sul tema...
RIFORMA PROTESTANTE (1517), SCISMA ANGLICANO (1534), E LA SOVRANITA’ RELIGIOSA E POLITICA (1558-1603) DI ELISABETTA: "HAMLET. "REST, REST, PERTURBED SPIRIT" (I.5). "Calma, calma, spirito perturbato": Se si riflette sulla famosa risposta di Amleto alle rivelazioni dello spirito del Padre e Re, che "Il mondo è fuor di sesto" e che "è una sorte maledetta ch’io sia nato per rimetterlo a posto" (I.5), si potrebbe anche pensare che la vicenda di Amleto sia da Shakespeare messa consapevolmente e strategicamente in parallelo con quella evangelica di Gesù ("Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!": Lc. 22. 42) e che il suo obiettivo metateatrale sia proprio quello di sollecitare l’intera cultura inglese (ed europea) a procedere a un ripensamento generale della intera questione antropologica e teologico-politica: partire da sé e rimeditare la figura del Padre Re - di "Babbo Natale"!
A CHE GIOCO SI GIOCA, NEL PIANETA "DANIMARCA": IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS O IL LOGO?! L’Arca di Noè o la Fattoria degli Animali?! Qual è il problema istituzionale e costituzionale che Shakespeare in "Amleto" pone ad ogni essere umano? Non è una domanda ("question") radicale quella posta sull’essere e sul non essere e, al contempo, non è un invito a svegliarsi dal sonno dogmatico e a "non lasciare che il letto regale / di Danimarca sia un giaciglio per la lussuria/ e il maledetto incesto" (I.5), cioè a non lasciarsi travolgere dallo spirito della menzogna e del tradimento, ad ogni livello?
L’EUROPA E LA CRISI DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO: IL PRESEPE (FRANCESCO D’ASSISI, 1223) LA "MONARCHIA" (DANTE, 1313) E LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453). Alla luce del lavoro di Michelangelo (1475 - 1564) e di Shakespeare (1564-1616), ampliando lo sguardo, forse, oggi è da ammirare e ripensare, la "vertiginosa" consonanza antropologica e teologico-politica che connota l’attività di Teresa d’Avila (1515 - 1582) e di Elisabetta I d’Inghilterra (1533 - 1603): la tradizione costantiniana è decisamente sotto attacco. Tra il Nord e il Sud dell’Europa, alla fine del Cinquecento e agli inizi del Seicento, c’è un’aria di ripresa e rilancio dello spirito dell’ecumenismo francescano e umanistico-rinascimentale (con papa Sisto IV della Rovere, prima, e Giulio II della Rovere, poi) che nella Volta della Cappella Sistina (1512) aveva rivisto profeti e sibille camminare insieme verso una terra e una società di pace e di giustizia: Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568 - 1639), come si sa, sono gli ultimi alfieri di questo "programma".
"Il disagio della civiltà" (S. Freud, 1929) e nella civiltà europea e nell’intero pianeta crescerà sempre di più, e, alla fine, si comincia ad ammettere quanto e "come spesso, nel corso della storia, la legge dell’occidente cristiano non sia stata l’imitazione di Gesù Cristo ma bensì l’imitazione dei suoi carnefici. Il corso della storia non è stato influenzato dai santi. Essi hanno agito sui cuori e sulle anime, ma la storia è rimasta criminale" (F. Mauriac, "Le fil de l’homme", 1958).
SHAKESPEARE, SONETTO 116: "L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO".
EVENTO
1622. Essere universali nel mondo cattolico. Monarchie iberiche e Papato tra gestione del sacro, santità, pratiche missionarie ed evangelizzazione
Nei giorni 30 novembre, 1 e 2 dicembre 2022 si terrà a Roma il Convegno Internazionale di Studi «1622. Essere universali nel mondo cattolico. Monarchie iberiche e Papato tra gestione del sacro, santità, pratiche missionarie ed evangelizzazione», promosso dall’Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma-CSIC (EEHAR-CSIC), dall’Istituto di storia dell’Europa mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Isem), dall’Istituto Nazionale di Studi Romani (INSR), dalla Pontificia Università Lateranense, dalla Red Columnaria/COREDEX e dall’Università Roma Tre, Dipartimenti DSU e FILCOSPE, con il patrocinio dell’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede.
L’anno 2022 commemora la ricorrenza di due eventi particolarmente significativi per la storia della Chiesa e più specificatamente per la storia delle missioni e delle relazioni tra Roma e la Monarchia Cattolica: le canonizzazioni di Ignazio di Loyola, del suo confratello Francesco Saverio, di Teresa d’Avila, di Filippo Neri e di Isidro Labrador (12 marzo), figure molto diverse, ma divenute emblematiche dello sforzo di promozione e diffusione della fede da parte della Chiesa post-tridentina; la costituzione, con la bolla Inscrutabili divinae, della Sacra Congregatio de Propaganda Fide (22 giugno), con lo scopo di promuovere le attività missionarie e al contempo ridimensionare l’egemonia esercitata dalle monarchie iberiche sui territori oggetto di tali attività, ad Oriente come ad Occidente, attraverso l’esercizio del diritto di patroado / patronato.
Le canonizzazioni del 1622 avviarono con forza una riconquista della centralità di Roma, della sua curia e delle partite politiche che vi si giocavano. Veniva così presentato al mondo e, dunque, legittimato uno scenario privilegiato in cui la Monarchia spagnola acquisiva il ruolo di braccio secolare e di punta di diamante culturale della cattolicità, ma tale legittimazione poteva derivare solo da una concessione della Santa Sede, che, reclamando in via esclusiva la prerogativa di proclamare la santità, si riaffermava quale suprema guida dei fedeli verso il traguardo di una Chiesa universale. L’anno 1622 è quindi un momento cruciale nello scontro tra Roma - che, attraverso le canonizzazioni e la fondazione di Propaganda Fide, puntava a riaffermare e consolidare il proprio monopolio sul sacro - e le monarchie iberiche, che al contrario miravano a insidiare questo primato, utilizzando la carica messianica di sovrani chiamati a guidare, governare e cristianizzare territori diversi e lontani.
Il Convegno Internazionale di Studi «1622. Essere universali nel mondo cattolico. Monarchie iberiche e Papato tra gestione del sacro, santità, pratiche missionarie ed evangelizzazione», inserito in un percorso di studi di largo respiro volto a storicizzare la proiezione globale dei regni iberici, intende esaminare questi temi e in particolare tre elementi che mutarono e interagirono tra di loro nel corso del tempo: l’instabile gerarchia degli agenti che guidarono i destini della Monarchia Cattolica, gli spazi in cui essi si mossero e le forme della rappresentazione e dell’autorappresentazione del potere sovrano e delle sue istituzioni di vertice.
Le tre giornate si terranno esclusivamente in presenza, rispettivamente, presso la Biblioteca Casanatense (via di S. Ignazio, 52), presso la Pontificia Università Lateranense (piazza San Giovanni in Laterano, 4) e presso l’Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma (via di Santa Eufemia, 13). [...]
Fonte: CNR (ripresa parziale).
E.R. Curtius: la crisi, le rovine e l’Europa
di Corrado Bologna (Doppiozero, 19 Novembre 2022)
Quando Letteratura europea e Medio Evo latino (Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter) uscì presso l’editore Francke di Berna, nel 1948, quell’Europa che brillava come un faro storiografico e culturale nel titolo era ridotta allo sfacelo, e lentamente cominciava a riprendersi dalla guerra più spaventosa che il mondo avesse mai patito. Dall’ammasso sconfinato di rovine materiali e spirituali che coprivano il continente, la sua coscienza annebbiata e d’improvviso sottratta all’incubo di un trentennio orribile impastato di frammentazioni e di scontri nazionalistici, di dittature feroci e di osceni stermini, con il libro di Ernst Robert Curtius sembrava risorgere un’impensata idea di unità, di compartecipazione, che due guerre mondiali avevano distrutto. La Crisi coinvolgeva l’intero Occidente, la sua immagine e la sua consapevolezza, i suoi progetti di futuro. E si badi, è la Crisi i cui ultimi scossoni, più di 70 anni dopo, fanno tremare ancora noi, per le stesse fratture, le stesse fragilità e volontà di potenza.
Rileggendo Curtius potremo non certo sottrarci al minacciato Armageddon, ma di sicuro tentare di cercare un Senso alla vicenda di irrazionalità e di catastrofe che continua a perseguitarci, alle nostre lacerazioni, ai nostri terrori apocalittici, al nostro continuo guardare a un’Europa unita il cui destino Curtius tracciava con nostalgia di conservatore, ma che oggi possiamo rimeditare da un punto di vista assai diverso, con questo capolavoro storiografico fra le mani. Un monumento alla storia della civiltà europea, finora introvabile, dopo l’esaurirsi della bellissima edizione curata da Roberto Antonelli per la Nuova Italia nel 1992 (io stesso collaborai, con fatiche enormi), ma per fortuna oggi riproposta in un’edizione altrettanto elegante da Quodlibet - pp. 923, euro 34 - con una nuova premessa di Antonelli, Trent’anni dopo.
Quel grande libro, immenso archivio erudito e mobilissima enciclopedia aperta, era soprattutto un Teatro della Memoria e della metamorfosi spirituale, secondo un modello che da Giulio Camillo e Giordano Bruno giungeva a Curtius attraverso Aby Warburg. Proponeva non solo «una storia», ma «una fenomenologia della letteratura», da vivere come riscatto di identità individuale e collettiva. Riprendendo l’idea warburghiana di un Atlante morfologico delle culture Curtius l’avrebbe chiamata anche «morfologia della tradizione». Nella Prefazione alla seconda edizione, datata dicembre 1953, neppure tre anni prima di morire (conoscendo la propria sorte volle, simbolicamente, che ciò avvenisse a Roma), Curtius sottolineava: «Il mio libro non è il prodotto di finalità puramente scientifiche, ma della preoccupazione per la salvaguardia della cultura occidentale». E non a caso evocava, con una straordinaria figura allegorica che era anche una mise en abyme del suo lavoro, il tappeto di resti di quella «tradizione occidentale» la cui «comprensione» postuma intendeva fondare:
«L’archeologia contemporanea ha fatto scoperte sorprendenti tramite la fotografia aerea da grande altezza.
Attraverso questa tecnica si è riusciti ad esempio a riconoscere per la prima volta il sistema tardoromano in Africa del Nord. Chi si trova in basso davanti a un cumulo di macerie non può vedere l’insieme che la fotografia dall’aereo rende visibile. Ma questa fotografia deve essere ingrandita e comparata con la carta topografica. Una certa analogia con questo metodo offre la tecnica di ricerca letteraria che ho qui impiegato».
Sul bordo della Crisi, nella derelitta Waste Land del dopo il Diluvio, di cui restituiva una visione “dall’alto” ricomposta con superba analisi dall’ammasso di detriti della Storia, Letteratura europea e Medio Evo latino venne alla luce come un libro pedagogico-terapeutico e lucidamente profetico. «This fragments I have shored against my ruins», diceva uno degli ultimi versi della Waste Land: ma già nei Cantos di Pound emergeva la figura allegorica delle «rovine puntellate» con i «frammenti» della storia e della letteratura universali. Il poemetto di Eliot era apparso nel 1922, e Curtius nel ’48 muove dall’idea eliotiana che «il senso storico sia senso dell’atemporale e del temporale [...] insieme» e renda così lo scrittore (e il critico) «consapevole del suo posto nel tempo, della sua contemporaneità» (Tradition and the Individual Talent, 1919).
Nel 1992 Roberto Antonelli rilevava come «una delle chiavi fondamentali per l’interpretazione e la fruizione dell’opera» sia appunto «di tipo pedagogico»: Letteratura europea e Medio Evo latino è «un “manuale” della tradizione letteraria europea per il giovane europeo; un “memoriale” per il prossimo millennio». Adesso, “trent’anni dopo”, riconosce finemente come «la “longue durée” di Curtius (e di tutti gli altri, fino alle Annales) sembra [...] rappresentare, in prospettiva storico-critica, la necessità (innanzitutto degli intellettuali novecenteschi) di dare un Senso alla modernità», e dunque «l’estremo tentativo di attualizzare il passato», combattendo così per controllare con strumenti simbolici «la Crisi e le crisi».
Nel 1948, quando la crisi dell’umano come conquista di comunità era esplosa nella più orrenda cancellazione delle radici condivise, Letteratura europea e Medio Evo latino individuava per l’unità europea un’origine non razziale ma culturale, e una coscienza comune, un territorio della memoria condivisa vasto e profondo. La storia di un millennio di segreta continuità sotterranea, carsica, veniva sottoposta a un’analisi micro- e macroscopica, «per scomporla (come fanno i reagenti chimici) e per evidenziarne l’intima struttura»: secondo la dichiarazione di Hugo Schuchhardt eletta da Curtius tra le epigrafi inaugurali del libro, «la combinazione paritetica del microscopico e del macroscopico rappresenta l’ideale della ricerca scientifica».
In un nodo mai prima d’allora riconosciuto, l’Antichità si stringeva così con il Medio Evo e con la Modernità, e affiorava un’idea, anzi un progetto di Moderno fondato sulla tenuta della Bildung, la formazione umanistica degli individui e delle comunità, capace di resistere alle spaventose crisi politico-istituzionali, militari, economico-sociali, che trascinavano l’Europa nell’abisso della Crisi totale. Nel momento in cui si procedeva ai primi tentativi di «europeizzazione del quadro storico», e si ponevano le basi per quella che dieci anni più tardi (1958) sarebbe diventata la prima Comunità Europea (oggi, ampliata ma sempre più bisognosa di una politica davvero condivisa al di là della saldatura degli interessi economici, la chiamiamo Unione Europea), Curtius per la prima volta rimeditava con dottrina larghissima e con un mirabile sguardo storico-antropologico l’idea di Europa, la sua tradizione ininterrotta anche se ormai definitivamente incrinata, il suo pensiero e la sua letteratura, riconoscendovi «un organismo che partecipa di due insiemi culturali, quello antico-mediterraneo e quello moderno-occidentale».
Mai come ai nostri giorni queste due categorie dialettiche evocate da Curtius a metà del Novecento, mediterraneo e occidentale, che mi sembra la critica abbia del tutto ignorato nell’esame di Letteratura europea e Medio Evo latino, appaiono coerenti non solo con il passato, ma, quasi profeticamente, con il futuro, che è il nostro presente ancora una volta colmo di ansia e di terrore. Nel momento in cui esplode con rischi giganteschi un’opposizione ciclopica fra l’“Occidente” e quell’“Europa orientale” che in Mosca incarnò miticamente la “terza Roma”, «politica e letteratura si dimostrano ancora una volta strettamente collegate e il rapporto fra Unione politica europea e letteratura europea come letteratura - e formazione - dei giovani Europei non è stato non solo risolto ma neppure affrontato»: così scrive Antonelli in Trent’anni dopo, datato “Luglio 2022”, richiamando esplicitamente la crisi ucraìna e la frattura palese fra Unione Europea e «un paese - la Russia - che geograficamente è in buona parte europeo, ma che dall’Unione è staccato» e ormai contrapposto in uno scontro che di giorno in giorno minaccia di trasformarsi nel terzo (e definitivo) conflitto mondiale. Questo libro della Crisi è un libro terapeutico per ogni crisi: anche per quella culturale e identitaria che l’Europa e l’Occidente stanno vivendo. Non salverà il mondo, ma di certo ci aiuterà a cercarvi un Senso.
Nel 1948 Ernst Robert Curtius era già uno dei più grandi filologi e critici letterari su scala internazionale. Lui, alsaziano, segnato per destino dallo scontro secolare tra Francia e Germania per il possesso di quella regione di confine, nel 1919, subito dopo la disfatta del Reich tedesco, aveva pubblicato il suo primo libro importante, Die literarischen Wegbereiter des neuen Frankreich (I pionieri letterari della nuova Francia), in cui tesseva un quadro lucido e innovativo della grande letteratura contemporanea maturata “al di là del Reno”, esaltando André Gide, Romain Rolland, Paul Claudel, André Suarès, Charles Péguy, ma soprattutto tratteggiando «una peculiare natura, tipicamente francese», della Bildung umanistica ancor viva nel cuore della modernità. Lo scandalo fu enorme. I nazionalisti tedeschi, umiliati dalla pace di Versailles siglata proprio nell’estate di quel 1919, gridarono al tradimento, giacché l’Alsazia-Lorena, occupata nel 1870, era stata definitivamente restituita alla Francia. E come una provocazione politica fu accolto quel libro in tedesco di un tedesco d’Alsazia dedicato allo «spirito francese nella nuova Europa» (esattamente così Curtius avrebbe intitolato un suo nuovo volume nel 1925, contenente fra l’altro il primo saggio europeo sull’ancora incompiuta Recherche proustiana).
Eppure I pionieri letterari della nuova Francia, specie nella conclusione, che rimeditava il rapporto fra lo «spirito» francese e quello tedesco alla luce delle rovine della prima Guerra mondiale, per Curtius non era un libro ideologicamente connotato, e invece conteneva il germe di una storia spirituale e culturale dell’Europa millenaria che trent’anni più tardi sarebbe sbocciata pienamente in Letteratura europea e Medio Evo latino. Posseggo una copia della terza edizione ampliata e definitiva (1923) di Die literarischen Wegbereiter, donata nel marzo 1929 da Curtius a un’archeologa inglese che lavorava a Roma, Eugénie Strong. La dedica autografa assume un valore straordinario, se la si colloca nel contesto storico-biografico, lanciando lo sguardo già al capolavoro del 1948: «Alla Signora Strong, in Roma, ove i popoli del nostro Occidente si rivelano allo sguardo dello spirito nella loro Armonia, questo libro sulla Francia l’autore tedesco dedica all’amica inglese in segno di ringraziamento. Ernst Robert Curtius, marzo 1929». Si comprende meglio l’importanza di questo documento ricordando che il 19 gennaio di quell’anno, proprio a Roma dove si trovava in semestre sabbatico, Curtius aveva assistito alla celebre, rivoluzionaria conferenza di Aby Warburg alla Biblioteca Hertziana sull’Antico romano nella bottega del Ghirlandaio, accompagnata da un gran numero di tavole costellate di fotografie, e ne era rimasto profondamente colpito. Fu quel giorno che si innamorò del metodo d’indagine di una morfologia della cultura cristallizzata in tratti ideologico-stilistici decisivi, come «sopravvivenza di un’immagine», «engramma» (in quel periodo Warburg usò anche la categoria di «dinamogramma»), «inversione energetica riguardo l’interpretazione di antiche formulazioni di pathos (Pathosformeln)». Non a caso vent’anni dopo quella conferenza Curtius dedicò Letteratura europea e Medio Evo latino a Warburg e al suo sconfinato teatro della Memoria (l’Atlante di Mnemosyne), e ad un maestro della filologia romanza, Gustav Gröber: due numi tutelari della millenaria, coerente continuità romano-europea.
Il termine Geist, «spirito», che brillava nella dedica alla Strong («in Roma, ove i popoli del nostro Occidente si rivelano allo sguardo dello spirito nella loro Armonia»), era già nel titolo del libro del ’25, Französischer Geist im neuen Europa (Lo spirito francese nella nuova Europa). Esso va interpretato non in prospettiva idealistica, ma in una dimensione che mi spingerei a definire antropologica, sulla stessa linea storiografica di armonizzazione europea a cui Curtius non aveva mai smesso di pensare. L’accostamento delle tre civiltà, francese, tedesca, inglese, sotto il segno dell’Armonia occidentale che Roma riesce a «cristallizzare» (il termine è esplicito in Die literarischen Wegbereiter), rappresenta già la mappa storico culturale del territorio sterminato di Letteratura europea e Medio Evo latino.
Ma per capir meglio il valore di questa insistenza sui concetti di «spirito europeo» e di «armonia» fra le culture si dovrà insistere su due tappe fondamentali per il maturare, in Curtius, dell’idea di Bildung, «forma spirituale» e «quintessenza della cultura laica»: in sostanza, Umanesimo. La prima è appunto la partecipazione alla conferenza di Warburg, a Roma, nel gennaio 1929 imperniata sull’Atlante di Mnemosyne, da cui Curtius trasse l’idea di un Atlante storico-antropologico della civiltà letteraria europea, al cui centro sta la categoria di Pathosformel come motore retorico-mnemotecnico di una longue durée della Memoria culturale (già nel 1912, nel saggio famoso su Schifanoja, Warburg, richiamandosi alle ricerche darwiniane, aveva parlato di «historische Psychologie des menschichen Ausdrucks», «psicologia storica dell’espressione umana»).
Solo due mesi dopo la «cerimonia teatrale» della Hertziana, che Silvia De Laude ha definito «l’atto con cui la “storia di fantasmi per adulti” dell’Atlante è ufficialmente resa pubblica e consegnata dal suo autore a chi la sfoglierà dopo di lui», nella dedica a un’inglese del suo libro in tedesco sulla cultura francese, convocando a Roma «i popoli del nostro Occidente» in cerca di una rinnovata «Armonia», Curtius parlava già una lingua warburghiana. Era abituato a studiare le forme retoriche di articolazione della parola, a differenza dei molti spettatori specialisti di immagini. Però colse immediatamente la novità metodologica ed epistemologica di quell’arduo, complesso affresco che attraversava civiltà, luoghi, tempi, individuando affinità, resistenze, sopravvivenze, riemersioni del rimosso, attualizzazioni di idee antiche attraverso il riuso e la manipolazione di figure archetipiche conservate e trasformate, in un ininterrotto concatenarsi di momenti di inerzia e di catastrofe .
Warburg studiava la vicenda psico-culturale della civiltà non solo europea, ma occidentale (con fondamentali aperture etnologiche, per esempio nel viaggio presso i Pueblos americani), fra Rinascimento e Modernità. Curtius era interessato alla “lunga durata” della civiltà romana fino al Medio Evo, con un ponte lungo che giungeva alla Modernità, senza fermarsi sull’ormai troppo burckhardtiano-warburghiano Rinascimento. Verso quest’epoca provava «un deciso rifiuto», come «l’epoca scelta da uno dei più felici revivals dell’anima guglielmina», secondo quanto rilevò finemente Lea Ritter Santini in uno scritto magnifico (Il piacere delle affinità) con cui aprì una sua splendida scelta di saggi, Letteratura della letteratura (Il mulino 1984). L’integrazione fra il Medio Evo di Curtius e il Rinascimento di Warburg, entrambi fluidamente aperti verso la Modernità, restituisce un’enciclopedia aperta, un archivio vivente della civiltà europea.
Per la prima volta Letteratura europea e Medio Evo latino lancia uno sguardo d’aquila, vasto e acutissimo nei dettagli, sulla totalità della cultura europea, «cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe)», e così edifica un ponte di continuità fra la civiltà romana e la sua sopravvivenza nella modernità, sotto il segno di una contemporaneità legata al «“presente atemporale”, che è la caratteristica specifica della letteratura»: infatti «per la letteratura, tutto il passato è presente», e la «letteratura europea» è non tanto una “storia”, quanto «un’“unità intellettuale” che sfugge alla nostra osservazione quando viene frazionata in più parti distinte».
E.R. Curtius: la crisi, le rovine e l’Europa
di Corrado Bologna (Doppiozero, 19 Novembre 2022)
La seconda tappa decisiva di una vera e propria terapia privata e collettiva si colloca nel passaggio degli anni 1931-32. Di fronte al Gefahr, il «pericolo» della crisi Curtius decise di entrare in cura con Jung, nel 1932. Lo stesso anno pubblicò un pamphlet dal titolo forte e inequivoco: Lo spirito tedesco in pericolo (Deutscher Geist in Gefahr; lo ha infine tradotto e commentato con finezza, nel 2018, Annamaria Bercini per una piccola casa editrice di Bologna, I libri di Emil). Alla crisi politico-culturale della Repubblica di Weimar e all’avanzata del nazionalsocialismo, che sul «campo di macerie» della civiltà europea radicava i suoi deliri di identità e purezza razziale, Curtius reagì con l’insistenza sulla categoria di Geist, «spirito». Fondando «una scienza della letteratura europea» nel momento in cui sembrava quasi impossibile ideare un’unità politico-culturale europea (ancora oggi minacciata nella sua integrità dai nefasti “sovranismi” nazionali), Curtius progetta la riconquista umanistica di una piena salute culturale come leggibilità insieme individuale, “privata”, e “collettiva”, di una civiltà, rispetto a quello che fin dal titolo l’autore definisce «pericolo» di perdita della Bildung, la formazione umanistica unificante e modellizzante. Da questo punto di vista la presenza nel suo pensiero di Warburg e di Jung è importantissima: la difesa dal rischio di carattere depressivo-dissociativo, sia degli individui sia della collettività, è ottenuta attraverso una mediazione potentemente allegorica, nel segno dell’unità e della continuità dell’archetipo-Europa lungo la disseminazione dei tópoi, l’uso e il riuso delle metafore e delle strutture retoriche, garantite non solo dagli auctores, ma dalla tenuta di una secolare formazione scolastica, soprattutto monastica.
I 18 capitoli di Letteratura europea e Medio Evo latino, insieme con i 25 importantissimi Excursus, dimostrano che idea Curtius avesse plasmato della letteratura comparata su un orizzonte sincronico e diacronico, partendo dal rapporto fra «Letteratura e istruzione», attraversando il comune territorio culturale della Retorica, della Topica, della Metaforica, al Simbolismo del Libro, spingendosi fino a Calderón, ai pilastri di Dante (che «rappresenta per l’ultima volta il teatro del mondo del Medio Evo latino») e di Goethe (che percepisce, per ultimo, «l’attività creatrice del poeta come la forza medesima che opera nella grande Natura»), al rapporto fra Montesquieu, Ovidio e Virgilio, fra Diderot e Orazio. In un saggio magnifico del 1950, La nave degli Argonauti, tradotto da Lea Ritter Santini in Letteratura della letteratura, Curtius sintetizza questa convergenza dei grandi spiriti europei nella traversata mitico-allegorica di un oceano storico cosparso da quello che «può sembrare un confuso groviglio e un conglomerato di frammenti»: «A guardarlo oggi, Goethe si avvicina sempre più a Dante, e non solo nel tempo. Come Dante, anche egli rappresentò ancora una volta il Thesaurus della tradizione europea. Anche in lui troviamo il mito degli Argonauti».
Nella traversata da Roma al Medio Evo alla Modernità per l’Argonauta Curtius un sistema sincronico e al contempo diacronico di affinità si consolida quasi come una stratificazione geologica, un continente, uno sfrangiato Mediterraneo entro cui riconoscere i punti di contatto, le faglie, le continuità, in maniera non dissimile da quanto avveniva nell’Atlante di Mnemosyne di Aby Warburg e nelle ricerche archetipiche di Jung. «È significativo», scriveva Curtius, «come in Carl Gustav Jung l’ideale della continuità (un ragionevole sopravvivere del passato nel presente) si manifesti come esigenza della salute psichica».
La salute psichica degli individui e la salute politico-ideologica di una civiltà sono al centro delle meditazioni sulla Krisis. Per Warburg erano state terapeutiche, così sul piano psichico come su quello culturale, la famosa, liberatoria conferenza sul Rituale del serpente tenuta nel 1923 alla clinica di Kreuzlingen davanti a Ludwig Binswanger, il grande psichiatra che lo aveva in cura, e poi l’altra ricordata del gennaio ’29 alla Hertziana, di fronte a un eletto pubblico di studiosi. Nell’uno come nell’altro caso era risolutivo lo Zwischenraum, l’«interstizio» e dunque la “presa di distanza” rispetto alla realtà. Chiudendo lo scritto del ’23 Warburg con oscuro spirito profetico rispetto al mondo a venire, dichiarava: «Il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto fra l’uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera e per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide». Aprendo poco prima di morire l’ultima versione dell’Introduzione all’Atlante delle immagini intitolato alla Memoria, Mnemosyne, riprendeva così l’idea: «La creazione consapevole della distanza tra l’Io e il mondo esterno è ciò che possiamo designare come l’atto fondamentale della civilizzazione umana».
Terapeutica per Curtius è la salvezza della Bildung. Riprendendo una definizione di Max Scheler, egli definisce la Bildung «la partecipazione della persona a tutto ciò che è essenziale nella natura e nella storia - È il mondo che si concentra nell’uomo oppure l’uomo che si eleva al mondo». Questa Bildung umanistica è stata «la forma spirituale della borghesia tedesca, che però nella Germania moderna non ha mai goduto di autorità e considerazione come nei paesi occidentali». Nella crisi di Weimar il conservatore umanistico Curtius individua la causa principale del «palese e costante processo di demolizione presso le cosiddette classi dirigenti» del processo formativo etico-culturale: «più si estenderà in Germania la demolizione dei valori della ragione e della tradizione, più sfide perderemo nel confronto intellettuale fra le nazioni. Nell’Europa occidentale si tutelano e si curano questi beni, persino il radicalismo nazionalistico francese ritiene una questione d’onore tenere alta la bandiera dell’intellettualità e della cultura classica». L’insistenza sul termine demolizione mostra con chiarezza (contro recenti, pretestuose polemiche) la ferma opposizione di Curtius all’avanzata del nazismo.
Ciò che ossessiona Curtius, come già Warburg, è la Krisis, il Gefahr, il «pericolo» non solo per lo spirito tedesco, ma per l’intera civiltà occidentale, e per i singoli individui che ne fanno parte. La coincidenza fra l’analisi con Jung e la composizione di Lo spirito tedesco in pericolo lo dimostra chiaramente. Nel libro Curtius critica l’imbarbarimento delle posizioni romantiche, socialiste, nazionaliste, che sostengono di poter «ricostruire la cultura tedesca dal basso», progettando «il collegamento con l’uomo gotico o con i caratteri etnici del popolo tedesco», e fingendo di dimenticare l’impraticabilità dell’«idea di una riforma della nostra Bildung a partire dal pensiero nazionale», giacché esso, ormai dominato dall’«appello all’irrazionale», «è ostaggio di masse radicali, i cui sentimenti possono essere ricondotti alla formula primitiva dell’odio contro gli ebrei e del mito della razza». La Krisis non solo politica, ma in primo luogo culturale, consisteva dunque per Curtius nello sgretolarsi della Bildung umanistica ormai affidata alle masse, le stesse che Ortega y Gasset vedeva crescere nel dominio delle civiltà pericolosamente pronte ai conflitti su base nazionalistica.
La recente (2017), straordinaria scoperta fra le carte di Curtius, dovuta a Ernst-Peter Wieckenberg e Barbara Picht, dei materiali già pronti per la stampa di un libro completamente dedicato alla formazione umanistica (Elemente der Bildung) e alle minacce portate contro di essa, consente di restituire con precisione più articolata il tessuto connettivo del pensiero intorno alla crisi dell’Umanesimo europeo sviluppato da Curtius nei primissimi anni Trenta, che a mio parere ha anche un legame diretto con la scelta di escludere, nel capolavoro del 1948, qualsiasi riferimento all’Umanesimo e al Rinascimento, recuperati invece da quella linea tedesca riconducibile all’inaugurale studio di Burckhardt, sulla quale Curtius nutre forti perplessità, e che al contrario Warburg ha posto al centro della propria ricerca, affrontandoli da posizioni originalissime.
In primo luogo il progetto di Curtius è di riscattare un’idea di Umanesimo come formazione e custodia dell’essenziale. In Lo spirito tedesco in pericolo, con preciso richiamo a Warburg, tratteggiava un’arcata problematica che sarebbe stata edificata nel capolavoro: «O l’Umanesimo si risolve in entusiasmo dell’amore o non rappresenta nulla. Può dare forma a epoche, popoli, persone solo quando proviene dall’esuberanza della pienezza e della gioia. È l’ebbra scoperta di un archetipo amato, è il riconoscersi dello spirito moderno in una vita che dormiva nella profondità oscura del sangue e che ora diventa certa della propria origine. In questo modo Hölderlin ha scoperto le divinità dell’Olimpo e si è compiuta tutta la ricezione dell’Antichità nell’arte del Medioevo e del Rinascimento, in questo modo la grecità è potuta risorgere nella plastica gotica delle cattedrali e le antiche formule del pathos, gli engrammi spirituali (come era solito dire Aby Warburg), nella pittura italiana. Nessun oggetto di meditazione può essere tanto significativo per l’amante dell’Umanesimo quanto le autentiche testimonianze di una individualità che si risveglia attraverso il misterioso riconoscersi nelle forze magiche dell’universo antico. Tali testimonianze non sono molto numerose e, per quanto ne so, non sono mai state riunite insieme».
S’intuisce qui con limpidezza l’abbozzo ideale di Letteratura europea e Medio Evo latino, ancora fortemente segnato dalla polarizzazione warburghiana «tra la serena contemplazione e l’abbandono orgiastico», rafforzata dalla Memoria «sia collettiva sia individuale», che «crea spazio al pensiero». Sedici anni più tardi, nel magnifico Epilogo a questo libro, Curtius riprende alla lettera da Lo spirito tedesco in pericolo alcune riflessioni tratte dallo scambio epistolare fra il poeta e critico russo Vjačeslav Ivanovič Ivanov e il suo amico Michail Osipovič Geršenzon, Corrispondenza da un angolo all’altro, che ha letto in tedesco nel 1926 sulla rivista «Die Kreatur», e che ha subito definito «la più importante riflessione che sia stata elaborata dopo Nietzsche sull’Umanesimo». In Europa sembrano circolare, crescere e maturare idee affini, consonanti interpretazione del bisogno di riscatto. Ed è Curtius stesso, nel 1948, accostando Ivanov, Warburg e le proprie riflessioni dell’ultimo ventennio, a raccogliere i molteplici fili colorati e a tessere la tela di un grande arazzo della Memoria europea.
In particolare Ivanov insisteva sul tema di Mnemosyne, sulla memoria e sulla sua capacità di dinamizzare l’inerzia obliosa di una civiltà compiendo «iniziazioni rituali». La perorazione di Curtius, che intreccia eticamente, prima ancora che culturalmente, Ivanov al ricordo della conferenza warburghiana, è magnifica: «Per mezzo della memoria l’uomo diventa consapevole della propria identità, al di là di ogni cambiamento; in modo analogo, mediante lo strumento della tradizione letteraria, lo spirito europeo rimane consapevole di se stesso attraverso i millenni. Mnemosyne (Memoria) nella mitologia greca è madre delle Muse. Secondo Vjačeslav Ivanov, la cultura è ricordo delle rivelazioni dei padri: “In questo senso, la cultura non è solo monumento, ma è anche iniziativa dello spirito. La memoria, dominatrice suprema, permette alla cultura di rendere i suoi adepti partecipi delle iniziazioni dei padri e di rinnovarle in essi, comunicando loro la forza di nuove origini e di nuove iniziative. La memoria è dinamismo; nell’oblio è stanchezza, decadimento, interruzione di movimento, declino e ritorno all’immobilismo inerte”. [...] La cultura come “memoria iniziatrice” (initiative Erinnerung)... Ivanov scrisse i suoi pensieri nel 1920, a Mosca, trovandosi in un convalescenziario «per lavoratori della scienza e della letteratura». Da quel giorno, intanto, sono avvenute catastrofi culturali di incommensurabile portata. Nella odierna situazione spirituale non v’è alcuna esigenza che appaia tanto imperiosa come quella di ristabilire la “memoria”. [...] I programmi educativi e rieducativi di ogni tipo sono forse meno importanti del compito immediato di cogliere, e di riaffermare, la funzione della continuità nella cultura [...]. Il dimenticare è, in taluni casi, altrettanto necessario del ricordare. Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale. [...] Non ci serve alcun magazzino della tradizione, bensì una casa in cui si possa respirare, quella “casa della Bellezza alla cui edificazione collaborano sempre tutti gli spiriti creatori di tutte le generazioni”, come dice Walter Pater: that House Beautiful which the creative minds of all generations are always building together (Appreciations, 1889, Postscript)».
Il messaggio dell’Argonauta Curtius dinanzi al Gefahr, al pericolo non solo culturale, ma politico, antropologico, ideologico, perfino militare, del nostro tempo è fortissimo: «Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale». Accanto all’ars memoriae che tutto raccoglie e accumula nella cosmopoli universale delle scienze, e che unisce e affratella in un comune pensare, Curtius fa cenno, con gesto profondamente etico, a un’ardua, “umanistica” ars oblivionis, strumento di selezione e di cura, di accoglimento e di edificazione fondato sullo scarto delle false identità conflittuali, dei conflitti imperniati sulla fascinazione delle ideologie. Oggi, più che in qualsiasi altro momento della nostra storia recente, occorre scegliere la «Memoria di ciò che essenziale», e quindi anche l’«Oblio di ciò che non lo è», se si vuole edificare una casa comune, una House Beautiful che offra un nuovo respiro alla speranza, al futuro.
A proposito di questa necessaria mnemotecnica spirituale dell’oblio, per l’identità dell’ethos che la sostiene, mi sembra opportuno richiamare la magnifica definizione attribuita a Gustav Mahler: «Tradizione non è culto delle ceneri, ma cura del fuoco». La scelta di idee da condividere e non l’accumulo di rovine, il theatrum colmo di parole e di immagini vive e vivificanti, non l’inerte «magazzino della tradizione»: la cura del fuoco, non il culto della cenere.
Euripide a Siracusa
di Alberto Giovanni Biuso [2019] *
Conversando con Eckermann il 28 marzo del 1827 Goethe affermò che «wenn ein moderner Mensch wie Schlegel an einem so großen Alten Fehler zu rügen hätte, so sollte es billig nicht anders geschehen als auf den Knien», ‘se un moderno come Schlegel avesse da rimproverare un così grande antico per qualche errore, gli dovrebbe essere consentito farlo soltanto in ginocchio’1. Il ‘großen Alten’ al quale Goethe si riferisce è Euripide.
La profondità del giudizio di Goethe è stata confermata dal ritorno quest’anno del poeta a Siracusa con due tragedie: Τρώαδεςe Ἑλένη. A metterle in scena, rispettivamente, Muriel Mayette-Holtz e Davide Livermore. Regie assai diverse tra di loro, le quali hanno mostrato quanto rizomatici, labirintici, cangianti, imprevedibili siano i percorsi del mito e degli dèi. Il politeismo greco è infatti anche libertà rispetto a ogni monoteismo ermeneutico, a ogni unicità del divino, a ogni identità immutabile del dio.
Elena
Elena rappresenta un’evidente dimostrazione di tutto questo. Si tratta infatti di un personaggio diverso dalla Elena omerica, che è la più nota, con l’universale biasimo che l’accompagna. Eccezione significativa rispetto alla generale condanna verso questa donna fu Gorgia, che su di lei pronuncia invece parole del tutto plausibili di encomio. Contemporaneo di Gorgia, Euripide disegna un’Elena fatta di saggezza e di misura. Ci voleva coraggio nel far questo, visto che «l’azzeramento delle responsabilità di Elena equivale all’azzeramento della tradizione omerica»2.
Racconta Euripide che Elena non è mai arrivata a Troia, che mentre i guerrieri a Ilio si scannavano, lei venne portata in Egitto, dove la troviamo sulla tomba di Proteo, a difendere se stessa dal figlio di lui che vorrebbe farla propria. Elena narra che «Era, incollerita per non avere vinto le altre dee, mandò in fumo il connubio ad Alessandro: non diede me, ma un simulacro vivo, che compose di cielo a somiglianza di me, al figliolo del re Priamo: e lui ebbe l’idea d’avermi - vana idea che non m’ebbe» (pp. 534-535)3. Decisa a uccidersi piuttosto che andare in sposa a Teoclimeno, il caso o gli dèi - sono la stessa cosa - fanno approdare sulle coste egizie il naufrago Menelao, che crede di portare con sé Elena conquistata a Ilio. Non crede quindi ai propri occhi quando vede e riconosce quest’altra Elena. Tra i due gioca la dinamica di realtà e illusione. Gli antichi sposi decidono di ingannare il nuovo re egizio, fargli credere Menelao morto e chiedere di onorare la sua fine in mare. Ottenuta da Teoclimeno la nave, tornano a Sparta, vincitori.
Anche i percorsi della Wirkungsgeschichte, delle interpretazioni della tragedia e dei suoi effetti, sono molteplici. Non esiste, ovviamente, alcuna regia o messa in scena ‘corretta’ delle opere teatrali, tanto meno di quelle greche. Chi difende la ‘tradizione’ difende in realtà le interpretazioni novecentesche o persino del XIX secolo. La domanda da porsi è invece questa: quanto di greco c’è in questa regia? Nel caso della Elena di Davide Livermore c’è molto, per numerose ragioni.
La prima è che abbiamo assistito a una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale, fatta di parole ma anche di musica, di danza e di immagini. I primi tre elementi erano costitutivi del teatro greco, l’ultimo li rende vivi attraverso un grande schermo che fa da sfondo alla scena creando di volta in volta immagini degli dèi, degli umani, del mare, delle stelle, del fuoco. La suggestione e l’enigma ne vengono moltiplicati in una sorta di arcaismo elettronico che, insieme ai tanti specchi e all’acqua nella quale la scena è immersa, rende visibile il doppio, la dissoluzione dell’identità nell’aria e nel tempo. Nell’acqua sono immersi la tomba di Proteo, l’obelisco di Teoclimeno, il relitto della nave di Menelao.
Le musiche vanno dal barocco rivisitato al minimalismo, dalla musica leggera al Fandango del Quintetto IV in Re Maggiore G. 448 di Boccherini, che restituisce il ritmo dell’eros, del tradimento, del gioco. Musica che coniuga dissonanza e redenzione, la Dissonanza come immersione nel Nulla della vana immagine di Elena; dei guerrieri morti per un ologramma; della natura enigmatica del dio. L’etica dei Greci sta qui, nella loro ontologia, nella radicalità con la quale esistono e comprendono l’esistere.
Troiane
Muriel Mayette-Holtz ha preferito invece imprimere alla sua regia delle Troiane un carattere etico che ha contribuito a banalizzare questa che è una delle più radicali, davvero terribili, tragedie greche. In essa Atena e Poseidone osservano i vinti e i vincitori. E stabiliscono di portare a compimento la fine di Troia ma di dare anche amaro ritorno agli Achei. Nessun amore per gli umani in questi dèi. E basta esistere e vedere il mondo per comprendere che nessun amore proviene per gli umani dal divino. Ecuba lo sa, ora che la città, la casa, i figli, persino il nipote Astianatte vanno morendo e sono alla rovina. Ecuba sa e dice che «di quelli che sono fortunati non stimate felice nessuno mai, prima che muoia» (p. 439). La fortuna, il caso, gli dèi danzano infatti sulle vite individuali e sulla storia miserrima della specie che si crede grande e per la quale meglio sarebbe stato invece non venire al mondo. «Io dico», afferma Andromaca, «che non nascere equivale a morire. Ma d’una vita triste è meglio morte. Sofferenza non c’è per chi non sente il male» (p. 444).
Il male della storia e il male dell’individuo. Quello della storia perché «folle è il mortale che distrugge le città. Getta nello squallore templi e tombe, sacro asilo d’estinti; ma poi finisce per perire lui» (p. 426), afferma Poseidone; il male dell’individuo immerso in passioni antiche, nuove, pervadenti. Nell’uno e nell’altro caso i Greci appaiono in questa tragedia feroci e disumani, sino ad accettare il consiglio dell’implacabile Odisseo di togliere la vita ad Astianatte affinché il figlio di Ettore non abbia, crescendo, a vendicarsi. Il bambino viene gettato giù dalle mura della città in fiamme.
Prorompe dentro la distruzione Cassandra. Lucida e invasata, lucida perché invasata, sa che ad Agamennone che se l’è presa come concubina lei porterà ogni sciagura, vede «la lotta matricida che le mie nozze desteranno, e lo sterminio della famiglia d’Atreo» (p. 435), esulta sapendo che «vittoriosa giù fra i morti arriverò: / che la casa dei carnefici, degli Atridi, spianterò» (p. 438). Il momento nel quale irrompe Cassandra sulla scena, con la sua torcia con il suo canto, il momento nel quale appare questa potenza struggente, luminosa e dionisiaca, è il più alto della messa in scena, l’unico nel quale appaiano in essa i Greci. Per il resto, infatti, è uno spettacolo sobrio sino alla piattezza; con un Paolo Rossi del tutto fuori ruolo, che interpreta il personaggio chiave di Taltibio come se recitasse in un cabaret milanese; e soprattutto con i cori di Euripide cancellati e sostituiti da canzonette leggere e sentimentali, accompagnate da una chitarra. Si può e si deve interpretare un testo greco come si ritiene più consono ma non lo si può sostituire - o, peggio, ‘sintetizzare’- con testi melensi.
Euripide tra Nietzsche e la Gnosi
Nietzsche aveva ancora una volta ragione, anche se forse non per le ragioni che credeva: davanti al male della storia, davanti al male che è il respiro, Euripide enuncia il disincanto che alla tragedia greca pone fine. Il poeta fa pronunciare infatti a Ecuba una preghiera che trascolora i nomi degli dèi, persino quello di Zeus, nella forza senza fine e senza senso della materia agra: «ὦ γῆς ὄχημα κἀπὶ γῆς ἔχω νἕδραν, / ὅστις ποτ᾽εἶ σύ, δυστόπαστος εἰδέναι, /Ζεύς, εἴτ᾽ἀνάγκη φύσεος εἴτε νοῦς βροτῶν, / προσηυξάμην σε: πάντα γὰρ δι᾽ἀψόφου / βαίνων κελεύθου κατὰ δίκην τὰ θνήτ᾽ἄγεις», ‘Tu che sostieni il mondo e che nel mondo hai dimora, chiunque tu sia, Zeus, inconcepibile enigma, che tu sia necessità della natura o pensiero degli uomini, io ti prego: tutte le cose mortali le governi secondo giustizia, procedendo in silenzio lungo il tuo percorso’4.
In questa magnifica preghiera panteistica una donna e una regina al culmine della disperazione riconosce con dolorosa intelligenza che tutto è giusto ciò che agli umani accade, anche che «la gran città / non più città s’è spenta e non c’è più» (p. 461). Nella tragedia che porta il suo nome, Ecuba arriva a dire di se stessa «έθνηκ᾽ἔγωγε πρὶν θανεῖν κακῶν ὕπο», ‘io sono morta prima di morire’5.
L’innocente causa di tutto questo, Elena, appare davanti a Menelao e si fa avvocata formidabile di se stessa, somigliando le sue parole a quelle argomentate e profonde con le quali Gorgia tesse l’elogio di questa creatura bellissima e fatale. Persino le donne troiane che la odiano ammettono che l’argomentare di Elena è convincente. Come nella tragedia a lei specificatamente dedicata, Euripide coniuga l’indicibile bellezza a una intelligenza raffinata e superiore. Elena sostiene infatti che preferendo lei -e non i doni che offrivano Era e Atena- Alessandro Paride risparmiò ai Greci la sconfitta contro i Troiani. Scegliendo lei nell’impeto di un totale desiderio, Paride fu asservito da Afrodite mentre di Afrodite decretava la vittoria. E quindi, afferma Elena rivolgendosi a Menelao, «la dea devi punire, devi farti superiore a Zeus, che regna sì sugli altri dèi, ma di quella è uno schiavo» (p. 452).
Se schiavo è Zeus di Afrodite, quanto più gli umani lo saranno. Lo sa bene anche Ecuba, sa che il nome di questa invincibile dea è simbolo e sintesi della fragilità di tutti: «Ogni follia per l’uomo s’identifica con Afrodite» (p. 453). Fino a dire parole che sembrano nostre, di noi disincantati ma sempre persi umani del futuro: «οὐκἔστ᾽ἐραστὴςὅστιςοὐκἀεὶφιλεῖ», ‘colui che amò una volta ama per sempre’6.
La predilezione di Euripide per il personaggio di Elena ha molte ragioni, le quali affondano nella critica socratico-platonica al modo troppo umano con il quale le figure e i comportamenti degli dèi vengono rappresentati già da Omero ed Esiodo. Ma a questo elemento razionalistico si coniuga qualcosa di assai profondo nella storia mediterranea e greca. L’Elena di Euripide -opera per molti versi sconcertante- è accenno, filigrana e metafora anche della tradizione orfica, che si compie nella visione gnostica del mondo. Elena è infatti un simbolo orfico di nascondimento e rinascita, una gemella di Dioniso, un itinerario che gli gnostici presero a modello di gettatezza e riscatto, disvelante le apparenze e volto verso la luce. L’uovo dal quale nacque Elena, dopo che sua madre Leda venne fecondata da Zeus in forma di cigno, divenne un simbolo della Gnosi, un’allegoria dell’esistere redento.
Tra le forme della verità che appare e si dissolve ci sono le strutture che i Greci raccolgono sotto il nome di Afrodite. Di lei, come di Dioniso, Elena è figura. Anche per questo può osare definire la dea πολυκτόνος Κύπρις, vale dire «la Cipride omicida»7, riconoscendone però sempre la dolcezza, insieme alla potenza. Rivolta ad Afrodite infatti Elena dice: «Avessi la misura! Per il resto, oh non dico di no, tu sei per gli uomini, certo, di tutti i numi la più dolce» (p. 572). La regia di Livermore ha reso visibile questa potenza di Elena/Afrodite, la sua bellezza, i modi e le parole.
Più di ogni altra forma, anche la vicenda iniziatica, tragica e inquietante di Elena è espressione di Ἀνάγκη: «λόγος γάρ ἐστιν οὐκ ἐμός, σοφὸν δ᾽ἔπος, / δεινῆς ἀνάγκης οὐδὲν ἰσχύειν πλέον» ‘Non è sentenza mia, ma dei sapienti: della necessità nulla è più forte’ afferma Menelao8. Ed è questa necessità ad aver generato Elena, la sua dionisiaca bellezza, la sua storia che si conclude, e in altro modo non potrebbe, con la divinizzazione profetizzata dai suoi fratelli, i Dioscuri: «ὅταν δὲ κάμψῃς καὶ τελευτήσῃς βίον, / θεὸς κεκλήσῃ» ‘Quando poi verrà la svolta e finirà per te la vita, sarai dea’9.
È questo che a Siracusa si è compiuto nel rosso conclusivo che intride la scena, le immagini, le acque, mentre tutti intorno a lei muoiono - come sempre nel divenire del mondo - ed Elena rimane invece viva, trasfigurata, gnostica nel pianto e nella luce.
[...]
Teatro Greco - Siracusa, 2019
Elena
(Ἑλένη)
Traduzione di Walter Lapini
Con: Laura Marinoni (Elena), Sax Nicosia (Menelao), Simonetta Cartia (Teonoe), Giancarlo Judica Cordiglia (Teoclimeno), Viola Marietti (Teucro), Mariagrazia Solano (una vecchia), Maria Grazia Centorami (Primo Messaggero), Linda Gennari (Messaggero di Teoclimeno), Federica Quartana (Corifea)
Regia di Davide Livermore
Troiane
(Τρώαδες)
Traduzione di Alessandro Grilli
Con: Maddalena Crippa (Ecuba), Marial Bajma Riva (Cassandra), Elena Arvigo (Andromaca), Viola Graziosi (Elena), Paolo Rossi (Taltibio), Graziano Piazza (Menelao), Francesca Ciochhetti (Atena), Massimo Cimaglia (Poseidone), Riccardo Scalia (Astianatte), Clara Galante (Corifea), Elena Polic Greco (capocoro), Fiammetta Poidomani (chitarrista)
Regia di Muriel Mayette-Holtz
* Fonte: Vita pensata, 27 Luglio 2019 (ripresa senza immagini e senza note).
Alfabeto Pasolini
di Marco A. Bazzocchi ([Doppiozero, 10 Novembre 2022
Il termine “sacro”, o meglio “il sacro”, attraversa tutta l’opera di Pasolini. Forse potremmo anche ipotizzare che tutta l’impalcatura di quest’opera, o tutti i concetti che la sorreggono, possano essere riconducibili a versioni diverse e cronologicamente differenziate del “sacro”.
Provo a ipotizzare una tipologia:
1. Il termine “sacro” come attributo esplicitamente presente nella poesia, dalle Ceneri a Trasumanar. “Sacro” in questo caso specifica una condizione di distanza dell’autore da un oggetto da lui osservato con attenzione ma a lui esterno. Anche se non nominato, il sacro caratterizza un fenomeno esterno, una condizione carnale (creaturale) tipica di un mondo ancora primitivo e alle soglie della Storia. Si crea così un’opposizione: chi è nel buio della Storia, cioè fuori da essa, ha ancora in sé tracce del sacro, chi è nella luce della Storia è già fuori dal Sacro. In questo caso “sacro” è molto vicino ad arcaico, a “barbaro”. Quest’ultimo termine, dirà Pasolini, è uno dei più cari del suo universo lessicale (come per la Morante).
Esiste anche una versione simmetrica e opposta a questa, e si fa luce pressappoco agli inizi degli anni sessanta, quando Pasolini scrive le “Poesie mondane” sul set di Mamma Roma. Il poeta immagina un film da fare dedicato a un santo medievale dal nome Bestemmia. Nello stesso momento, con un velocissimo passaggio, ipotizza la sua condizione di corpo morto nel futuro, quando i suoi detrattori, che a loro volta sono “morti” (privi di un valore vitale) nel presente, non ci saranno più. In questo futuro il suo corpo ridotto a scheletro avrà ancora una vita grazie all’intensità del suo amore presente. L’amore perdura al di là della morte (un motivo che viene dalla lettura di Foscolo). Dunque il suo corpo morto sarà “sacralizzato” in absentiam, la sua “sopravvivenza” sarà “sacra”.
2. Il “sacro” come particolare emergenza di porzioni della realtà (in particolare facce, corpi) rappresentati nel cinema di PPP, in forme diverse e con modalità diverse. In questo caso “sacro” non è più un fenomeno linguistico ma è transitato nella forma dell’immagine: la macchina da presa è lo strumento che può trovare il sacro, coglierlo, trasmetterlo. Pasolini ha scelto il cinema soprattutto per questo: grazie alla tecnica può trovare nel mondo ciò che la tecnica sta distruggendo.
3. Il sacro in quanto fatto esplicitamente erotico, o genericamente sessuale. Fin dall’inizio della sua attività di scrittura, Pasolini individua in un ricordo infantile il rapporto tra sacralità e desiderio sessuale. In particolare, è una parte del corpo maschile, l’incavo interno del ginocchio, che Pasolini definisce con un’invenzione linguistica che poi si porterà dietro per tutta la vita: teta veleta. Questa invenzione viene da lui poi ricondotta a una improbabile radice greca del termine “tetis”, che viene usata fino a Petrolio per indicare la sessualità senza freni, un desiderio puro e quasi impossibile. Tetis porta nel presente la forza mitica di Eros, è un amore ricondotto al corpo e al sesso. O anche alle origini della vita.
Questa accezione inizia con il film-libro Teorema, dove un giovane senza nome, l’Ospite, compare in una famiglia borghese e la distrugge attraverso il desiderio sessuale. Pasolini scrive esplicitamente: “il sesso sacro dell’Ospite”. Qui il sacro, che pur è scomparso dal mondo borghese (almeno nell’accezione che abbiamo visto per prima) ritorna fuori come forza non elaborata né cancellata, una forza incontrollabile e brutale che può distruggere ma che è collegata alle origini dell’esistenza, e che può riemergere al di là delle trasformazioni irreversibili di una società neocapitalistica. Il discorso di Pasolini sull’aborto non si può capire se non si capisce il suo difendere la sacralità del coito contro la tolleranza imposta dal nuovo potere.
Procederò cercando di illustrare questi tre aspetti, in realtà profondamente innervati l’uno nell’altro.
Il rapporto tra parola e immagine è fondamentale. Possiamo estendere a tutto Pasolini l’affermazione che lui fa intorno alla parola scritta in una sceneggiatura, definendola “struttura che vuol diventare un’altra struttura”. Dunque le parole poetiche sono sempre, a iniziare dal friulano, una forma espressiva che però tende fuori da se stessa, è spinta verso l’esterno, vuole diventare un’altra cosa. Questo procedimento fa delle parole forme che portano in sé il buio di un’origine profonda, non distinta, e si protendono verso la luce. Non si tratta solo di un’acquisizione di senso ma di un’acquisizione di visività. Il valore di ogni parola poetica è espressivo e performativo, con vari livelli a seconda delle epoche. Forse è più espressivo nelle prime raccolte e a mano a mano diventa sempre più performativo.
Lo stesso avviene per il sé di Pasolini, un sé corporeo che prende forma solo attraverso un mezzo di contrasto capace di mostrarcelo mentre sta sdoppiandosi in un altro sé. Pasolini non è mai intero, non sta mai dentro un confine, ma è sempre diviso tra lo star dentro e lo star fuori. Pasolini - come dice una famosa intervista rilasciata a Jean Duflot - è “uomo-centauro”. I quattro grandi centauri della letteratura italiana sono Machiavelli, nel mondo antico, Pavese, Primo Levi, Pasolini nella letteratura moderna. “Centauro” significa per ognuno di loro una cosa diversa, e Pasolini in un certo senso li concentra in sé tutti e quattro attraverso una serie di opposizioni: il bestiale e l’umano, il razionale e l’irrazionale, il pensatore e il poeta. Nel film Medea Pasolini mette in scena un centauro, Chirone.
Questo centauro insegna al giovane Giasone, da lui allevato, che “tutto è santo”. Non esiste cioè niente di realmente naturale ma ogni aspetto del mondo nasconde una presenza divina. Ma Giasone non impara. Per questo andrà a rubare il vello d’oro là dove c’è ancora una cultura sacra, barbarica, e per riuscire nella sua impresa sedurrà la maga Medea. Medea, portata da Giasone nel mondo della razionalità (Corinto, il mondo greco) perderà il suo potere. Giasone è un distruttore del sacro. Ma quando il sacro risorge, e Medea riacquista il suo potere di maga, la forza terribile del sacro si esercita sui figli da lei avuti da Giasone, che lei stessa uccide per gettare Giasone nella sofferenza e nella solitudine. Dunque l’intero film è un mito che mette in scena l’allegoria del mondo moderno: perdita del sacro, e possibilità di rinascita del sacro.
Torniamo ora sulla parola poetica, con un esempio dai poemetti delle Ceneri. Il poemetto L’Appennino è costruito secondo una tecnica che usa il sacro sia come involucro che come contenuto. L’involucro è costituito dalla statua di Ilaria del Carretto, giovane morta dormiente, come Silvia, e contenuta nella Cappella di S. Lucia a Lucca. Ilaria è un fantasma di marmo, per Pasolini un corpo addormentato che contiene in sé la notte italiana del centro sud. È un corpo-cripta, ma anche un corpo-paesaggio. Dietro le palpebre di Ilaria Pasolini vede l’apparire del sacro nella sua forma storica e a-storica: Ilaria è stata nella storia, la sua statua lo è ancora, ma per Pasolini è attraverso gli occhi di Ilaria, che sono rovesciati nel buio, che lui riesce a scorgere il popolo che vive nel buio di una notte italiana. Questo popolo è proteso verso l’attesa di una luce, cioè di una redenzione che lo porti dentro la storia, ma ancora non lo è. Il corpo umile dei pastori dell’appennino è incastonato nel fango e negli escrementi, è un corpo-escremento, un corpo che deve ancora liberarsi dalla sua condizione impura ma sacra: là dove c’è animalità c’è anche sacro.
Questo mi sembra abbastanza chiaro. Però consideriamo che Pasolini può parlare del sacro solo “attraverso” la forma compiuta del poemetto che mette in scena la postura corporea di Ilaria dormiente. Si tratta di una forma artistica, un capolavoro dell’Italia del ‘400. Il marmo lavorato con la finezza di un ricamo è l’esatto opposto della materia di cui è fatto il corpo popolare. Una materia bassa, non nobile, eppure messa al centro di un’attenzione costante: il fango, le feci, gli stracci, gli odori sgradevoli. Questo è l’universo sensoriale delle Ceneri, che appunto evocano nel titolo un corpo putrefatto e nobile nello stesso tempo, il corpo di Gramsci. La statua di Ilaria e il cippo funebre di Gramsci hanno la stessa funzione. Sono segnali di una sacralità che è nascosta in un mondo non più praticabile ma visibile grazie alla loro presenza fisica. Sono residui di vita ma anche conservatori di vite. In loro si incarna ciò che è destinato a scomparire, la “forza del passato”, dirà Pasolini, cioè il passato come forza e come sopravvivenza. L’ombra che ci fa, che ci rende noi stessi, dice James Hillman.
Passiamo alla prima immagine del primo film, Accattone. Si tratta di un viso, brutto: è Scucchia che parla in romanesco reggendo un grande mazzo di fiori sotto braccio, lanciando una frase ironica su un gruppo di uomini che stanno oziosi ai tavoli di un bar. Questo volto è un’immagine, cioè la realtà come la intende Pasolini. La realtà fissata dalla macchina da presa quindi resa immobile, eterna, dalla luce e dall’ombra, dal loro rapporto che divide e spacca in due l’immagine. Un’immagine che esce dalla realtà, si trasforma in qualcos’altro. Questo qualcosa è il “sacro”. Il “sacro” che si distribuisce tra due mondi, che cerca di svincolarsi dal buio tendendo verso altro.
Tutto Accattone è il racconto di una forza del sacro che si muove tra le borgate, che si incarna in alcuni corpi, come in quello di Vittorio, creando conseguenze tragiche e comiche, cioè spingendo verso il basso o verso l’alto. Ogni volto, in Accattone, ogni gesto, ogni frase è sacralità. Non c’è un confine che divida ciò che è sacro da ciò che non lo è. La morte è il passaggio della vita, e tutto il film è uno scorrere tra la vita e la morte, tra due mondi, tra due dimensioni che confinano ma non si mescolano mai. Accattone è colui che si muove tra i due mondi, o meglio in una fessura che sta tra una vitalità mortuaria e la morte vera e propria.
Cerco di andare al di là di quest’ultima affermazione. Nel rapporto tra le immagini, nella costruzione di un singolo oggetto-film Pasolini individua la sacralità che tiene legati i due estremi della vita e della morte. La vita che compare in un film, cioè l’espressione della vita, il racconto in quanto energia del desiderio che sorregge una vita, si sviluppa al di sopra di uno strato arcaico di morte, uno strato non dicibile direttamente se non attraverso l’insieme delle immagini che noi vediamo nel film. Questo strato arcaico viene definito in un primo momento da Pasolini come “base onirica” dalla quale derivano le immagini del film reale. Il sacro è insito anche in questo strato profondo che si rende percepibile dall’insieme delle immagini. La morte è sempre immanente su quanto si svolge alla superficie del racconto.
Pasolini ha offerto varianti continue di questo contrasto. Nei tre film mitologici, il contrasto si incarna sempre nel passaggio tra una situazione di anomalia, un breve periodo di stasi e poi l’improvviso presentarsi di un esito catastrofico, dove resta aperta una debolissima possibilità di redenzione.
Edipo scopre il segreto della sua vita, la madre Giocasta si uccide, lui si acceca ma un piccolo residuo di salvezza si incarna nel flauto grazie al quale l’uomo esecrando può ricodificare il suo scandalo in alcuni luoghi oltre il tempo, i luoghi che fuoriescono dal passato mitico e portano in scena il presente. In questi tre luoghi (il centro di Bologna, una fabbrica, il prato dell’allattamento iniziale) il sacro è stato rielaborato e convertito nella condizione della poesia e del sogno: Edipo ritrova grazie al flauto ciò che sembrava aver perduto accecandosi.
Il caso di Medea lo abbiamo già visto. Con Orestiade africana il sacro prende un nuovo aspetto. Oreste si incarna in un giovane africano che si svincola dai rituali tribali e dopo avere vendicato la morte del padre si avvia a un’educazione moderna, liberandosi dal peso della colpa. Nel mito antico la colpa è rappresentata dalle figure delle Furie, che perseguitano Oreste come la proiezione esteriore collegata al matricidio di Clitennestra. La dea Atena aiuterà Oreste a vincere l’assalto delle Furie. Un tribunale di cittadini lo dichiarerà innocente.
In questi tre film Pasolini ha affrontato il sacro riprendendone tre forme di affioramento: la colpa di Edipo, la vendetta di Medea, la redenzione di Oreste. Si tratta di tre racconti mitici. Lo stesso racconto mitico sottostava al Vangelo secondo Matteo. Il tema è lo stesso: cosa avviene quando un essere umano si trova a superare i limiti dell’umano stesso, spingendosi in un territorio dove non esiste ancora una Legge?
Edipo diventa re di una polis aggredita dalla peste ma poi si ritrova a essere lui stesso la causa del ritorno della peste. In lui si incarna la salvezza che poi si ribalta in un secondo peccato, ancora più terribile. A questo punto Edipo si è spinto al di là dei limiti dell’umano, in quella che Pasolini chiama “anomia” cioè il terreno dove non c’è più legge. Edipo diventa esecrabile, deve lasciare Tebe e cercare un luogo di redenzione.
Medea incarna in modo ancor più evidente il conflitto. Rinnega la propria religione, offre a Giasone il vello d’oro, cioè il centro sacro su cui ruota il mondo arcaico a cui lei stessa appartiene. Usa poi la sua forza per uccidere il fratello Apsirto, le cui membra vengono disseminate per fermare l’esercito che insegue lei e Giasone. Arrivata in un nuovo mondo, dove non ci sono più regole sacre, Medea perde se stessa, diventa una donna temuta e costretta a vivere fuori dalle mura di Corinto, la città della Legge e della ragione, di cui Giasone diventerà re sposando la principessa Glauce. Medea a questo punto vive una riconversione religiosa e viene di nuovo posseduta dalle forze mitiche del Sole, che le danno la forza per compiere il terzo omicidio, dopo quello della vittima sacrificale e del fratello, l’omicidio dei figli.
Ora Medea è di nuovo una creatura sacra, nessuno la può toccare. Nell’inquadratura finale il volto della Callas è scontornato dalle fiamme che bruciano la sua abitazione. Il fuoco rappresenta la forza mitica che si è impossessata di lei rendendola di nuovo maga e togliendole il ruolo di madre o di moglie. Il sacro si ripresenta nel momento in cui il film finisce. Ma l’intero film è un insieme di membra disseminate e tenute insieme dalla tecnica del montaggio. Il corpo di Giasone, nella sua interezza erotica può essere osservato solo in pezzi che il montaggio tiene uniti. Il corpo di Medea è un insieme dominato dalla passione amorosa e dalla rabbia vendicativa. Il sacro non può essere concepito nel mondo della razionalità. Se ricompare provoca disordine. E dopo il disordine?
Pasolini si interroga sullo stesso nucleo mitico trasportandolo anche nel mondo borghese moderno, attraverso l’allegoria di Teorema. In Teorema il sacro si incarna nel sesso dell’Ospite, cioè in un potere dionisiaco o diabolico che porta il vuoto là dove sembrava esserci coesione. La bellezza dell’Ospite scatena nei borghesi il desiderio senza freni che li fa entrare nello spazio anomico del deserto. Il deserto rappresenta nel film e nel libro lo spazio aperto prodotto dall’emergere del sacro. Ma il deserto è anche, biblicamente, lo spazio uniforme dal quale gli ebrei e San Paolo ricavarono l’immagine di un Dio onnipotente e di una Legge voluta da questo Dio.
Il deserto è dunque uno spazio reversibile: può produrre l’idea di un Dio Padre ma anche accogliere la fine di questa idea. La Legge di un Dio Padre: Pasolini immagina che questa Legge sia scardinata da un dio figlio, l’Ospite, colui che possiede tutti coloro che si credevano in possesso di un’identità, cioè i borghesi. Per questo, alla fine del film, vediamo il Padre che cammina nudo nel deserto e urla. Si tratta, come per Edipo e per Medea, dell’ultimo effetto del sacro sull’uomo. E per ogni personaggio il sacro interrompe un destino, lo ferma sull’orlo della sparizione. Ma, almeno in questo caso, Pasolini pensa che questo urlo possa annunciare una riapertura del tempo della storia, o forse di una nuova storia. Una nuova storia d’amore che possa legare di nuovo i padri ai figli. Ma non sappiamo cosa potrà avvenire. Non c’è una nuova Legge.
La nuova Legge compare invece in Orestiade africana. Qui il sacro è a un livello di assoluta primordialità. Pasolini lo vede incarnato nei secolari baobab africani o nella pigra digestione di una leonessa. Le Furie sono esseri della natura. E come tali non sono dominabili. Sono prima del tempo. L’unica possibilità è che l’uomo riesca a trovare uno spazio adatto per collocarle all’interno della polis. Lo spazio da cui il loro effetto sarà riconvertito, da Furie a Eumenidi, da Erinni a Benevole.
Alfabeto Pasolini
di Marco A. Bazzocchi ([Doppiozero, 10 Novembre 2022
Il termine “sacro”, o meglio “il sacro”, attraversa tutta l’opera di Pasolini. Forse potremmo anche ipotizzare che tutta l’impalcatura di quest’opera, o tutti i concetti che la sorreggono, possano essere riconducibili a versioni diverse e cronologicamente differenziate del “sacro”.
Pasolini conosce molto bene questa ipotesi sull’origine della civiltà, fin da quando ha tradotto Eschilo nel 1960. Ha letto con attenzione i testi di ispirazione marxista (Thompson) dove si spiega il passaggio voluto dalla dea Atena, che è una dea femminile ma anche maschile, in quanto prodotta dalla mente di Zeus. Atena è una divinità dei passaggi, del transito verso la vita, la dea del parto. In quanto vergine, in lei non c’è pietà femminile ma un elemento freddo e razionale. Non è una divinità pasoliniana ma Pasolini non può ignorarla: è l’aspetto del femminile che contiene in sé il maschile, e non ha caratteri materni. La storia inizia quando Atena colloca le Furie nella Polis. Le rende cioè figure che la mente umana può concepire senza terrore. Per Pasolini questo è l’unico modo in cui la Storia può progredire: tenere vicino il sacro, sapere che c’è, che può ritornare, non ignorarlo né tanto meno annullarlo.
Nella tragedia Pilade (una allegoria politica che descrive l’Italia della modernizzazione) Pasolini immagina una variante ulteriore del mito, cioè che le Eumenidi possano ritornare ad agire come Furie, portando le forze rivoluzionarie dentro la città e creando disordine. In questa tragedia a provocare il disordine è proprio Pilade, l’amico fraterno di Oreste, il suo doppio, colui che lo accompagna nell’intera avventura ma poi si sottrae a lui. Pilade è il “diverso” da Oreste, la sua parte oscura, quella che rifiuta l’adeguamento alla Legge. In quanto diverso, Pilade proclama l’esigenza di un ritorno al passato per la polis che si sta trasformando, mentre Oreste vorrebbe applicare le regole della nuova dea, di Atene.
C’è un legame intenso tra Atena, dea della luce, e Oreste, che a causa di quella luce non riesce a vedere nel buio della sua origine, cioè nel ventre materno, là dove lui ha esercitato la sua vendetta. Dunque Atena lo ha aiutato ma nello stesso tempo lo ha reso cieco. Atena ha eliminato la forza del sacro dal suo destino, ha ricollocato le Furie nei luoghi da dove non riescono più a produrre danni alla città. Per questo, alla fine della tragedia, Pilade rinnega Atena, rifiuta la forza consolatrice della Ragione. La Ragione può produrre un blocco storico, può rivelarsi una restaurazione. Diventare cioè una giustificazione per chi vuole un progresso senza la presenza del sacro. Qui Pasolini pensa a un potere di sinistra miope, che non riconosce l’irrazionalità e l’oscurità, che non capisce l’azione del sacro. «Va nella vecchia città la cui nuova storia non voglio conoscere»: così dice Pilade ad Atena. E maledice ogni Dio, ogni forma di Dio incarnato.
Ma può esistere ancora il sacro?
Credo sia necessario risalire all’enunciazione del sesso sacro dell’Ospite, cioè al momento in cui Pasolini crea l’ipotesi che sia possibile una forma d’amore diversa che ancora deve mostrarsi. Un amore che si crea dopo la distruzione, attraverso la distruzione. Un amore che fa i conti con il sacro. Ma che non necessariamente si manifesta tragicamente. Penso che Pasolini andasse verso la direzione di un oltrepassamento del tragico che implica proprio una nuova forma di erotismo, liberandosi dall’eccesso di densità e di implicazioni che avevano accompagnato la sua vita di autore.
Ma se non ci può essere conciliazione, Pasolini rimane “centauro”, o meglio il suo pensiero resta sempre duale, mai dialettico, allora non possiamo considerare mai concluso il suo rapporto con le Furie. Per questo Pasolini è anche Edipo, che ritrova nell’origine del canto l’esile speranza della salvezza, è Pilade, che va al di là della religione di Atena per capire quanto Atena ha nascosto sotto la sua Ragione maschile. Spinto da questa forza, egli si pone sempre sul confine tra due mondi, là dove la luce si distacca dal buio, là dove si esce da un sogno per cadere nel risveglio. Là dove la ragione cerca di circoscrivere le zone del sacro, di riconoscerlo, di renderlo visibile e praticabile attraverso parole e immagini.
Venti incontri, venti parole, venti biblioteche, venti oratori, venti podcast: cento anni di Pasolini. Un ciclo di incontri e di testi affidati a scrittori e esperti per attraversare l’immaginario pasoliniano, un progetto Doppiozero in collaborazione con Roma Culture.
L’incontro di mercoledì 11 novembre sarà con Marco Antonio Bazzocchi, presso la Biblioteca Laurentina di Roma alle ore 11. Qui il programma completo.
ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA: "NOTE" PER ELEUSI 2023
KOENIGSBERG (1784), KALININGRAD (2022), E MISTERI ELEUSINI:
Dopo interi millenni di labirinto e di platonismo per il popolo (Nietzsche), con Hegel e Holderlin, andare oltre Hegel e Holderlin e prepararsi a ripensare la storia della Terra-Madre (Demetra), M->Arianna, e rendere omaggio a ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA #CULTURA 2023.
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STORIA, FILOSOFIA, E MEMORIA. HEGEL,
"A HOLDERLIN" [dalla lettera dell’agosto 1796]:
ELEUSI" *
"[...]
Ah! Se da sole ora le porte del tuo santuario si spezzassero,
o Cerere, tu che in Eleusi avevi il trono!
Ebbro di entusiasmo, io proverei ora
il fremito della tua vicinanza,
comprenderei le tue rivelazioni,
interpreterei l’alto senso delle immagini, udrei
gli inni nei banchetti degli dei,
gli alti detti del loro consiglio -
Pure i tuoi atri sono ammutoliti, o dea!
Il cerchio degli dei è fuggito dall’Olimpo
degli altari consacrati,
fuggito dalla tomba dell’umanità profanata
il genio innocente, che qui li incantava! -
La saggezza dei tuoi sacerdoti tace; non un suono dalle sacre
iniziazioni si è salvato fino a noi [...]"
* Cfr. G. W. F. Hegel, "Eleusis, Carteggio. Il poema filosofico del giovane Hegel e il suo epistolario con Hölderlin", Mimesis edizioni 2014 - ripresa parziale).
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"LETTERATURA EUROPEA" E "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI": DEMETRA (LA TERRA-MADRE) ED ELEUSI 2023...
A) L’ORACOLO DI APOLLO AI TROIANI, A DELO: "[...] la #terra da cui traete origine,/ prima culla dei padri, vi vedrà ritornare/ nel suo seno materno, reduci. Su, cercate/ l’antica #madre! [...]" (Virgilio, Eneide, III, 114-117).
B) GIUNONE (E LA RICERCA DI FREUD): "Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo" (Virgilio, Eneide, VII, 312)
C) L’EDIPO COMPLETO (FREUD) E DEMETRA: ELEUSIS 2023. "[...] Rimane ancora aperta la questione della Madre, di cui oggi parlano in pochi. Non si tratta né di ruolo, né di funzione. Si tratta di codici. Perché la Legge del Padre si stabilisca nel modo giusto, è necessaria, a mio avviso, la fiducia nella persona, incarnata nel codice affettivo materno. Ciò che mantiene sempre il legame sociale, anche quando appare spezzato. Sembra che di ciò, in tutto questo importante discorso sui padri, ci si stia dimenticando." (Pietro Barbetta, "Presenza/Assenza del padre", Doppiozero 7 Gennaio 2014).
LA MALATTIA DELL’EUROPA, FRANCO FORNARI (1981) E... L’EDUCAZIONE ALLA "PACE PERPETUA" *
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Franco Fornari sviluppò la sua ricerca a partire dalla convinzione che la psicoanalisi potesse aiutare
l’uomo a risolvere non solo i conflitti intrapsichici ma anche quelli interpersonali, istituzionali e
sociali. Il suo progetto di educare alla pace lo in portò ad indagare i meccanismi inconsci che
alimentano la guerra fra i popoli.
A questo dedicò numerosi libri: Psicoanalisi della guerra atomica
(1964), Psicoanalisi della guerra (1966) e La malattia dell’Europa (1981). Il suo pensiero ricevette
una grande attenzione internazionale alla Conferenza dell’ONU sulla pace a New York e il suo
impegno lo portò a diventare membro del Comitato Mondiale di ricerca sulla pace.
“Giunto così in modo un po’ concitato alla fine della mia ricerca sulla malattia dell’Europa, vorrei darle un nome. Poiché i processi patologici che ho individuato sono molteplici e intricati, anziché elencarli in una lunga perifrasi, vorrei condensarli con il mito di Tieste.
Questo mito racconta che tra i due fratelli Atreo e Tieste, correva un’inimicizia mortale.
Il nome di Atreo rimanda agli Atridi: Agamennone e Menelao, appunto, quelli della guerra di Troia. Poiché Agamennone, il capo dei greci, è figlio di Atreo, la sua genealogia rimanda ad una struttura perversa del potere familiare, che sembra dare una luce sinistra alla guerra di Troia, la prima grande guerra.
Dice dunque il mito che i due fratelli Atreo e Tieste si odiavano a morte. Un giorno però Atreo propose al fratello la riconciliazione e la coesistenza pacifica. Venuto il giorno della pace, Atreo offrì al fratello Tieste un banchetto imbandito con la carne dei suoi bambini, sgozzati davanti all’altare. La guerra di Troia ha dunque nella sua genealogia l’odio tra fratelli.
Ricordando Tieste, propongo di chiamare “Tiestopa” la malattia dell’Europa. Come nel mito greco, gli accordi di Yalta dicono di un odio mortale tra americani e russi, i fratelli vincitori della Seconda guerra mondiale. La divisione dell’Europa dice che a Yalta c’è stato un banchetto, nel quale le due grandi potenze, vincitrici, fingendo la pacificazione, si sono costituite come pseudogenitori dell’Europa, e hanno messo in atto un’intesa apparente, dandosi reciprocamente da mangiare i popoli europei, come simulazione di pace. Il mito dice dunque che gli accordi di Yalta sono un signum mali ominis: un segno di cattivo auspicio. Nel mito possono essere letti i presupposti di una nuova guerra di Troia, in era nucleare: dell’ultima grande guerra dell’Occidente.
La malattia dell’Europa è sospesa tra la Seconda e la Terza guerra mondiale. Questo significa che la cura della malattia dell’Europa è essenziale per evitare la Terza guerra mondiale e può essere fatta solo attraverso la liberazione dell’Europa dalla sovversione perversa e crociata degli Usa e dell’Urss in una rivoluzione culturale pacifica che è la condizione necessaria e sufficiente per evitare al mondo la maledizione dei discendenti di Atreo.” (Fornari F., 1981 pag 203-204)
* Fonte: Società Psicoanalitica Italiana
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
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Costanza d’Altavilla, la monaca imperatrice
«Quest’è la luce de la gran Costanza / che del secondo vento di Soave / generò ‘l terzo e l’ultima possanza».
di Fulvio Delle Donne *
Sono i versi con cui Dante, nel III canto del Paradiso (vv. 118-120), presenta Costanza d’Altavilla. Ci troviamo nell’ultimo cielo, quello della Luna, dove si trovano gli “spiriti difettivi”, che hanno il grado più basso di beatitudine, perché i loro voti furono non adempiuti o trascurati in parte. A parlare è Piccarda Donati, la quale indica un’anima splendente alla sua destra, che ha vissuto la sua stessa esperienza: anch’ella fu suora e le fu tolto forzatamente il velo, pur se in seguito rimase in cuore fedele alla regola monastica. È l’imperatrice Costanza d’Altavilla, che dall’imperatore Enrico VI (secondo vento di Soave) generò Federico II di Svevia (‘l terzo e l’ultima possanza).
Costanza fu figlia del normanno Ruggero II d’Altavilla, il primo re di Sicilia, e nacque nel 1154, poco dopo la morte del padre. Trascorse l’infanzia a Palermo e rimase molto a lungo nubile, fino a 32 anni, un’età, per l’epoca, davvero avanzata. È possibile che proprio da ciò sia nata la voce della monacazione di Costanza, resa immortale dai versi danteschi: si tratta, probabilmente, solo di un’invenzione posteriore, che poi fu accreditata in vario modo. A partire dal secolo XIV, infatti, vari monasteri si contesero l’onore di aver ospitato tra le loro mura l’imperatrice, come monaca se non addirittura come badessa.
Non si sa quasi niente di Costanza fino al suo fidanzamento per procura (ad Augusta il 29 ottobre 1184) e al matrimonio con l’erede al trono degli imperatori Svevi, Enrico VI, figlio di Federico I, il Barbarossa. Nell’estate del 1185 Costanza lasciò per la prima volta la Sicilia per andare a sposarsi. Il re di Sicilia Guglielmo II (suo nipote: era figlio di Guglielmo I, di cui Costanza era sorella) accompagnò personalmente, per un tratto, Costanza e il suo spettacolare seguito di uomini, cavalli e muli. A Foligno incontrò lo sposo e assieme si recarono a Milano: le nozze furono celebrate il 27 gennaio 1186 in S. Ambrogio con grande pompa.
In quel momento ancora non poteva essere prevista l’effettiva successione di Costanza sul trono siciliano. Il re Guglielmo II era ancora abbastanza giovane (aveva 32 anni) per generare figli. Ma tra la fine del 1189 e la prima metà del 1190 tutti gli eventi cambiarono verso! Il 18 novembre 1189 si spense Guglielmo II e il 10 giugno 1190 morì in Oriente (mentre effettuava la sua crociata) anche Federico Barbarossa. A Enrico VI spettava ora l’impero, a Costanza la Sicilia: assieme potevano essere signori dell’Europa!
Tutta l’attenzione di Enrico, da quel momento, si concentrò sul Regno dell’Italia meridionale, quel pontile nel centro del Mediterraneo che permetteva a chi lo possedeva di dominare il mondo. In Sicilia, però, la situazione non era pacifica: la nobiltà di corte aveva approfittato dei diffusi sentimenti antitedeschi per privilegiare una “soluzione nazionale”, eleggendo re il conte Tancredi di Lecce, un nipote illegittimo di Ruggero II, che il 18 gennaio 1190 fu incoronato re di Sicilia.
Bisognava fare in fretta e bisognava scendere in Italia a rivendicare il trono: il lunedì di Pasqua (15 aprile 1191) papa Celestino III, a Roma, in San Pietro, incoronò solennemente Enrico e Costanza imperatore e imperatrice. Poi proseguirono verso sud, tentando invano di conquistare il Regno ma fermandosi a Napoli e a Salerno, dove Costanza fu catturata dai nemici. La conquista sarebbe riuscita solo tre anni dopo. Entrato a Palermo, nel Natale del 1194 Enrico fu incoronato re di Sicilia. Il giorno dopo, con coincidenza strabiliante, il 26 dicembre 1194, Costanza diede alla luce a Jesi, nella Marca anconetana, l’erede al trono Federico II.
Quando Federico nacque, Costanza era quarantenne, anche se alcune fonti le accrebbero gli anni fino a 55 e oltre. A causa dell’età matura della madre, al suo primo parto, già i contemporanei guardarono con aperto sospetto a questa nascita. Negli anni successivi, soprattutto quando cominciarono i contrasti più accesi tra Federico II e il fronte composto da papato e Comuni, si andò diffondendo sempre più la voce che Costanza avesse simulato il parto, perché era troppo anziana per avere un figlio. Fu per contrastare tale diceria, che se ne inventò un’altra, ancora più fantasiosa, cioè che il parto era avvenuto sulla pubblica piazza, sotto una tenda, perché tutta una comunità potesse essere chiamata a testimoniare l’effettualità dell’evento.
Per due anni Costanza resse il regno in assenza del marito, che tornò solo nella primavera del 1197: nel maggio di quell’anno fu sventata una congiura contro Enrico, ordita, forse, dalla stessa Costanza. Poco dopo l’imperatore si ammalò e morì il 28 settembre 1198 a Messina: secondo alcune dicerie era stata Costanza ad avvelenarlo. In qualunque modo stessero i fatti, la situazione era assai delicata e richiedeva misure rapide ed efficaci. L’interesse della madre era quello di garantire la successione al figlio. E per farlo si accordò col papa, che unico poteva proteggerlo; in questo modo riuscì a far incoronare Federico re di Sicilia il 17 maggio 1198.
A partire da quel momento si sarebbe, però, dovuta mettere da parte qualsiasi rivendicazione del titolo imperiale, che pure sarebbe spettato a Federico. Era stato Innocenzo III - il più potente propugnatore delle supreme prerogative papali, colui che amò definirsi verus imperator - a pretenderlo, per timore che i territori della Chiesa si trovassero accerchiati, da nord e da sud, da un unico signore, troppo potente per essere contrastato facilmente.
Le cose sarebbero andate diversamente e Federico sarebbe stato incoronato imperatore nel 1220, ma frattanto, il 27 novembre 1198, Costanza morì a 44 anni. Nel suo testamento nominava papa Innocenzo III reggente del Regno e tutore di Federico, che allora aveva solo 4 anni.
Ecco, tra storia e mito questa è la vicenda di Costanza d’Altavilla, una monaca imperatrice che generò in tarda età un figlio destinato a mutare la storia del mondo. Una donna destinata a vivere di luce riflessa: quella di Dio, nel paradisiaco cielo della Luna, e quella del figlio, il grande Federico II di Svevia, che protesse fino alla fine, come solo una madre può fare.
* FONTE: FESTIVAL DEL MEDIOEVO (ripresa parziale, senza immagini).
Sotto gli occhi dell’Agnello
“L’uomo secolare non sa cosa pensare”, scrive Calasso all’inizio di Sotto gli occhi dell’agnello, libro postumo, non so se più sorprendente o più incandescente. Non sa pensare rispetto alle molteplici denominazioni elaborate dalle varie religioni per indicare il divino, cioè il senso ultimo del mondo. In realtà però Calasso, riflettendo sull’Apocalisse e sul Polittico di Gand che riprende la figura dell’Agnello mistico, seppe bene cosa pensare e chiunque legge queste sue pagine solenni e severe è indotto a farlo a sua volta.
Apocalisse letteralmente significa “rivelazione”, prima ancora “smascheramento” (il significato base di apokalupto è “denudare”). Qual è lo smascheramento operato dall’Apocalisse? Leggendo gli alti e allusivi pensieri di Calasso si può individuare al riguardo un triplice processo.
Dapprima vi è lo smascheramento della Storia e della sua logica dominatrice, il Potere. Nell’Apocalisse c’è un termine che compare spesso (38 volte ricorda Calasso), theríon, bestia: “Theríon è il Grande Predatore... se riaffiora dalla terra, si torna vicini all’origine - o alla fine”. Nei secoli passati furono in molti a rintracciare il Grande Predatore in questo o quel tiranno e anche oggi qualcuno lo potrebbe identificare con chi comanda al Cremlino. Ma ben più che identificarsi in un uomo, esso simboleggia una logica: theríon cioè rimanda a una teoria, al segreto con cui acquisire e mantenere il potere, segreto che consiste nell’oppressione, fino allo sgozzamento, degli innocenti. Nella violenza ...
Dopo la Storia, è la volta della Natura. L’Apocalisse afferma che l’Agnello viene immolato apò katabolês kósmou (13,8), espressione che dalle versioni bibliche più autorevoli (tra cui Vulgata, Lutero, King James) viene intesa in senso temporale e causale: “immolato fin dalla creazione del mondo”, “immolato a causa della creazione del mondo”. Perché il mondo possa esserci l’Agnello deve morire. Perché? Come spiegare il legame tra uccisione dell’Agnello e creazione? Calasso pone la domanda che egli stesso definisce “ultima”: “Chi lo sgozza?”. Ricorda che l’Agnello è prefigurato da Abele, prima vittima della storia; poi dal Servo di Isaia che è “come agnello condotto al macello”; infine trova compimento in Gesù, indicato dal Battista come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, l’Agnus Dei della liturgia. Ma Calasso non si ferma alle prefigurazioni e pone la questione di chi volle lo sgozzamento dell’Agnello fin dall’inizio del mondo e la sua risposta è: “Yahwé ha voluto che l’agnello venisse anche ucciso. Altrimenti la macchina del mondo non si sarebbe messa in moto”. Il carburante della macchina del mondo è il sangue innocente, perché la vita si nutre di vita producendo inevitabilmente morte: ecco il secondo svelamento. Capendo questo, avvertendone il peso oppressivo fino a sentirsi colpevoli per il solo fatto di esistere, si può giungere a non sopportare più la vita e a voler “restituire il biglietto”, per riprendere l’espressione posta da Dostoevskij sulle labbra di Ivan Karamazov. È quanto fecero Carlo Michelstaedter, Cesare Pavese, Guido Morselli, Alexander Langer, per fare solo alcuni nomi tra i molti spiriti sensibili che si tolsero la vita non potendo più sopportare di vivere “sotto gli occhi dell’Agnello”.
Il terzo smascheramento non è voluto dall’autore dell’Apocalisse ma è colto con acutezza da Calasso e riguarda il cristianesimo e il suo destino. Se è vero infatti che la Bestia sarà sconfitta, lo sarà con le sue stesse armi: la violenza e la guerra. È quindi impossibile non chiedersi: si tratta veramente di vittoria dell’Agnello o è piuttosto la sua definitiva sconfitta? Se l’Agnello per vincere deve ricorrere ai metodi del Drago, non è diventato egli stesso Drago? Calasso sostiene di sì, scrive che l’Apocalisse è “antitetica a ogni parola di Gesù” e che, collocata a conclusione del Nuovo Testamento, lo ha “sfigurato”. Conclude quindi che l’Apocalisse (da lui definita “libro di vendetta”, che “ignora i dubbi”, il cui autore “era un uomo astioso”, la cui lingua grezza è “un’offesa al greco”) è “l’autodistruzione del cristianesimo”.
È davvero così, l’Apocalisse è un tradimento del messaggio di Gesù? Sì, ma con questo opera un ulteriore smascheramento che riguarda proprio Gesù, su cui Calasso non si sofferma ma che a me preme chiarire. Gesù era convinto che il mondo sarebbe stato presto visitato da un evento che l’avrebbe radicalmente cambiato rendendolo di nuovo dominio di Dio e non più di Satana da lui chiamato “il principe di questo mondo”: annunciando l’imminente venuta del regno di Dio, Gesù aveva in mente questa totale trasformazione della storia. Il mondo però ha proseguito incurante il suo cammino continuando a esigere l’immolazione di tanti altri agnelli indifesi, dopo di lui. Con la sua violenza l’Apocalisse tradisce il messaggio di Gesù ma ne svela al contempo l’infondatezza storica e l’impraticabilità concreta. Il risultato di tale aporia si manifesta nel modo più evidente ai nostri giorni nella mente dell’uomo secolare, che per questo, ormai, “non sa cosa pensare”.
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Harukichi Shimoi: il samurai tra Dante, D’Annunzio e Mussolini
Un giapponese a Fiume tra ju-jitsu, imprese aeronautiche e studi danteschi.
di Leonardo Palma *
Tra il novembre 1951 e il marzo 1952, Indro Montanelli soggiornò in Giappone per raccontarne il dopoguerra. Durante il rigido inverno, incontrò un vecchio poeta giapponese che gli avrebbe fatto da guida, un uomo piccolo, tozzo e brutto, con un’unica linea di folte sopracciglia resa ancora più densa dagli spessi occhiali da ipermetrope. Non parlava italiano ma solo il dialetto napoletano e, trovatosi di fronte a un piatto di spaghetti e ad un fiasco di Chianti, «mentre la sua forchetta arrotolava con partenopea pazienza i fili di pasta», confessò a Montanelli che:
Harukichi Shimoi era nato nel 1883 nei pressi di Fukuoka, quarto figlio del samurai Kikuzo Inoue. Il cognome Shimoi viene dal suo padre adottivo, l’architetto, commerciante di legnami e futuro suocero, Kisuke Shimoi. Quest’ultimo adottò il ventiquattrenne Harukichi nel 1907 in seguito ad una grave crisi economica che aveva ridotto sul lastrico la sua famiglia, un evento piuttosto comune tra le famiglie samurai che non avevano accolto con entusiasmo le trasformazioni dell’epoca Meiji.
Harukichi studiò alla Scuola Magistrale di Tokyo, l’attuale Università di Tsukuba, e ottenne la laurea in anglistica. Iniziò ad insegnare in un liceo femminile ma poco tempo dopo fece uno di quegli incontri che ogni tanto danno una svolta inaspettata alla vita delle persone.
Conobbe il traduttore, critico letterario e anglista Bin Ueda, fondatore del movimento modernista nipponico Pan No Kai, e fu introdotto da quest’ultimo alla Divina Commedia.
Shimoi cadde malato per l’amore di Dante, cominciò a raccogliere libri e studi danteschi, traduzioni in francese, tedesco, inglese e fondò la Dante Toshokan, la prima Società Dantesca Giapponese. Si iscrisse alla Gaikoku-go-Gakko, la Scuola Speciale di Lingue Straniere, ed iniziò a studiare l’italiano, più o meno negli stessi anni in cui l’italianista Yamakawa Heisaburo traduceva in giapponese l’Inferno.
Nel 1915, Shimoi decise di trasferirsi in Italia e grazie all’Ambasciatore Alessandro Guiccioli, un marchese ravennate, tipico rappresentante della carriera di età liberale, ottenne l’incarico di lettore di lingua giapponese al Reale Istituto Orientale di Napoli, la più antica scuola di sinologia europea. Tra i quartieri popolari e il notabilato cittadino, al mattino Shimoi leggeva nei caffè la rivista di Vincenzo Siniscalchi, L’Eco della Cultura, poi dopo aver pagato raggiungeva la bancarella di Via Toledo dove don Gaetano Pappacena, storico libraio analfabeta, lo intratteneva con i racconti della storia della città.
Grazie all’amicizia con l’ispanista Gherardo Marrone, Shimoi fu introdotto nei salotti bene di Napoli e prese a frequentare gli ambienti culturali dell’avanguardia che all’epoca subivano il fascino del futurismo, l’audacia delle sperimentazioni artistiche, la spinta utopistica di certe ideologie primo-novecentesche. Egli si legò in particolare allo scultore Raffaele Uccella ed a Elpidio Jenco, entrambi propugnatori di una visione artistica che aderiva ai principi futuristi dell’artecrazia teorizzata da Marinetti.
Fu in questo ambiente fecondo di arte e lettere e politica rasente l’utopia, quello raccontato così bene da Luciano Caruso in Futurismo a Napoli, che Shimoi maturò come intellettuale e poeta, ripetendo quel miracolo che la generazione dei suoi genitori, ad eccezione forse proprio del padre, avevano compiuto all’indomani dell’arrivo delle cannoniere di Perry. Accolse lo straniero, si immerse nelle acque di una cultura estranea, ne bevve dalla fonte e ne uscì come “scugnizzo giapponese”, italiano in tutto tranne che nel suo essere giapponese.
Forse, soltanto chi ha avuto la fortuna di conoscere quei giapponesi cresciuti in Occidente può capire questo miracolo di incontaminata contaminazione. Un giorno, di ritorno da Roma, Shimoi noleggiò una carrozzella, chiese al conducente di portarlo dal suo amico, il compositore Giovanni Ermete Gaeta, e il vetturino, vedendo solo uno straniero, commentò in dialetto gli abusi che avrebbe perpetrato sul suo ignaro cliente. Chiese una cifra spropositata per la corsa a cui Shimoi rispose domandando chiarimenti. «È pure surdo stu scemo!».
Al che il piccolo giapponese gli si fece accanto, lo prese per il bavero e con le pupille ridotte a due fessure minacciò in perfetto napoletano:
Negli anni che precedettero il baratro della guerra verso cui la locomotiva europea stava ciecamente correndo, Shimoi continuò ad insegnare all’Orientale e grazie al suo amico Morone pubblicò le prime raccolte di poesie e scritti giapponesi sulla rivista La Diana, tipico zibaldone novecentesco con uno scritto a mo’ di prefazione di Benedetto Croce. Quest’ultimo rappresentava in quegli anni il principale teorico della poesia pura e diede a Morone il coraggio necessario per pubblicare giovani intellettuali, futuristi, neoliberisti, metafisici, dadaisti, oltre alle sperimentazioni di Saba, Ungaretti e Onofri.
La rivista rappresentava cioè una avanguardia nella trasformazione della poesia italiana che, lentamente, stava cercando di perseguire l’ideale della purezza, del frammentarismo, di quel simbolismo di marca francese che sarebbe poi sfociato nell’ermetismo di cui Ungaretti e Montale furono padri putativi. In quel primo numero Shimoi pubblicò alcune traduzioni in prosa di componimenti giapponesi che, tradizionalmente, sono caratterizzati da immediatezza ed essenzialità. Ciò che Mallarmé definiva “il senso misterioso degli aspetti dell’esistenza”, la poesia che “dona autenticità al nostro soggiorno, e costituisce il suo compito spirituale”.
Proprio gli haiku giapponesi, componimenti nati nel periodo Edō, esprimevano questo mistero in appena tre versi di 17 more. Musica della matematica, numeri che cantano. La raccolta ebbe un immediato successo e divenne l’oggetto di un libro pubblicato nel 1917, curato da Shimoi e Marone, intitolato Poesie giapponesi. Nell’introduzione, Shimoi ricordò che il Giappone era il paese meraviglioso della poesia, dove
Giovanni Papini ne lodò i contenuti sul Mercure de France e anni dopo denunciò l’influsso della “moda giapponese” lanciata da Shimoi e Marone sugli sperimentatori italiani di quegli anni, soprattutto Ungaretti. Quest’ultimo, almeno fino al 1959, rifiutò sdegnosamente ogni parentela con la poesia nipponica ma la ricerca incentrata sulla parola come valore idealtipico, assoluto, non poteva non ricordare la sintesi dell’estremo oriente. Così Saffi e Jenco accostarono Porto Sepolto a Nobutsume Sasaki e Suikei Maeta.
Al contrario, Saba rivendicò i suoi esperimenti nel segno della poesia giapponese, sperimentazioni che chiamò “piccoli giocattoli” e che rientrarono in un libercolo quasi in miniatura di 40 composizioni di tre versi, intitolato Intermezzi giapponesi. Come spesso accade, una fatica generata dalla passione ebbe un influsso determinante sulla nascita di quella sensibilità letteraria da cui sarebbe sbocciato il fiore dell’ermetismo.
Poi venne la guerra. Harukichi Shimoi, professore uso a tradurre poesie, chiuse il suo ufficio e volle conoscere il fronte come inviato de il Mattino e il Mezzogiorno. Nel 1914 il Giappone si schierò al fianco dell’Intesa, vinse la Kaiserliche Marine tedesca a Tsingtau e, tre anni dopo, inviò l’incrociatore Akashi e alcuni cacciatorpediniere nel Mediterraneo per operazioni antisommergibile. Shimoi si sentì fin da subito partecipe di quella tragedia e grazie alle sue conoscenze riuscì ad eludere l’obbligo per la stampa straniera di restare nelle retrovie e raggiunse la prima linea.
Grazie all’intervento dell’ambasciata nipponica, egli fu raccomandato dal generale Caviglia, ex addetto militare a Tokyo e in quel momento comandante in capo delle truppe italiane, dal senatore regio Giuseppe De Lorenzo, geografo e orientalista, e dal Ministro Francesco Saverio Nitti. La guerra italiana vista da un giapponese raccoglie l’epistolario di Shimoi e le sue corrispondenze con De Lorenzo e Nitti. Quest’opera, da un punto di vista letterario scarna, disadorna, discontinua, incerta sintatticamente ma forzatamente schietta e sincera, si inserisce perfettamente nel solco delle opere di altri come Il Giappone in armi di Barzini, Kobilek di Soffici, Trevelyan e il suo Scenes from Italy’s war, Poore, Fairbanks, Page, e su tutti Hemingway.
Ciò nondimeno, in Shimoi quel fascino tipicamente marinettiano per la guerra bella - “più bella della Vittoria di Samotracia” - urtava l’evidente senso di smarrimento di fronte al dramma della morte e della sofferenza. Shimoi cercava nella carne ferita e nello spirito orgoglioso degli italiani quel senso di pietà e dignità che aveva scoperto in Dante. Se doveva scendere agli inferi, Shimoi voleva credere che fossero popolati da anime dannate ma comunque umane, anche di fronte al peccato e al dolore della pena.
Le trincee dovevano essere la guerra / sì del cammino e sì de la pietate. In una lettera a Corrado Pavolini del 1929, Ungaretti ricordava che durante la guerra, tra lo sporco delle trincee e i rumori delle artiglierie:
Shimoi disse di non aver interesse per la gloria spinta dalla vanità, bensì per l’eroismo puro, “perciò divino”, di giovani e vecchi che compiono ogni giorno atti straordinari senza essere ricordati da nessuno. Per lui Enrico Toti, umile operaio mutilato della gamba destra che si arruolò volontario e morì in trincea, era degno della più altra tradizione dell’aristocrazia guerriera giapponese.
Sotto la medesima coltre di umiltà, Shimoi descrisse il salvataggio di un soldato italiano ferito dalla mitraglia austriaca: gli fasciò la gamba martoriata, se lo caricò a spalla e lo portò al posto di medicamento. Quando il giovane italiano gli chiese chi fosse, egli rispose soltanto di essere un giapponese amante dell’Italia:
Tra le cime dell’Adamello, le mulattiere del Pasubio o le acque del Tagliamento e del Piave, nulla seppe però attrarre quel piccolo giapponese come le truppe degli Arditi. L’Ardito, la “più potente scultura del genio latino” secondo D’Annunzio, il “guerriero più simile a quello di Maratona” che diede un nome e una divisa al coraggio e che meglio di qualunque altro corpo personificò quel misto di anarchismo, genio e amor di patria che da sempre caratterizza il popolo italiano.
Un decennio più tardi, Mario Carli ricordava come, all’inizio, gli Arditi fossero poco più che “una leggenda bella e misteriosa” tra i fanti del suo battaglione, fino a quando una fredda notte del 1917 alla Sella di Dol, sul San Gabriele, li videro andare alla carica. E tutti capirono che chiunque, anche i vecchi, potevano essere uguali a loro.
Per Carli, all’Italia liberale ormai in età da pensione era mancata fino ad allora una formula che desse sostanza alla bellezza e alla temerarietà dell’eroica giovinezza, almeno fino alla nascita del futurista della guerra: l’Ardito. Scapigliato, libero, guascone, agile, sfrenato, “la forza gaia dei vent’anni che scaglia le bombe fischiettando i ricordi del Varietà”, mutata nell’avanguardia della Nazione in guerra.
Shimoi guardò a questi avvenimenti come ad una possente trama tessuta da divinità latine, uno sbocco rivoluzionario inevitabile che riuniva in sé lo spirito dei suoi antenati Samurai e il genio dei popoli mediterranei. Si dice che egli si fosse arruolato volontario tra gli Arditi e che avesse insegnato loro il karate tra le trincee del Carso ma si tratta di un romantico falso storico. Shimoi seguì le truppe scelte in combattimento come corrispondente di guerra, non come volontario, e la divisa e la qualifica di Ardito onorario furono un regalo da parte del generale Caviglia o, su raccomandazione di D’Annunzio, del capitano Carli. Nondimeno all’epoca il karate non era ancora conosciuto neanche in Giappone, veniva praticato esclusivamente ad Okinawa ed era chiamato toudi o tote-jutsu.
Funakoshi Gichin, considerato il padre del karate moderno, fu invitato soltanto nel 1922 a dimostrare la sua arte al Congresso di Educazione Fisica di Tokyo. Non è possibile neanche che Shimoi avesse insegnato agli Arditi il judo, non soltanto perché in quegli anni veniva ancora chiamato Kano-Jujitsu, ma perché non abbiamo prove che quest’ultimo avesse mai incontrato il prof. Kano o studenti del Kodokan prima del 1928. Tuttavia, le fonti sono concorde nell’affermare che Shimoi abbia insegnato qualcosa agli Arditi italiani ed è dunque possibile ipotizzare che si sia trattato di tecniche di ju-jitsu di una vecchia scuola (koryu) di famiglia.
Il padre biologico di Harukichi, del resto, era un vecchio samurai. Quel tipo di ju-jitsu era quanto rimasto dello yoroi kumi-uchi, la lotta in armatura, che prevedeva tecniche di leva, prese, spazzate, blocchi, per portare l’avversario a terra in mischia, sottometterlo e infliggere il colpo di grazia con l’arma corta (kodachi) solitamente alla gola, alla cervice o sotto le ascelle per arrivare al cuore.
Una tecnica adattabile alla scuola di coltello degli Arditi. Quest’ultimi venivano addestrati a Sdricca di Manzano, effettuando esercitazioni di assalto a fuoco su “colline tipo”, con il lancio corto di bombe a mano, le famigerate Thévenot, l’uso di mitragliatrici, fucili, lanciafiamme e la lotta con il coltello. A Shimoi, gli Arditi italiani ricordavano gli Sciro-Dasuhi di Port Arthur durante la guerra russo-giapponese, soldati armati unicamente di katana che indossavano una camicia bianca con le maniche strette da un nastrino bianco (sciro-dasuki) e un asciugamano intorno al capo.
L’Ottocento, quell’epoca che traeva gioia dal durevole, dall’incedere della tradizione e delle abitudini, si spegneva nell’effervescenza della gioventù; non risvolto demografico, bensì promessa di futuro, mito dell’uomo nuovo, di un ordine nuovo. E niente rese maggiormente palpabile questo anelito ad una palingenesi del mondo quanto le avanguardie culturali ed ideologiche del primo Novecento, tutte accomunate dalle suggestioni dell’infiammarsi, dell’accendersi, dell’ardere, del bruciare.
La fiamma di Marinetti, il fuoco di D’Annunzio, l’Incendiario di Palazzeschi, il “pensiero che si fa fiamma” di Carlo Michele Stetter, la Scintilla di Lenin, ognuna di queste esperienze segnalava il disperato desiderio della combustione del mondo. La generazione dei padri aveva costruito un mondo di “calma e voluttà”, quella dei figli aspirava con il loro ardimento a renderlo un fuoco perenne e in questo attrito di forze il Novecento divenne il secolo più breve di tutti, mentre qualcuno, come Proust, si rendeva conto che la nostalgia spaziale dei soldati svizzeri sradicati dalle loro valli nel ‘600 sarebbe presto divenuta dolore per una lontananza di tempo.
Tra questi due estremi, Shimoi apparteneva sinceramente al primo: la resistenza sul Piave, l’attraversamento del Tagliamento, la liberazione di Trento e Trieste, la mitraglia, l’assalto all’arma bianca, quel fiotto di adrenalina ed energia pura, come la poesia che egli ricercava a Napoli, dovevano essere quanto di più vicino ci fosse all’appagamento di un desiderio sessuale, intellettuale, spirituale.
Nella guerra e nei suoi drammi vide il compimento assoluto di quell’Italia ideale che aveva intravisto in Dante, in Cavalcanti, in Petrarca, in Leopardi. Essa c’era perché era, e poteva essere solo grazie al sacrificio di una gioventù che, ribaltando il pensiero di Cattaneo, ″infiammava l’Italia a surgere in armi″. Shimoi volle essere partecipe della felicità della sua patria adottiva e il 3 novembre 1918, alla liberazione di Trento, fu il primo ad entrare in piazza e, con la coccarda tricolore al petto, si diresse al monumento dedicato a Dante Alighieri e qui:
L’incontro con Gabriele D’Annunzio avvenne sul finire della guerra. I due poeti si videro a San Nicolò in Veneto, il Vate indossava su quel corpo secco ed emaciato un carico di medaglie che sembravano farlo vacillare ad ogni passo incerto e per salutare Shimoi, lui che era già piccolo, dovette inchinarsi.
Gabriele D’Annunzio e Shimoi ebbero un rapporto privilegiato. I due, giunti per strade sì diverse da così lontano, trovarono qualcosa l’uno nell’altro, un sentire comune che D’Annunzio definì un ricordo d’acqua e d’anima.
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Anni dopo, il Vate avrebbe ricordato come i giapponesi, gli unici a ″sentire l’odore del sangue″, fossero tra i pochi a possedere quella sensibilità d’animo necessaria per capire le sue opere. Per suggellare l’affratellamento, Shimoi propose a D’Annunzio l’avventura di un volo Roma-Tokyo; un tema, quello aeronautico, che anche l’interpretazione di Italo Balbo - chi vola vale, chi non vola non vale, chi vale e non vola è vile - non può che rimandare a quell’ansia di azione e movimento, di conquista, di superamento, e di affermazione di libertà in potenza.
La Sarfatti ne venne a conoscenza e scrisse al Vate, ansiosa di partecipare al raid: “Vi prometto assoluta obbedienza ed assoluta segretezza”. Nel Fastello della mirra, D’Annunzio avrebbe poi ricordato che da tempo pensava ad un volo verso l’oriente, non Odissea di un animo inquieto ma conquista spirituale, come ″i tre latini″ che recarono un’ampolla di olio al Santo Sepolcro dopo un lungo cammino da Acri. Ma gli eventi di Fiume lo costrinsero ad abbandonare l’impresa e degli stormi che partirono soltanto Arturo Ferrarin e Guido Masiero - “... il giovane eroe sostò sull’Alpe e si addormentò nella gloria gelida. ... Ho perduto il mio pilota. La sorte mi permetterà di ritentar la prova?” - giunsero a Tokyo.
I due aviatori furono accolti come eroi liberatori, quaranta giorni di festeggiamenti e il dono da parte del principe Hirohito di un kimono e di una katana delle collezioni imperiali a cui fece da rumoroso screzio la sorda indifferenza italiana, adusa alla polemica e mai alla riconoscenza. Ferrarin inchiostrò tutta la sua amarezza nelle pagine de “Il mio raid Roma-Tokyo”, ma volle anche dedicare quell’opera:
Il mondo di ieri incrociava lo zenit, quello dell’ardimento futurista passava pel nadir. D’Annunzio scrisse a Shimoi mentre i suoi legionari si armavano, dolendosi di non poter “vedere fiorire il pesco nella terra di Tokyo”. Gli offrì il suo posto nella carlinga:
Proprio a Fiume si concluse l’ultimo atto di D’Annunzio, la corsa che lo avrebbe trasformato da poeta-eroe a poeta-condottiero, uno sforzo di volontà sì forte da cangiar la vita in arte. Quel manipolo di irregolari, di legionari in cui si fusero senza ordine ufficiali, socialisti rivoluzionari, arditi, futuristi, nazionalisti, anarchici, sindacalisti, furono il suo verso più duraturo. L’estetica, che secondo il capitano Carli era ″avviata da un potente respiro di umanità″, tramortì Apollo e risvegliò all’ebbro Dioniso, e quel che era nato come un atto politico travolse se stesso e divenne prima vita-festa, poi vertigine rivoluzionaria e infine declinò in duello fratricida che, come sempre accade in Italia, si tinse dei colori della commedia tragica.
Si presentò a D’Annunzio vestito da Ardito, gli consegnò l’onorificenza di Cavaliere del Sol Levante e un messaggio di incoraggiamento. Il Vate lo abbracciò, lo nominò caporale d’onore della sua guardia del corpo e gli offrì un banchetto insieme ai suoi legionari durante il quale pronunciò un discorso augurale per il futuro del Giappone, intravedendone il riscatto morale e il suo ruolo guida nella resurrezione della Grande Asia. Funesta premonizione ai principi ideologici che guidarono lo spietato governo militare di Tokyo negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Da quel momento in avanti, D’Annunzio prese a chiamare Shimoi “camerata-Samurai”, lo coinvolse in scherzi alle truppe ma, soprattutto, lo usò come emissario con Benito Mussolini, all’epoca direttore de Il Popolo d’Italia e fondatore dei Fasci di Combattimento.
Shimoi usciva segretamente da Fiume assediata e raggiungeva Milano, consegnava a Mussolini le reprimende del poeta per lo scarso supporto e ne raccoglieva le confidenze e i malumori. “T’invio questo fratello Samurai”, scrisse la prima volta D’Annunzio. In poco tempo, anche nel futuro Duce crebbe la stima per quel giapponese venuto da così lontano. Proprio nel fascismo movimentista e sansepolcrista, quello più genuinamente rivoluzionario, ribelle, Shimoi intravide la cura per il suo paese natio.
Ciò nondimeno, il trapianto del fascismo in Giappone fu limitato all’espressione puramente estetica dello stesso, poiché il militarismo nipponico si caratterizzò sì per una ideologia ultranazionalista ma anche per la sua sincretica originalità. Negli stessi giorni in cui D’Annunzio portava i suoi legionari a Fiume, Ikki Kita pubblicava il Nihon kaizo hoan taiko (Linee di un progetto di ricostruzione del Giappone) che, in modo assai superficiale, è stato considerato come l’omologo orientale del Mein Kampf.
In esso, Kita sosteneva la necessità della nascita di un Impero rivoluzionario che avesse la forza di contrastare l’ordine internazionale occidentale e divenire la guida dei popoli asiatici. Shimoi condivideva le riflessioni di Kita ma credeva che la rivoluzione dovesse essere spirituale, prima ancora che politica e per questo si spese affinché il fascismo italiano desse i suoi frutti anche tra la gioventù nipponica.
Nell’atmosfera effervescente di Fiume, tra critici cinematografici, letterati, intellettuali, soldati, scrittori provenienti dalla Francia, dalla Russia sovietica, dalle regioni magiare e balcaniche, il poeta giapponese potrebbe aver ispirato a sua volta le radici ideologiche dell’associazione segreta Yoga, fondata dall’aviatore Guido Keller e nutrita di suggestioni orientali vagamente inquietanti come il culto della svastica indiana.
Gli offersero la cattedra di yamatologia succedendo al Balbi e negli anni seguenti s’impegnò nella divulgazione della poesia e della cultura giapponese, pubblicando a proprie spese la rivista Sakura e una annessa raccolta di libri. Intorno al giornale gravitarono numerose personalità artistiche di quegli anni come Nicola Maciariello, Rodolfo Vingiani, Attilio Colucci, Nakamura Kozo, Dan Koreyoshi e Yozano Akiko di cui pubblicò un piccolo capolavoro dal titolo Onde del mare azzurro.
Ma come nella poesia di Salvatore Di Giacomo, per Shimoi quegli anni furono solo un intermezzo ad un periodo in cui “ll’aria s’è fatta scura...‘O tempo se revota”. Nel 1921 fu assunto come interprete dall’ambasciata giapponese ed organizzò un incontro nella sede milanese del Popolo d’Italia tra Mussolini e alcuni diplomatici e deputati. Nell’ottobre dell’anno successivo fu tra le camicie nere che marciarono su Roma, forse una delle poche teste pensanti lì in mezzo, e poco tempo dopo, insieme al biografo del Duce Beltramelli, fondò la prima associazione culturale italo-giapponese.
Nel 1923 accompagnò due documentaristi, Masutomi e Itoi, che erano stati incaricati dal Ministero dell’Istruzione del Giappone di realizzare un film sulle meraviglie del mondo, a Napoli, Firenze, Venezia, Roma, ma volle che la loro macchina da presa non catturasse soltanto quella che lui chiamava l’Italia archeologica, bensì quella “viva e pulsante” di Enrico Toti, di Beccastrini, minatore cieco ed eroe di guerra, e della nave-asilo Caracciolo dove la ″Montessori dei mari″, Giulia Civita Franceschini, educava gli orfani napoletani. Convinto delle affinità elettive tra l’Italia e il Giappone, Shimoi volle poi che i due documentaristi potessero incontrare il Duce e riprenderlo mentre passeggiava o faceva il saluto romano.
Come Fiume fu figlia dell’ingenuità poetica di D’Annunzio, così lo fu l’ammirazione che Shimoi provava per il Duce. Quest’ultimo si appassionò alla cultura giapponese e lo stesso De Felice commentò gli estremi di questa ″simpatia″ in un articolo del 1988, ricordando come Mussolini fosse rimasto impressionato dalla storia dei samurai Byakkotai i quali, dopo essere stati sconfitti e convinti della morte del loro daimyo, fecero seppuku per rispettare il patto di fedeltà che li aveva legati in vita al loro signore.
Memore di questa epopea raccontatagli da Shimoi, nel 1928 il Duce donò al governo giapponese una colonna pompeiana, decorata con la scultura di un’aquila in bronzo forgiata da Duilio Cambellotti, che ancora oggi adorna la collina Limori-Yama e la cui targa commemorativa ricorda il sacrificio dei guerrieri Byakkotai. Questo interesse fu duraturo, non transitorio, e nel 1924 Mussolini accettò la proposta di Shimoi di fare da testimonial per una famosa bevanda analcolica giapponese, la Calpis, e scrisse di suo pugno un messaggio alla gioventù nipponica esaltando la vicinanza tra il fascismo italiano e lo spirito del Bushidō (Via del Guerriero) giapponese.
La campagna pubblicitaria fu un successo e questo diede a Shimoi lo slancio per fondare un movimento politico extraparlamentare - il Partito della Gioventù Imperiale - e per pubblicare una serie di opere sul Duce e sul fascismo, da “Fassho Undo a Gyorai no se ni matagarite” (Cavalcando sul retro di un siluro), da “Shinto Ponpeo o tou tame ni” (una guida artistica a Pompei) fino alle traduzioni di libri e discorsi del Duce, inclusa la sua tesi di laurea Preludio al Machiavelli. Quelle stesse traduzioni, inclusa quella in italiano di una commedia satirica su Mussolini e il delitto Matteotti che sarebbe poi stata sottoposta a censura, gli sarebbero costate l’espulsione dall’università negli anni ’50 per propaganda a favore dell’Asse.
Durante gli anni Venti e i primi anni Trenta, Shimoi continuò a fare la spola tra il Giappone e l’Italia, lavorando alacremente alla promozione e agli scambi culturali tra i due paesi. Fu l’interprete del prof. Jigoro Kano, il fondatore del Judo, quando quest’ultimo venne a Roma nel 1928 per incontrare esponenti del governo, della diplomazia e delle forze armate italiane, tra cui il maestro Carlo Oletti, marinaio e pioniere della lotta giapponese in Italia. Sul quotidiano L’Impero, Shimoi scrisse che:
Gli echi della sua personale visione dell’arditismo e della cultura guerriera sono evidenti. Dopo essersi fatto fotografare a Palazzo Venezia nel 1926 insieme a Mussolini, aveva dichiarato:
In Shimoi il sentimento incedeva sul pensiero politico poiché, scavando a fondo, egli rimaneva un poeta e un letterato, dunque un ingenuo come tutte le anime belle. E come tutti gli ingenui che arrivano a conoscere i propri idoli, alla fine ne rimase inevitabilmente deluso. Nonostante l’impegno profuso nel fondare un pensiero che fosse autenticamente nipponico ed altrettanto autenticamente fascista, senza contare le energie spese nella propaganda a favore del regime italiano anche in casi deplorevoli come la guerra etiopica, Shimoi decise di allontanarsi dalla politica e ritirarsi in un angusto cono d’ombra dopo l’abbraccio tra Mussolini e Hitler.
Continuò a credere nella necessità storica di un socialismo a carattere nazionale ma sentì anche montare la diffidenza nei confronti dei disegni di egemonia mussoliniana e hitleriana:
Forse, in fondo, aveva sempre saputo che si trattava di fesserie. “Fesserie sono tutte. Tutto quello che l’uomo fa è una fesseria ... E questa è la cosa più grande che mi abbia insegnato Napoli”. Shimoi trascorse la Seconda Guerra Mondiale lontano dalla politica, traducendo in giapponese l’opera di D’Annunzio, sforzo che avrebbe eccitato la voracità intellettuale di Yukio Mishima verso lo studio dell’italiano.
Quando nel 1940 gli fu chiesto, in occasione delle celebrazioni dell’Amicizia Italo-Giapponese, di scrivere un articolo, tenne chiusi nel baule della memoria i suoi trascorsi e indirizzò alla rivista una raccolta di poesie con piccole note critiche a margine. Sua figlia aveva deciso di restare in Italia durante la guerra e sarà proprio lei ad ospitare, grazie alla protezione dell’ambasciatore barone Shinrokuro Hidaka, Claretta Petacci per alcuni giorni.
Shimoi fu poi assunto dal Corriere della Sera come corrispondente dall’Estremo Oriente ed una delle poche ricostruzioni dell’attacco di Pearl Harbor da parte giapponese porta la sua firma. L’impegno per il quotidiano milanese finì nel 1943 con la caduta del fascismo ed a quel punto Shimoi decise di riprendere in mano la sua passione per Dante. Volle portare a compimento la nascita di una Casa Dante Alighieri a Tokyo ma come il bambino che scrive in riva al bagnasciuga durante una marea, così il suo sogno fu travolto dalle bombe alleate.
Durante l’occupazione che seguì alla sconfitta, Shimoi toccò con mano il problema delle epurazioni. Fu infatti interdetto dall’insegnamento, salvo poi doverlo richiamare quando si resero conto del valore altissimo della sua arte oratoria e della sua poetica in quanto:
Si riavvicinò un poco alla politica soltanto negli ultimi anni della sua vita, quando convinzioni anticomuniste lo spinsero verso il Partito Conservatore di Mamoru Shigemitzu, quello stesso ministro che subì l’onta di dover firmare la resa a bordo della corazzata americana Missouri il 2 settembre 1945. Quando Montanelli lo raggiunse a Tokyo, Shimoi gli procurò incontri con politici, aristocratici, diplomatici, e lo accompagnò perfino a conoscere suo nipote, l’unico kamikaze scampato alla morte perché la dichiarazione di resa giunse poco prima di calarsi nella carlinga.
Davanti a quel piatto di spaghetti, Shimoi assaporò ancora una volta un po’ d’Italia e si confidò. Ricordava ancora la prima volta in cui aveva consegnato una missiva di D’Annunzio a Mussolini:
Un giornalista americano si accorse della bottiglia di Chianti sul loro tavolo, illuminandosi. Fece cenno a Montanelli e quest’ultimo, con gentilezza, ne versò un calice. Il vecchio Shimoi gli afferrò il braccio, con il volto cinereo e la voce tonante: «Un bicchiere di Chianti a un Americano? Un esercito per combattere i Russi, sì, glielo diamo, e sono pronto anch’io. Ma un bicchiere di Chianti, mai...O almeno non prima di altri mille ottocento anni di storia». Si alzò in piedi, guardò torvo l’americano che non capiva una parola e in perfetto napoletano proseguì: «E se per questo mi vogliono epurare, mi epurino pure. Io ‘cca sto!».
Come in quello scritto introduttivo di Croce al primo numero de La Diana del 1915, raccontare Harukichi Shimoi significa difenderne la virtù imperfetta. Il suo filofascismo e l’adesione ad un nazionalismo di stampo militarista portatore di nefande conseguenze furono il peccato di un carattere che non fu privo di virtù.
“Non so quanto valga Shimoi come scrittore giapponese”, rispose Montanelli ad una studentessa che gli chiedeva notizie del professore, “come uomo e come amico valeva moltissimo. Non smetterò mai di rimpiangerlo”.
Nel dicembre del 1954, il cuore da Ardito italiano di quel piccolo giapponese si fermò per sempre.
“E se per questo mi vogliono epurare, mi epurino pure. Io ‘cca sto!”.
Eia, Eia, Eia, Alalà!
La maggior parte delle citazioni in questo articolo sono tratte da:
Pautasso, G., Un Samurai a Fiume. Harukichi Shimoi, Oaks Editrice, 2019;
De Felice, R., Le simpatie nipponiche di Mussolini, in Relazioni Internazionali, anno I, n. 2, 1988, pp. 45-58;
Ferrarin, A., Il mio volo Roma-Tokyo, Idrovolante Edizioni, 2019;
Guerri, G.B., Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, Mondadori, 2019;
Peluso, A., ″Il Judo nelle Forze Armate Italiane″, in Il Giappone, vol. 41, 2001, pp. 97-103;
Gatti, R., In alto il ferro. Scherma di pugnale per Arditi, Audacia, 2016;
Rochat, G., Gli Arditi nella Grande Guerra. Origini, Battaglie e Miti, Le Querce, 2017.
* Fonte: "Harukichi Shimoi: il samurai tra Dante, D’Annunzio e Mussolini", Rivista "Contrasti", 31 maggio 2020 (ripresa parziale - senza immagini).
NOTA*
ALL’ESCORIAL, CON FILIPPO II, NEL 1584: "(...) A Madrid in festa per la pubblicazione delle nozze di Catalina Micaela con Carlo Emanuele di Savoia e per il giuramento del principe Filippo come prossimo sovrano di Castiglia, furono ricevuti da re Filippo che li accolse in compagnia delle infanti e li gratificò di tutti gli onori possibili senza tener conto della differenza di rango tra sé e quei piccoli (non soltanto per ragioni anagrafiche) principi che gli presentarono lettere nelle quali i daimyo loro genitori chiedevano il suo aiuto perché la religione cattolica trionfasse in Giappone” (cfr. Angelantonio Spagnoletti, “#FilippoII”, Salerno Editrice, Roma 2018, pp. 223-224).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
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SHAKESPEARE CON QUINTO ORAZIO FLACCO: "AMLETO", CON "ORAZIO": UN OMAGGIO AD HAROLD BLOOM.
L’OTTIMALE "VIA DI MEZZO" (AUREA MEDIOCRITAS) SUL PIANO PERSONALE E SUL PIANO POLITICO:
"REMENBER ME" (AMLETO, 1.5.91): LA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" DI SHAKESPEARE. Se Ulisse è lo specchio di Amleto, c’è da dire che Shakespeare solo con "Orazio" (come Dante, con Virgilio) riesce a ben guidare la sua nave oltre Scilla e Cariddi e oltre le colonne d’Ercole, come più e meglio di Francesco Bacone...
TEATRO FILOSOFIA E MEMORIA. Ricordando il ruolo straordinario del poeta e drammaturgo Ben Johnson ( 1572-1637), amico dello stesso Shakespeare e, come lui, grande protagonista della scena culturale della Londra del loro tempo (nel 1601 tradusse l’ «Arte poetica» di Orazio e scrisse la commedia "The Poetaster", dove si racconta appunto di Orazio e due poetastri che lo invidiano), si possono ben comprendere le ragioni che portano Harod Bloom a mettere in evidenza il ruolo eccezionale di "Orazio" nello stesso "Amleto":
"Nel 1809 August Wilhelm von Schlegel osservò che «Amleto non ha una profonda fiducia in sé stesso né in nessun altro», compresi Dio e il linguaggio, aggiungerei io. Naturalmente, vi è Orazio, che Amleto elogia fino all’eccesso, ma Orazio sembra esser lì per rappresentare ’amore del pubblico verso il principe. Orazio è il nostro #ponte verso l’oltre, verso quella curiosa ma inconfondibile trascendenza negativa che conclude la #tragedia" (Harold Bloom, "Shakespeare. L’invenzione dell’uomo" ["Shakespeare: The invention of the human", 1998], Rizzoli, Milano 2001).
***
P. S. - SHAKESPEARE E PARMENIDE. SUL FILO DI QUESTA SAGGIA INDICAZIONE DI HAROLD BLOOM, forse, è meglio riprendere la domanda sull’ «essere, o non essere». La questione della trascendenza è un epocale problema metafisico e, come tale, comporta una revisione radicale dell’antropologia filosofica tradizionale (Amleto->Kant) e sollecita a ritornare ad Elea con Orazio (Epist. I, 15):
"Com’è l’inverno a Velia
e il clima di Salerno,
questo mi devi dire, Vala,
com’è la gente che vi abita,
in che condizioni è la strada."
LA "DIVINA COMMEDIA", LA "NASCITA DELLA TRAGEDIA", E LA "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" DELL’EUROPA.
Il "Sogno" di Shakespeare sembra essere quello di portare "Amleto" ... al di là della "Tempesta", di pensare un orizzonte culturale europeo che porti Ulisse-Amleto al di là della logica della "guerra di Troia" e dell’assalto dei Proci alla sua Casa e alla sua Reggia.
Quando Sofocle tirò fuori la memoria di Edipo, lanciò l’allarme: gli Ateniesi e le Ateniesi stavano dimenticando la lezione dell’#Iliade e dell’Odissea e risprofondando nella tragedia. Così con Nietzsche e Freud, agli inizi del "secolo breve", la campana comincia a suonare a martello...
Federico La Sala
AMLETO, ODISSEA E DIVINA COMMEDIA.
CON LAERTE (Amleto, I.3), SHAKESPEARE richiama l’intera Odissea (e non solo): ci dice che è in ’compagnia’ non solo con il padre di Ulisse e con gli Argonauti, ma con l’intera tradizione culturale europea (laica e religiosa): rispondere alla domanda di Amleto ("essere, o non essere?") non è una "barzelletta", è l’antica domanda della Sfinge (Edipo). Per Shakespeare significa voler dare una risposta la più possibile all’altezza dell’antropologia, della teologia, e della politica del tempo (e dell’eternità) e vincere (la peste e) la morte!
IL DOPPIO CORPO DEL RE: IL "CORPO MISTICO" DI AMLETO. Nelle parole di Laerte alla sorella Ofellia sulla persona di Amleto (I, 3) è detto tutto il problema teologico-politico su cui si arrovella Shakespeare (e l’intera cultura inglese ed europea - di ieri e, non ancora, di oggi): "Forse lui ora ti ama, e per ora / Non cè macchia o furbizia a sporcare /La virtù della sua volontà. Ma, / Pesata la sua dignità [di Principe], devi temere / Che la sua volontà non sia la sua / Perché lui stesso è suddito della sua nascita. / Lui non può, come una persona qualunque, Fare le sue Scelte. Dalla sua scelta infatti / dipendono la sicurezza e la salute / dell’intero stato. Essa perciò / Deve essere approvata dalla voce e dal consenso / Del corpo di cui lui è la testa. E dunque, / Se dice che ti ama, la tua saggezza gli creda / Fino al punto in cui, nella sua posizione, / Possa dar corpo alle sue parole, non oltre, / Se i più, in Danimarca, sono contrari. / Valuta allora quale perdita il tuo onore / Può subire, se con credulo orecchio / Ascolterai le sue canzoni, o smarrirai il tuo cuore [...]" (trad. di Agostino Lombardo).
ECCE HOMO. La ricerca di Shakespeare si colloca alla stessa altezza del cammino di Dante Alighieri: ritrovare la via d’accesso al paradiso terrestre e ricostruire la "monarchia temporale"! Con la sua Opera, e con l’Amleto in particolare, Shakespeare cerca di ridisegnare (al di là di ogni pretesa androcentrica,fondamentalistica e imperialistica) la figura dell’Ecce Homo (di ogni essere umano) e la forma della terra promessa ’sognata’ dall’intera umanità!
Federico La Sala
"MENTE ESTATICA" E "SCHIZOFRENIA DELLA SALUTE":
RITORNARE A HÖLDERLIN.
Una ipotesi-chiave per reinterpretare «“Pallaksch”, la parola magica di Hölderlin». *
In memoria di Elvio Fachinelli e di Rubina Giorgi...
*
"LA PAROLA MAGICA DI HÖLDERLIN: [...] Come nota Christoph Theodor Schwab nel suo diario del 1841, il #poeta malato aveva escogitato, e usava con predilezione, l’espressione #pallaksch, che si poteva prendere per un ‘sì’ o per un ‘no’ e che gli serviva come espediente per evitare l’affermazione o la negazione.
FriedrichHölderlin s’inchina e entra nella “torre” del falegname Ernst Zimmer nel 1807. Due anni prima lo avevano dichiarato ipocondriaco, “la sua #follia è diventata furiosa”, scrive il dottor Müller, a cui, da Homburg, è chiesta una perizia medica. In particolare, annota il #dottore, “i suoi discorsi paiono incomprensibili, parte in tedesco, parte in greco e in latino”. La fatale follia di Hölderlin si celebra in linguaggio, catabasi nell’incomprensibile. Hölderlin resta nella “torre” più di trent’anni, morirà nel giugno del 1843. [...]
Nello studio su «Hölderlin. «L’arte della parola» (IL Melangolo, 1979), Roman Jakobson ci porge la parola #pallaksch. “Una volta, mentre gli si facevano parole pressanti, Hölderlin fu preso da movimenti convulsi e si ebbe da lui solo ‘un terribile, confuso profluvio di parole senza senso’. Oppure Hölderlin preferisce semplicemente rifiutare la risposta... Alla continua contraddizione fra sì e no nel modo di parlare di Hölderlin, Waiblinger ha ‘innumerevoli volte’ prestato attenzione”. Il poeta non vuole rispondere perché non ammette la logica umana, non vi appartiene: sì e no accerchiano in scelte innaturali - non certo esclusive, escludenti, piuttosto -, che concimano morte. Non esiste ragionevolezza né opposizione nel mondo autentico, dove le “parole senza senso” sono la sola poesia possibile. Pallaksch è una specie di amuleto, una parola magica, il passepartout per tutte le visioni, da sbandierare di fronte a chi pensa per superfici piane e progressive, per convenzioni. A te, che ragioni in trapezi e rettangoli, la risposta: io resto sconfinato, opto per tutte le direzioni, dice il poeta. [...].
(cfr. «“Pallaksch”, la parola magica di Hölderlin. Il poeta si fionda nell’indicibile», Pangea, 03 Novembre 2020).
Federico La Sala
ORA E SEMPRE RESISTENZA: "L’#AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (Shakespeare, "Sonetto 116").
Per approfondire (e meglio comprendere) il senso del dire presente nel "Cimitero di Praga" di Umberto Eco ("Ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria. L’odio è la vera passione primordiale. È l’amore che è una situazione anomala. Per questo Cristo è stato ucciso: parlava contro natura."), forse, è opportuno riaprire il "Processo" di Kafka e, ricollocandosi "Nel Duomo" di Praga (e anche di #Milano), riprendere la lettura.... ricordandosi del "calavrese abate Giovacchino /di spirito profetico dotato» (Dante Alighieri, Paradiso, Canto XII, vv. 139-141).
Federico La Sala
RIVOLUZIONE COPERNICANA E RIFORMA TEOLOGICO-POLITICA IN CORSO: NUOVO CIELO E NUOVA TERRA.
Una nota*
La grandezza di Shakespeare e l’importanza del suo "Amleto" è analoga a quella di Sofocle e del suo "Edipo Re": della loro lezione, anche dopo la sollecitazione di Freud, si stenta ancora a capire il legame tra il familismo amorale e le manipolazioni istituzionali della Legge (divina ed umana).
Con Lutero (1517), con Copernico (1543), e Giordano Bruno (Nola, 1548 - Roma, 17 febbraio1600), Shakespeare osa aprire un dibattito nel suo globo teatrale che fa tremare tutto l’ordine teologico-politico e sociale precedente e seguente: riapre il discorso sulla dottrina dei "Due corpi del Re" (Ernst H. Kantorowicz)!
La critica dell’adulterio in "Amleto", connesso (come è) all’intero ordine istituzionale e collegato fin nel cuore dello stesso messaggio biblico ed evangelico, pone all’ordine del giorno lo "spaccio della bestia trionfante" e sgombra la strada alla dea Giustizia, alla Vergine Astrea (Virgilio, Egloga IV, V. 6: "Iam redit et Virgo").
*
NOTA.
Europa 1600: RegnodiNapoli->Nola->Salerno->Eboli->Contursi Terme, Chiesa della Madonna del Carmine, 1608/1613..
Federico La Sala
RISALIRE LA CORRENTE. Storia Filosofia, Antropologia, Psicoanalisi, e Costituzione (2giugno 2022).
Europa e Giubileo di Platino di Elisabetta II d’Inghilterra. Presente storico e storia di lunga durata...
Per riflettere sull’idea di sovranità (e l’individualità dello Stato), oggi, associare (come ha fatto qualcuno) la figura della regina Elisabetta II con il testo della "Filosofia del diritto" (& 279) di Hegel è un ottimo invito a svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant) e a riaprire la questione antropologica (e teologico-politica)!
Sollecita a ripensare la storia dell’Europa quanto meno dalla disfatta della Invincibile Armada, da Elisabetta I e da Shakespeare e, ancora, da Trafalgar e da Napoleone e, infine, dal successo di Hegel di proporsi (illuminato da Napoleone a Jena, 1806) come interprete della storia dell’ "anima del mondo", come figura del "Re del mondo"!
EDIPO, TEBE, E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (Freud, 1929). La questione antropologica e politica su cui si arrovella Shakespeare con il suo "Amleto" è ancora l’enigma della sfinge: "Che cos’è mai un uomo se del suo tempo non sa far altr’uso che per mangiare e dormire?" (Amleto, Atto IV, Sc. 4).
Federico La Sala
AMORE ("CHARITAS"):
LA FEDE DI DANTE, E DI SAN PIETRO,
E
LA FEDE DI SAN PAOLO.
Beatrice (Pd. XXIV, 34) chiede al "gran viro"(San Pietro) di verificare se Dante ha capito
la differenza tra la fede
in "Nostro Segnor" Gesù
(Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho anthropos»)
oppure
nel "Nostro Signore" di San Paolo, l’Uomo (Vir):
"sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo,
e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»],
e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
DANTE ALIGHIERI, SHAKESPEARE, E "ROMEO E GIULIETTA". Un problema di filologia, storia della letteratura e ...
ARTE E STORIOGRAFIA. UN QUADRO DI CESARE SACCAGGI, DAL TITOLO "INCIPIT VITA NOVA. DANTE E BEATRICE, 1903", più che richiamare la vita e le opere di Dante Alighieri richiama straniantemente l’immagine di "Romeo e Giulietta", quasi in tonalità per il film di Zeffirelli,1968).
Paradossalmente si potrebbe (quasi) ben pensare che il fraintendimento della situazione familiare di Dante sia stata prodotta inizialmente da un lavoro storiografico poco critico e, in seguito, da continui elementi di rinforzo come lo stesso successo dell’opera "Romeo e Giulietta" di Shakespeare.
DANTE IN INGHILTERRA. Da considerare che il quadro di Cesare Saccaggi (1903) viene dopo il grande lavoro portato avanti da Dante Gabriel Rossetti e dai preraffaelliti.
DANTE2021. Dopo secoli di sonnambulismo e di equivoci interpretativi, non è il caso di svegliarsi dal letargo (Par. XXXIII, 94) e cominciare a pensare semplicemente (come suggerisce lo stesso Dante Alighieri nella Divina Commedia) che la tradizionale e cosiddetta Beatrice Portinari non è affatto la Giulietta di Dante, ma la figura della sua stessa madre Bella degli Abati, morta quando egli era piccolo?!
Virgilio, nel raccontare a Dante dell’incontro con Beatrice, quando dice "E donna mi chiamò beata e bella" (Inf. II, 53), di chi sta parlando? Di Beatrice Portinari?!
Beata e Bella.... le idee straniantemente cominciano a diventare più chiare e luminose: la figlia di Dante, Maria Antonia, diventata suora, sceglie di chiamarsi suor Beatrice. Perché? Non vale la pena, forse, di riprendere a leggere la Comedìa.... finalmente!
Federico La Sala
Biografia.
La santità di Carlo, ultimo degli Asburgo e "patrono dei perdenti"
L’imperatore muore nel 1922 in esilio invocando ripetutamente il nome di Gesù. Papa Woytjla lo farà beato
di Maurizio Schoepflin (Avvenire, mercoledì 11 maggio 2022)
Quando, il 1° aprile del 1922, invocando ripetutamente il nome di Gesù, Carlo d’Asburgo muore, non ha ancora compiuto trentacinque anni. Una vita breve, la sua, che, da un punto di vista puramente umano, è stata caratterizzata da un susseguirsi di fallimenti, come ricorda Marco Andreolli nel libro L’ultimo Imperatore d’Occidente. Carlo d’Asburgo il ’santo patrono dei perdenti’ (San Paolo, pagine 176, euro 20). Succeduto nel 1916 al vecchio sovrano Francesco Giuseppe sul trono dell’impero austro-ungarico, Carlo si trovò nel bel mezzo della tragedia della Prima guerra mondiale, non riuscendo a evitarla, come avrebbe ardentemente desiderato, né a vincerla; dovette così assistere al dissolvimento dell’Impero degli Asburgo, che per secoli avevano dominato l’Europa, perdendo la corona più prestigiosa dell’Occidente; non gli fu possibile neanche conservare il proprio patrimonio personale, tanto che morì in povertà, a Funchal, nell’isola atlantica di Madeira, dove era stato esiliato, lontanissimo dalla sua Vienna; non vedrà neppure nascere l’ottava figlia, lui che, da padre buono e premuroso, avrebbe voluto dedicarsi intensamente alla sua numerosa e tanto amata prole; e la morte in giovane età lo privò anche della possibilità di vivere accanto all’adorata moglie Zita, che gli stette vicino fino all’ultimo respiro. Uno sconfitto, dunque? Forse sì, secondo la logica del mondo, ma non secondo quella del Vangelo.
Non casualmente, infatti, il tre 3 ottobre del 2004 il santo pontefice Giovanni Paolo II lo proclamò beato, dedicandogli le seguenti significative parole: «Il compito decisivo del cristiano consiste nel cercare in tutto la volontà di Dio, riconoscerla e seguirla. L’uomo di Stato e cristiano Carlo d’Austria si pose quotidianamente questa sfida. Ai suoi occhi la guerra appariva come qualcosa di orribile. Nei tumulti della prima guerra mondiale cercò di promuovere l’iniziativa di pace del mio predecessore Benedetto XV. Fin dall’inizio, l’Imperatore Carlo concepì la sua carica come servizio santo ai suoi popoli. La sua principale preoccupazione era di seguire la vocazione del cristiano alla santità anche nella sua azione politica. Per questo, il suo pensiero andava all’assistenza sociale. Sia un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica!».
Ben presto, dopo la sua morte, la figura e l’esempio di Carlo d’Asburgo cominciarono ad affascinare un numero sempre maggiore di persone e si moltiplicarono le preghiere affinché la Chiesa gli riconoscesse ufficialmente la fama di santità che si era guadagnato durante la sua breve e non facile esistenza. Marito esemplare - Andreolli sostiene che il felice matrimonio con l’amatissima Zita rappresentò il vero fulcro della sua vita -, genitore affettuoso, uomo politico attento alle necessità dei sudditi, cristiano austero e distaccato dai beni mondani, Carlo non distolse mai lo sguardo dal Crocifisso, accettando con fede e serenità le dure prove e le numerose sofferenze che la vita gli riservò.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
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ANTROPOLOGIA E AMORE CONOSCITIVO: GIASONE, MEDEA, "L’OMBRA D’ARGO" (DanteAlighieri, Par. XXXIII, 96), E UNA VIA D’USCITA DALLA TRAGEDIA... *
Una straordinaria donna moderna
(Dora Russel Ipazia e la guerra tra i sessi)
di Francesca Magni ("Letto fra noi", 29 gennaio 2013)
«Se volessimo aggiungere qualcosa alle conquiste di coloro che vennero prima di noi, dovremmo dire che per noi adesso il corpo non è più un semplice contenitore per la mente, ma quel tempio di gioia e di estasi che, se lo vorremo, già racchiude il nostro futuro.
Il compito fondamentale per il femminismo moderno, per me, è dunque quello di accettare e proclamare il sesso. Di seppellire per sempre la menzogna che per troppo tempo ha corrotto la nostra società, quella secondo la quale il corpo non è che un impaccio per la mente e che il sesso è solo un male necessario alla sopravvivenza della specie.
Comprenderlo, donargli dignità e bellezza, conoscerlo anche su base scientifica, in luogo dell’istinto brutale e dello squallore, credo sarà la chiave di volta a colmare la breccia fra Giasone e Medea» (pag, 38).
Rompo il lungo silenzio su questo blog - e mi scuso di questo silenzio, e vi ringraizio per non esservene andati - con una citazione. Vi invito a rileggere con una domanda: quando è stata scritta?
Difficile indovinare che parole così moderne siano uscite dalla penna di una donna nel 1925. Dora Russell, seconda moglie del filosofo Bertrand Russell, ci regala cento pagine colme di saggezza senza tempo, di impegno politico e civile, di riflessioni mai abbastanza assimilate su una parità fra i sessi che nasca dal riconoscere una verità: siamo, uomini e donne, uguali a cominciare dal bisogno naturale di una vita sessuale che non reprima gli istinti ma sappia guidarli con educazione e intelligenza. «Gli amanti sanno che attraverso l’intesa sessuale ciascuno comprende meglio le qualità della mente dell’altro» dice, ed è una consapevolezza che non a tutti è dato raggiungere.
È un testo imprescindibile che mette una parola di verità su tutte le ciance da guerra dei sessi. Un libro da regalare a tutti, uomini e donne, a chi ha vissuto gli anni del femminismo e a chi viene dall’onda di ritorno della generazione successiva. A questa, alla quale appartengo, dedico un brano su cui non si è ancora riflettuto abbastanza.
«C’è dunque qualcosa di sbagliato nell’educazione delle donne, e nel caso che cosa?
Penso proprio che dobbiamo rispondere affermativamente. E la ragione sta nel senso di inferiorità inculcato nelle donne da tanta oppressione, e il risultato inevitabile fu che il loro primo obiettivo, mentre combattevano dal basso, fosse quello di provare che valevano tanto quanto gli uomini.
Il secondo fu invece di dimostrare che potevano spassarsela tranquillamente anche senza gli uomini. Esattamente come il lavoratore, avanzando nella scala sociale, cerca di provare a se stesso di essere un borghese.
Entrambi gli sforzi sono sbagliati. Ciascuna classe ed entrambi i sessi hanno qualcosa di unico da dare al progresso, alla conoscenza, al pensiero di cui la comunità viene privata con questo scimmiottamento».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica -
L’EUROPA IN CAMMINO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
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L’IMPERO E LA CHIESA (BARI, 1936). Storia, storiografia, e sonno dogmatico.
Una nota a margine di una segnalazione ... *
Il 9 maggio 1936, Mussolini celebra "dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui Colli fatali di Roma". Il "5 settembre 1936", nella Basilica di San Nicola di Bari, è murata su una parete una lapide ben illuminata su cui è scritto:
Per capire le ragioni politico-culturali di questo "documento" del Comune di Bari, collocato "nello storico tempio del santo mediterraneo", nella Chiesa di San Nicola di Bari, forse, è bene ampliare lo sguardo intorno alla data del "5-SETT-MCMXXXVI" (5 SETTEMBRE 1936) e quanto meno ricordare gli accordi sottoscritti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929 (Patti Lateranensi) e al contempo "riascoltare" e rileggere il "Discorso di proclamazione dell’Impero", tenuto da Mussolini dal balcone di piazza Venezia la sera del 9 maggio 1936:
Il 1° marzo 1924, su "L’Ordine Nuovo", Antonio Gramsci aveva già scritto: "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, RomoloAugustolo". Evidentemente gli ideologi imperiali avevano ignorato la lezione di Dante sulla Monarchia e sui "venticinque secoli" (Par. XXXIII, 95), come quella di Goethe sui "tremila anni" ("Libro del malumore", 1819).
* Una "lapide che lascia perplessi!", si cfr. la segnalazione di Nicola Fanizza.
Federico La Sala
Della superiorità della commedia
Categorie italiane.
di Roberto De Gaetano (Fatamorgana web - n.19, 2022)
Categorie italiane, da poco ripubblicato da Quodlibet in una nuova edizione accresciuta, contiene il saggio più bello di Agamben, Comedìa. Partendo da Dante, Agamben ricostruisce attraverso la distinzione tragedia-commedia il destino della soggettività occidentale, la frattura tra natura e persona dopo la perdita dell’innocenza edenica, e il senso che acquista questa frattura nel passaggio dalla antichità classica al Medioevo.
Commedia e tragedia non definiscono meramente dei generi realizzati per la scena e lo spettacolo, ma individuano due mythos in quanto - aristotelicamente - forme di «imitazione dell’azione», che si distinguono non tanto per la tipologia sociale dei personaggi rappresentati quanto per i temi e le forme connessi agli intrecci. Nella Lettera a Can Grande, Dante scrive: «La tragedia dapprincipio è ammirabile e quieta, e nella fine o esito è rivoltante e terrificante. [...] La commedia comincia dalle difficoltà di un soggetto qualunque, ma la sua materia termina felicemente».
Ora, se ciò che conta è la fine e il suo essere migliore o peggiore dell’inizio, va valutato cosa significa esattamente questo. Nel mythos tragico il finale è espulsivo, e si conclude con la morte reale o simbolica (allontanamento dalla comunità) del personaggio, collocato in posizione isolata ed esposta; nel mythos commedico il finale è integrativo, e si conclude con l’inclusione sociale dei nuovi soggetti, spesso giovani che convolano a nozze dopo aver superato l’ostacolo posto dai vecchi.
Queste due forme generiche sono contrapposte, ma non del tutto. Tant’è che Platone conclude il Simposio dicendoci che «chi è poeta tragico per arte è anche poeta comico». Tragedia e commedia sono dunque distanti ma anche prossime, e possono essere soggette a capovolgimenti improvvisi. Come quando l’elusione tragica si ribalta in riconoscimento commedico (per riprendere il lessico di Stanley Cavell). È quello che accade in Racconto d’inverno di Shakespeare, quando solo il riconoscimento finale del re Leonte toglie la moglie Ermione dalla condizione “pietrificata” in cui la gelosia iniziale l’aveva condotta.
Che cos’è allora che avvicina e allo stesso tempo separa il tragico dal commedico? E qui Agamben tocca il cuore della questione, ritrovandola nella nozione di maschera. Sappiamo come quest’ultima sia legata, anche etimologicamente, alla persona, che è il dispositivo che costituisce il soggetto come scarto dalla natura. Lo scarto è determinato dall’azione intrapresa, indipendentemente dagli effetti che questa determinerà. E ogni azione è imputabile e dunque (potenzialmente) colpevole.
Nel tragico antico la colpa è naturale e la persona è innocente, o colpevole solo sotto un qualche rispetto: Edipo è e non è colpevole. Ma il punto decisivo è che l’eroe tragico non è colpevole “moralmente” e dunque le sue colpe non possono essere emendate. L’eroe è subordinato ad un destino irriscattabile. Con il Cristianesimo le cose cambiano, le colpe diventano personali e dunque emendabili: «Rovesciando il conflitto tra colpa naturale ed innocenza personale nella scissione tra innocenza naturale e colpa personale, la morte di Cristo libera l’uomo dalla tragedia e rende possibile la commedia» (Agamben 2021, p. 30).
Due straordinari film di Clint Eastwood, Mystic River e Gran Torino, mostrano letteralmente la differenza: il primo un tragico antico dove una violenza fondativa, il cui tratto indefinito la iscrive in una sorta di colpevole ordine naturale, segna il destino irriscattabile di tre amici; il secondo un sacrificio cristologico che apre ad un finale commedico: un Eastwood vecchio e malato si farà uccidere per dare nuova possibilità di vita al ragazzo. Tra i due film c’è una sorta di passaggio dalla «coscienza tragica» alla «redenzione cristiana» (Jaspers 1987, p. 24).
Questo passaggio coinvolge profondamente la maschera, la “persona aliena”. Se nel tragico la maschera viene a plasmarsi mimeticamente sul volto tanto da rendersi indiscernibile dal carattere e dal destino che lo segna, tant’è che carattere, destino e maschera coincidono nel nome proprio del personaggio (Edipo), nella commedia la maschera è sfilabile. E la sfilabilità diviene la forma di non-coincidenza tra soggetto e maschera, tra soggetto e destino. Il soggetto è ciò che non ha destino e che non rimane incastrato in una maschera. Il soggetto non coincide con la sua azione, e dunque neanche con l’intreccio. Anzi, come nel caso della commedia dell’arte, le maschere sono continua disponibilità ad entrare in sempre nuovi intrecci e trasformano l’azione imputabile in gesto comico, lazzo. Su questo Agamben interverrà in una potente riflessione sul comico a partire dalla maschera di Pulcinella: «La tragedia: un destino che non si è voluto, ma in cui si cade per un errore nell’azione, che, pertanto deve essere in qualche modo punito. La commedia: un carattere incorreggibile, come il suo errare, che non ha la forma di un’azione, ma di un lazzo» (Agamben 2015, p. 53).
Il transito dalla maschera tragica a quella comica, dall’uso “sconveniente”, cioè totalmente adesivo, che implica la prima, all’uso “conveniente”, cioè distaccato, della seconda, viene pensato per la prima volta in epoca tardo antica: «Tragica, per gli stoici, non è la maschera in sé, ma l’attitudine dell’attore che si identifica con essa» (Agamben 2021, p. 36). L’eroe tragico, identificato dalla sua maschera, a sua volta effetto di un intreccio, implica un attore adesivo, più che mimetico, alla “persona aliena”. L’anti-eroe comico porta con sé un attore che si manifesta, all’opposto, nella forma di uno scarto costante dalla maschera stessa (nella nostra tradizione novecentesca è sufficiente pensare a Totò).
Allora, il passaggio alla commedia per il tramite della personalizzazione della colpa comporta da un lato la socializzazione del processo di emendazione della stessa (la commedia è sempre sociale); dall’altro, liberando la “natura umana” dalle colpe e dalla necessità del destino, la commedia espone il soggetto come facoltà di essere sia questo sia quello; di essere dunque tra questo e quello, tra una maschera e l’altra, tra il soggetto e la maschera.
La commedia manifesta sempre il soggetto come facoltà (libera) e la tragedia come necessità. Da dove la sua superiorità. È la natura umana ad essere costitutivamente comica, perché segnata dall’inappropriabilità totale dell’esperienza da parte del soggetto. Di tale estraneità all’esperienza, la maschera comica è indizio esemplare, la maschera tragica scorciatoia elusiva ed illusoria, tesa alla cancellazione della distanza. Tragico è il destino dell’umano incapace di abitare la leggerezza dello scarto comico tra facoltà ed esperienza. È per questo che l’inoperosità, concetto chiave dell’ultimo Agamben, è da intendersi al fondo come concetto proprio della commedia. Non tanto paralisi contemplativa in uno stato teorico lontano dalla prassi, ma forma vera e propria in cui la prassi destituisce sia la sua effettualità sia la sua imputabilità e il soggetto si sente nella sua libera disponibilità.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Nottetempo, Milano 2015.
S. Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio,
Einaudi, Torino 1999.
K. Jaspers, Del tragico, SE, Milano 1987.
Giorgio Agamben, Categorie italiane, Quodlibet, Macerata 2021.
UNA QUESTIONE DI LANA CAPRINA E E IL "SOGNO" DELLA "DIVINA COMMEDIA" ...
Scambiare un montone, un ariete, con un caprone, e identificare capro espiatorio e agnello di Dio (René Girard, "Vedo Satana cadere come la folgore", Milano 2001), come è stato possibile? Accolta l’interpretazione del messaggio evangelico prodotta da Paolo di Tarso e, coerentemente, cancellata la differenza ta capro e agnello, pur con qualche diabolicità, Girard va avanti: "Satana fa del cattivo mimetismo, ciò che spero di non fare io stesso" (op. cit., 199). E, contro ogni speranza, la "caduta" nella profondità della Terra continua! Solo Dante, con Virgilio, riesce a vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) e, al contempo, a riandare alla sorgente del suo stesso essere, all’amor "che move il sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145), nel cerchio della vita.
ARIETE E CAPRICORNO: COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PARADISIO TERRESTRE"...
La brillantezza del lavoro di René Girard ha al proprio interno un nodo epocale da sciogliere, quello simbolizzato dal rapporto "Caino e Abele" (Bibbia) e "Romolo e Remo" (Roma): ha tentato di pensare un altro cristianesimo (al di là del sacrificio): è rimasto impigliato nella tradizione paolina e costantiniana (vale a dire, nell’orizzonte di Edipo) e, infine, a non avere alcuna cognizione "della Monarchia Universale [temporalis Monarchie]" di Dante, del suo progetto antropologico-teologico di costruzione di un nuovo "paradiso terrestre" e di una nuova Città, sì da essere "cive / di quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102).
Federico La Sala
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO vALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
LA RIVOLUZIONE FRANCESE, HITLER, E "LA STRANA DISFATTA". Una storia di lunga durata...
Marc Bloch così concludeva la sua riflessione sulla "strana disfatta": «Hitler diceva, un giorno, a Rausching: "Facciamo bene a speculare più sui #vizi che sulle virtù degli uomini. La Rivoluzione francese si richiamava alla virtù. Sarà meglio per noi fare il contrario". Si perdonerà a un Francese, cioè a un uomo civile - che è la stessa cosa - di preferire, a questo insegnamento, quello della Rivoluzione e di Montesquieu: "In uno Stato popolare è necessaria una forza, che è la virtù"»(Marc Bloch,"La strana disfatta. Testimonianza scritta nel 1940").
Appunti sul tema, nel sito, si cfr.
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
FLS
ARCHEOLOGIA, STORIA, E MEMORIA.
SERMONETA, I CARABINIERI SCOPRONO L’EPIGRAFE CHE PROVA LA VISITA DELL’IMPERATORE NEL 1452:
Una buona sollecitazione per ripensare l’Europa dell’attuale presente storico: Federico III d’ Asburgo (1415-1493), eletto Imperatore del Sacro Romano Impero nel 1440 (anno della Dotta Ignoranza di Niccolò Cusano e dell’opera di Lorenzo Valla sulla falsa donazione di Costantino), nel 1448 sottoscrisse il Concordato di Vienna con la Santa Sede, che rimase in vigore fino al 1806, e, ricevuta la corona d’Italia, fu l’ultimo imperatore ad essere incoronato imperatore a Roma; lo incoronò, il 19 marzo 1452, papa Niccolò V (...) Negli ultimi dieci anni di vita, Federico regnò congiuntamente a suo figlio Massimiliano; morì nel tentativo di amputazione della sua gamba sinistra, rivelando negli ultimi giorni di vita l’interpretazione del motto AEIOU. La tomba (...) nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna [...]".
RICORDARE. L’anno successivo, il 1453, è l’anno dell’ultimo assedio di Costantinopoli, detto anche "Caduta di Costantinopoli o Conquista di Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente (...). I Turchi Ottomani, guidati dal sultano Maometto II, soprannominato "Il Conquistatore", conquistarono la città il 29 maggio 1453, dopo circa due mesi di combattimenti".
FLS
La rivolta di Dostoevskij. Quel gesto disperato contro la filosofia di Hegel
di Alberto Manguel (la Repubblica, 25 luglio 2012)
Lo scrittore dei “Demoni” rifiutò con orrore la concezione della Storia formulata dal padre dell’idealismo: l’idea che passi inosservata l’esistenza dei singoli. Il principio perseguito dall’autore russo, secondo l’ungherese László Földényi, è che nessuno può essere estromesso dal corso delle vicende umane.
Devo la scoperta di László Földényi a Cees Nooteboom, che in uno dei suoi assalti epistolari insistette perché lo leggessi e mi inviò uno dei suoi saggi, Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere, pubblicato in italiano dal Melangolo qualche anno fa. Tra le tante vie che ci portano a leggere un libro (che hanno tutte qualcosa di misterioso) c’è quella del titolo. Magari non ci sentiamo immediatamente attratti verso un testo intitolato la Divina Commedia o Le contemplazioni, ma solo un cuore di pietra può resistere a Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere.
Io lo lessi immediatamente, tutto di un fiato, e poi lo lessi una seconda volta, e poi una terza: il contenuto non faceva assolutamente torto allo splendido titolo. La mia ignoranza dell’ungherese è assoluta e mi dovetti limitare perciò a leggere qualcuna delle opere di Földényi tradotte in spagnolo e in tedesco: sufficienti per giudicarlo un pensatore brillante, originale, lucido; ho seguito con piacere le sue illuminanti considerazioni filosofiche, storiche ed estetiche. I suoi libri sulla malinconia, l’arte e la critica sono dei capolavori.
Molto tempo fa, le scoperte di Copernico spostarono la visione autocentrata del nostro mondo su un’angolazione che da allora si è spostata sempre più in là, verso i margini dell’universo. La presa di coscienza che noi esseri umani siamo aleatori, minimali, un’apparecchiatura casuale per molecole autoreplicanti, non induce ad alte speranze o grandi ambizioni. Eppure, quello che Nicola Chiaromonte ha chiamato «il tarlo della coscienza» fa anch’esso parte del nostro essere, e pertanto, noi, queste particelle di pulviscolo cosmico, per quanto effimere e distanti siamo anche uno specchio in cui tutte le cose, noi stessi inclusi, ci riflettiamo. Questa modesta gloria dovrebbe bastarci. Il nostro passaggio (e, su una scala minuscola, il passaggio dell’universo insieme a noi) sta a noi registrarlo: un paziente e vano sforzo cominciato quando per la prima volta abbiamo iniziato a leggere il mondo. Chiamiamo Storia quella storia in svolgimento che pretendiamo di decifrare mentre la fabbrichiamo. Dostoevskij aveva capito tutto quando diceva che se la nostra fede nell’immortalità venisse distrutta, «tutto sarebbe permesso ». Così come la Storia, non abbiamo bisogno che l’immortalità sia vera per credere in essa.
Fin dall’inizio, la Storia è la storia raccontata dai suoi testimoni, vera o falsa che sia. Nell’VIII libro dell’Odissea, Ulisse elogia l’aedo che canta le sventure dei greci: «Tu narri quello che i Danai patirono e quanto patirono; uno tu sembri che era presente o che abbia udito da loro». Quel «sembri» è essenziale. La Storia quindi è la storia di quello che noi diciamo che è successo, anche se le giustificazioni che diamo per la nostra testimonianza non possono, per quanto ci sforziamo, essere giustificate.
Secoli dopo, in una polverosa aula di università in Germania, Hegel avrebbe diviso questa «invenzione di ciò che è avvenuto» in tre categorie: la prima è la Storia scritta dai presunti testimoni diretti (ursprünglische Geschichte); la seconda è la Storia come meditazione su se stessa (reflektierende Geschichte); la terza è la Storia come
filosofia (philosophische Geschichte), che alla fine si trasforma in quella che tutti chiamiamo Storia mondiale (Welt-Geschichte), la storia infinita che include se stessa nel racconto.
Immanuel Kant, in precedenza, aveva immaginato due diverse concezioni della nostra evoluzione collettiva: la Historie, che indicava il mero resoconto dei fatti, e la Geschichte, un’elaborazione ragionata di quei fatti, perfino un’a-priori Geschichte, la cronaca di un corso annunciato di eventi a venire. Per Hegel, quello che importava era la comprensione (o l’illusione della comprensione) dell’intero flusso degli eventi, compreso il letto del fiume e gli osservatori sulla riva, e per potersi meglio concentrare sul corso principale escludeva i margini, le pozze laterali e gli estuari.
Földény immagina che questo sia l’orrore scoperto da Dostoevskij: che la Storia, di cui sa di essere la vittima, ignora la sua esistenza, che la sua sofferenza passa inosservata o, ancora peggio, non assolve a nessuno scopo nel flusso generale della specie umana. Quello che Hegel propone, agli occhi di Dostoevskij (e di Földényi) è quello che Kafka dirà poi a Max Brod: «C’è speranza, ma non per noi». Il caveat di Hegel è ancora più terribile dell’esistenza illusoria proposta dagli idealisti: veniamo percepiti, ma non veniamo visti.
Un presupposto del genere, per Földényi, (e altrettanto dovette sembrare a Dostoevskij) è inammissibile. Non solo la Storia non può estromettere nessuno dal suo corso, ma è vero anche l’inverso: è necessario il riconoscimento di tutti perché la Storia possa essere. La mia esistenza, l’esistenza di qualsiasi uomo, è condizionata al vostro essere, all’essere di qualsiasi altro uomo, ed entrambi dobbiamo esistere perché Hegel, Dostoevskij e Földényi esistano, dato che noi (gli anonimi altri) siamo la loro convalida e la loro zavorra, noi li portiamo in vita leggendoli. È questo il significato di quell’antica intuizione che siamo tutti parte di un insieme ineffabile in cui ogni singola morte e ogni sofferenza specifica influenza l’intera collettività umana, un insieme che non è limitato da ciascun io materiale.
Il tarlo della coscienza mina la nostra esistenza, ma allo stesso tempo la convalida; non serve a nulla negarla, nemmeno come atto di fede. «Il mito che nega se stesso», dice Földényi saggiamente, «la fede che pretende di sapere: questo è l’inferno grigio, questa è la schizofrenia universale su cui è inciampato Dostoevskij».
La nostra immaginazione ci consente sempre una speranza in più, al di là della speranza spezzata o realizzata, una frontiera finora apparentemente irraggiungibile, che alla fine raggiungeremo solo per proporne un’altra ancora più in là. Dimenticare questa illimitatezza (come cercava di fare Hegel «potando» la sua concezione di quello che conta in quanto Storia) può riuscire a garantirci la piacevole illusione che ciò che avviene nel mondo e nella nostra vita sia pienamente comprensibile, ma riduce la contestazione dell’universo al catechismo e quella della nostra esistenza al dogma. Come sostiene Földényi, quello che vogliamo non è la consolazione di ciò che appare ragionevole e probabile, ma le inesplorate terre siberiane dell’impossibile.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Dostoevskij vs. Hegel
di Andrea Monda (BombaCarta, 24 Marzo 2009) *
Nel febbraio del 1854 Dostoevskij si trova ad essere condannato a servire l’esercito come soldato nella città siberiana di Semipalatinsk vicino al confine cinese. Cinque anni prima era stato condannato a morte, poi la pena era stata commutata, all’ultimo minuto, ai lavori forzati a vita; infine anche questa pena, dopo quattro anni durissimi, era stata trasformata nel servizio militare in Siberia. In questo periodo gli furono di grande supporto morale i libri inviatigli clandestinamente dal fratello Michail, tra cui i romanzi di Dumas e la Critica della ragion pura di Kant nonché Hegel.
E proprio dalla lettura di Hegel prende le mosse questo strano libretto, a metà tra il racconto biografico e il saggio filosofico, scritto due anni fa dal professore ungherese di letteratura comparata Laszlo Foldèny che oggi arriva in Italia grazie all’edizioni de Il Melangolo.
Foldèny si concentra in quei cinque anni della biografia del grande scrittore russo passati nell’inferno bianco della Siberia (potrà tornare nella Russia europea solo il 18 marzo 1859) ed in particolare sull’effetto che ebbe su di lui la lettura di un brano delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel in cui il filosofo tedesco, parlando dell’Asia, scrive di non essere interessato alla Siberia “in nessun modo, perché la zona nordica giace fuori dalla storia“. Il più grande filosofo e il più grande romanziere discutono “a distanza” (Hegel in realtà è già morto da oltre vent’anni) e il primo rivela al secondo, in modo secco e arrogante, di non far parte della storia.
Il breve saggio di Foldèny può essere visto come un tardivo tentativo di “risarcimento”, un prendere parte nel senso proprio di “parteggiare” per Dostoevskij, duramente colpito dalla lettura hegeliana: “E’ facilmente immaginabile che proprio allora, quando capì di non far parte della storia, per la quale aveva accettato tutte le disavventure” scrive Foldèny, “nacque in lui la convinzione che la vita potesse avere delle dimensioni che non possono essere inquadrate nella storia [...] Che è necessario uscire dalla storia per poter vedere i confini e i limiti dell’esistenza della storia“.
Il saggio è diviso in due parti, la prima si concentra su Hegel e la sua riflessione, perfettamente lucida quanto arida, sulla storia, e la seconda invece dedicata al tumultuosa condizione in cui si trova l’animo del romanziere russo che trova nella Siberia nello stesso tempo l’Inferno per cui disperare ma anche le ragioni per una riconquista più matura della fede e della speranza.
Sul filo del paradosso l’autore conduce al lettore alla conclusione che, proprio perché sconfitto dalla storia e sbattuto nel luogo più sperduto della terra, Dostoevskij riesce a osservare il mondo e l’uomo più in profondità di quanto faccia Hegel, cogliendo che nella storia c’è qualcosa di più, qualcosa di irriducibile e che sfugge anche alla più perfetta “architettura filosofica” realizzata dall’uomo occidentale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
DANTE 2021:
L’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA E "UN DEBOLE FRULLO D’ALI" (A. CAMUS).
Se è vero, come è vero, che «Le grandi idee arrivano nel mondo con la gentilezza delle colombe. Se ascoltiamo bene, tra il frastuono degli imperi e delle nazioni, forse udiremo un debole frullo d’ali, il dolce fremito della vita e della speranza. Certi diranno, questa speranza risiede in una nazione; altri, in un uomo. Credo invece che essa sia ridestata, ravvivata, nutrita, da milioni di individui solitari, le cui azioni negano ogni giorno le frontiere e le implicanze più crude della storia» (come ha pensato e scritto Albert Camus), è altrettanto vero, perché gli "individui solitari" possano udire il debole frullo di ali, il dolce fremito della vita e della speranza, che è necessario riprendere e riconsiderare il tema della nascita (al di là della andrologia della tragedia tebana (Giocasta ed Edipo) e la riflessione e il lavoro su "l’una e l’altra Medea" (Pino Blasone) e, in prospettiva, riequilibrare il campo antropologico!
Venticinque secoli "a la ‘mpresa,/che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo": Dante (1321-2021) aveva ragione sul letargo (Par. XXXIII, 94-96) in cui l’umana società è ancora immersa. C’è solo da uscire dall’inferno e riprendere il cammino...
Il problema Medea è un nodo antropologico e filosofico più che millenario ed è un tentativo (come ha ben compreso e proposto Dante Alighieri) di uscire dall’inferno del gioco e giogo degli specchi.
Per venirne fuori (questione epocale) è bene ripercorre i passi dell’una e l’altra Medea e cercare di sciogliere l’enigma della sfinge e capire la tragica verita di "Euripide / Giasone"!
Ricordando che il padre di Ulisse, Laerte, era con gli Argonauti che andarono a riprendersi (questo sfugge a Christa Wolf) il vello d’oro dell’ariete, si può senz’altro pensare che dei versi sul tema (Par. XXXIII, 94-96) posti da Dante a conclusione del suo lavoro, della sua Commedia, ci sfugge proprio l’essenziale: che "esorcizzare la mitica Medea" non è possibile!
Tutta la teologia, la filosofia, l’antropologia è ancora ferma all’interpretazione dei sogni di Freud e non di Giuseppe! Michelangelo legando e collegando il "Laocoonte" e il "Tondo Doni" e il Mosè della Chiesa di San Pietro in Vincoli cosa ha pensato se non il problema Giuseppe?!
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E COSTITUZIONE:
RIPENSARE COSTANTINO E LA TEOLOGIA E LA POLITICA DELL’EUROPA.
Un omaggio a Beatrice Maria e Lucia (8 marzo) e a Dante Alighieri (25 marzo - Dantedì)...
USCIRE A RIVEDERE IL CIELO STELLATO. Non avendo sottratto alla teologia e alla logica dell’ Imperatore Costantino l’opera di Dante Alighieri (ridotto dalla Chiesa Cattolica di Giovanni XXII, prima che da Ugo Foscolo, a "ghibellino fuggiasco"), filosofi e storici hanno finito per banalizzare anche il lavoro di Ernst H. Kantorowicz! Si tenga presente, per capire bene e meglio l’uno e l’altro, che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" è intitolato "La regalità antropocentrica: Dante" e, al contempo, che la regalità antropocentrica è da leggersi in senso antropologico (di ogni essere umano, "ecce homo"), non in senso di una andrologia costantiniana (di ogni essere umano-maschio, "ecce vir")!
COSTITUZIONE. La "Monarchia" dei "due Soli" non dice né della dittatura dell’Imperatore né della dittatura del Papa, ma indica che l’uno e l’altro, semplicemente (la cosa più difficile a farsi), dia a "Dio" (l’amor che muove il sole e le altre stelle) ciò che è di "Dio" e ognuno all’altro (entrambi sovrani - memoria di don Milani) ciò che tocca all’uno e all’altro - nel riconoscimento della sovranità di "Dio" stesso, della Legge dei nostri Padri Costituenti e delle nostre Madri Costituenti. Se in principio era la Costituzione (il Logos), "Quis Ut Deus?" ("Chi è come Dio")?!
Il nuovo scontro di civiltà
di Ida Dominijanni (CRS, 4 Marzo 2022)
All’alba del nono giorno di guerra l’attacco delle truppe russe alla centrale nucleare Zaporizhzhia rende meglio di qualunque altro dettaglio quale sia la posta della partita globale, biopolitica prima che geopolitica, che si sta giocando in Ucraina. E il peggio deve ancora venire, ha comunicato Macron cui Putin ha fatto presente che non intende fermarsi finché non avrà conquistato l’intero paese. Le regioni russe dell’est e del sud con gli accessi al mare sono ormai in mano ai russi, a Mariupol mezzo milione di abitanti sono intrappolati senza acqua e senza cibo, a nord-ovest Leopoli è piena di profughi in fuga, più donne e bambini che uomini perché gli uomini restano a combattere una battaglia di resistenza già persa.
L’esile negoziato in corso a Brest ha deciso l’apertura di corridoi umanitari per favorire l’esodo dei civili, mentre la colonna di 60 kilometri di carri russi continua la sua lenta ma inesorabile avanzata su Kiev lungo il corso del Dnepr che in futuro potrebbe dividere l’Ucraina fra un est russo e un ovest occidentale, com’era un tempo la Germania: le stesse cose ritornano sempre, nella storia, come il rimosso nell’inconscio. Dev’essere per questo che tutti definiscono questa in Ucraina “la prima guerra nel cuore dell’Europa dopo più di settant’anni”, dimenticando clamorosamente che in Europa la guerra era già tornata negli anni Novanta, in quella ex Jugoslavia che ha anticipato e prefigurato tutte le guerre successive a base etnico-nazionalista sparse per il mondo. -Forse che la Jugoslavia non era il cuore ma la periferia dell’Europa? O non sarà piuttosto che nell’immaginario europeo, il cuore dell’Europa resta sempre lì, al confine fra l’ex impero sovietico e l’Occidente democratico? Lì, dove secondo gli stessi che nell’89 decretavano “la fine della storia” oggi la storia riprenderebbe in grande, quasi che in mezzo non ci fosse stato niente. Lì, dove si sono convocati tutti i fantasmi che fino a ieri l’altro vagavano per l’est e per l’ovest, e che ora muovono questa terribile resa dei conti di un trentennio cominciato male e finito peggio. Che è la vera posta in gioco, reale e simbolica, della tragedia che si sta consumando.
Hanno suscitato indignazione e scandalo i due discorsi del 21 e del 24 febbraio con cui Putin ha annunciato prima il riconoscimento ufficiale delle repubbliche separatiste del Donbass e poi la sua “operazione militare speciale”, come l’ha chiamata lui, in Ucraina. Ne consiglierei tuttavia la lettura integrale (il testo è facilmente reperibile in rete), ammesso che sia ancora lecito cercare di capire perché accade quello che accade senza essere tacciati di connivenza con il nemico. Liquidati dai più come una litania del risentimento, o come il delirio paranoico da sindrome di accerchiamento di un uomo solo al comando provato dalla fobia del Covid, i due discorsi inanellano alcuni dati di fatto incontrovertibili sull’estensione a est della Nato, sulle guerre di aggressione perpetrate dall’Occidente dagli anni novanta in poi (Kosovo, Iraq, Siria, Libia), e, più in generale, sullo “stato di euforia da superiorità assoluta, una sorta di assolutismo di tipo moderno, per di più sullo sfondo di un basso livello di cultura generale” che si è impossessato del campo dei vincitori della Guerra fredda.
Ma al di là di questo merito, nonché della ricostruzione delle cause di lungo periodo della rinascita dei nazionalismi, a Est dopo la fine dell’Urss, ciò che colpisce nelle parole di Putin è la rivendicazione della dimensione storica come sfondo ineludibile del discorso politico. Precisamente lo sfondo che manca al discorso politico occidentale, che di spessore storico sarebbe supposto essere il più dotato. E che invece risponde all’aggressione di Putin usando - mirabile sintesi di un cinquantennio di ideologia neoliberale - solo il linguaggio dell’economia e della sicurezza: sanzioni e riarmo, nell’oblio - perfino teorizzato, come nel discorso alle camere di Mario Draghi - del passato che ha costruito, mattone dopo mattone, il presente.
Sia chiaro: lo sfondo e l’uso della storia non giustificano in alcun modo la mossa di Putin. L’invasione di uno Stato sovrano e confinante viola le basi del diritto internazionale, resuscita, a proposito di storia lunga, tutti i mostri del passato europeo, e si configura per di più, nelle stesse motivazioni che Putin ne dà, come una sorta di preemptive war, una guerra preventiva contro il pericolo eventuale di un’aggressione alla Russia da parte della Nato (i nemici assoluti sono spesso segretamente gemelli, e Putin evidentemente ha imparato qualcosa da George W. Bush).
Nessuna ragione di lungo periodo esenta di un grammo di responsabilità la decisione con cui il presidente russo ha portato il mondo sull’orlo del precipizio. Ma pare assai improbabile che dal precipizio le democrazie occidentali possano uscire senza aprire al proprio interno tre linee di ripensamento autocritico di un passato prossimo che invece tendono solo a rimuovere o a riconfermare.
La prima linea riguarda l’atroce sequenza di guerre con cui l’Occidente ha insanguinato l’epoca di pace che aveva annunciato alla fine della Guerra fredda, e che rischiano di costituire i precedenti formali, non solo le concause politiche, dello scenario che si va prefigurando in Europa. Dovrebbe balzare agli occhi l’analogia agghiacciante fra le motivazioni addotte da Putin a sostegno della minoranza russa in Ucraina e quelle che mossero il cosiddetto intervento umanitario della Nato a sostegno della minoranza kosovara in Serbia, con relativo bombardamento di Belgrado: e invece non un cenno se ne sente in specie nel Pd, erede del partito che fu il principale regista italiano di quella guerra, oggi abitato da una classe dirigente che sembra del tutto ignara della drammaticità di quella stagione e del tutto conforme alla narrativa trionfale del dopo-’89.
Dovrebbe risuonare come un monito sullo stato delle democrazie occidentali la madre di tutte le fake news e di tutte le post-truth politics, ovvero la gigantesca menzogna sulle presunte armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein che giustificò la “guerra preventiva” in Iraq. Soprattutto, dovrebbe portare un grammo di senno, questo sì preventivo, sullo scenario europeo prossimo venturo la scia di guerre civili, regimi instabili ed esodi migratori biblici lasciata dietro di sé dall’intera sequenza delle guerre post-89, tutte caratterizzate dall’intreccio micidiale di rivendicazioni nazional-sovraniste e rivendicazioni etnico-regionali che si ripropone oggi in Ucraina e rischia di riproporsi in un teatro europeo più vasto di quello ucraino. E invece è proprio nella ripetizione nevrotica di quella dinamica che ci stiamo infilando, con il corredo sinistro di un soccorso armato alla resistenza ucraina fatto di contractors, appalti, privatizzazione dell’uso della forza - un film, anche questo, già visto in Iraq e in Siria, con le conseguenze che sappiamo.
La seconda linea di riflessione autocritica riguarda lo stato delle democrazie occidentali e quello connesso della costruzione europea. Oggi siamo tutti dalla parte dell’Ucraina, vittima di un’aggressione inammissibile, e da questa parte bisogna restare finché i carri armati russi resteranno in campo. Ma nella retorica monotonale occidentale l’Ucraina è diventata in pochi attimi la trincea della difesa della democrazia tout court, anzi, per dirla con le parole di Joe Biden nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la trincea del conflitto fondamentale del nostro tempo, che sarebbe quello fra democrazia e autocrazia. Le élite democratiche americane sono impegnate da tempo a costruire questo frame narrativo, opposto e speculare all’attacco alla liberaldemocrazia occidentale portato avanti dalla concezione putiniana della cosiddetta “democrazia sovrana”. E se nella politica interna americana questo frame è servito a sconfiggere Trump, in politica estera è destinato a prendere il posto di quello sullo “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam che ha tenuto banco per tutto il ventennio della war on terror successivo all’11 settembre.
Ma dopo Trump, gli americani non possono non sapere che la linea di confine fra democrazie e autocrazie è diventata molto esile, e può essere scavalcata dagli autocrati che crescono all’interno delle democrazie occidentali, non soltanto al di fuori di esse.
E noi europei non possiamo non sapere che le tentazioni autocratiche e sovran-populiste sono cresciute, soprattutto ma non solo nei paesi ex-sovietici dell’est, parallelamente ai processi di crisi e de-democratizzazione dei paesi dell’ovest, e sovente per reazione alla delusione di un allargamento a est dell’Unione rivelatosi più un’annessione alla religione del mercato che un’integrazione del mosaico di culture e tradizioni del vecchio continente. Anche da questa parte dell’oceano, il pericolo autocratico non viene solo dall’esterno, e la democrazia non può essere impugnata come una bandiera senza macchia e senza peccato.
Questo nodo lega il trentennio che abbiamo alle spalle al presente e al futuro dell’Unione europea e della sua collocazione nello scacchiere globale. Il rilancio dell’atlantismo da parte di Joe Biden appariva molto ambivalente già all’indomani della sua elezione: mentre riavvicinava le due sponde dell’Atlantico che Trump aveva allontanato, innalzava un nuovo muro fra l’Europa e le autocrazie orientali, chiamando la Ue a posizionarsi nettamente contro di esse. Già allora le voci più consapevoli spinsero infatti per un’Unione atlantista ma aperta verso Est e capace di porsi come ponte fra gli Stati uniti, la Russia e la Cina. Complice la fine del cancellierato di Angela Merkel, nonché verosimilmente l’insediamento del governo Draghi in Italia, le cose hanno preso purtroppo un’altra piega.
E oggi è più che inquietante il coro mainstream di soddisfazione che si leva per un compattamento europeo che fa propria la parola d’ordine americana del nuovo scontro di civiltà fra Occidente e Oriente, e avviene tutto sotto l’insegna della Nato, di sanzioni durissime che colpiranno Putin ma affosseranno la transizione energetica europea, di una politica di pura potenza, di un riarmo di cui la Germania si fa protagonista e che travolge persino la neutralità storica di paesi come la Finlandia.
Se si rafforza in questo modo, dopo aver clamorosamente mancato tutte le possibilità preventive di disinnescare politicamente la miccia che Putin stava accendendo, l’Unione europea finirà col fare le spese del ridisegno dell’ordine globale che si sta giocando nella guerra fra l’imperialismo russo e il nazionalismo ucraino.
Se in Ucraina non cessa il fuoco e l’Europa non inverte la rotta imboccando la strada della smilitarizzazione, il conflitto si estenderà in modo imprevedibile e i tempi si faranno durissimi per la specie umana. Se le democrazie si compatteranno al loro interno sulla base dell’ennesima proclamazione dello stato d’emergenza, come già sta avvenendo in Italia, la credibilità della democrazia subirà un ennesimo e fatale colpo. Come sempre e mai come oggi, per incidere sullo scacchiere geopolitico il pacifismo deve alimentarsi di un conflitto politico aspro dentro casa, in primo luogo contro la militarizzazione del dibattito pubblico.
DANTE 2021 E SHAKESPEARE 2002: ANTROPOLOGIA, POLITICA E RELIGIONE...
"SHAKESPEARE AND COMPANY": ELISABETTA I, "ALESSANDRO MAGNO" E L’ORDINE DELLA GIARRETTIERA.
Materiali per una rilettura unitaria delle "Allegre Comari di Windsor" e del discorso del Re "Enrico V" ... *
La mia ipotesi è che Shakespeare abbia compreso il senso della propria sovranità di essere umano e, da questo luogo e da poeta, produca e porti avanti il proprio discorso. In qualche modo Shakespeare è prossimo a Dante e Dante è prossimo a Shakespeare: entrambi non sono né per il papa (o la papessa) né per l’imperatore (o l’imperatrice): entrambi sono per la Monarchia dei "due Soli" e la sovranità assoluta è dell’amore che non è "lo zimbello del Tempo" (Sonetto 116) e che "move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
A) RIPARTIRE DALLA GIARRETTIERA, DALL’ORDINE DELLA GIARRETTIERA: "SIA SVERGOGNATO CHI NE PENSA MALE"!
WINDSOR: IL RE, I CAVALIERI, E LA FEDELTÀ. "Il Nobilissimo Ordine della Giarrettiera (in inglese The Most Noble OrderoftheGarter), risalente al Medioevo, è il più antico ed elevato ordine cavalleresco del Regno Unito. Capo dell’Ordine della Giarrettiera è il Sovrano del Regno Unito; l’ammissione è riservata a non più di 24 membri, la cui scelta è di competenza esclusiva del sovrano [...] lo stemma dell’Ordine è una giarrettiera che sormonta il motto «Honi soit qui mal y pense» (fr.: «Sia vituperato chi ne pensa male»), [...]. Il motto [...] è anche scritto sulla polena della nave ammiraglia HMS Victory, protagonista della battaglia di Trafalgar agli ordini di Horatio Nelson. [...] L’Ordine fu fondato - molto presumibilmente - nel 1349 dal re #EdoardoIII come «compagnia e collegio di cavalieri». [...] La più antica attestazione scritta dell’Ordine si trova in «Tirant lo Blanch», un romanzo cavalleresco scritto in catalano dal valenciano Joanot Martorell che venne pubblicato nella prima edizione nel 1490. [...]"(Wikipedia).
B) CON ELISABETTA I A TEATRO: A WINDSOR, NELLA LOCANDA DELLE "ALLEGRE COMARI"! “«La Giarrettiera» è il nome della locanda dove alloggia il protagonista Sir John Falstaff, e l’ordine aveva la sua sede araldica a Windsor. Se così è, la stesura del lavoro non poté farsi più tardi della fine 1596 / inizio1597, per essere rappresentata a corte il giorno di San Giorgio patrono d’Inghilterra (23 aprile 1597), giorno nel quale, appunto, la regina conferiva le investiture [...]" (Shakespeare Italia).
C) LA GIARRETTIERA. Il significato di questo questo indumento, divenuto esclusivamente ad uso femminile nel XIV secolo, è collegato al matrimonio e alla purezza della sposa: "la giarrettiera, infatti, rappresenta simbolicamente una cintura di castità" ( Clara Couture ).
D) RELIGIONE E POLITICA (LONDRA 1599). L’elogio cattolico di Enrico V ("Alessandro Magno"): “ Arcivescovo di Canterbury: [...] Portategli il discorso su argomenti / che richiedano acume e sottigliezza / vi saprà sciogliere il nodo gordiano / di tutto, come la sua giarrettiera” ("Enrico V", Atto I, scena prima, 45-47).
E) A WILLIAM SHAKESPEARE E GIUSEPPEVERDI: VIVA VERDI. Falstaff (1893) è l’ultima opera di Giuseppe Verdi . Il libretto di Arrigo Boito fu tratto da Le allegre comari di Windsor di Shakespeare, ma alcuni passi furono ricavati anche da Enrico IV parti I e II, il dramma storico nel quale per la prima volta era apparsa la figura di sir John Falstaff. [...] L’anziano e corpulento Sir John Falstaff, alloggiato con i servi Bardolfo e Pistola presso l’Osteria della Giarrettiera, progetta di conquistare due belle e ricche dame [...] (Wikipedia).
F) DIVINA COMMEDIA: RIPENSARE COSTANTINO! LA MONARCHIA, UN PROGRAMMA PER I POSTERI DI DANTE (1321-2021), L’ORDINE DELLA GIARRETTIERA (1349), E IL DISCORSODEL RE "ENRICO V" (SHAKESPEARE,1599).
* Federico La Sala
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, MITO E STORIA.
DANTE 2021: OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE, UN PASSO AL DI LÀ DELL’EDIPO. Solo con Virgilio (e con Ovidio) e, soprattutto, con Beatrice (la madre! - Freud docet), Dante poteva e può rinascere (Par. XXXIII, 106-108: "Omai sarà più corta mia favella, /pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/ che bagni ancor la lingua a la mammella"), uscire dal letargo (Par. XXXIII, 94) e, addirittura, riproporsi - in un’ottica arcadica e messianica (con la sua Divina Commedia) - come "un altro Tifi, un’altra Argo" (Virgilio, Ecl. IV, 34)!
"Ulisse e la sua Odissea... chi non conosce il lungo peregrinare dell’eroe omerico? Ma forse pochi sanno che Ulisse era figlio d’arte: il padre Laerte, infatti, prese parte assieme ai cinquantadue valorosi greci noti col nome di Argonauti, a una mitica impresa che li vedrà solcare i mari fino a Oriente, oltre i confini conosciuti, alla conquista del vello d’oro (la pelle di un ariete dorato che era apparso in soccorso a due giovani Frisso e Elle e li aveva condotti in salvo al di là dei mari, in Colchide).
L’impresa degli Argonauti è una delle più affascinanti del mito greco anche perché il tema del viaggio sulla nave Argo si intreccia non solo con le mille avventure vissute, o la storia d’amore tra Giàsone e Medea, ma anche con temi che in qualche modo hanno a che vedere con la conquista di conoscenze tecnico-scientifiche. Intanto perché Argo è la primissima nave mai costruita, che segna l’inizio della navigazione, per la quale occorrevano conoscenze prima di allora appannaggio esclusivo degli Dei: conoscenze tecniche, geografiche e astronomiche.
La spedizione degli argonauti ai confini orientali del mondo conosciuto si rivela così una spedizione altamente allegorica, in cui si narra di fatto non solo di una missione civilizzatrice ma anche dell’ incontro tra Occidente e Oriente, che aveva già elaborato un sapere astronomico e astrologico; ed è di fatto un’anticipazione di quel che ebbe luogo nella realtà documentata nel III sec. A.C.: il viaggio di Alessandro Magno in India da cui riportò avanzatissime conoscenze matematiche.
Ma ci parla anche di un mito che persiste tutt’oggi: quello del viaggio verso l’ignoto, del desiderio di spingere sempre più avanti le frontiere dello scibile, che tanto caratterizza la ricerca scientifica." (Clara Caverzasio, "La spedizione argonautica, tra mito e scienza", Il Giardino di Albert (ReteDue), 30 maggio 2015)
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STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
DANTE2021
LA MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE E IL MESSAGGIO SEGRETO DELLA DIVINA COMMEDIA, DEL MUSICO DI LEONARDO, DELLA PRATICA DELLA MUSICA DI GAFFURIO, E DELLA GAIA SCIENZA DI NIETZSCHE...
A) IL MUSICO. "Il messaggio segreto nel quadro di Leonardo: Un messaggio nascosto, per di più in chiave musicale, all’interno di un quadro: “Il Ritratto di Musico” di Leonardo da Vinci. Lo ha svelato lo storico d’arte e ricercatore siciliano Giuseppe Petix alla Fordham University di New York. [...] Petix ci racconta anche: «Il rebus all’interno del cartiglio è stato trovato grazie alle conoscenze musicali che abbiamo del periodo di Leonardo. Un rebus che se decifrato forma il versetto o meglio il rondò “Oh Re fammi lagnar: Sol l’amore mi fa sollazzar”, che in versione prosaica potrebbe essere visto così “Oh dio, permettermi di lamentarmi, concedimi un lamento da uomo, solo l’amore mi rende felice”». Un inno, quindi, una preghiera, una richiesta di aiuto [...] Questa frase ricorda le lamentazioni presenti nei salmi della bibbia, e di preciso il "dio" del quale si parla potrebbe rappresentare l’anima del Davide Biblico [...]" (Laura Pace , i.Italy, November 25, 2019)
C) LA GAIA SCIENZA (IV, fr. 334). "Si deve #imparare anche l’amore. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, [...] finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la #melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la #musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore. (F. Nietzsche).
D) COSMOLOGIA DANTESCA. "L’amor che move il sole e le altre stelle" (Par., XXXIII, 145).
E) DANTE LEONARDO E GAFFURIO: LE TRACCE DI UN PROGRAMMA E DI UNA STRATEGIA CULTURALE CON RADICI PROBABILMENTE GIOACHIMITE E FRANCESCANE...
Il messaggio segreto del Musico di Leonardo e il legame stretto con la Musica delle Sfere ("Theorica Musicae", (1492; "Practica Musicae", 1496) di Franchino Gaffurio (con Apollo, le Grazie, le Muse, il Cielo delle Stelle Fisse e dei Pianeti, e il Serpente) rende possibile una interpretazione e connesione con il viaggio della Divina Commedia: il cammino nel regno dell’Apollo de-caduto (dopo la venuta del nuovo Re, di Cristo), cioè di Lucifero, è finito ed è "ora" che Dante con Virgilio si liberino della loro stessa pelle di serpente e, lasciato Lucifero con" le gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) alle loro spalle, ... mettano i piedi a terra! La strada per il paradiso terrestre e celeste è libera.... sotto il cielo stellato, inizia la "vita nuova"!
F) LA MUSICA DELLE SFERE, LA DIVINA COMMEDIA, E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Nella sua "Mitologia creativa" (Milano 1992), Joseph Campbell, dopo aver premesso che "anche Dante invocò le Muse - all’inizio dell’inferno, nel Canto II - e fu guidato sia attraverso l’Inferno sia sulla cima paradisiaca del Monte del Purgatorio dal pagano Virgilio" (p. 128) e aver analizzato in dettaglio la Figura di «la Musica delle Sfere», "trattada un’opera neoplatonica del quindicesimo secolo, la Pratica musicae di Franchino Gaffurio, pubblicata a Milano nel 1496", scrive che "[...] l’intera Divina Commedia di Dante esprime questa visione pagana di una dimensione spirituale dell’universo", e, al contempo, lo "imbottiglia" (senza resti) nella tradizione cattolico-romana: "[...] Il fatto che, in Dante, il potere di guida dei pagani termini alla sommità del Purgatorio, nel Paradiso Terrestre, si accorda con la formula di san Tommaso secondo cui la ragione può condurre, come fece con gli antichi, fino al vertice delle virtù terrene, ma solo la fede e la grazia soprannaturale (personificata da Beatrice) possono portare oltre la ragione, fino alla sede di Dio". Pur, se con incertezze e difficoltà, continua e finisce paradossalmente col riportare Dante nell’orizzonte della tragedia e dell’antico patto edipico (di "mammasantissima", altro che patriarcale): "Tuttavia, analizzando questo Dio Trinitario che, nella dottrina cristiana delle tre persone divine in un’unica sostanza divina, abbiamo una trasposizione delle tre Grazie e dell’Apollo Iperboreo in un ordine mitologico di maschere escusivamente maschili di Dio, il che si accorda bene con lo spirito patriarcale dell’Antico Testamento, ma sbilancia radicalmente le connotazioni simboliche, e quindi spirituali, non solo del sesso e dei sessi, ma anche dell’intera natura".
Federico La Sala
COSTITUZIONE, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA:
DANTE ALIGHIERI, WILLIAM SHAKESPEARE, E JOHN MAYNARD KEYNES.
La questione dei due soli e "il nostro problema economico"...
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ECONOMIA, E FILOLOGIA: "HOMO HOMINI DEUS EST"!
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): DEUS CHARITAS EST (NON "DEUS CARITAS EST")!
IL "NOSTRO" PROBLEMA DI MAMMONA. Non potete servire a Dio (charitas - amore e giustizia) e a mammona (caritas - denaro e ricchezza):
24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. 25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Federico La Sala
ANCORA
IL #REGIME DELL’#UNO
E
LA #DOTTA IGNORANZA
!"#Dio non gioca a #dadi"
ma, dopo la #lezione di
#Georges de La Tour,
l’#Uno
è ancora
il più sfuggente
e misterioso
tra i #numeri?
#A che gioco giochiamo?!
Scheda editoriale *
GIULIO BUSI
Uno
Il battito invisibile
L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo. Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri.
Giulio Busi è esperto di mistica ebraica e di storia rinascimentale, insegna Giudaistica alla Freie Universität di Berlino. Collabora da molti anni alle pagine culturali del «Sole 24 Ore». Per il Mulino ha pubblicato «Indovinare il mondo. Le cento porte del destino» (2021).
* Fonte: Il Mulino
MEMORIA DELLA LIBERTÀ E DELLA COSTITUZIONE: LA LEZIONE DI RITA LEVI MONTALCINI.E SIGMUND FREUD.
Antropologia, matematica, filosofia, e "disagio della civiltà" e nella civiltà (Sigmund Freud, 1929).
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana...
Nel breve testo dalla intervista a Rita Levi Montalcini
ci sono straordinarie indicazioni di una strada aperta e di un cammino che non riguarda solo le donne e che riguarda tutti gli ambiti della società ancora oggi (2022) segnata dall’ombra di Platone (Adriana Cavarero, "NONOSTANTE PLATONE figure femminili nella filosofia antica", 1990). Una storia di lunga durata e una questione antropologica all’ordine del giorno...
Per uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dalla matematica della tradizione tragica di Edipo (Freud) e dalla Accademia di Platone, questo è il problema di tutti i problemi, le colonne d’Ercole da superare: riconoscere l’autodeterminazione, la libertà di disporre di sé a ogni essere umano, alla donna come all’uomo.
Non si possono truccare le carte e le regole del gioco per l’eternità!
DIVINA COMMEDIA. Il problema è proprio quello di non perdere la memoria, la coscienza e la ragione, e, non ricadere nel sonno eterno, del Faraone (e della Faraona), del Re e della Regina! In principio era il Logos - la Costituzione, non il logo di una fattoria, di una religione ...
Edipo non solo scioglie l’enigma della sfinge, ma soprattutto vuole sciogliere il nodo più grande che è quello con la madre-regina e di una Legge incestuosa...
La lotta di Rita Levi Montalcini con il padre richiama la lotta di Sigmund Freud con il padre! Alla fine, entrambi hanno saputo distinguere tra la Legge del Faraone e la Legge di Mosè.
Senza l’interpretazione dei sogni del Faraone, Freud non sarebbe mai arrivato a Londra e l’opera "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" non avrebbe mai vista la luce (1938)!
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, LOGICA PSICOANALISI E COSTITUZIONE: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (non il Logo di una fattoria).
DIO E LE LETTERE DELL’ALFABETO. Questa storiella dello Zohar "nasconde" una grande lezione di logica e matematica, antropologia e teologia (e, a mio parere, offre la chiave per meglio capire il senso stesso del riferimento di Baruch Spinoza al detto Homo Homini Deus Est e il messaggio dell’ impresa di Dante Alighieri).
Quando si comincia a contare, da dove bisogna cominciare, per iniziare bene ed essere gà a metà dell’opera?! Chi è che conta e da dove inizia. Perché (come qui, nella storiella dello Zohar) dalla Bet?
Premesso che le lettere dell’alfabeto ebraico sono anche numeri e, quindi, hanno un valore numerico, è opportuno ricordare che alef vale zero (= 0) e che bet vale uno (= 1); e, quando si comincia a contare, si comincia a contare da uno (= 1), appunto, da bet.
Per non perdere la #bussola e, ancor di più, per non lasciarsi sopraffare dalla narcisismica terremotante tentazione di truccare le carte e il conto, però, occorre tenere ben presente che al "Dio" che conta, in un altro testo decisivo della tradizione biblica (Apocalisse di Giovanni), è attribuita la seguente importantissima frase: "Io sono l’alfa e l’omega" (greco koinè: "ἐγὼ τὸ Α καὶ τὸ Ω"). La precisazione è decisiva...
Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). A ben riflettere sull’apocalittica frase, si apre la porta di una chiara #comprensione sul Chi (= X) lega e sa legare "il principio e la fine" (Apocalisse 21:6, 22:13) e, al contempo, sul buon messaggio stesso della "Divina Commedia": "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
L’alfa (il principio) e l’omega (la fine), e la bet ("la prima lettera dell’alfabeto), la lettera che indica ""il verso giusto del cammino"!
Bet, la lettera di Benedizione ....
LA PIETRA FONDAMENTALE E LA PIETRA ANGOLARE: "ECCE HOMO". Ogni Uno (=1), Ognuno (ogni Eva e ogni Adamo, ogni Maria e ogni Giuseppe), Ogni Essere umano (Everyman, così Dante Alighieri per Ezra Pound), è antropologicamente e linguistica-mente la lettera dell’alfabeto, la Bet, la lettera di Benedizione e Bereshìt, la Parola che sta "Nel Principio": "Nel Principio era il Logos". L’amor che move il sole e le altre stelle....
DIVINA COMMEDIA: UNO STRAORDINARIO OMAGGIO A DANTE!
Materiali di studio 5.
Il letargo di Dante (di Stefano Marcucci, "L’errore di Kafka/blog", 19 aprile 2021):
ENTRATO NEL PUNTO .. UNA BRILLANTE FUSIONE NUCLEARE CONTROLLATA!
"[...] L’ESPERIENZA-LIMITE o SEGMENTO ZERO. Nessuno può sembrare più lontano da Dante di Nietzsche. Pensare solo di accostarli è folle, d’accordo, sebbene non sia lecito tralasciare che il trasumanar dantesco e il concetto di Übermensch di Nietzsche, oltre a condividere il medesimo carattere di neologismo, presentano una convergenza di significato piuttosto imbarazzante. L’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche, sorta di rivelazione di cui è depositario l’Übermensch, è una dottrina mai presa sul serio e screditata dai principali suoi commentatori. Più che di un concetto si tratta di una meditazione sul pensiero che non può pensare se stesso (come un letargo?) o sul vertiginoso pensiero del nulla che azzera il tempo come durata.[xv] Il déjà-vu è una di quelle esperienze strane che fanno baluginare o intravedere una possibile sovrapposizione del passato col presente (e viceversa) e fanno sorgere un dubbio, nonché un piacevole stupore (come quello di Nettuno-Dante?), se ciò che stiamo vivendo sia presente o passato. [...]" (Stefano Marcucci, Il letargo di Dante, cit., senza note).
"[...] (Successivamente alla stesura della presente riflessione, all’autore di queste righe è occorso di imbattersi nella Sura 18 del Corano, denominata anche Sura del Venerdì o Sura dei Sufi. Ne ha parlato a Radio3 Riccardo Bernardini, studioso e storico delle opere di Karl Gustav Jung, all’interno della trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, nel ciclo curato da Bruno Madera e intitolato Ricordati di rinascere II puntata - I simboli della rinascita. «La Sura mostra un sonno che prende dei viandanti, i quali si risvegliano da questo sonno dopo secoli completamente trasformati e avendo acquisito una immortalità nella grazia divina.» Senza essere specialisti di Dante, e senza aver letto Henri Pirenne, è noto che la cultura araba abbia avuto una non irrilevante influenza su quella medievale europea a partire dall’anno mille. Si pensi solo ad Avicenna e ad Averroè, entrambi musulmani, che Dante “incontra” nel Limbo. Possiamo escludere che Dante avesse letto o conoscesse il Corano? Non è, quantomeno, suggestiva, questa coincidenza di un sonno che dura secoli e che conduce, attraverso la trasformazione nella grazia divina, all’immortalità?) [...]" ((Stefano Marcucci, Il letargo di Dante, cit.).
***
P. S. - Alcune note sulla “corrispondenza d’amorosi sensi” tra ->Dante e Nietzsche.
ORIGINE DELLA CULTURA E DELLA STORIA: ROMOLO E REMO, ROMA, E IL TERMITAIO...*
Prima dell’inizio. Roma e le termiti
Roma. Il libro delle fondazioni di Michel Serres.
di FELICE CIMATTI (Fata-Morgana-web, 3 0ttobre 2021).
In questione è l’idea stessa di “inizio”. Se tutto comincia con un inizio assoluto, allora prima dell’inizio non può esserci nulla. Pertanto l’inizio deve essere un evento straordinario, appunto perché inaugura qualcosa che prima non c’era. Secondo René Girard all’inizio delle vicende umane c’è quella che chiama una «crisi mimetica» in cui si scontrano due desideri che vertono su uno stesso oggetto: «Essendo, per sua natura, il desiderio sempre imitativo, il soggetto desidererà lo stesso oggetto posseduto o desiderato dal suo modello» (Girard 2003, p. 31). In un caso del genere non è possibile alcun compromesso, o prevale il desiderio dell’uno oppure quello dell’altro. Questo contrasto irriducibile, prosegue Girard, scatena un conflitto generalizzato («rivalità mimetica») che minaccia di mettere in crisi l’istituzione sociale. Per porre fine al conflitto, allora, si addossano tutte le colpe ad un “capro espiatorio”, attraverso il cui sacrificio si salva la società. All’inizio, allora, c’è l’invidia, la guerra e soprattutto il rito: per questo, conclude Girard, «la religione è la madre di tutta la cultura» (ivi, p. 67). All’inizio c’è il sacro, appunto, l’evento straordinario. All’inizio c’è il Dio, non gli umani.
È per rovesciare questa idea della cultura e della storia che Michel Serres scrive Roma. Il libro delle fondazioni (Mimesis 2021, a cura di Gaspare Polizzi, prima edizione francese del 1983). La vicenda è nota, Romolo e Remo, gemelli, il loro scontro, l’omicidio. Il seguito lo conosciamo. Serres, però, fa cominciare la storia in un modo completamente diverso, a partire dalla stessa prima parola del libro, «seminagione» (Serres 2021, p. 23). Per seminare servono, evidentemente dei semi, che sono stati generati da una seminazione precedente. Serve un terreno, serve un mezzo (l’aratro) per rovesciare il terreno perché possa accogliere il seme. Se c’è un gesto che non è iniziale in senso assoluto è proprio quello della semina, ché anzi è un gesto possibile solo se si inserisce in una storia, un gesto in continuità con i tempi che lo precedono e lo rendono possibile. Subito dopo, ed è forse la mossa più sorprendente del libro, per raccontare la storia di come può nascere una città, Roma e tutte le altre città, Serres propone una sorta di apologo bestiale (dalla teologia all’etologia). Ci racconta come nasce un termitaio, cioè appunto la città delle termiti. Gli uomini e le termiti, esseri umani e gli insetti. Le cose nascono così, in natura:
All’inizio non c’è alcun evento straordinario, non c’è l’invidia e nemmeno Dio. C’è un insetto e una pallina di fango. Le termiti fanno così, è la loro natura. Non c’è alcun progetto, all’inizio. C’è qualcosa di minimo, un movimento “browniano” (il movimento disordinato di particelle minuscole, così piccole quasi da sfuggire alla gravità, scoperto agli inizi dell’Ottocento dal botanico scozzese Robert Brown), in cui ogni termite si muove senza un piano prestabilito. All’inizio ci sono degli insetti e del fango:
La massa di fango comincia ad ingrossarsi, così, semplicemente perché più una pallina è grande più è facile che altre termiti aggiungano altro fango alla massa iniziale. Il termitaio comincia così, fango, saliva, una miriade di animaletti che si muovono in modo febbrile. Il “modello” che sta usando Serres è quello, antichissimo, degli atomisti, di Democrito, Epicuro e Lucrezio: all’inizio, che per questa ragione non è mai iniziato, ci sono gli atomi eterni (in questo caso le palline di fango, ma vale lo stesso anche per le singole termiti), che talvolta si scontrano (è il clinamen del Rerum Natura, a cui Serres dedica un libro straordinario, Lucrezio e l’origine della fisica), e scontrandosi danno vita (anche in senso biologico) ad assembramenti più grandi.
Lo scontro-formazione del nuovo può ripetersi indefinitamente. La natura non è altro che l’insieme infinitamente intrecciato di questi incontri-scontri. In effetti gli “urti” fra le particelle non sempre costruiscono, è altrettanto probabile che mandino in pezzi una “costruzione” precedente. Ma allora, obietterà qualcuno a cui piace l’ipotesi teologica di Girard, è solo il caso a governare le vicende della storia naturale (in cui evidentemente rientra anche quella umana)?
Non c’è solo il caso, allora, c’è anche l’attrazione (sono quindi Democrito e Newton i riferimenti naturalistici della fondazione), che tiene insieme i fragili aggregati sempre sul punto di sfaldarsi. Attrazione, che tuttavia va ricordato che opera in modo del tutto inintenzionale, che favorisce la formazione di aggregati sempre più grandi. Il termitaio cresce, la città di Romolo, semplicemente perché c’è, attira profughi, ribelli, fuggitivi.
Roma diventa più grande: «E dunque può accadere che una pallina gigantesca attiri, a un certo punto, un insieme di palline già grosse e che, in definitiva, questo pozzo aspiri di colpo tutti i lavoratori: allora il termitaio comincia» (ivi, p. 25). Non c’è bisogno del sacrificio di un “capro espiatorio” che ponga fine al “conflitto mimetico”; all’inizio c’è la continuazione di qualcosa che era già cominciato, che non hai mai smesso di cominciare, termiti, fango, oppure gente che si sposta, che si ferma in un luogo, che costruisce una casa, per poi riprendere a spostarsi. La fondazione, allora, è sempre una rifondazione: «Come se non bastasse una fondazione per cominciare veramente. Come se ogni origine esigesse la sua propria origine» (ivi, p. 31). Serres interpreta in questo stesso modo i riti che precedono la fondazione di una città, e in generale un qualunque inizio:
Il “senso” non è mai soltanto, o principalmente, un’invenzione umana: la storia non comincia con noialtri umani. Il caso delle termiti, da questo punto di vista, è esemplare: non c’è termitaio senza un altro, antecedente nel tempo, termitaio, da cui provengono le termiti che ne stanno ora costruendo, senza volerlo, un altro, nuovo e diverso, ma anche antico e uguale. Un termitaio da cui nascerà, forse, un altro termitaio ancora. Il tempo è questo movimento della vita, e solo una presunzione sconfinata (che oggi prende il nome di antropocene) può pensare che tutto debba ruotare intorno ai progetti umani. Roma non è nata nel 753 A.C., allora, Roma continua a nascere, e quindi a morire, ogni giorno. Allo stesso modo c’era una Roma prima di Roma, non può non esserci stata, perché nessun termitaio nasce dal nulla («Omnis cellula e cellula», secondo la celebre formula di Rudolf Virchow).
Se ora torniamo a Girard, invece, si capisce meglio quale sia la posta in gioco sottesa all’ipotesi del sacrificio del “capro espiatorio”: si tratta in realtà del “peccato originale” in quanto «cattivo uso della mimesi, e il meccanismo mimetico è la conseguenza del peccato originale a livello collettivo» (Girard, p. 174). All’inizio c’è una colpa originaria, che solo un intervento divino può emendare. Se invece all’inizio ci sono le termiti, c’è il fango e il moto browniano, allora non c’è nessun peccato da scontare, non c’è nessuna colpa. C’è invece la vita, e città è la vita, Roma è la vita. In questo inizio già iniziato, e quindi da sempre già finito, Roma diventa il prototipo di una città senza identità, perché solo di ciò che è nato dal niente si può dire che ha una identità precisa, perché è arbitraria e senza storia. Ma Roma è la storia:
Riferimenti bibliografici
ORIGINE DELLA CULTURA E DELLA STORIA: ROMOLO E REMO, ROMA, E IL TERMITAIO...
Se è vero che «Il “senso” non è mai soltanto, o principalmente, un’invenzione umana: la storia non comincia con noialtri umani» (F. Cimatti, cit. - sopra), allora vuol dire che noialtri continuiamo a girare in tondo nella caverna platonica e ancora non sappiamo dare risposte risolutive né all’enigma della Sfinge né alla visione e all’enigma dell’eterno ritorno.
Serres ha cercato "il passaggio di Nord-Ovest" (1980), ha tentato di trovare la via del "Distacco" ("Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere", 1983), per uscire dalla "preistoria", e dall’orizzonte di "Rome. Le livre des fondations" (1983), ma non vi riesce: "Roma è sempre il bosco di rifugio, e cioè un insieme indistinto.[...] è ancora lì, indecisa, tra noi, fantomatica e mobile, ma straordinariamente presente e viva. È il segreto dell’impero"(Serres, Rome, cit.).
Anni dopo, egli continua la navigazione nell’ediphicante immaginario della filosofia platonica. Dopo Kant, Nietzsche e Freud, per Serres, Socrate è ancora una soluzione e non un problema. Nel 2015, nel "Mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente", così scrive:
"Una confessione. La filosofia, si dice, conduce alla saggezza [sagesse]. Secondo un altro significato della parola, prima di morire vorrei diventare levatrice - che in francese diciamo sage-femme, cioè letteralmente, «saggia donna» -, vorrei aiutare a partorire il mondo nuovo. La mia vita intera mi ci ha preparato, attraverso l’ascolto attento degli scricchiolii emessi dal vecchio. Sento le crisi che attraversiamo, le inquietudini che suscitano, come dei lamenti emessi nel travaglio del parto. Amo la madre, accolgo il bambino. Possa migliorare incessantemente la mia attività di medico ostetrico, il mio diventare sage-femme".
Non è giunto, forse, il tempo di interrogarsi di nuovo e ancora (come voleva Enzo Paci) su "come nascono i bambini": Caino e Abele, Romolo e Remo, e ... noialtri umani? O no?! Buon Natale...
Federico La Sala
L’OMELIA PERFETTA DI NICCOLÒ CUSANO
L’INCARNAZIONE COMPLETA LA CREAZIONE
di PIERO STEFANI (Corriere della Sera, La Lettura, 19 Dec 2021)
Il rito cattolico romano prescrive, per il giorno di Natale, tre diverse messe: quella della notte, quella dell’aurora e quella del giorno. Ognuna prevede un Vangelo diverso. A mezzanotte si legge Luca (2,114): è la scena della nascita di Gesù a Betlemme, degli angeli e dell’annuncio ai pastori, un quadro che è quasi inevitabile associare al presepe. Al primo mattino i pochi presenti ascoltano i versi successivi (Luca 2,15-20) nei quali si descrive la stupita visita dei pastori a Maria, a Giuseppe e al bambino adagiato sulla mangiatoia. Quando il sole è già alto, il brano evangelico accantona la componente narrativa e si immerge nelle profondità del cosiddetto Prologo di Giovanni (1,1-18): una sequenza di versetti che culmina là dove si afferma che la Parola (termine spesso reso con Verbo, il greco ha logos) si fece carne.
Il senso del Natale è sospeso tra due estremi: da un lato vi è il richiamo alla nascita che accomuna tutti i viventi, dall’altro l’annuncio che il Figlio, la seconda persona della Trinità, si è fatto uomo. A differenza della prima, questa seconda convinzione è fatta propria solo da una parte minoritaria dell’umanità.
Come festa legata alla nascita, il Natale ha la potenzialità di accomunare tutti. Ognuno, se vi dedica qualche riflessione, comprende che la tenerezza suscitata da un neonato è un riflesso della legge, priva di eccezioni, secondo la quale tutti nasciamo non autosufficienti e bisognosi di aiuto. Il semplice fatto di essere vivi attesta che qualcuno si è preso cura di noi. Il senso di solidarietà avvertito a Natale trae alimento da queste remote radici. Dietro la banalità del detto «a Natale si è tutti più buoni» si celano profondità esistenziali.
Le visioni di fede sono di frequente paradossali. I credenti sanno di essere una minoranza ma nello stesso tempo devono essere certi che le loro convinzioni riguardano tutti, anzi concernono il tutto. Si tratta di una sproporzione avvertita anche quando la maggioranza della società era cristiana.
Nel Natale del 1440, lo stesso anno in cui scrisse De docta ignorantia, il suo libro più celebre, Niccolò Cusano tenne ad Augusta, in Germania, una lunga predica nella quale la dottrina superò l’ignoranza. Alcuni passaggi sono rivelatori della sua filosofia. Dio è infinito, il mondo è invece finito. Tra infinito e finito non c’è proporzione. Tuttavia il mondo non può esistere senza un rapporto con il suo Principio che infinitamente lo trascende.
Come fa dunque l’universo a esserci? Vi è un’unica risposta possibile: ciò avviene a motivo dell’Incarnazione, «infatti se Dio non avesse assunto la natura umana - la quale compendia in sé tutti gli altri esseri come loro centro unificante - l’universo nella sua totalità non sarebbe compiuto e perfetto, anzi non sarebbe affatto un universo». La convinzione umanistica che giudica l’uomo un «microcosmo» è chiamata in causa per dare ragione dell’esistenza di tutte le cose. Dio si incarna non a motivo del peccato umano ma perché il creato sia e sussista.
Nessuno esige dai presbiteri che predicheranno nella notte e nel giorno di Natale di misurarsi con le abissali prospettive cusaniane. La richiesta è più contenuta, sarebbe infatti sufficiente che gli immancabili appelli al bambinello e alla solidarietà fossero davvero capaci di misurarsi con la serietà dell’esistenza.
DANTE 2021: ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA, E STORIOGRAFIA...
A 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, UN INVITO A RILEGGERE la sua "Monarchia", a cercare di capire meglio le ragioni di "quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 102), e rimeditare le "Res Gestae" di Augusto, alla luce dei 2046 anni dalla fondazione di Aosta, avvenuta nel 25 a. C., in coincidenza con il solstizio d’inverno.
AUGUSTO, L’ITALIA, E LE SUE "28 COLONIE":
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAfIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924).
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
PSICOANALISI, FILOSOFIA, E LETTERATURA.
"IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (FREUD, 1929) EUROPEA:
"L’ INTERPRETAZIONI DEI SOGNI" (FREUD, 1900) E "L’ELETTO" (THOMAS MANN, 1951).
Classici. La sublime grandezza del Mann "minore"
Concluse le nuove traduzioni di tutti i romanzi per i Meridiani: i tre raccolti nell’ultimo volume sono i meno noti, ma anche i più vari e ironici
di Marino Freschi (Avvenire, venerdì 3 dicembre 2021)
Finalmente si conclude la grande impresa della traduzione di tutti i romanzi di #ThomasMann. Questo secondo volume dei Romanzi nei “Meridiani”, a cura dell’infaticabile Luca Crescenzi (pagine 1.568, euro 80,00), propone nuove traduzioni ad opera di Margherita Carbonaro e Elena Broseghini, dei romanzi per così dire minori: Charlotte a Weimar, composto tra il 1936 e il 1939, introdotto da Aldo Venturelli; L’Eletto, scritto tra il 1948 e 1950, con una prefazione di Elisabeth Galvan e infine Confessioni dell’impostore Felix Krull, con una premessa di Werner Frizen. Le Confessioni sono l’opera ironico-parodistica di una vita. Cominciamo dal Krull: Crescenzi, quale curatore del volume, ha avuto il coraggio di aggiornare il titolo, assai antiquato, che recitava Confessioni del cavaliere d’industria F.K. Pensate che nel 1905 Mann (aveva trent’anni), dopo la lettura delle memorie di un avventuriero rumeno, cominciò a scrivere su una figura simile, e così nacque il più ironico romanzo della sua vita. Un progetto che abbandonava e riprendeva. Erano tempi severi: la Grande Guerra, l’inflazione e finalmente la Repubblica di Weimar e infatti nel 1923 esce una parte cospicua del racconto, ma sarà solamente alla fine della guerra, nel 1954, che Mann conclude la prima (ed unica) parte. Di nuovo in Europa, a Zurigo, nel Grand Hotel Dolder dopo aver conosciuto un giovane cameriere, l’ultimo amore (platonico), sente di nuovo il piacere e la forza di proseguire a scrivere questo romanzo leggero, sottilmente perverso, un autentico ricamo dell’intelligenza e dell’umorismo. Morì sempre a Zurigo nell’agosto del 1955 e così ci lasciò con un’opera aperta, sublime e ironica, fascinosamente sospesa tra il romanzo di formazione, caratteristico della tradizione letteraria tedesca, e il racconto picaresco.
Nel 1951 aveva pubblicato [L’eletto] un altro racconto stranissimo, di tutt’altro segno: una sorta di riscrittura di un poema medievale, Gregorius. Divenne un racconto inquietante e nel medesimo tempo rispettoso - persino linguisticamente - di quella devota civiltà medievale. Si trattava di una variante del mito di Edipo, trasfigurata e redenta nell’#Europa cristiana. L’impasto linguistico con elementi dal latino, dai parlati romanzi, dal tedesco medievale contribuisce al fascino intrigante, sostenuto da uno stile allegro, melodico come un Lied, come una canzone di un trovatore. Per noi l’incipit ha qualcosa di commovente con le campane di Roma: «Suono di campane, frastuono di campane supra urbem, sull’intera città, nelle sue brezze ricolme di note! Campane, campane, che oscillano e ondeggiano, dondolano e ciondolano con moto alterno sospese ai travi e ai ceppi, con le loro cento voci, in una babilonica confusione». E nella città eterna si compie il #destino, altrimenti tragico, di Gregorius, l’Eletto al sacro soglio pontificio: colui che molto peccò, e molto si pentì ed espiò, era scelto a sostenere la santa istituzione della Chiesa.
Si dice che questo romanzo venisse apprezzato dalle romane gerarchie tanto da consentire al luterano Mann un incontro con il Pontefice nel 1953, come ricorda nel diario: «Mercoledì 29 aprile udienza privata da Pio XII, esperienza di grandissima intensità e commozione, che continua ad agire con forza in me in modo strano». È la magia di Roma, quella Roma dove Mann aveva scritto, ventenne, il primo capolavoro, I Buddenbrook, quella Roma che lo collegava al suo grande maestro, a Goethe, che lo aveva accompagnato, idealmente sostenuto per l’intera esistenza di scrittore e d’intellettuale. Nei momenti più amari e aspri della vita tornava sempre a Goethe, come in quel terribile 1936 in cui ruppe pubblicamente, definitivamente con il Terzo Reich dopo un lungo silenzio di tre anni, trascorsi già in esilio.
Il rifugio spirituale fu questo divertissement serissimo: Charlotte a Weimar. Mann rievoca la visita che Charlotte Buff Kestner, la Lotte del Werther, compì a Weimar nel 1816. Lo spunto era autentico, Frau Kestner era stata veramente a Weimar e durante il soggiorno fu invitata nella sontuosa casa di Sua Eccellenza von Goethe, che gli mise a disposizione la carrozza per una rappresentazione teatrale. Alla fine dello spettacolo, la carrozza attendeva la donna - che al figlio aveva scritto quanto Goethe fosse stato algido. Nel tragitto - sogno o realtà non sappiamo - Goethe appare e le parla come allora: ecco che il genio del Werther ritorna. Lei ascolta e infine non le resta che augurargli: «Pace alla tua vecchiaia!». Augurio per il grande di Weimar, ma anche per Mann, il grande esule, lontano dalla patria, ma che poteva ancora affermare con amaro orgoglio: «Dove sono io, c’è la cultura tedesca».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
#Antropologia, #Giustizia, e #Carità (#Charité, #Charitas, #Charidad, #Charity).
#Storia e #memoria: #Dante2021, #Pascal, e la #Bibbia civile d’#Europa...
#FILOSOFIA E #MESSAGGIO EVANGELICO. Nel secondo dei "Tre Discorsi sulla condizione dei grandi" di #Blaise Pascal c’è un sottile e importante richiamo all’indicazione evangelica di "dare a #Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (non "#Erode" né "#Mammona" e "#Mammasantissima") e una implicita consonanza con la proposta di #Dante (#Monarchia) relativa al #riconoscimento reciproco dei #Due Soli (#potere temporale e #potere spirituale - le ragioni del #corpo e le ragioni del #cuore). Ovviamente, è un generale invito all’#essere umano a uscire dalla #claustrofilia (#Elvio Fachinelli, 1983) e a coniugare la #duplicità strutturale della propria condizione alla #luce dell’#amore "che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145) e a ripensare la #questioneantropologica ricollegando il tema delfico del «#conosci te stesso» alla #domanda di «#come nascono i bambini». Uscire dallo #statodiminorità (#Kant - 1784, #Miche lFoucault - 1984), forse, è proprio #ora....
#FILOLOGIA #ANTROPOLOGIA CULTURALE E #SCIENZA POLITICA.
RIPRENDERE IL #DISCORSO DA #CAPO E DAL #CAPO. Nel rileggere le pagine di #Pascal sulla "condizione dei grandi", sul piano delle #Istituzioni (sia laiche sia religiose, sia temporali sia spirituali), forse, è anche bene e giusto #ricordare che la parola "#carisma" è una parola che ci viene dal #greco antico: "#chàrisma", e richiama la "#Charis" ("#Grazia"), le "#Chàrites" (le tre "#Grazie") del mondo greco, legate alle #arti e alla #bellezza, e poi la "#Charitas" (il Dio pieno di #grazia del #messaggio evangelico: "Deus #charitas est": 1 Gv.: 4.8).
Federico La Sala
PIANETA TERRA, EUROPA, E MEMORIA DELLA GUERRA DI TROIA. INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (FREUD, 1900) E DANTE 2021...
Archeologia
Straordinaria scoperta in Inghilterra: il primo mosaico con un episodio dell’Iliade
di Redazione (Finestre sull’Arte, 26/11/2021)
È una scoperta straordinaria quella che è avvenuta in un campo delle East Midlands in Inghilterra: e questa volta l’aggettivo “straordinario” si può utilizzare sul serio, perché niente di simile era mai stato trovato prima d’ora in Gran Bretagna. Gli archeologi infatti degli Archaeological Services dell’Università di Leicester hanno infatti scoperto un raro mosaico romano con un episodio dell’Iliade di Omero a seguito di uno scavo condotto nelle campagne nella contea di Rutland. Il mosaico è stato subito dichiarato “scheduled monument”, ovvero bene d’interesse culturale, da parte del Dipartimento per il Digitale, la Cultura, i Media e lo Sport (omologo del nostro ministero della cultura), dietro suggerimento di Historic England, istituto governativo che ha competenza sul patrimonio e sulla tutela dei monumenti antichi, con alcuni compiti simili a quelli delle nostre soprintendenze.
È stata proprio Historic England a dare ieri la notizia del ritrovamento, anche se la scoperta iniziale del mosaico risale al 2020, per merito di Jim Irvine, figlio del proprietario terriero Brian Naylor, che si è accorto dei resti in uno dei suoi campi e ha contattato il team archeologico del Leicestershire County Council, consulenti del patrimonio dell’autorità locale, per comunicare quanto ritrovato. Data la natura “eccezionale” (così definita dagli esperti) di questa scoperta, Historic England ha potuto ottenere finanziamenti per indagini archeologiche urgenti del sito da parte dell’Università di Leicester nell’agosto 2020. Ulteriori scavi che hanno coinvolto personale e studenti della School of Archaeology and Ancient History dell’Università di Leicester hanno esaminato il sito più a fondo nel settembre 2021.
I resti del mosaico misurano 11 metri per quasi 7 metri e rappresentano parte della storia di Achille, ovvero il suo scontro con Ettore alla fine della guerra di Troia. È una raffigurazione di cui sopravvivono pochi esempi in Europa, ed è l’unica nota nel Regno Unito. L’opera costituisce il pavimento di quella che gli archeologi pensano sia stata una grande sala da pranzo o una zona dove i proprietari della dimora si rilassavano. La stanza dove si trovava il mosaico infatti fa parte di una grande villa che fu abitata in epoca tardoimperiale, tra il III e il IV secolo d.C. La villa è inoltre circondata da una serie di altri edifici rivelati da un’indagine geofisica e da uno studio archeologico, tra cui quelli che sembrano fienili, strutture circolari e forse anche uno stabilimento termale, il tutto all’interno di una serie di fossati di confine. È probabile che il complesso fosse proprietà di un individuo facoltoso, che aveva conoscenze di letteratura classica.
[FOTO]:
Una parte del mosaico scoperto
Una parte del mosaico scoperto.
Lo studioso David Neal sul sito della scoperta
Il mosaico nella sua interezza
Archeologa al lavoro sul mosaico
Archeologo al lavoro sul mosaico
Veduta aerea del sito
Segni di fuoco e rotture nel mosaico suggeriscono che il sito sia stato successivamente riutilizzato. Sono stati scoperti nel sito anche resti umani: si pensa che queste sepolture siano state eseguite dopo che l’edificio non era più occupato. Sebbene la loro età precisa sia attualmente sconosciuta, sono posteriori al mosaico ma posti in relazione alla villa, suggerendo una datazione tardo romana o altomedievale per il riuso di questa struttura. La loro scoperta fornisce un’idea di come il sito possa essere stato utilizzato durante questo primo periodo storico post-romano, relativamente poco conosciuto. I reperti recuperati nel sito saranno ora analizzati dagli Archaeological Services dell’Università di Leicester e da specialisti tra cui David Neal, il principale esperto di mosaici antichi del paese.
Il sito è stato accuratamente esaminato ed è stato ora ricoperto, come da prassi, per proteggerlo. Il complesso della villa è stato trovato all’interno di un campo dove i resti archeologici poco profondi erano stati disturbati dall’aratura e da altre attività agricole. Historic England sta ora collaborando con il proprietario del terreno per elaborare schemi di utilizzo agricolo compatibili con la tutela dei resti archeologici. Inoltre, in collaborazione con l’Università di Leicester e altre parti interessate, Historic England sta pianificando ulteriori scavi sul sito per il 2022. Sono in corso discussioni con il Consiglio della contea di Rutland per valutare l’opportunità di un’indagine fuori sede del complesso della villa e dei suoi reperti. Il metodo e la portata di questo lavoro saranno stabiliti dai futuri scavi. Il sito si trova all’interno di un terreno privato e non accessibile al pubblico, e per il momento ancora non si parla di apertura ai visitatori. Ad ogni modo, la scoperta della villa di Rutland e le riprese della scoperta del mosaico saranno proposti al pubblico in un documentario su BBC Two all’inizio del 2022.
“Una passeggiata nei campi con la famiglia si è trasformata in un’incredibile scoperta”, ha dichiarato Jim Irvine, autore della scoperta. “Trovare delle ceramiche insolite tra il grano ha suscitato il mio interesse e ha stimolato un ulteriore lavoro di indagine. Più tardi, guardando le immagini satellitari ho notato un segno molto chiaro, come se qualcuno avesse disegnato sullo schermo del mio computer con un pezzo di gesso! Questo è stato davvero il momento ’wow’ e l’inizio della storia. Questa scoperta archeologica ha occupato la maggior parte del mio tempo libero nell’ultimo anno. Tra il mio lavoro normale e questo sono stato molto impegnato, ed è stato un viaggio affascinante. L’ultimo anno è stata una vera emozione essere stato coinvolto e collaborare con gli archeologi e gli studenti sul sito, e posso solo immaginare cosa verrà portato alla luce dopo!”.
“È straordinario aver scoperto un mosaico così raro di queste dimensioni, così come una villa attorno”, sottolinea Duncan Wilson, ad di Historic England. “Scoperte come questa sono davvero importanti per aiutarci a ricostruire la nostra storia. Tutelando questo sito siamo in grado di continuare a imparare, e non vediamo l’ora di sapere cosa potrebbero insegnarci le indagini future sulle persone che vissero lì oltre 1.500 anni fa”.
NOTA:
TROIA, ATENE, GERUSALEMME, ROMA, L’EUROPA.... Archeologia, storia, antropologia e immaginario: uno storico presente!
Sulla base di questa significativa emergenza omerica dal terreno del passato, avvenuta nel Regno Unito, forse, vale la pena riprendere l’indicazione dei vecchi come dei giovani e lavorare, ognuno e ognuna, "per la pace perpetua" (Kant, 1795) e, finalmente, uscire da un orizzonte di millenaria cecità (Saramago) antropologica e di una guerra civile sempre più planetaria.
Federico La Sala
L’AMORE UNIVERSALE E UN’APPROPRIAZIONE INDEBITA: LA MEMORIA DI MOSÈ E IL CAMMINO DI SIGMUND FREUD
PSICOANALISI CATTOLICESIMO E "DISAGIO NELLA CIVILTÀ" ("Das Unbehagen in der Kultur"). Un’appropriazione indebita dell’amore universale e "L’infelicità nella civiltà" ("Das Ungluck in der Kultur"):
"[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]".
“[...] mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti. Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e auto distruttrice degli uomini. In questo aspetto proprio il tempo presentemerita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta contro il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?”(#SigmundFreud, "Il disagio della civiltà", 1929).
Per "orientarsi nel pensiero" (Kant), rileggere le note di Franca Ongaro Basaglia su "Così parlò Edipo a Cuernavaca" ("PM-Panorama Mese", novembre 1982) e ricordare il legame della "Interpretazione dei Sogni" (1900) con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante Alighieri.
Federico La Sala
RINASCIMENTO: STORIA, MEMORIA, E FILOLOGIA.
LA SPREZZATURA, LA GRAZIA, E UN LEGAME DA RISTABILIRE. Nota a margine dell’opera di Baldassarre Castiglione...
Baldassarre Castiglione (1478-1529):
«Trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcun altra: e cioè fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi...
Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte; né più in altro si ha da poner studio che nella nasconderla: perché, se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato» (Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, XVI)
UNA QUESTIONE DI GRAZIA, UNA QUESTIONE DI AMORE...
SI DEVE IMPARARE ANCHE L’AMORE: "CARISSIMI, NON CREDETE A OGNI SPIRITO ... DIO È AMORE":"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). UNA LEZIONE DI NIETZSCHE E DI FREUD:
Si deve imparare anche l’amore. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più; e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore.
F. Nietzsche, La gaia scienza, IV, fr. 334, Adelphi, Milano 1991).
Disagio della civiltà: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
CANOVA E IL VATICANO: LE GRAZIE, AMORE E PSICHE Una gerarchia senza Grazie (greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
FLS
Geometrie esistenziali.
Pavel Florenskij: la sottile linea russa
Torna in libreria uno dei testi più visionari e oscuri di Pavel Florenskij
Matematico, filosofo e religioso ha vissuto all’inizio del Novecento
di Chiara Valerio (la Repubblica, 27.10.2021)
Tutto quello di cui Euclide parla non esiste. Ciò nonostante, la geometria così come Euclide l’ha immaginata, è l’unica che si accorda alla nostra esperienza quotidiana e aggiungo - si capirà spero perché - un altro aggettivo: terrena. La geometria euclidea garantisce, per dirne una, che i corpi solidi non cambino forma durante il movimento - al netto delle palle lanciate nei cartoni animati giapponesi da Jenny la tennista, Holly e Benji e Mimì e le ragazze della pallavolo.
Se la geometria che descrive il nostro mondo nasce da ipotesi di misteriosa
esistenza («il punto è ciò
che non ha parti»), c’è da
chiedersi quale ulteriore
rarefazione di realtà stia in
un numero detto immaginario. Il nome lo inventa
Cartesio, ma è Leibniz che
in maniera formidabile (siamo a cavallo tra Seicento e
Settecento) ne svela essenza e specie:
«La natura, madre delle verità eterne, anzi lo spirito divino, è in realtà troppo gelosa della propria straordinaria varietà
per consentire che le cose
si addensino tutte in un
unico genere, ha perciò trovato un sottile e mirabile
espediente in quel prodigio dell’analisi, quel mostro del mondo delle idee,
quella specie di anfibio tra
essere e non essere, chiamata radice immaginaria».
Pensiero che potrebbe essere posto, tra l’altro, a monito e conclusione di tutte le discussioni riguardo l’identità di genere.
Ma torno sui numeri immaginari e sulla loro natura perché la casa editrice
Mimesis porta in libreria
uno dei testi più visionari e
oscuri di Pavel Florenskij,
matematico, filosofo e prete russo vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Il libro si intitola Gli immaginari in geometria (a cura di Andrea Oppo e
Massimiliano Spano, traduzione di
Anna Maiorova, A. Oppo e M. Spano, pagg.112, 12 euro) ed è stato pubblicato nel 1922 nonostante Florenskij abbia cominciato a scriverlo
venti anni prima mentre era studente alla facoltà di matematica. E
un libro che lo accompagna per
più di un terzo della vita.
I numeri immaginari o numeri complessi vengono introdotti (anche a scuola) come coppie di un piano cartesiano sulle cui ascisse il passo è scandito dall’unità reale, e sulle cui ordinate il passo è segnato da una unità immaginaria, il simbolo di quest’ultima è i.
Da qui prende l’abbrivo Florenskij per fornire una sua rappresentazione geometrica dei numeri immaginari. Immagina una superficie piana che su una faccia abbia i numeri reali e sull’altra i numeri complessi. Non numeri reali e immaginari sullo stesso piano, ma numeri reali e immaginari sopra e sotto lo stesso piano, opposti.
La geometria che ne deriva è ctonia, in senso proprio, perché le aree delle figure geometriche nella parte immaginaria hanno valore negativo. Esattamente il motivo per cui per quasi duemila anni l’equazione x2+1= O equivalente a x2= -1 non ha avuto soluzione, inconcepibile che un’area avesse misura negativa.
Ipotizza dunque Florenskji che esistano geometrie terrene governate da Euclide e geometrie immaginarie nelle quali è l’impensato a dominare.
Questo impensato matematico, aggiunge in un capitolo
successivo alla prima stesura, è stato però visto da Dante Alighieri. E
la geometria è ctonia perché Florenskij si mette nell’inferno di Dante e da lì, deducendo dai versi la
geometria tolemaico-dantesca della Commedia, ne evidenzia la natura ellittica concorde a quella della
relatività einsteniana:
«Il suo (di
Dante) viaggio è stato reale; ma se
anche qualcuno lo negasse, andrebbe comunque riconosciuto come una realtà poetica, cioè come
qualcosa che può essere immaginato e concepito e, come tale, contiene i dati necessari per comprenderne i presupposti geometrici».
A Floreskji interessa mostrare che lo spazio e il tempo sono finiti e chiusi in sé stessi e che il limite della velocità della luce - limite posto nel modello di Einstein - dice solo che oltre quella velocità cambia il modo di vita e cambia la geometria, e questa nuova geometria giace sulla faccia del piano opposta ai numeri reali, tra i numeri immaginari.
Qualche anno dopo, sia- mo nel 1927, è Mandelstam - che con ogni probabilità aveva letto Florenskij - a ragionare su quanto Dante e il suo poema non stiano dietro ma davanti alla scienza moderna. Mandelstam voca a sé e alla Commedia le scienze della terra, geologia e cristallografia.
La nuova edizione di Conversazione su Dante - fino al mese di maggio 2021 oscuro, oscurissimo testo in italiano e ora luminoso luminosissimo grazie alla cura di Serena Vitale - è stata pubblicata da Adelphi (pagg.116,13 euro).
«La sua poesia - scrive Mandelstam - conosce tutte le forme di energia note alla scienza dei nostri tempi. L’unità di luce, suono e materia ne costituisce l’intima natura».
E continua, qualche pagina dopo: «I versi di Dante rivelano, ap- punto, una formazione e una colorazione geologiche. La loro struttura materiale è di gran lunga più importante del loro decantato carattere scultoreo. (...) In altre parole, immaginate un monumento di granito eretto in onore del granito come per rivelarne l’essenza: avrete così un’idea abbastanza chiara del rapporto che Dante stabilisce tra forma e contenuto».
È di certo vero che Galileo Galiei, oltre a un grande scienziato, sia stato un grande scrittore, e, leggendo Florenskij e Mandelstam vie- ne da pensare che accade pure che i grandi poeti siano capaci di immaginazioni non metamorfiche, di immaginazioni scientifiche che non prendano l’abbrivo dal reale - tutto quello di cui Euclide parla, non esiste - ma lo chiariscano, viene da pensare, insomma, che i grandi poeti siano grandi scienziati.
La teologia geometrica (ma non euclidea) di Pavel Florenskij
Tradotto e pubblicato per la prima volta integralmente uno dei libri che hanno caratterizzato la parabola intellettuale del matematico e prete ortodosso russo
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 28 ottobre 2021)
«Mi permetto di disturbare la censura con quanto segue». Suonano così le parole, scritte il 13 settembre 1922, in apertura alla lettera indirizzata alla sezione politica per distoglierla dal proposito di censurare alcune parti di un testo di geometria. Sono trascorsi cinque anni dalla rivoluzione bolscevica e uno dalla proclamazione della nascita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche quando Pavel Florenskij si vede cassate talune riflessioni sulle geometrie non euclidee contenute nel testo Gli immaginari in geometria. Estensione del dominio delle immagini bidimensionali nella geometria (Esperimento per una nuova interpretazione dei numeri immaginari) (pagine 114, euro 12), tradotto per la prima volta integralmente ora dall’editore Mimesis con la curatela di Andrea Oppo e Massimiliano Spano.
Ma cosa di tanto eversivo e pericoloso per il neonato regime sovietico poteva adombrarsi tra le righe di un testo tecnico dedicato alla rappresentazione geometrica dei numeri complessi? Florenskij, che da molti è considerato il Leonardo da Vinci russo, è un autore dai poliedrici interessi. Matematico, filosofo, teologo consacratosi nel 1909 alla Chiesa ortodossa, ingegnere elettrotecnico, esperto di linguistica, estetica e simbolismo, matura, dall’intreccio delle sue competenze, una visione organica e unitaria del mondo. Una coerenza dottrinaria che non si incrina all’incontro con la vita. Le scelte di padre Pavel lo portano infatti all’arresto nel 1933 e alla fucilazione nel 1937 nei pressi di Leningrado dopo cinque anni trascorsi nel gulag delle isole Solovki. Matematica e teologia in Florenskij non sono due continenti separati ma si corrispondono senza requie.
Lo dimostra proprio l’anno 1922. Sono dodici mesi impegnativi in cui Florenskij consegna alle stampe sia Gli immaginari in geometria sia Iconostasi (anche conosciuto con il titolo Le porte regali) quasi a conferma che le due dimensioni si intrecciano indissolubilmente una con l’altra. Per il teologo russo la matematica non è un vezzo ma una «abitudine di pensiero » che «aiuta a vedere rapporti geometrici in tutta la realtà» e «lega in un unico modo la visione del mondo», scriverà dalla prigionia alla figlia Olga. E Gli immaginari in geometria, in particolare l’ultimo paragrafo aggiunto con vent’anni di ritardo, conferma questa concezione, dove le teorie più spinte della ricerca scientifica si fondono con la teologia mostrando la convivenza di reale e immaginario. Il raggiungimento di questi risultati non è però immediato.
Ci vogliono ben quattro lustri perché il testo giunga a un suo compimento. La gran parte di esso è redatta nel 1902 quando Florenskij è ancora un giovane studente di matematica e fisica all’università di Mosca. Poi, nella primavera del 1921, il pensatore russo decide di integrarlo con un capitolo generalizzando le considerazioni della prima parte. Ma ancora il testo non sembra maturo e così, l’anno seguente, padre Pavel aggiunge un ultimo capitolo in cui lega le sue considerazioni matematiche con la disamina di alcune concezioni cosmologiche e geometriche che fanno capolino tra le terzine della Divina Commedia di Dante. L’importanza del Fiorentino non deve stupire. Egli non solo gioca un ruolo non marginale nella cultura russa dei primi decenni del Novecento ma recita una parte non trascurabile pure nel pensiero di Florenskij come sottolinea anche un recente breve saggio di Natalino Valentini, Il Dante di Florenskij (Lindau), che insieme all’introduzione di Oppo e alla postfazione di Spano costituisce un importante trittico per muoversi tra le pagine non sempre agevoli di Gli immaginari in geometria.
Come Florenskij prova a illustrare anche nell’immagine di copertina composta dall’amico artista Vladimir Favorskij, il modello dello spazio e tempo previsto dalle teorie della relatività generale e ristretta di Albert Einstein, il piano della geometria ellittica di Rieman, la superficie di Felix Klein e la geometria complessa di August Möbius confermano la concezione cosmologica espressa da Dante e dalla fisica tolemaica come rappresentato dalla superficie ricurva (tipo il nastro di Möbius per capirsi) che sembra adombrarsi al passaggio di Dante e Virgilio dall’Inferno al Purgatorio.
Per Florenskij le avanguardie della ricerca matematica e fisica anziché iscriversi in continuità con la scienza moderna, che molto deve al prospettivismo rinascimentale contestato dal russo proprio nei saggi sull’icona, ne rappresentano una discontinuità e confermano la prospettiva aristotelico-tolemaica dantesca al punto che per Florenskij «attraversando il tempo, la Divina Commedia si trova inaspettatamente davanti, e non dietro la scienza moderna».
Lungo questo cammino, dove matematica e teologia sono come germani celesti che contribuiscono ad abbattere la concezione materialista del marxismo sovietico, «il collasso della figura geometrica non significa la sua eliminazione ma solo il suo passaggio all’altro lato della superficie, e di conseguenza la sua accessibilità agli esseri che lì si trovano, allo stesso modo deve essere inteso il carattere immaginario dei parametri di un corpo, non come un segno della sua irrealtà ma semplicemente come l’evidenza del suo passaggio a un’altra realtà».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Sulla lettera dei filosofi contro Agamben
di Luca Illetterati (Le parole e le cose, 19 ottobre 2021)
Il difetto principale dei filosofi, diceva Hegel - che un po’ se ne intendeva - è la pretesa che essi hanno di insegnare al mondo come il mondo dovrebbe essere. Come se il mondo fosse ogni giorno lì ad aspettare che arrivasse il pensatore di turno a dirgli che vestito indossare al sorgere del sole. Questa malefica tentazione sembra diventata tanto più evidente all’interno del periodo di crisi pandemica che stiamo vivendo. E non si sta qui parlando solo delle posizioni oramai notissime di Giorgio Agamben contro le quali chi scrive ha anche aspramente e pubblicamente polemizzato ritenendole posizioni che rischiano di sfociare in forme di complottismo populistico, o che comunque dimostrano quanto gli occhiali ideologici dei dispositivi che si sono elaborati per leggere il mondo rischino di deformare radicalmente ciò che il mondo mostra di sé.
A leggere infatti la lettera ‘contro Agamben’ firmata da un numero considerevole di filosofi italiani e pubblicata il giorno 16 ottobre sul “Fatto quotidiano” viene davvero da pensare che questi oppositori filosofici delle posizioni agambeniane siano forniti di occhiali perlomeno altrettanto deformanti e, verrebbe da dire, anche un po’ più dozzinali di quelli di cui vorrebbero mostrare la debolezza e gli effetti distorcenti. La lettera muove da un tono scandalizzato per il fatto che Giorgio Agamben è stato audito in una commissione al Senato sulla questione Green Pass.
Scandalo, evidentemente, del tutto immotivato. Agamben non è stato invitato in quanto rappresentante di una comunità filosofica che andrebbe perciò difesa dal rischio di essere confusa con le posizioni assai controverse di un singolo filosofo, ma in quanto persona autorevole - piaccia o meno, rientri o meno nelle pagelline che pretendono di dare patenti di filosoficità, è il filosofo italiano più noto al mondo - che ha una posizione molto discutibile (e forse anche per questo interessante) sulla questione del Green Pass. Una posizione che taluni pensano sia un bene che chi legifera abbia presente. Non necessariamente per accoglierla, ma ad esempio anche solo per capire se offra argomenti che possono essere tenuti presente per fare poi, con maggiore consapevolezza, magari il contrario di quello che Agamben vorrebbe. Dopo di che la lettera entra nel merito di ciò che Agamben ha sostenuto in quella audizione (e in generale in questi mesi).
In primis, dicono i filosofi che sembrano certi di abitare dalla parte giusta del mondo e della storia, è falso sostenere, come ha fatto Agamben nell’audizione, che i vaccini anti-covid19 siano in una fase sperimentale. Giusto. I vaccini sono stati infatti testati. Ribadendolo, però, forse non sarebbe fuori luogo dire che è altrettanto vero che la somministrazione dei vaccini è iniziata - a mio parere giustamente e per un atto di responsabilità politica che andrebbe esplicitamente rivendicato e non nascosto - prima che tutti gli step cui solitamente viene sottoposto un farmaco fossero conclusi.
Come noto, infatti, solo nell’agosto del 2021 (quando cioè il vaccino era già in uso) la Food and Drug Administration americana ha fatto uscire il vaccino Pfizer-Biontech da quella che non a caso viene chiamata - con un termine che fa evidentemente gioco ad Agamben - emergency use authorization, ovvero approvazione emergenziale. E infatti solo da quel momento un governo che si volesse assumere quella responsabilità potrebbe introdurre l’obbligo vaccinale. Per l’Agenzia Europea del Farmaco, invece, i vaccini sono ancora sottomessi a CMA (Conditional Marketing Authorisation), ovvero ad autorizzazione al commercio condizionata, la quale è lo strumento utilizzato per accelerare l’approvazione dei medicinali durante un’emergenza sanitaria pubblica o per affrontare esigenze mediche non soddisfatte. Non dire queste cose e far credere che la somministrazione del vaccino abbia seguito una prassi standard vuol dire o non voler riconoscere l’eccezionalità decisionale che la situazione ha richiesto o voler far credere qualcosa che non corrisponde al vero.
Il secondo punto su cui si sofferma la lettera dei filosofi che non vogliono essere confusi con Agamben è che sarebbe improprio sostenere che ci troviamo in un’epoca in cui l’eccezionalità è diventata la regola al fine di esercitare da parte dello Stato un controllo sulla cittadinanza, sul modello di quanto fatto da forme di dispotismo come quello sovietico. Le analogie sono sempre pericolose, tanto più quando mettono di mezzo la storia e il dolore che la attraversa. E Agamben su questo è spesso fastidiosamente e gravemente fuori luogo. Tuttavia, non riconoscere che c’è una parte importante della riflessione filosofico-politica contemporanea che insiste sulla giustificazione sempre più emergenziale delle forme del potere politico, vuol dire aver deciso a priori che c’è in tutto il mondo una discussione che non dovrebbe trovare in realtà ospitalità nel mondo. Il che o rientra nella patologia denunziata da Hegel, o è una posizione frutto di ignoranza, o, più probabilmente, è, ancora una volta, una posizione banalmente ideologica.
Il terzo e il quarto punto della lettera sono forse i più delicati. Contro quanto sostenuto da Agamben, i filosofi che si vogliono corretti e informati sostengono che l’adozione del Green Pass non induce nessuna discriminazione tra classi di cittadini e non è, di conseguenza, in alcun modo una forma di repressione delle libertà individuali. Sostenere il contrario - dicono - sarebbe come sostenere che l’istituzione della patente di guida, fatta per limitare il più possibile il numero e l’entità degli incidenti stradali, determini una distinzione tra cittadini di serie A e cittadini di serie B, ovvero che l’obbligo della patente sia anch’esso una forma di lesione delle libertà dell’individuo. L’argomento della patente, come è noto, è uno degli argomenti preferiti sui social media, in particolare su Facebook, e francamente da una così prestigiosa comunità scientifica ci si poteva forse attendere qualcosa di più. In realtà è ovvio che il Green Pass produce una forma - niente affatto banale - di discriminazione. A cittadini che non stanno trasgredendo nessuna legge (perché non vaccinarsi è legale e legittimo) è di fatto impedita una forma di vita sociale minima degna di questo nome: essi, infatti, se non muniti di Green Pass non possono entrare in un’aula universitaria, in una biblioteca, in un teatro, nel luogo di lavoro, su un treno ad alta velocità, a una riunione di partito, a un’assemblea condominiale, in un locale pubblico. E tutto questo non sarebbe discriminatorio? Certo che lo è! All’argomento di Agamben che denunzia le implicazioni discriminatorie del Green Pass non si dovrebbe rispondere negando l’evidenza, ovvero, detto altrimenti, contrapponendo ideologia a ideologia. Una risposta forse un po’ più seria dovrebbe dire: sì, il Green Pass è una norma discriminatoria della quale dobbiamo farci carico, è una forma di ‘ingiustizia’ della quale una società degna di questo nome in certi momenti è chiamata a farsi problematicamente carico, sapendo e dicendo che sta facendo una cosa del tutto fuori dalla norma. Una società responsabile è una società che riconosce esplicitamente le situazioni di deviazione che la sua sopravvivenza richiede. Si chiama - verrebbe da dire - politica, ossia capacità di assumere decisioni non garantite circa il loro esito, di intraprendere azioni che escono dagli automatismi di ciò che è già deciso. Dire ad Agamben, come dicono i tanti filosofi che hanno firmato la lettera, che non è vero che c’è discriminazione, significa, di fatto, dare ragione ad Agamben, fornire cioè argomenti ancora più forti alla sua narrazione.
Il filosofo - è sempre Hegel che lo dice - è colui che è chiamato a problematizzare l’ovvio, a mostrare le implicazioni che abitano in esso, a evidenziare le conseguenze che la sua mera assunzione produce. Forse è questo quello che ci si attende dalla filosofia nel momento in cui entra nel dibattito pubblico. Non che ci dica, cioè, quali sono gli occhiali buoni per vedere “davvero” il mondo; ma che ci aiuti invece a capire cosa un certo tipo di occhiali o un altro ci impediscono di fatto di vedere.
DANTE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
SE è VERO CHE "Il difetto principale dei filosofi, diceva Hegel - che un po’ se ne intendeva - è la pretesa che essi hanno di insegnare al mondo come il mondo dovrebbe essere" E AL CONTEMPO che " [....] Il filosofo - è sempre Hegel che lo dice - è colui che è chiamato a problematizzare l’ovvio, a mostrare le implicazioni che abitano in esso, a evidenziare le conseguenze che la sua mera assunzione produce" (Luca Illetterati, "Sulla lettera dei filosofi contro Agamben", cit.. - sopra),
forse, è bene in via preliminare chiedersi
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA
rimeditare sul "concetto di gusto" e ripensare al "mitolegma di Eros" e all’ intelletto d’amore (cfr. Giorgio Agamben, "Gusto", Enciclopedia Einaudi, 6, Torino 1979, p. 1036),
e
decidersi se si vuole proseguire sonnambulicamente sulla strada di Hegel o svegliarsi e riprendere il cammino di Dante (cfr. Note per una riflessione storiografica).
La crisi è epocale ed è antropologica.
Kant alla fine del suo percorso l’ha ben chriarito. Urgente e necessario rispondere alla "domanda" e mettere in moto un processo di ristrutturazione planetaria.
Federico La Sala
PSICOANALISI, FILOLOGIA, E STORIA. FREUD IN CAMMINO CON MOSE’...
PER RI-COMPRENDERE TUTTA L’IMPORTANZA DEL LAVORO DI LORENZO VALLA, necessario ri-andare a Roma, a ri-visitare la Basilica di San Pietro in Vincoli e ricordare che "al restauro di Giulio II risale l’architettura attuale della chiesa".
CON FREUD, apriregliocchi... Nella Chiesa, non c’è solo la tomba di Giulio II e il Mosè di Michelangelo, ma anche la tomba del cardinale Niccolò Cusano: "Papa Niccolò V nel 1448 lo nominò cardinale della Basilica di San Pietro in Vincoli, titolo cardinalizio che conserverà fino al 1464, anno della sua morte".
CON LA SUA OPERA, LA DOTTA IGNORANZA (1440), CUSANO riprende L’ ANTROPOLOGIA OLIMPICA DI SOCRATE E, NONOSTANTE LA CRITICA DELLA "DONAZIONE DI COSTANTINO" DI LORENZO VALLA (1440) e la CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453), elabora un progetto per "la pace della fede" (1453) sui presupposti della filosofia platonico-aristotelica (dellatragedia - altro che messaggio evangelico e "divina commedia"): di là a poco, dopo la conquista di Granada (1492, con i suoi editti contro musulmani ed ebrei), Giulio II metterà le vesti del Faraone e solleciterà Michelangelo a realizzare la sua tomba!
FREUD IN CAMMINO CON MOSÈ: " [...] Nel 1914 esce sulla rivista Imago il saggio Il Mosè di Michelangelo, dove Freud espone finalmente le sue considerazioni, ricche di sorprendenti intuizioni, su una delle meraviglie artistiche più famose e ammirate del mondo. Non è un saggio psicoanalitico del Dottor Freud sulla figura del patriarca ebraico (a questo penserà anni dopo nel 1934-1938 scrivendo "L’uomo Mosè e la #religione monoteistica", dove attraverso la psicoanalisi viene ricostruita la storia di Mosè e del #monoteismo ebraico), ma è una relazione-rivelazione, confidenziale, intima, delle impressioni del Signor Freud davanti a “quel Mosè”, quella raffigurazione precisa, così come #Michelangelo l’aveva fissata nel marmo quasi quattrocento anni prima.
[...] La tesi di Freud è originale. Il punto di partenza dell’osservazione è il nodo della #barba nella mano sinistra di Mosè, un dettaglio, un aspetto apparentemente secondario, che, come la pratica psicoanalitica gli ha dimostrato, si rivela capace di aprire una finestra su una nuova #visione della realtà e sulla sua comprensione.
Contrapponendosi all’interpretazione più accreditata secondo la quale la #guida spirituale degli #ebrei sarebbe stata rappresentata da Michelangelo nel momento in cui prorompeva il gesto d’ira per l’#idolatria del #popolo, causando la rottura delle tavole della #Legge, Freud, vede #Mosè nell’atto della rinuncia a dar corso alla sua rabbia: la ragione ha il sopravvento sul suo furore, il patriarca, già pronto a scattare, si controlla, resta seduto, desistendo dall’atto violento.[...]
Se consideriamo che Freud scrisse il saggio nello stesso periodo del dissidio con #Jung, possiamo immaginare come si sia sentito vicino a quel Mosè deluso, scandalizzato dall’infedeltà dei suoi: il popolo della psicoanalisi, ingrato come il popolo ebraico, stava deviando dalla retta via, rinunciando alla giusta dottrina per volgersi ad altri culti.
Eppure, il ritratto conclusivo che traccia Freud di “quel” Mosè è quello di un saggio, consapevole della missione divina di cui è latore, capace di formidabile autocontrollo: la ragione che domina sulle passioni che prorompono.
Nella statua di Michelangelo Freud, in fondo, vede se stesso [...]" (cfr. Marina Malizia, "Il Mosè di Michelangelo (1914)", Archivio del CSPL, ripresa parziale).
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA: CON DANTE E FREUD, OLTRE LA "LOGICA" DELLA RAGIONE "OLIMPICA"...
PSICOANALISI E CIVILTÀ Il programma di Freud, al di là dei molteplici e "interessati" riduzionismi (in nome del padre o in nome della madre), era quello di pensare l’ "edipo completo" e, con ciò, portarsi oltre la tragedia tebana (l’alleanza storica "real-mente" incestuosa con la Madre/Regina), con tutte le sue implicazioni teologico-politiche (egiziane, greche, romane, e cattolico-costantiniane, ed ebraiche). In dialogo costante con Mosè, Sigmund Freud non solo si è portato "Sulla spiaggia" (Elvio Fachinelli, 1985), ma si è portato al di là del mare (Sandor Ferenczi, "Thalassa", 1924) - a Londra! Se no, perché ha amato tanto l’Italia?!
CRITICA DELLA RAGIONE OLIMPICA E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA: con Freud ("Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo", 1899) e Fachinelli ("La mente estatica", 1989), "benedire i serpenti" (Coleridge - Bateson) e uscire dal labirinto cretese costruito dall’ateniese Dedalo e dall’orizzonte della vecchia e della nuova Troia!
ARTE E MEMORIA. RICORDANDO CHE LE FIGURE DEL PAVIMENTO DEL DUOMO DI #SIENA sono state realizzate intorno al 1482/1483 e che l’immagine all’inizio della navata centrale di Mercurio, ErmeteTrismegisto è del 1488 e le immagini delle Sibille sono del 1482/1483, è BENE ricordare che "siamo" in una fase delicatissima della storia d’Europa e d’Italia: la caduta di Costantinopoli è avvenuta nel 1453 e la conquista di Granada da parte di Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona avverrà nel 1492, e si sta elaborando un "discorso" che troverà nel 1512, nella Volta della Cappella Sistina di Michelangelo (e Giulio II), il culmine. E, ancora, è BENE ricordare, ancora 500 anni dopo, quanto la visione di una teologia e antropologia "andrologica" renda la chiesa cattolico-romana edipicamente cieca e zoppa.
P.S. UN RICORDO DI SIENA. SU QUANTO questo momento storico sia carico di problemi, rileggere il sogno legato all’«AUF GESERES» nella "DIE #TRAUMDEUTUNG" (1899)!
IMMAGINARIO TEBANO (Ercole è nato a Tebe, nella città di Edipo) E STORIA: DOPO GRANADA (1492), A FIRENZE (1556/1557). Cosimo I dei Medici ha già sposato (1539) Eleonora di #Toledo e si autocelebra:
DANTE 2021, LORENZO VALLA (1440), E UNA DIREZIONE SBAGLIATA (A. GUTERRES - ONU, 2021). L’anno dantesco sta terminando ... ma lo spirito storiografico europeo è ancora quello del "Re Sole" (Luigi XIV), quello di Napoleone-Hegel e della loro "Fenomenologia dello Spirito". E della fenomenologia di Dante Alighieri, della "Monarchia" dei suoi "DueSoli", non se ne trova traccia da nessuna parte! Incapaci di vedere che cosa ci fa "tanto feroci" (Par. XXII, 151), dell’amore conoscitivo, "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145), si continua a pensare che sia solo una licenza poeticamente (e politicamente) audace, pericolosa. Per Dante, 700anni fa, erano venticinque i secoli di letargo, per Goethe trenta, per l’Europa e il Pianeta Terra, oggi, trentadue...
Federico La Sala
LA "DIVINA COMMEDIA", IL "POEMA CELESTE", E I SEGNI DI UNA CRISI ANTROPOLOGICA PLANETARIA...
DANTE 1321 - 2021. L’anno dantesco sta terminando (M. Cazzato, "Dante, Maometto e Charlie Hebdo: segni di una crisi persistente", Le parole e le cose, 6 ottobre 2021)... ma lo spirito storiografico europeo è ancora quello del "Re Sole" (Luigi XIV) e quello di Napoleone-Hegel e della loro "Fenomenologia dello Spirito". E della fenomenologia di Dante Alighieri, della "Monarchia" dei suoi "Due Soli", non se ne trova traccia da nessuna parte.
Comprensibili i giochi di prestigio delle varie traduzioni e delle alterne interpretazioni, ma su questa strada si è ancora del tutto a terra, incapaci di vedere che cosa ci fa "tanto feroci" (Par. XXII, 151). E dell’amor, "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145), si continua a pensare che sia solo una licenza poeticamente (e politicamente) audace, pericolosa. O no?
Appunti sul tema:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
L’ENIGMA DELLA SFINGE E LE TRACCE DI UNA PESTE DI LUNGA DURATA.
Interrogarsi ancora con Franca Ongaro Basaglia su cosa e successo a "Edipo a Cuernavaca" ("PM", novembre 1982) forse è meglio! Se ci si lascia accecare dal presente e non si riesce ad aprire gli occhi almeno a partire dagli Etruschi (come ha fatto Freud) come si può uscire dalla città di Tebe?? SarantisThanopulos invita a riflettere sulle "radici sociali del disastro sanitario"(il manifesto,18 settembre 2021) e ricorda "la figura di Rudolf Virchow ventiseienne patologo inviato a investigare un’epidemia di tifo nell’Alta Silesia nel 1848. Dopo un’osservazione di tre settimane stilò un rapporto in cui assegnava la colpa alla povertà e all’esclusione sociale. Se fossero cambiate queste condizioni l’epidemia non si sarebbe ripetuta. Riassunse la sua visione in questa frase: «la malattia di massa significa che la società è scombussolata»”. Bene! Semmelweis nel 1847 scoprì che, nelle cliniche ostetriche, l’alta incidenza di febbre puerperale poteva essere drasticamente ridotta mediante la disinfezione delle mani. Bene! Nel 1924, Louis-Ferdinand Céline scrisse la tesi sul "dottor Semmelweis". Bene! Ma, dall’epoca di Ponzio Pilato, lavarsele le mani è lo sport dominante, ancora, oggi!
Considerato che - come scriveva Kafka (1920) - "non c’è cosa che non sia concatenata e dipendente. Il capitalismo è una situazione del mondo e dell’anima", non è meglio osare uscire dall’inferno (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 90) e dalla casa di Edipo, dell’ alleanza Madre/Figlio e Figlio/Madre (una comoteandria platonica-mente organizzata), e stringersele le mani, in segno di riconoscimento, riconciliazione antropologica, e verità!? Non è bene porre fine al gioco dell’antinomia del mentitore, del mentitore istituzionalizzato e parlare chiaro (parresia)?! O vero e falso sono la stessa cosa?! E Freud non ha capito niente (e a Londra non è mai arrivato)?! O che?!
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CONTRO IL "PADRE NOSTRO", MA CON IL "PADRE NOSTRO": SENZA LA MESSA A FUOCO DELL’ EDIPO COMPLETO (FREUD) NON SI ESCE DALLA TRAPPOLA DEL MENTITORE STORICAMENTE ISTITUZIONALIZZATA ... *
L’antropologa scomoda
Ritratti. È morta a 91 anni Ida Magli. Scrisse testi fondamentali sul matriarcato, la sessualità, l’iconografia della Madonna e la storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, aveva radicalizzato il suo pensiero, abbracciando posizioni reazionarie
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 23.02.2016)
Figura controversa e complessa del panorama italiano, l’antropologa e scrittrice Ida Magli è scomparsa a Roma all’età di 91 anni. Per chi ne abbia letto i numerosi testi, in particolare quelli pubblicati tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta, dedicati ad argomenti liminari al femminismo - è difficile individuare la ragione che, negli ultimi venti anni, l’ha spinta verso un passo reazionario. Sarebbe tuttavia riduttivo collocarla alla svelta nella deriva antieuropeista che in tempi recenti ha abbracciato anche se, in tutta onestà, potrebbe essere questo uno dei motivi che l’ha resa poco attraente soprattutto alle generazioni di giovani studiose che, con i testi, si confrontano. Ma per capirne il quadro completo e l’eredità che ha lasciato a chi si misura con i senso parlante dei testi, bisogna fare un necessario passo indietro, ne sono convinte in molte che di Magli hanno ascoltato quelle mirabili lezioni di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma fino al suo pensionamento nel 1988.
Tra quelle allieve spicca Loredana Lipperini che, quando la notizia della scomparsa della professoressa Magli è stata diffusa, ha affidato ai social network parole tanto affettuose quanto colme di gratitudine per averle insegnato una curvatura dello sguardo ineguagliabile. Ed è forse su questo che ci si potrebbe soffermare, non per espungere i testi dal portato biografico ma per evitare di renderla una intellettuale rubricata semplicisticamente e rapita dalle destre; perché cioè le vada riconosciuto ciò che ha fatto, ovvero individuare alcuni elementi essenziali e spesso scomodi al dibattito antropologico e femminista contemporaneo e che poi hanno retto la parte centrale della sua esistenza.
In realtà, la storia tra Ida Magli e il femminismo è stata piuttosto intermittente, e questo nonostante abbia avuto da sempre il chiaro desiderio di seguirne il passo a giudicare dai passaggi che le sono stati cari.
Basti pensare a volumi come Matriarcato e potere delle donne (1978), in cui compaiono alcuni passi sulle società matriarcali e una inedita traduzione del poderoso testo Das Mutterrecht di Bachofen. Solo due anni prima, aveva fondato la storica rivista dwf.
È del 1982 La femmina dell’uomo e poi c’è lo studio in cui si concentra su Santa Teresa di Lisieux. Una romantica ragazza dell’Ottocento (1994), quello su La Madonna (1987), fino a un’interessante edizione aggiornata, dieci anni dopo, La Madonna, dalla Donna alla Statua; cruciale è stato La sessualità maschile (1989) e il suo studio sulla Storia laica delle donne religiose (1995).
Insieme ai testi forse più conosciuti vi è stato l’impegno costante verso l’antropologia che ha percorso sempre con disinvoltura e originalità di posizioni. È suo il più generale manuale di Introduzione all’antropologia culturale (1983) così come si deve a lei la fondazione e direzione (dal 1989 al 1992) della rivista Antropologia culturale.
Il nodo sessualità-religione è stato per Magli uno dei più frequentati, là dove entrambi i punti sono stati sempre interpretati con una certa ritrosia anche nella discussione politica pubblica.
Ida Magli in realtà, come ricorda Lea Melandri, che abbiamo raggiunto per telefono, è stata precorritrice lucidissima di alcuni snodi fondamentali: «Certo, non si può leggere solo parzialmente, bisogna guardarla nel suo intero e in quanto è stata capace di offrirci alla lettura. È rimasta sempre abbastanza in disparte, ma il femminismo l’ha intersecato; forse non è stata così riconosciuta come avrebbe meritato, e molto ci possono raccontare ancora i suoi libri; vi sono per esempio frammenti folgoranti, coraggiosi che mettono in chiaro alcuni aspetti forti: sessualità, immaginario e fantasie maschili sui corpi delle donne e il grande nodo religioso». Melandri prosegue citando alcuni passaggi cruciali, per esempio quelli che attengono il corpo delle donne, la sessualità e il potere che disciplina i corpi fino a diventare violenza.
Su quest’ultimo punto, infatti, anche la stessa attenzione di Melandri si è soffermata. «Ho letto e riletto alcuni suoi frammenti perché penso ci siano preziosi. Non sono stati mai scontati e andrebbero ascoltati. Ma penso anche alla lezione sulla storia laica delle religiose, un lavoro straordinario che andrebbe accolto con maggiore generosità».
Addio al Padre *
"[...] Abbiamo ricostruito questo percorso per mostrare chiaramente come oggi non vi sia più spazio non soltanto per il cristianesimo, ma per tutti i valori che in questi duemila anni hanno concorso alla formazione e allo sviluppo della civiltà europea. Per quanto forse i credenti cristiani non se ne rendano del tutto conto, non può sussistere una religione fondata su un Dio «Padre» laddove la figura del padre ha perso qualsiasi rilevanza e autorità. Come abbiamo ormai più volte detto, le religioni sono specchio e proiezione di ciò che pensano e che desiderano i popoli. L’immagine di un Dio-Padre è ormai priva di senso.
Non può sussistere una religione fondata sull’importanza del «Figlio» laddove la procreazione è considerata un fatto personale e gravoso e la società provvede gratuitamente ai numerosissimi aborti confermando così che vuole la propria morte. D’altra parte il figlio è ormai inutile per il padre in quanto non gli serve più a garantirne la sopravvivenza. Non serve né per l’al di là né per il di qua. Le dinastie, le successioni, le eredità sono state quasi del tutto abolite, oppure vengono significativamente caricate di tasse. Nessun genitore conta sui figli per la propria vecchiaia. Alla vita nell’aldilà è ormai quasi impossibile credere e di fatto gli uomini in Europa preferiscono non pensarci.
La dichiarazione di «morte cerebrale», i trapianti d’organi hanno tolto concretamente e simbolicamente ogni trascendenza alla morte, di cui il cadavere, fino a questa orrida decisione, sembrava racchiudere il mistero; per non parlare di ciò che il corpo era (o meglio «è», visto che il dogma non è stato abolito) nella teologia cristiana con la fede nella resurrezione dei corpi, inclusa nel Credo, alla quale però nessuno evidentemente pensa più.
Sembra quasi impossibile che vi sia stato un tempo (oggi appare lontanissimo ma in realtà si tratta soltanto di pochi anni fa) in cui gli uomini si toglievano il cappello davanti a un morto a onorarne, appunto, la sacralità. Tutto questo è stato voluto dallo Stato e dalla Chiesa in modo ossessivo, come se la realizzazione dei trapianti d’organi costituisse il centro del loro potere e dei loro desideri.
Ma il trapianto d’organi significa l’annullamento delle specifiche individualità (oltre che il consenso e la legittimazione dell’istinto sempre presente nell’uomo di sopravvivere uccidendo, mangiando l’altro); significa avvicinarsi concretamente a quella nuova forma di uguaglianza che, invece di affermare l’esistenza del singolo, afferma la sua non-forma, la sua mancanza d’identità, la sua integrazione nell’identico. Passaggio indispensabile per giungere ad annullare la differenza posta dalla natura con il Dna maschile e femminile, la differenza di genere, e affermare la «normalità» dell’omosessualità.
Non si può trarne che una sola conclusione: hanno voluto che l’omosessualità vincesse su tutto e su tutti. Ma il primato dell’omosessualità non sarebbe stato proponibile fin quando fosse stato in vigore non soltanto il primato del «padre», dei legami di parentela, dei legami di sangue, ma anche e soprattutto l’assoluta «differenza» del genere maschile e femminile, ossia la differenza per antonomasia. L’interscambiabilità dei corpi l’ha annientata. Dunque: nessun «Genere», nessuna «Paternità», nessun «Figlio», nessuna «Famiglia», nessuna «Società», nessun «Futuro».
Naturalmente questo significa che si vuole la fine non soltanto del cristianesimo, ma di tutta la civiltà e della società europea, la fine dei «bianchi». L’omosessualità è strumentale soltanto a questa fine e il suo primato sparirà insieme ai bianchi".
* Cfr. Ida Magli Dopo l’Occidente, Rizzoli, Milano, 2012.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE "GIUSEPPE" E DELLO STESSO "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PRE-EVANGELICO PREFERITO, "IL PADRINO"!!!
FLS
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E MATEMATICA. NOTE PER RISCRIVERE UN “ROMANZO FAMILIARE” NUOVO...
ACHERONTA MOVEBO. “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei, muoverò Acheronte: Virgilio, Eneide, VII, 312). A partire da questa citazione virgiliana, volendo, è possibile tentare di "rileggere" l’intero percorso della ricerca di Freud. Ricordando con lo stesso Freud della "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), l’altra importante citazione sempre ripresa dall’Eneide (IV, 625 ) : "Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor" (che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore), si comincia a capire cosa c’è nel "coraggio degli inizi" (Rubina Giorgi, 1977) e in questa identificazione di Freud con Giunone/Era (non solo la moglie di "Zeus", ma anche la sua stessa madre) con Didone e con Annibale, il grande nemico di Roma.
IL PROBLEMA DEL LIBERATORE. L’esergo dell’Interpretazione "dichiara" semplicemente la "natura" teologico-politica del suo progetto: cercare di fermare il matrimonio di Enea e la nascita della nuova Troia (Roma)! Con la stessa determinazione di Giunone/Era (Virgilio), Freud lavora a portare alla luce della coscienza europea la struttura edipica del sogno del Dio greco e cattolico-romano (di Platone come di Paolo di Tarso), e venir fuori dall’orizzonte della tragedia (come Dante e lo stesso Nietzsche). Con l’aiuto di "Zeus/Giove"" e di "Era/Giunone", pur tra mille difficoltà, egli riesce a venir fuori dall’inferno e a "nascere, di nuovo"! Nel 1938 arriva a Londra e porta a compimento il suo ultimo lavoro "L’uomo Mosè e la religione monoteistica". Un grande respiro di sollievo! Morirà l’anno successivo.
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova educazione civica e a una nuova educazione sessuale per una "società sana" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (comel’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria.
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello edipico! Che dire?! Che fare?! Non è meglio uscire dal "sonnodogmatico"?!
Federico La Sala
L’ORDINE SIMBOLICO DI MAMMASANTISSIMA: LA LUNGA MARCIA DI UNA CATASTROFE ANTROPOLOGICA IN CORSO.
Senza riandare indietro nel tempo, cosa che ha già fatto una grande tradizione critica (e da cui poco è stato appreso), ipnotizzati da concetti-specchio come patriarcato e matriarcato, ancora non è stato capito che cosa significa Edipo (Freud), tragedia (Dante, Nietzsche), e rapporto sociale di produzione (Marx). C’è solo da accogliere il film “L’événement” (Audrey Diwan, Leone d’oro, Venezia 2021) come una buona sollecitazione a ripensare questi problemi legati a mammane, mammona, cucchiai d’oro e moloch vari e riprendere il filo da quanto successo (in Europa) almeno (non solo a Granada nel 1492, ma anche) su "quel ramo del lago di Como" nel 1628 in un altro modo e in un’altra direzione. E così, possibilmente, buttare via l’acqua sporca e salvare la memoria di chi ha lottato da sempre per non restare all’inferno e vuole ri-nascere. O no?
DANTE 2021: LA DOMANDA ANTROPOLOGICA DI KANT (""Che cos’è l’uomo?": "Logica", 1800), IL "FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE DI PAROLA (LOGOS, NON LOGO!).
"Ecce Homo" (gr. «idou ho #anthropos»): "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
MESSAGGIO EVANGELICO E "DUE CRISTIANESIMI": "SEGUITEMI, VI FARO’ #PESCATORI DI UOMINI [piscatores hominun, ἁλιεῖς ἀνθρώπων] come da parola di Gesù (Mt. 4,19) o come da sollecitazione di Paolo di Tarso:"Diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo... sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [lat. vir, gr. ἀνήρ]"(1 Cor. 11, 1-3)?!
11 SETTEMBRE 2011/2021, STORIA, E FILOLOGIA: "ECCE HOMO". Sempre a ripetere le famose parole dell’Ulisse di Dante (Inf. XXVI, 118-120: "Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza"), ma ancora oggi (2021), dopo Dante e dopo Kant, tutta l’Europa e l’intero Pianeta è immerso in un letargo profondissimo! Alla questione antropologica ("Che cos’è l’uomo?": Kant,1800), si continua a rispondere truccando la Parola (il Logos) e a scambiarla (e a esportarla) come un Logo di un’azienda, proprietà di quegli uomini "più uguali degli altri" della orwelliana "Fattoria degli Animali"!
PREISTORIA (DI "VIRTUS" E "VIRUS"). La parola uomo (gr. anthropos, homo) vale solo come uomo-maschio (gr. anér/andròs, lat. vir/viri) e l’antropologia si coniuga solo al maschile, come andrologia: a tutti i livelli, immersi nel regno dell’Homo cosmo-te-andricus - nella "realtà" di una teologia ("Dio"), di una cosmologia ("Mondo") e di una antropologia "andrologica" ("Uomo"), la cosmoteandria del Pianeta Terra...
METANOIA: CAMBIARE MENTE! A che gioco giochiamo? Non è meglio uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dall’inferno (Inf. XXXIV, 90) e riprendere la navigazione nell’oceano celeste (Keplero a Galilei, 1611)?! O che?!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA FILOLOGIA E DIVINA COMMEDIA: AL DI LÀ DELLA COSMOTEANDRIA
RINASCERE. Beatrice chiede al "gran viro" San Pietro di esaminare Dante (suo figlio!) sulla fede (Par. XXIV, 34-45: " Ed ella: «O luce etterna del gran viro /a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, /ch’ei portò giù, di questo gaudio miro, /tenta costui di punti lievi e gravi, / come ti piace, intorno de la fede,/ per la qual tu su per lo mare andavi. // S’elli ama bene e bene spera e crede, /non t’è occulto, perché ‘l viso hai quivi /dov’ogne cosa dipinta si vede;/ ma perché questo regno ha fatto civi /per la verace fede, a gloriarla, /di lei parlare è ben ch’a lui arrivi»").
San Pietro chiede: «Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: /fede che è?» (52-53). Dante , illuminato dalla Grazia (58: «La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»), accetta le parole di San Paolo, risponde: "«Come ’l verace stilo/ ne scrisse, padre, del tuo caro frate/ che mise teco Roma nel buon filo, /fede è sustanza di cose sperate /e argomento de le non parventi; /e questa pare a me sua quiditate»" (61-66), e va oltre!
Con la luce della Grazia (Amore), egli ha ben chiaro che la sua sua strada non è quella né di Enea né di San Paolo, che dell’ "Ecce Homo", della figura di Cristo ha fatto un "vir-o", anzi un superuomo ("Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3), e prosegue!!!
Il viaggio continua, fino a capire che è "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145): "La gloria di Colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende/ in una parte più e meno altrove. /Nel ciel che più della sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire /né sa né può chi di là sù discende: / perché appressando sé al suo Disire, / nostro intelletto si profonda tanto/ che dietro la memoria non può ire" (Par. I, 1-9). E a ri-nascere: aggrappato al "vello" di Lucifero (e... dello stesso San Paolo), con l’aiuto di Virgilio (e Maria e Beatrice e Lucia, Dante ce l’ha fatta! Il suo cammino non sì è interrotto! Dopo 700 anni, come direbbe Raffaella Carrà (in memoria), egli è qui! O no?!
Dante2021: Dante Alighieri non "cantò i mosaici" dei "faraoni" ...
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, GEOLOGIA, E FILOLOGIA. L’arca di Noè e il rompicapo dell’antropocene.... *
Siamo tutti sulla stessa barca /
Il rompicapo dell’antropocene
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 09 aprile 2019)
La prua di una grande nave mercantile fende i ghiacci, parzialmente sciolti, di quello che possiamo immaginare essere il mitico passaggio a nord-ovest, che collega Atlantico e Pacifico nei periodi più caldi. Questa immagine, fortemente simbolica, ritorna come un leitmotiv nel film-documentario di Rudy Gnutti In the same boat, in cui diversi esperti - Zygmund Bauman, Tony Atkinson, Serge Latouche, Mariana Mazzucato, Mauro Gallegati, Erik Brynjolffson e l’ex presidente dell’Uruguay Jose Mujica - discutono di globalizzazione e progresso tecnologico. La questione centrale affrontata nel film è la situazione paradossale creata dal sistema attuale in cui, mentre diminuisce la sperequazione economica tra le nazioni, aumenta sempre più quella tra le classi sociali all’interno dei singoli paesi; di conseguenza dappertutto si constata una progressiva riduzione della classe media, da sempre elemento basilare di stabilità politica e giustizia sociale. Ne conseguono ricadute importanti sul lavoro, come la crescita della disoccupazione e, allo stesso tempo, l’insostenibilità dei ritmi lavorativi per chi, invece, ha un’occupazione. Tutto ciò mentre la crescita continua della ricchezza prodotta e della tecnologia utilizzata nella produzione aveva fatto ipotizzare - nel film a tal proposito si cita una previsione dell’economista John Maynard Keynes risalente agli anni ’40 - che oggi ci saremmo trovati a vivere mediamente tutti meglio e anche più liberi dal lavoro costrittivo.
Il problema, spiega il regista in un’intervista, è che «siamo capaci di creare un’enorme ricchezza, ma non abbiamo un sistema economico che consente di ’distribuirla’ al maggior numero possibile di persone; o almeno in una forma meno diseguale». E dunque, che fare? La buona notizia è che si può fare qualcosa. La cattiva notizia è che bisogna fare qualcosa al più presto per non cadere in un caos socio-politico. Nel film gli esperti avanzano alcune proposte, ricordando, a chi le ritenga utopistiche, che molte realtà di oggi, quali per esempio la democrazia, l’abolizione della schiavitù o l’uguaglianza tra i sessi, erano utopie solo pochi secoli fa. D’altra parte, per sapere se le azioni suggerite possono funzionare, non c’è altra via che provare a metterle in pratica.
Il messaggio del film è chiaro già dal titolo: siamo sulla stessa barca significa che siamo in una situazione pericolosa in cui o si agisce tutti insieme per salvarsi oppure si annega tutti insieme. Nessuno può sperare di salvarsi da solo e tutti soffriamo lo stesso mal di mare, aggiungeva Martin Luther King esortando all’empatia reciproca. Comunque, anche se fossimo egoisti e duri di cuore, ci sono circostanze nelle quali agire per il bene comune è l’unica cosa ragionevole da fare, a qualsiasi costo. Il problema per Zygmund Bauman è che non abbiamo né remi, né motori né una bussola per condurre velocemente la barca nella giusta direzione.
Continuando l’allegoria, è di vitale importanza porsi anche un altro obiettivo - in realtà deve essere il primo -, ossia tenere in funzione la barca, evitando falle irreparabili e conservandola in buone condizioni, soprattutto se è sovraccarica. Fuor di metafora, stiamo parlando del nostro pianeta e dei numerosi segnali d’indebolimento strutturale che ci sta dando. La Terra si sta modificando troppo velocemente e così radicalmente da far ritenere, a molti esperti, iniziata una nuova epoca geologica, cui si è dato il nome di Antropocene per sottolineare due fatti significativi. Innanzitutto, che abbiamo abbandonato le spiagge note (e relativamente sicure) dell’Olocene, il periodo interglaciale caldo iniziato circa dodicimila anni fa e in cui abbiamo vissuto finora; in secondo luogo, che questo cambio geologico non è stato determinato, come i precedenti, da fattori naturali, ma dalla presenza e dall’attività umana.
Nel saggio Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene (Einaudi), Simon L. Lewis e Mark A. Maslin, studiosi inglesi esperti di questioni climatiche ed ecologia globale, spiegano come e quando reputano sia avvenuto questo cambio epocale. Alla fine di un esaustivo percorso tra geologia e storia economica le loro considerazioni, del tutto in linea con quelle espresse nel docu-film di Gnutti, si riassumono nel «rompicapo dell’Antropocene»: ci troviamo di fronte al compito, improrogabile e tuttavia molto arduo, di raggiungere un livello di uguaglianza globale tra i paesi del mondo nello sfruttamento delle risorse, e dobbiamo farlo restando entro «limiti ambientali sostenibili». Senza un’azione coordinata in tal senso sarà impossibile evitare il tracollo ambientale, cui inevitabilmente, ce lo insegna la storia, fanno seguito quelli economico e sociale. Oggi dobbiamo prendere atto di qualcosa del tutto inedito: una nuova forza della natura, una «superpotenza geologica» si è affiancata ai meteoriti e ai vulcani nel dare forma all’evoluzione della vita sulla Terra, ed è l’uomo. Ecco perché parliamo di Antropocene.
Nel loro libro Simon Lewis e Mark Maslin delineano quattro ambiti in cui la geologia del pianeta e la storia umana s’intersecano: la questione di se e come le attività umane abbiano causato (e stiano causando) cambiamenti ambientali tanto grandi da determinare «in misura crescente il futuro dell’unico pianeta che per quanto ne sappiamo ospita la vita»; la possibilità di individuare tracce concrete di questi cambiamenti nei sedimenti geologici - le future rocce, dispositivi naturali di registrazione di questa tipologia di dati -; siccome «l’Antropocene è l’intreccio fra la storia umana e la storia della Terra», propongono una reinterpretazione della storia dell’umanità «osservando[la] attraverso la lente della scienza del sistema Terra»; infine, dopo avere individuato quattro transizioni strutturali nella storia umana - due legate alla disponibilità di energia e due all’organizzazione sociale -, ciascuna delle quali ha prodotto effetti crescenti sul sistema Terra, espongono le loro tesi sul tempo attuale e alcune ipotesi sui provvedimenti possibili per il futuro.
La prima delle quattro transizioni da essi individuate è rappresentata dalla nascita dell’agricoltura (circa dodicimila anni fa) che permise agli uomini di utilizzare una maggiore quantità di energia solare attraverso il cibo, modificò i paesaggi e, col tempo, anche la composizione chimica dell’atmosfera, al punto da favorire «in tutto il pianeta condizioni eccezionalmente stabili, dando alle grandi civiltà il tempo di svilupparsi».
La seconda fu invece di carattere organizzativo, e risale al XVI secolo quando gli Europei cominciarono a colonizzare il pianeta, dando inizio alla prima economia globalizzata della storia. «Le nuove rotte commerciali collegarono il mondo come mai prima d’allora. Piante da coltivare e animali da allevare, e molte specie che si trovarono a viaggiare insieme a loro, vennero trasferiti in altri continenti e in altri oceani. Questo scambio transoceanico di specie ... diede inizio a un riordinamento globale della vita sulla Terra che è ancora in atto», una nuova Pangea fatta dall’uomo.
La terza transizione fu provocata dall’utilizzo sempre più massiccio di combustibili fossili (principalmente carbone), motore e conseguenza a un tempo della Rivoluzione industriale settecentesca. La quarta ha portato a un nuovo cambiamento organizzativo su scala mondiale, che gli autori definiscono "capitalismo di consumo" collocandone l’avvio attorno al 1945, con la grande accelerazione.
Il risultato di tutti questi passaggi è che nell’atmosfera di oggi si trova «una quantità di anidride carbonica tale da farle raggiungere il livello più alto in più di 3 milioni di anni», e di conseguenza le condizioni stabili che hanno permesso lo sviluppo delle società umane ci stanno lasciando. È in atto «un esperimento pericoloso con il futuro della civiltà umana», avvertono Lewis e Maslin, perché dopo milioni di anni di alternanza sostanzialmente ciclica di fasi glaciali fredde e fasi interglaciali calde, «nel corso del tempo le azioni umane sono arrivate a produrre ... il differimento di una nuova era glaciale e la creazione di un nuovo stato planetario, uno stato più caldo dei periodi interglaciali - un superinterglaciale.»
In quale di questi quattro momenti cruciali si può collocare la fine, ancora ipotetica, del relativamente tranquillo Olocene? E perché dovremmo nominare Antropocene l’eventuale nuova fase geologica della Terra? La scelta della denominazione può sembrare, a noi profani, una questione di lana caprina, ma Lewis e Maslin dedicano una parte del loro saggio a spiegarci perché, invece, è importante in quanto, spiegano, dai dati che si scelgono per stabilire se, da quando e perché ci sia stata una transizione epocale dipendono «le risposte politiche alla vita nell’Antropocene». È chiaro, infatti, che cambia parecchio il livello di preoccupazione e il genere di soluzioni proposte se si considera fattore determinante l’emissione di gas serra prodotti oggi oppure la rivoluzione agricola del Neolitico.
Per arrivare a stabilire una data d’inizio dell’Antropocene, i due studiosi propongono l’esame dei sedimenti geologici, esattamente come si è fatto per tutte le passate epoche della storia geologica, al fine di individuare un marcatore la cui presenza nei sedimenti indichi un cambio nella stratificazione terrestre. Con questo metodo si è potuto stabilire, ad esempio, quando sono cominciate le condizioni interglaciali calde attuali.
Analizzando una carota di ghiaccio antartico, in corrispondenza degli inizi del XVII secolo è stata rilevata una riduzione breve, ma significativa, dell’anidride carbonica nell’aria. Quell’epoca segna il momento in cui gli effetti della colonizzazione delle Americhe hanno lasciato traccia nei sedimenti geologici:
«Gran parte della diminuzione avvenne perché gli Europei portarono per la prima volta nelle Americhe il vaiolo e altre malattie, causando la morte di piú di 50 milioni di persone in pochi decenni. Il collasso di queste società portò alla riforestazione dei terreni agricoli in un’area tanto estesa che la quantità di anidride carbonica atmosferica assorbita dagli alberi in crescita fu sufficiente a raffreddare temporaneamente il pianeta - l’ultimo momento globalmente freddo prima dell’inizio del caldo durevole dell’Antropocene».
A questo punto l’interrogativo naturale riguarda «il futuro dell’umanità nell’Antropocene. Vi sarà una quinta transizione a una nuova forma di società umana, forse in grado di mitigare i nostri impatti sull’ambiente e di migliorare la vita delle persone?» Oppure, come una colonia di batteri, ci moltiplicheremo fino a esaurire le risorse della Terra e poi moriremo tutti? Speriamo di saperci meritare alla fine il nome sapiens che ci siamo orgogliosamente attribuiti, ricordandoci che sapiens vuol dire ’saggio’ e non ’potente’. Qualcosa nei nostri tempi mi ricorda quelli del biblico Noè, quando, secondo il racconto, gli uomini conducevano la loro solita vita, mangiando, bevendo, commerciando e combinando matrimoni, e nessuno s’accorgeva del diluvio che si andava preparando sulle loro teste. Solo Noè lo aveva capito. Ma quelli erano tempi in cui ancora si sperava nell’aiuto di Dio.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
#Vexilla Regis (If. XXXIV, 1):
a "gambe in sù" (90)!
#Marx
a #scuola da
#Dante
per ritrovare la #strada e
#imparare ad
dalla dialettica
dell’#andrologia di
#Platone
e
#Hegel
EUTANASIA: #FILOLOGIA #COSTITUZIONE E #DIVINACOMMEDIA.
Per una filosofia dell’#avvenire del pianeta (e non solo dell’Italia), sperando in "un clima di #dialogo costruttivo, di rispetto reciproco e non di scontro senza limiti" (Giovanni Maria Flick), forse, è bene
chiarire che
#EUTANASIA ("eu-tanasia") vale letteralmente "buona-morte", come
#EVANGELO ("ev-angelo" -"eu-angelo") vale letteralmente "buon-messaggio"), e non "#vangèlo" ("van-gèlo"), messaggio per andare nel #gèlo ("la ghiaccia") eterno!
Ricordando che il nostro presente storico è quello di #Dante2021 (proprio grazie al signor #DanteAlighieri del 1321 e alla sua #Monarchia dei #duesoli), dopo aver visto #Lucifero con le gambe all’aria (Inf. XXXIV), non è meglio uscire dall’#Inferno e, con l’aiuto di Beatrice (Maria e Lucia) e Virgilio e san #Bernardo (san #Giuseppe) andare avanti, in #Purgatorio e #Paradiso (Par. XXXIII, v. 145)? E uscire dal tragico orizzonte del generale planetario "cosmoteandrismo" laico e religioso?! E ripensare e riformulare (senza trucchi e senza inganni) lo stesso principio di carità?! O no?! Boh e bah!?
Federico La Sala
#Dante Alighieri e l’#eutanasia dell’#Europa.
Nonostante #Napoleone sia finito a Sant’Elena, il #futuro dell’#avvenire è ancora troppo carico del ricordo di #Costantino (e di sua madre, sant’Elena). Benché sia tempo di riprendere la lezione dei #due soli ("Giuseppe" e "Maria") a tutti i livelli (#Dante2021), la filosofia dell’#Avvenire è ancora quella della #tragedia (di #Socrate e #Platone) e dell’antica figura di un #Lucifero a testa in giù (e le gambe in aria), propria anche di #Hegel. Che dire più di questa visione "umana, troppo umana" del #Mondo e di #Dio, di questa #cosmoteandria?! Boh e bah?! Solo una #risata planetaria ci può salvare. O no?!
Federico La Sala
GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! AL DI LA’ DELLA COSMOTEANDRIA E DELLA TRAGEDIA.... *
Curi, straniero. La necessità del due
di Cristina Morga (Bene Comune, 1 aprile 2019)
Il breve saggio intitolato Straniero è un’interessante riflessione sulla figura dello straniero, sul suo ruolo ambivalente di minaccia e di dono, sulla sua ineluttabilità per la definizione della nostra identità.
Il filosofo Umberto Curi non è interessato a sostenere la tesi di quelli a favore dell’accoglienza o di quelli che auspicano la chiusura delle frontiere. Piuttosto, attraverso un’analisi linguistica, filosofica e della letteratura, partendo da molto lontano e arrivando ai nostri giorni, ci invita a confrontarci sull’irriducibile duplicità di quella presenza che è sempre esistita - lo straniero, appunto - ma che oggi ci deve più che mai interrogare per le proporzioni che la mobilità umana sta assumendo.
L’autore dunque non esprime giudizi, ma offre molti spunti per ragionare sul profondo significato del concetto di straniero che oggi, pur in una società globalizzata, sempre più spaventa e sempre meno attrae. Ecco perché un approfondimento culturale sul tema sembra quanto mai urgente.
Curi lo fa a partire dal significato che gli antichi hanno attribuito alla figura dello straniero, elaborando nei secoli molti termini con significati diversi e/o plurimi, a seconda del periodo e del peculiare aspetto che si intendeva sottolineare. E’ proprio analizzando le singole parole della civiltà greca (xenos, barbaros, ecc.) e latina (hostis, ingenuus, perduellis, hospes, ecc.) che ci rendiamo conto delle infinite sfumature e accezioni semantiche che la figura dello straniero acquisiscono nel tempo: straniero come persona estranea, strana; straniero come forestiero, nemico e molto altro ancora. Tuttavia ci sono due elementi che sono onnipresenti: il fatto che si faccia sempre riferimento a una figura altra da noi e il fatto che questa abbia contemporaneamente un rapporto con noi, da cui non possiamo prescindere.
In questo volume tuttavia Curi non si ferma solo all’analisi lessicale che pure sarebbe sufficiente a far comprendere la complessità del tema. Egli si sofferma altresì sul concetto di accoglienza dello straniero, così come è stato interpretato da diversi filosofi, da Platone, a Kant a Freud.
Secondo Platone “non è possibile dire la verità, se non attraverso il confronto con il discorso di chi sia estraneo alla comunità e con essa entri in comunicazione”, mentre Kant sostiene il diritto dello straniero a non essere trattato come un nemico per garantire la pace perpetua. E poi l’autore analizza il pensiero di Freud, a partire dal concetto di unheimlich (malamente tradotto in italiano con il termine di perturbante), che definisce non soltanto l’inquietante, ma anche la scoperta di una duplicità di qualcosa con cui veniamo a contatto, la scoperta che l’ “Io non è unico, ma doppio, scisso in una dualità non ricomponibile, uguale e insieme irriducibilmente diversa rispetto all’immagine riflessa nello specchio, al sosia, all’ombra. Perturbante è la presa di coscienza di una insuperabile ambivalenza, di una unità che non è, non può mai essere, semplice, ma sempre inesorabilmente duplice” (p. 42). Quell’ineffabile e forte sentimento espresso attraverso la parola unheimlisches nasce dal reperimento del due nell’uno e quindi dalla rinuncia a qualsiasi immagine semplificata o rappresentazione univoca.
Infine, Curi, citando diverse opere letterarie, si sofferma sul racconto di Camus, l’Ospite, per sottolineare, fra le altre cose, l’importanza della dualità, che non implica soltanto insolubilità di un problema, ma movimento e mutamento, cioè vita. “Senza il due, la ben rotonda verità dell’uno appare incapace di rendere ragione di ciò che caratterizza l’esperienza degli esseri umani. Il concetto stesso di rappresentazione, in quanto presuppone la distinzione fra due livelli di realtà, rinvia alla molteplicità del due e a tutto ciò che con essa è connessa” (pag. 128).
Insomma, in questo ricco percorso linguistico, letterario e filosofico proposto da Curi, l’ambiguità dello straniero è sempre presente. Tuttavia, la sua natura ambivalente, un nemico da cui proteggersi ma anche un soggetto di cui abbiamo bisogno per definire noi stessi, rappresenta uno stimolo eccezionale per superarci e migliorarci. Nelle antiche carte geografiche, leggiamo nell’introduzione, le terre ignote ed inesplorate dell’Africa e dell’Asia erano descritte con la dicitura “hic sunt leones”, come a dire che quelle terre, per il semplice motivo di essere estranee e sconosciute, rappresentavano una minaccia. “Ma l’attrazione per le risorse e i tesori presenti in quelle zone del mondo indusse a non piegarsi alla paura, intraprendendo i viaggi che avrebbero condotto alla conoscenza dell’ignoto, e dunque alla cancellazione dalle carte di quella iscrizione. Si scoprì così che i doni connessi allo svelamento del mistero, ancorché indissolubili alla minaccia, erano talmente preziosi da risultare irrinunciabili” (p.19).
Forse è giunto il momento storico adatto a nuovi viaggi, allo svelamento di un nuovo mistero. Ritrovare la curiosità di chi ci ha preceduto, superando la paura, ci aiuterà nella comprensione di nuovi doni irrinunciabili? Oltre il confine, dove stanno i leoni, scopriremo forse la necessità del nostro due.
“Lo straniero è ambivalente - è l’ambivalenza. In quanto è thauma, non posso vivere la sua presenza, il suo arrivo, se non come una minaccia. Ma insieme avverto, nel cuore stesso del pathos che è inseparabile dal contatto con lui, che quella pur ineliminabile minaccia è per me feconda, mi conferisce qualcosa che, pur inconsapevolmente, attendevo da tempo e di cui non potrei fare a meno. Posso respingerlo - certamente - in quanto è minaccia. Ma contestualmente, se mi accingo a questo, percepisco anche un mio profondo e irrimediabile depauperamento. Alla sua duplicità dovrei saper rispondere con altrettanta duplicità. Dovrei riuscire a temerlo e a desiderarne l’arrivo, a spalancargli le porte della mia casa, e insieme a tenerlo fuori da essa, a respingerlo con la massima fermezza, e contemporaneamente ad accoglierlo come se si trattasse di una benedizione” (p. 12).
“Rinunciare al dono per allontanare la minaccia, o affrontare il pericolo per acquisire il dono? Un punto resta comunque assodato: di fronte allo straniero cede ogni possibile linguaggio dell’unicità [...] La rassicurante e familiare logica dell’aut-aut deve essere soppiantata da una modalità di ragionamento basata sul ben più impegnativo et-et” (p.13).
“Dell’hostis non possiamo fare a meno - non possiamo “scegliere” se accoglierlo o respingerlo, non più di quanto possiamo scegliere di essere quello che siamo. Egli è legato alla nostra identità non solo perché la fa essere, ma anche perché la fa - potenzialmente - non essere; non solo perché la determina, ma anche perché la minaccia dall’interno” (p.18).
“Unheimlich è quel moto dell’animo che avvertiamo quando ci rendiamo conto che non si dà alcuna possibilità di ricondurre a termini univoci, e a distinzioni nette e irreversibili, la nostra esperienza. Quando scopriamo che la stessa cosa che sembrava poterci rassicurare, proprio quella soprattutto ci inquieta. Quando ci avvediamo - davvero con “timore” e “tremore” - che non si dà alcuna “casa” come luogo privilegiato in cui viga l’assoluta univocità dei significati, degli atti, dei comportamenti e degli eventi, ma che nel cuore stesso di essa si annida la sua negazione, che nell’intimo dello Heim, e non fuori o contro, o comunque distinto rispetto a esso, vi sia l’un-Heim” (p.51).
“Dunque, in origine hostis è una figura alla quale mi lega un rapporto che non è di ostilità, ma di compensazione, nel senso che sono verso di lui in obbligo di contraccambiarlo per qualcosa che ho ricevuto. Mediante il ricambio, all’hostis viene riconosciuta quella piena parità alla quale egli ha diritto” (p.59).
“Il termine xenos compare sia per indicare colui che, provenendo dall’ ‘esterno’, viene ospitato presso la propria casa, sia colui presso la cui casa si riceve ospitalità” (p.63).
“Alla figura dello xenos, che è al centro delle relazioni di reciprocità tra le città che costituiscono il mondo ellenico, si oppone quella di barbaros. I barbari non erano soltanto stranieri, ma erano anche rozzi, crudeli, codardi, ecc. [...]. La natura mostruosa del barbaro fa sì che, propriamente parlando, non si tratti di stranieri, ma di una specie differente di uomini: essi non vengono da un’altra città, come visitatori o residenti, ma da un altro mondo, con cui non c’è possibilità di confronto né di scambio. E’ la loro diversa natura che li pone al di là della cultura ovvero delle possibilità di relazione, intreccio, mescolanza che la costituiscono. Di qui la guerra come modalità naturale di condursi nei confronti di una categoria di uomini con cui non è possibile rapporto, per cui non si possono stabilire quei legami di mutua accoglienza che costituiscono, viceversa, un obbligo sacro nei confronti dello straniero. [...] Il barbaros rappresenta in un certo senso il rovesciamento o la negazione di ciò che - pur nelle differenze - rende simili tutti gli uomini. Ed è solo questo limite, soltanto nei confronti di figure intrinsecamente antiumane, quali sono i barbaroi, che non solo è consentito sottrarsi alle regole dell’ospitalità, ma è addirittura necessario ricorrere alla violenza estrema del polemos” (p.79).
“Se qualcuno è ‘straniero’, è anche, necessariamente, ‘ospite’, non come effetto di una mia scelta facoltativa, per la quale io posso arbitrariamente trattare l’altro come ospite o lasciarlo semplicemente come straniero, ma perché egli si dà a me come figura che mi obbliga all’ospitalità. Né l’ospitalità dà luogo ad alcun processo assimilativo. Lo xenos è sacro proprio nella sua identità e individualità, altra e irriducibile rispetto a quella di chi lo accoglie” (p.80).
“Platone indica che il nostro essere attuale coincide dunque letteralmente con un frammento della tessera hospitalitatis, con una delle due “parti”, la quale esige di essere completata mediante l’incontro con colui che detiene l’altra parte della tessera stessa. Se non vogliamo restare soltanto porzioni di essere, se intendiamo riconquistare la pienezza originaria, se non ci accontentiamo di un’esistenza puramente simbolica, ma aneliamo all’autenticità della plenitudine, dobbiamo ricomporre la nostra metà con colui che è portatore della parte mancante” (p.95).
“Per riuscire a disattivare la guerra non basta, insomma, che la costituzione civile sia conforme allo ius civitatis e allo ius gentium, poiché occorre anche che essa corrisponda allo ius cosmopoliticum, vale a dire a quel diritto che, pur non essendo facilmente traducibile in un apparato di norme positive, riconosce le condizioni dell’ospitalità universale. Con la precisazione davvero fondamentale, introdotta da Kant quasi per rispondere preventivamente a possibili obiezioni e insieme per fugare possibili equivoci, che ‘qui non è in discussione la filantropia, ma il diritto, sicché l’ospitalità coincide con il ‘il diritto di uno straniero a non essere trattato come un nemico’ ” (p. 115).
“Per tornare a Kant [...] il filosofo sottolinea che “fino a quando lo straniero sta pacificamente al suo posto non si deve agire contro di lui in senso ostile perché egli può rivendicare quel diritto di visita che spetta a tutti gli uomini. Ciò perché originariamente nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della terra” (p. 117).
“Nel racconto di Camus [l’Ospite] il due compare in maniera insistente, quasi ossessiva, per sottolineare, anche attraverso la reiterazione, la centralità di questo tema nell’intera narrazione. Già nell’esordio Daru scorge in lontananza il profilo dei due uomini che si dirigono verso la sua casa - il gendarme e il prigioniero. La corda con cui Balducci tiene l’arabo mostra fino a che punto essi formino una unità che si regge specificamente sulle loro differenze. L’identità di ciascuno di loro non è concepibile senza il riferimento all’altro. Anche lo status dell’uno si spiega soltanto in rapporto alla condizione dell’altro. Se non fosse prigioniero di Balducci, l’arabo semplicemente non avrebbe alcuna presenza nel racconto. Lo stesso vale per il gendarme, la cui ragion sufficiente sta tutta nell’essere il custode del prigioniero” (p. 129).
“Perturbante è ciò che scaturisce - e costantemente si alimenta - dall’inquietudine legata a questo vacillamento dei confini, alla loro mobilità e porosità, attraverso cui l’altro, l’esterno, ma anche lo spettro e la morte penetrano continuamente, intaccando ogni forma di identità a sé: dell’io, delle sue rappresentazioni, dei suoi saperi” (p.149).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS".
FLS
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".... *
Storia delle idee.
Colonialismo, la grande rimozione dell’Europa
Il rapporto con le terre e i popoli “altri” rappresenta il lato oscuro della coscienza del Vecchio continente, con il quale né i progressisti né i conservatori seppero mai fare i conti fino in fondo
di Giuseppe Bonvegna, Avvenire, sabato 14 agosto 2021)
Più di due secoli fa, nel 1794, Robespierre, poco prima di salire sulla ghigliottina per volontà della reazione termidoriana, liberò gli schiavi della colonia francese della parte ovest dell’isola caraibica di Hispaniola/Santo Domingo: nel 1802 Napoleone Bonaparte li riportò in schiavitù, ma ormai quella emancipazione aveva provocato la prima decolonizzazione della storia, portando alla nascita della Repubblica di Haiti. Riparlare oggi di colonialismo (dopo la sua fine sotto i colpi delle due decolonizzazioni novecentesche) significa riesumare, dal cuore dell’Età moderna, un problema (il rapporto con l’altro) sul quale l’illuminismo europeo ha giocato la sua partita più importante: e, dato che noi siamo figli anche dell’epoca dei lumi, si tratta di una partita che non è ancora giunta al termine.
Il problema era (ed è) sempre quello che divide il progressismo dei liberatori da un conservatorismo che vuol lasciare le cose intatte. Strano destino della storia, verrebbe però quasi da dire: se l’inventore del terrore totalitario fu il precursore di Abramo Lincoln, mentre il generale corso, padre dei risorgimenti nazionali liberali dell’Ottocento (compreso quello italiano), vestì i panni del piantatore schiavista.
La verità, come emerge dal recente volume di Gustavo Gozzi edito dal Mulino, è che la liberazione andava, già ab origine, a braccetto col totalitarismo robespierriano, di cui Bonaparte fu figlio: perché il colonialismo rappresenta il “lato oscuro” della coscienza europea, con il quale né i progressisti alla Robespierre né i conservatori alla Bonaparte seppero mai fare i conti fino in fondo (Eredità coloniale e costruzione dell’Europa. Una questione irrisolta: il rimosso della coscienza europea; pagine 304, euro 23,00).
Infatti, nonostante la Dichiarazione universale francese dei diritti dell’uomo e del cittadino, la liberazione divenne la premessa di un suprematismo “di ritorno” in palese violazione del principio di legalità: rilanciato poi da quanti, nell’Ottocento, presero il testimone della Rivoluzione inventando il liberalismo europeo e l’imperialismo progressista statunitense (prima del partito repubblicano e poi di quello democratico) fortemente basato sul mito dell’efficienza produttiva della fabbrica gestita dall’uomo bianco.
Il melting pot euro-indigeno, che grazie a Isabella di Castiglia e a suo nipote Carlo d’Asburgo, si era realizzato nei territori della Nuova Spagna e della Nuova Castiglia in America centro-meridionale a partire dal XVI secolo sulla base del pensiero cristiano, non si ripeté nell’America settentrionale franco-inglese, né in Africa e in Estremo Oriente.
E questa mancanza pone inevitabilmente un interrogativo non certo a san Tommaso, ma a Montesquieu, Rousseau, Diderot, Adam Smith e Kant, dato che le tre Rivoluzioni politiche dell’Età moderna (inglese, americana e francese) sono figlie dell’Illuminismo: perché la teorizzazione illuministica del diritto cosmopolitico e della non inferiorità di tahitiani, ottentotti e persiani rispetto agli europei non fu sufficiente, nel secolo successivo, a impedire a Karl Marx di giustificare «i più vili interessi » del colonialismo britannico in India e in Cina come tappa necessaria del progresso storico?
La risposta è che, alla base della libertà illuministica, vive un inquietante non detto consistente in quell’illiberalismo di fondo del pensiero politico inglese della seconda metà del XVII secolo: il cui massimo esponente (John Locke) sosteneva che le regioni del Nuovo Mondo fossero terra nullius in quanto le popolazioni indigene che vi risiedevano non coltivavano la terra e non avevano scambi monetari... Questo è il motivo per cui, nei territori a nord della Florida, i pellerossa e gli schiavi neri non ebbero un loro Las Casas.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005)
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Tenochtitlan 13 agosto 1521. Conquistadores, la storia di un grande «desencuentro»
Forse quella dell’America non fu né scoperta né conquista, ma incontro mancato. C’è ancora tempo per un’altra modalità di relazione con l’alterità?
di Lucia Capuzzi (Avvenire, giovedì 5 agosto 2021)
«Il sole si alza dal tuo letto di ossa [...]. L’alba lacera la cortina. Città, pila di parole rotte». Cinquecento anni dopo la sconfitta dell’impero azteca con la caduta di Tenochtitlan, la lacerante attualità dei versi di Octavio Paz vibra nel corpo giunonico di Città del Messico. Un organismo vivente più che una città. La spugnosa carne coloniale copre viscere dell’antica capitale precolombiana, per essere a sua volta ricoperta da una sottile pelle ultra-moderna. Gli strati coesistono, a volte confliggono, sempre si alimentano a vicenda. In questo flusso incessante, la megalopoli palpita, respira, sussiste. Impossibile separarli senza ucciderla. Una consapevolezza che, però, la città è incapace di tradurre in parole, come dimostra la polarizzazione delle narrative per l’anniversario. Perché implica fare i conti con l’evento che l’ha generata. E che, in fondo, ha generato l’America Latina.
Più ancora del 12 ottobre 1492, fu l’entrata a Tenochtitlan dei conquistadores al seguito di Hernán Cortés a segnare la nascita del mondo nuovo. E con esso il principio dell’età moderna. Fu “scoperta” o fu “conquista”? Fu incontro o fu scontro? Di sicuro, come afferma Tzvetan Todorov, fu l’esperienza più radicale, estrema, intensa di «scoprimento dell’altro». A differenza degli africani o degli asiatici, gli indo-americani e la loro esistenza erano del tutto ignorati dagli europei. Il confronto, dunque, fu di forza inedita. Mai come allora, gli uni e gli altri dovettero affrontare dei “simili diversi”.
Quel 13 agosto 1521 diviene, dunque, in un certo senso, il “parto” - per parafrasare Amalia Podetti - del globo, inteso come totalità. E del nostro tempo. Con tutte le sue contraddizioni. Non per niente, secondo Todorov, nel XVI secolo si è perpetrato il più grande genocidio della storia umana. Il massacro fu inaudito, questo è incontestabile. La sua definizione aritmetica, invece, è oggetto di dibattito tra gli studiosi ma tutti parlano di decine di milioni di esseri umani ingoiati in un vortice di violenza, schiavitù, epidemie. Magari una simile proporzione non fu voluta e intenzionale. Magari la leggenda nera anglobritannica - non proprio neutrale e benintenzionata - ha esagerato dettagli e crudeltà. Magari numerosi leader politici hanno cavalcato e cavalcano la strage per opportunismo. In questo, l’enfasi posta dal presidente Andrés Manuel López Obrador sul cinquecentesimo come sconfitta dei «veri messicani» è emblematica. Peccato che il Messico è - nel bene e nel male - è figlio di Cortés quanto di Monteczuma. Non sono, tuttavia, gli intenti, più o meno raffinati, di minimizzazione ad accelerare l’uscita dall’impasse.
Oltre che oggetto di studio, la mattanza d’America è soggetto di una storia di dolore, impressa, tuttora, nella carne e nel sangue dei discendenti dei nativi. Per costoro gli abusi antichi non sono che l’eco di quelli presenti, poiché la discriminazione e il rifiuto non sono terminati con la colonizzazione né con l’indipendenza né con le rivoluzioni e controrivoluzioni del secolo scorso. Per questo, gli occhi degli attuali maya si sono velati di lacrime nell’ascoltare papa Francesco affermare, a San Cristóbal de las Casas, il 15 febbraio 2016: «Perdono, fratelli! Il mondo di oggi, spogliato dalla cultura dello scarto, ha bisogno di voi!». Curiosa, dunque, l’ostinata richiesta di López Obrador nel domandare delle “scuse” già fatte senza alcuna sollecitazione. Farsi carico della memoria ferita è la grande occasione offerta dall’anniversario. Non solo per riconciliare il passato. In fondo, cinque secoli dopo, l’essere umano si trova di fronte ancora l’enigma di Cortés. Esiste l’uguaglianza al di fuori dell’identità? C’è spazio per una differenza che non implichi la subordinazione? La distruzione di Tenochtitlan ci ha mostrato le conseguenze di una risposta negativa, come quella del conquistador.
Forse, più che scoperta o conquista, quella d’America fu un grande desencuentro, un incontro mancato. Eppure non è l’unica alternativa. Desencuentro, intraducibile in italiano come unica parola, contiene in se la dimensione dell’encuentro, l’incontro. Anche questo ci ha mostrato la storia del Continente. Dieci anni dopo la devastazione dell’impero azteca, non lontano dalle ceneri ancora fumanti di Tenochtitlan, a Tepeyac, una Madonna dalle fattezze indigene scelse il nativo Juan Diego come proprio testimone. Nello sguardo non assimilativo della Morenita si intuisce un’altra modalità di relazione possibile con l’alterità.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
#QUESTIONE ANTROPOLOGICA
#FILOLOGICA
E
#ARCHEOLOGICA.
#IMPERATIVO CATEGORICO
E
#SONNO DOGMATICO:
E
#GATTUNGSWESEN.
#DIVINA COMMEDIA:
I #TRADITIONIS CUSTODES,
IL #LATINO,
#CARITAS (#KAPITAS)
O DELLA
#CHARITAS (#XAPITAS)?
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#QUESTIONE ANTROPOLOGICA
#FILOLOGICA
E
#ARCHEOLOGICA:
#EUROPA.
#DIVINA COMMEDIA (#DANTE2021)
E #SONNO DOGMATICO:
IL PROBLEMA DEL #LATINO
E
I #CUSTODI DELLLA #TRADIZIONE CATTOLICO-ROMANA
(#TRADITIONIS CUSTODES),
QUELLA DELLA
#CARITAS (#KAPITAS)
O DELLA
#CHARITAS (#XAPITAS)?
Jenkins e la grande storia perduta del Cristianesimo tra Est e Ovest
di Giancarlo Bosetti (Reset, 14 Luglio 2016)
Nell’Europa percorsa dagli incubi scatenati dalla “guerra mondiale a pezzi”, dai proclami folli e sanguinari dell’Islam radicale, dai massacri prima di Al Qaeda poi dell’Isis, dalle ondate di disperati che cercano riparo nelle nostre società, i lavori di Philip Jenkins giungono come un aiuto prezioso nella tempesta, per guardare con lucidità la vicenda passata e presente della cultura e della religione cristiana. L’invito è di straordinario interesse per tutti, perché per tutti è di fondamentale importanza sottrarsi a quel determinismo coatto che vorrebbe produrre il trionfo di un senso comune della paura. [...]
In questa Storia perduta del Cristianesimo l’esercizio anti deterministico di Jenkins, come accade a volte nelle pagine degli storici di valore, si applica a rompere molte idee correnti sul “centro di gravità” delle nostre visioni del mondo cui apparteniamo e della religione che tendiamo a identificare sbrigativamente con l’identità europea. La guerra, le persecuzioni e la fuga stanno cancellando i cristiani da tanta parte del Medio Oriente, la violenza si accanisce sui monasteri cristiani dalla Siria all’Iraq. I cristiani siriaci o nestoriani hanno alle spalle qui una presenza poderosa e millenaria, con enormi comunità - decine di metropoliti, centinaia di vescovi - che si irradiavano a Est, non meno che a Ovest, a partire dai luoghi dove questa religione “nazarena” è nata, e di cui Jenkins racconta le stagioni più gloriose, ridisegnando la geografia storica e soprattutto quella mentale del Cristianesimo: una volta esisteva un altro e più antico cristianesimo che per la maggior parte della sua storia è stato una religione tricontinentale, con potenti rappresentanze in Europa, Africa e Asia, tale rimanendo fino al XIV secolo inoltrato. Il carattere globalizzato del Cristianesimo sottolineato dal pontificato, non eurocentrico, di Francesco è la ripresa di una antica realtà. E altrettanto chiaro è, a chi per avventura abbia visitato i monasteri siriani prima della guerra civile del 2011, che una figura umana straordinaria e un martire del cattolicesimo siriano come Padre Paolo Dall’Oglio, non fosse un operatore “della periferia” cristiana, ma un protagonista di luoghi che sono centrali per la storia religiosa del mondo.
Sono luoghi che, ritrovata la pace, centrali potrebbero tornare per un futuro di dialogo tra le fedi e le comunità, quando si potranno riproporre in quelle terre modelli convivenza che hanno avuto un lungo corso in tempi diversi ad Alessandria, a Merv, a Baghdad, la città, quest’ultima, del potente patriarca Timoteo, che tra VIII e IX secolo dialogava con il califfo al Mahdi sulla vera religione, un po’ come Nathan il Saggio di Lessing faceva con il suo Sultano. [...]
Il libro di Jenkins ci costringe non solo a rimuovere assiomi stereotipati, ma anche a questo “spostamento di un centro” che assumevamo come irriflesso e ci costringe a riesaminare certezze che parevano indiscutibili, andando a illuminare aree della storia poco conosciute perché appartenute a comunità sconfitte. E ci propone il problema che forse è per l’autore quello principale di tutto il suo lavoro: come e perché le religioni muoiono? alcune svaniscono, altre si riducono “da grandi religioni mondiali a una manciata di seguaci”. È accaduto al manicheismo, è accaduto al buddismo, per mille anni dominante in India, ora marginale: sistemi di fede di portata mondiale si rivelano vulnerabili quanto le religioni azteca e maya. E come dimenticare gli ebrei, che appena un secolo fa prosperavano in tutto il Medio Oriente e che sono ormai quasi scomparsi con l’eccezione di Israele: dal 1950 a oggi in Egitto da centomila a cinquanta persone.
Jenkins, cristiano episcopale, costringe qui i credenti di ogni fede a una riflessione sulle estinzioni religiose, che è di grande interesse anche per i non credenti, perché apre un varco essenziale per una prospettiva di pluralismo: il varco è di natura teologica, ma presenta evidenti possibili riflessi politici. Le sorti cangianti delle religioni e gli esiti plurali e travagliati della geografia confessionale concentrano l’attenzione, per ciascuna religione, anche sul ruolo delle altre.
Se il destino dei rapporti tra le fedi è così alterno e imprevedibile e può produrre l’esito umano della loro scomparsa su vaste porzioni del mondo e la loro sostituzione con altre a seguito di cambiamenti politici (o anche climatici, come Jenkins sottolinea), e se tutto ciò deve avere un senso “in un disegno divino” quale che sia, allora una possibile “teologia della estinzione” non può che essere una teologia delle religioni, una teologia che ne spieghi la molteplicità, i successi e la caducità, in una parola: una teologia pluralista.
DANTE (1321-2021): L’ANTROPOLOGIA, L’ANDROLOGIA, E LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" ... *
I 100 anni di Pax Romana.
Quel fertile e globale luogo di dialogo tra chiesa e società
di Stefano Ceccanti (Avvenire, mercoledì 21 luglio 2021)
I cento anni di Pax Romana, associazione internazionale degli universitari cattolici. Caro direttore, una vecchia foto sul sito di Pax Romana ci riporta al luglio 1921, quando nacque l’associazione internazionale degli universitari cattolici. Per la Fuci c’era Giuseppe Spataro, di lì a poco ai vertici del Ppi. In quel primo periodo fu molto attivo anche Pier Giorgio Frassati, che vedeva in questa apertura delle associazioni e delle istituzioni un vaccino importante rispetto ai nazionalismi.
Il nome riecheggiava il verso di Dante che richiamava all’universalità del cristianesimo («quella Roma onde Cristo è Romano») oltre a ricordare i circa duecento anni di pace in cui si collocò anche la nascita di Gesù. Pax Romana svolse un primo congresso a Bologna nel 1925, insieme a quello della Fuci. Un terreno minato: quattro anni prima della Conciliazione la Fuci lo aveva posto sotto il patrocinio del Re per proteggersi dalle minacce fasciste, ma ciò creò un serio problema col Vaticano, che si risolse affidando a Giovanni Battista Montini e a Igino Righetti la guida della Federazione, Per gli anni successivi vi fu una grande prudenza sui rapporti internazionali per non sfidare il regime nazionalista. Però Montini ebbe lo stesso un’influenza chiave, insieme a Maritain. L’impostazione era quella che troviamo nel volumetto del 1930 ’Coscienza Universitaria’.
La Chiesa aveva perso influenza nelle università e nel mondo della cultura; se voleva riacquisirla doveva pensare in termini di rapporto biunivoco, ossia essa aveva certo da dare a questi ambienti, ma aveva anche da ricevere. In particolare ciò richiedeva un attento discernimento dei vari aspetti della modernità e una rilettura positiva della democrazia. «La verità non è folgorazione d’un lampo; è progressivo, graduale, quasi inavvertito albeggiare di luce», scriveva Montini. E per Maritain andava superata «la scissione fra principio democratico e principio cristiano in Europa, dove gli animi sono divisi tra un cristianesimo irriducibilmente formato nella sua struttura e nella sua dottrina, ma per troppi anni isolato dalla vita del popolo, e l’infedeltà aperta e militante o l’odio per la religione». Nel 1947, seguendo lo stesso schema italiano che aveva fatto sorgere dalla Fuci il Movimento Laureati, Pax Romana si arricchì di un secondo ramo.
Nelle giornate fondative, Étienne Gilson pose come obiettivo quello di «organizzare nel mondo intero la fraternità degli spiriti che pongono l’intelligenza al servizio di Dio», ribadendo il collegamento tra fede e ragione e l’apertura internazionalista. Non fu quindi per caso se persone con questa impostazione e che si erano abituate ad assemblee internazionali, utilizzando più lingue e con complesse procedure democratiche, si siano trovate al centro dei lavori conciliari: sia gran parte degli uditori laici (lo spagnolo Ruiz-Giménez, l’esule catalano Sugranyes de Franch, l’australiana Goldie) sia molti teologi che erano stati assistenti (Guano, Murray) o comunque vicini (Chenu, Congar, il neo-cardinale Journet). Lo stesso per l’impegno politico nelle nuove democrazie: per limitarci solo alla guida dei Governi europei sia in Portogallo (Pintasilgo e poi Antonio Guterres, attualmente segretario Onu) sia in Polonia (Mazowiecky) erano stati esponenti di primo piano di Pax Romana. Anche nella Chiesa del postconcilio il contributo è stato ampio e universale: basti solo pensare al Perù, dove sono stati assistenti nazionali Gutierrez e l’attuale arcivescovo di Lima, Castillo. Questi sono alcuni dei nomi più noti, ma molti sono stati coloro che si sono posti come nani sulle spalle dei giganti, tra Chiesa e società, in tutto il mondo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!!
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
UN MONDO IN FIAMMME, ANCHISE ED ASCANIO IN FUGA DA TROIA, E JEFF BEZOS NEI PANNI DI ENEA...
La nonna nello spazio
di Massimo Gramellini (Corriere della Sera, 20 luglio 2021).
Oggi, a bordo del razzo privato in viaggio di piacere verso le stelle, ci sarà anche una donna di 82 anni. Dimentichiamo per un attimo che il proprietario del razzo è Jeff Bezos, il signor Amazon, il massimo del genio ma non proprio della simpatia, considerando che in Europa paga meno tasse di un fruttivendolo. E ammettiamo che l’idea di imbarcare l’arzilla signora sia un’astuta mossa di marketing. Resta una bella storia che parla alla fantasia di ciascuno di noi.
Da bambina Wally Funk giocava con gli aeroplanini, da adolescente era capace di costruirli, da ragazza prese il brevetto di pilota e a ventidue anni partecipò al programma della Nasa per portare in orbita la prima donna astronauta, ma l’atmosfera terrestre era ancora solcata da troppi pregiudizi e il programma svanì dopo che Wally aveva già superato le selezioni. Non per questo perse il celebre sorriso: si limitò ad abbassare leggermente la cilindrata dei suoi sogni, occupandosi di voli civili. Ma i desideri, cantava Battiato, non invecchiano quasi mai con l’età. E dieci anni fa, quando aveva già passato i settanta, l’aviatrice Wally comprò un biglietto per un volo suborbitale della Virgin che non decollò mai.
Oggi è il suo momento, finalmente. Sarà seduta accanto a un diciottenne e la suggestione epica avanza inesorabile: il passato e il futuro che scappano insieme da un mondo in fiamme ricordano Anchise e Ascanio in fuga da Troia. Chissà come si sentirà Jeff Bezos nei panni di Enea.
DELLA #astronave
#ARGO (#DIVINA COMMEDIA)
PIù CHE DELL’#AMAZON
DI #BEZOS.
#Virgilio/#Enea (trovata nella #Virgo la vera #Madre) fa autocritica:
"«[..] io dico d’Aristotile e di Plato/ e di molt’altri»;
e qui chinò la fronte,/e più non disse"
(Pg III, 43-45).
FLS
Habermas: anche una storia della filosofia
di Leonardo Ceppa (Le parole e le cose, 20 luglio 2021).
1. Una possibile idea di filosofia
Nella Prefazione dell’ultima opera (Auch eine Geschichte der Philosophie, Suhrkamp 2019) si nasconde il sale della gigantesca impresa. Che idea ha oggi Habermas della filosofia? Che compito vuole assegnarle? Nella cultura contemporanea è domanda grandiosa. Di fronte a questo libro ci chiediamo: si tratta del dettagliato racconto di uno sviluppo storico (che perlustra gli stadi secolari attraverso i quali si è formata la proposta di una filosofia postmetafisica) oppure di un’intuizione teorica proiettata all’indietro, che per un verso organizza a posteriori il passato e per l’altro verso si presenta ora (a fine carriera) in tutta la sua potenza come dichiarazione esistenziale, rivoluzione antipositivistica, battaglia argomentativa? Non vogliamo banalizzare la questione al vecchio circolo, tra filosofia e storia della filosofia, di cui prende coscienza ogni matricola studentesca. Come tutti sanno, a differenza delle altre materie scientifiche, della filosofia non si può raccontare la storia senza prima disporne di una implicita idea teorica, ma di tale idea non ci si impadronisce, senza prima averla trafugata (magari senza saperlo) ai materiali di una venerabile storia istituzionale.
Soggettivamente, Habermas si trova impigliato in una trappola. Si vergogna del sollievo (eigentlich unseriös) di non dover daccapo consultare la dilagante letteratura secondaria, di non dover ripetere dimostrazioni più volte sviluppate nei decenni precedenti. Ma sa anche che nessuna tesi filosofica può appoggiarsi sull’impegno soggettivo di chi la pronuncia, per quanto grande sia la sua convinzione. Così nello scavalcare, ponendola al centro, la biforcazione cruciale tra Hume e Kant da lui vista all’origine della spaccatura della modernità - tra necessitarismo scientistico, empiristico e positivistico, da un lato, e costruttivismo linguistico intersoggettivo e comunicativo, dall’altro - egli sceglie una via di mezzo: quella di limitarsi a sottolineare una differenza che sempre si ritrova tra gli opposti partiti. “Nella concorrenza delle impostazioni [mi sono accorto che] si presentava sempre una identica differenza nei loro assunti di fondo (...) le analisi di una parte poggiavano sempre su rappresentazioni e intenzioni individualistiche, singole disposizioni e comportamenti soggettivi, laddove le analisi della parte concorrente partivano dalle stesse questioni facendo però appello a simboli e regole intersoggettivamente condivise, linguaggi, pratiche, forme-di-vita e tradizioni, per poi soltanto alla fine analizzare, nei corrispondenti tipi di discorso, le necessarie condizioni soggettive per poter venire a capo di quelle strutture e di quelle competenze” (p. 10).
La filosofia è una scienza, ma non una scienza come tutte le altre: è una scienza sui generis. Le scienze normali restringono, specializzandolo, il loro campo di azione, la filosofia invece lo allarga. E lo allarga in maniera tanta smisurata da trascinarvi dentro occhio, oculare, e tutti gli strumenti del ricercatore. L’osservatore diventa un mago stregone. Lo scienziato della modernità è il novello Faust. Laddove, dice Habermas, la scienza specialistica lavora “nel dire sempre di più su sempre di meno” (p. 12), la filosofia mantiene tutta la sua faustiana (o hegeliana) presunzione della totalità, tanto da far dipendere il destino dello scienziato (e dell’uomo) dal modificarsi del suo sapere. Sapere del mondo e autocoscienza dell’uomo restano legati insieme dall’uso che l’uomo impara a fare delle sue conoscenze. In questo senso Habermas non separa la “scienza” dall’effetto di “rischiaramento” ch’essa produce. Dal XVIII secolo in poi, Wissenschaft e Aufklärung, scienza e presa di coscienza vanno di conserva, tenute insieme da quel trattino grammaticale (miracoloso nella sintesi tedesca), che lega Selbst- e Weltverständnis in una medesima emissione di fiato.
C’è anche qualcosa di cruciale che il sapere filosofico condivide con le scienze “normali” della nostra epoca: la tendenza alla specializzazione e alla divisione del lavoro. E’ una tendenza inevitabile, feconda, persino desiderabile, la quale tuttavia, nella versione positivistica della filosofia, minaccia di trascinar via (o far dimenticare) quel trattino miracoloso che lega il sapere del mondo sia al destino dell’uomo sia al destino di Dio. Ma perché, agli occhi di Habermas, questo pericolo del positivismo resta una minaccia reale per la filosofia contemporanea? Perché in realtà quest’ultima - per non perdere di vista il rapporto alla totalità - si trova oggi a fronteggiare una preoccupante e smisurata crescita di complessità: moltiplicandosi e arricchendosi il sapere del mondo, la struttura economica della società, le tecniche d’intervento sul corpo e sulla psiche. Con convinzione Habermas ripete la diagnosi di Marx: gli uomini rischiano di diventare le appendici organiche di una scienza e di una tecnica vampiresche, la cui organizzazione umana (il sapere umanistico del cosmo e dell’uomo) diventa sempre più inabbracciabile e inafferrabile (unüberschaubar, p. 12).
Di qui la tentazione (ecco la polemica di Habermas contro il positivismo filosofico) di arrendersi, di rinunciare all’impulso illuministico che ancora animava Kant e Faust, di abbandonare l’impresa umanistica di “dare forma” a sé stessi nella configurazione del mondo (il tema del Gestalten, ricco di risonanze). Allora del progetto moderno resterebbero in piedi soltanto le gloriose rovine. E al filosofo contemporaneo non resterebbe che ripiegare in un atteggiamento di ellenistico disincanto. Un fatalismo dal sapore classicistico verso cui Habermas ha sempre manifestato un orrore palese.
2. Un “processo di formazione” tra la sfida delle contingenze e le speranze della ragione
A che serve, si chiede Habermas a questo punto, ripercorrere nei dettagli - ancora una volta - tutta la storia della filosofia fino al suo punto di arrivo? Questa storia sembra talora diventare il virtuosistico e compiaciuto ricamo su una vicenda mille volte diagnosticata, difesa e omaggiata: il progetto di una modernità in pericolo, la facoltà di trascendere la contingenza nei processi dell’ apprendimento, il peso, infine, che con l’eredità millenaria della religione viene oggi a scaricarsi su una corrente di filosofia postmetafisica. Asse centrale su cui ruota tutto il progetto: la indissolubilità di Aufklärung e Wissenschaft, sapere del mondo e conoscenza dell’uomo, insomma il magico trattino (binde-strich) tra l’uomo e il suo ambiente. Dopo avere scritto, alla fine del libro, il capitolo sui posthegeliani, Habermas si accorge di aver capito una cosa. Il processo delle ramificate controversie teoriche non ha più bisogno di allargarsi: basta mettere in rilievo i presupposti sistematici e metodologici di cui lui si è servito in tutta la sua carriera professionale. La sua tenacia servirà allora a illustrare quella “implicita idea di filosofia” cui ha sempre lavorato, dando ai suoi problemi una impostazione metodologica, che è di di tipo esistenziale e personale, morale e politica, ancor prima che accademica e professionale. Alcuni dettagli diventano secondari e la filosofia-a-360 gradi scende dal cielo prendendo la forma di un Ansatz: di un approccio, di una visione, di un metodo costruito e perfezionato attraverso i decenni. Gli stessi strumenti metodologici illuminano senza sforzo la direzione del cammino: dalla “costellazione occidentale di fede e ragione”, cioè da quella “osmosi semantica” citata nella copertina del primo volume, alla “libertà della ragione” (genitivo soggettivo e insieme oggettivo) auspicata nel secondo volume come obbiettivo postmetafisico del processo.
Nella Prefazione a questi due volumi Habermas ricorda le drammatiche svolte della storia universale: 1) l’età assiale delle religioni mondiali, 2) l’arricchimento reciproco, nell’Europa cristiana, di fede e ragione, cioè quella simbiosi che nella modernità sfocia in scissione, 3) il dissolvimento della falsa metafisica hegeliana nell’impostazione intersoggettiva della pragmatica linguistica.
Le nobili domande della filosofia di Kant - cosa posso conoscere, cosa posso fare, in che cosa sperare - rimangono le stesse, ma presentandosi in un “formato” diverso: muovendo dalla “situatezza” dell’uomo finito queste domande non si camuffano più nella forma di un Assoluto, cioè come fossero formulate da un punto di vista divino oppure positivisticamente scientifico. E proprio l’approccio teorico di Habermas, tra quelli concorrenti oggi nella professione, è quello che più sottolinea la cosa. In questo senso il sistema filosofico di Habermas è personale e professionale nello stesso tempo. Dall’esercizio filosofico resta ineliminabile un momento “performativo” - di responsabilità soggettiva e morale, espressiva e politica - che caratterizza l’autore senza potersi nascondere.
Habermas ce ne dà subito la prova scendendo in lizza con alcuni avversari ( p. 11). Per lui è impossibile, per esempio, prendere sul serio i modelli di Kuhn, Foucault e Feyerabend, perché escluderebbero in via pregiudiziale la possibilità dell’apprendimento, l’occasione di dare al mondo una Gestaltung (un ordine umano). Le rivoluzioni scientifiche di Kuhn contro il falsificazionismo di Popper, il discorso come “maschera del potere” sviluppato da Foucault, l’anarchismo metodologico di Feyerabend, non muovono da una matrice situativo-esistenziale dell’uomo. Queste opzioni renderebbero impossibile concepire le svolte e i cambi-di-paradigma come “risposte fallibili” agli stimoli dell’apprendimento. Il processo di innovazione - sempre aperto agli esiti più diversi perché si impara anche dagli errori - resta per Habermas il campo di tensione intersoggettiva che collega le esigenze della situazione di radicamento - i bisogni della matrice e gli abissi della contingenza - alle risposte e ai tentativi di soluzione proposti da una ragione fallibile. Verso la fine di questa Prefazione, Habermas formula così la sua idea di genealogia: passare sugli abissi dell’esistenza (Abgründe) usando le ragioni (Gründe) come ponti avventurosi, p. 16)
3. Il discorso di “fede e ragione” nell’angolo di mondo chiamato Europa
Il rapporto tra religione e filosofia (che con bella espressione Habermas chiama “osmosi semantica”) incontra nell’occidente europeo un destino particolare. A quella metafisica greca nata nei commerci dell’Egeo e che, nell’era assiale, rappresentava una delle poche significative immagini-di-mondo, toccò in sorte un destino del tutto particolare. Infatti, lungo i secoli del platonismo cristiano che mise radici nell’impero romano, andava realizzandosi uno “doppio attraversamento” di contenuti lungo il confine che divideva la ragione dalla fede, la filosofia dalla religione. Per un verso, credenze sostanziali della narrativa cristiana passavano il confine con la filosofia diventando, in questo campo, saperi razionalmente dimostrabili. In senso contrario, verità metafisiche costruite dai filosofi platonici si trasformavano, appena giunte nel campo della fede, in elaborati teoremi della dogmatica religiosa.
Potremmo addirittura parlare di un destino “secolare e glorioso” se osserviamo come, nella prospettiva con cui Habermas ci racconta il lento formarsi della filosofia postmetafisica, un ininterrotto arco temporale si protende da Agostino fino alla Deutsche Klassik. Infatti, i temi della “autonomia” e della “libertà della ragione” - che caratterizzano la modernità dando sviluppi vertiginosi alla “ragion pratica” postkantiana - non avrebbero mai potuto nascere se non sulla base di quella “osmosi semantica” che Habermas sceglie come guida della sua ricostruzione storica (p. 15). Anzi, il pensiero secolare di un ramo della filosofia postmetafisica contemporanea si è oggi talmente emancipato dalle sue lontane origini teologiche da creare quasi “sproporzione” in favore di una filosofia tanto laica quanto risonante di echi religiosi (basti pensare ad autori come Adorno, Kafka o Levinas), a tutto svantaggio della teologia dogmatico-professionale. Per questo, nel panorama culturale contemporaneo, troviamo sempre piu’ scrittori e filosofi “secolari” (cioè laici e postmetafisici) che trattano temi di pertinenza pseudo-religiosa. Sono persino diventati più numerosi dei laicisti empiristi che, a partire da Hume, riducono psicologicamente la religione a favola consolatoria. Così, quando Habermas polemizza contro la sclerosi laicistica di molta filosofia contemporanea, lo fa anche per mostrare come (pur non essendosi mai interrotta la osmosi semantica tra fede e ragione) si siano oggi spostate le linee dei vecchi confini disciplinari. Nella disordinata polifonia dell’opinione pubblica, tocca spesso ai filosofi laici trattare temi morali, giuridici e politici, che tradiscono evidenti origini bibliche o religiose. E lo fanno più spesso dei filosofi empiristi, che considerano tali temi come superate zavorre oltrepassanti l’orizzonte delle loro divisioni specialistiche.
Questo spiega da ultimo la soverchiante responsabilità che Habermas accolla a quel ramo di filosofia postmetafisica (il ramo kantiano dei 360-gradi, non quello humeano dello sbaraccamento specialistico) che accetta di dialogare - sullo stesso piano - intra moenia coi filosofi ed extra moenia coi teologi. Trattando proprio di quelle questioni che vengono pudicamente evitate dai laicisti rigorosi (chiusi a riccio in quelle specializzazioni “che dicono sempre di più su sempre di meno”). Alla fine Habermas non esita a formulare una tesi coraggiosa di questa portata: “Al di là dei suoi aspetti palesemente postmetafisici, la questione che la filosofia deve sentirsi in grado di affrontare ed elaborare si decide oggi sulla rinnovata eredità del lascito religioso. Anche se questo è problema che riguarda soltanto uno dei rami in cui si è scisso il pensiero postmetafisico” (p. 15 corsivo mio,).
Sembrava infatti che il problema religioso, dopo la moderna scissione tra fede e ragione, dovesse sciogliersi come chiedeva Hume, per via pacifica e senza clamore, passando per la via naturalistica ed empiristica delle considerazioni antropologiche di empiristi e utilitaristi. Invece, scrive Habermas, vediamo con sorpresa scatenarsi nella Sinistra hegeliana una furiosa polemica antireligiosa contro le confessioni del protestantesimo borghese e contro l’assimilazione hegeliana della religione nell’automovimento idealistico dello Spirito. Autori come Feuerbach, Marx e Kierkegaard (ma possiamo anche includere Nietzsche) combattono le consolazioni della religione chiesastica con spirito ardentemente anticlericale. E c’è molto di paradossale, sembra aggiungere Habermas, in questo “anticlericalismo religioso” evocante quelle tracce kantiane di ragion pratica, autonomia e libertà-della-ragione, che paiono disperse lungo la storia di una insopprimibile e irriducibile “emancipazione umana” che rifiuta di sciogliersi in fatalismo stoico.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
#EDUCAZIONE CIVICA
#EDUCAZIONE SESSUALE.
#Memoria della
#Legge di #Apollo
(#Eschilo):
«non è la madre la #generatrice di quello che è chiamato suo figlio;
ella è la nutrice del germe in lei inseminato.
Il #generatore è colui che la feconda».
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPEFLAVIO
("Egli era il #Cristo")
“La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato” di Luciano Canfora
Scritto da Laura Bigoni *
Nel XVIII libro delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, autore ebreo di età romana imperiale (37-100 d.C. ca.), si fa menzione del processo a Gesù:
Queste parole, definite nel corso del tempo Testimonium Flavianum, hanno rappresentato il principale biglietto da visita del loro autore per accedere alla tradizione manoscritta occidentale, in massima parte come sappiamo dovuta a mani cristiane; esse costituiscono però anche un appassionante caso filologico, se non altro per la strana ambiguità che le contraddistingue, se le si pensa (così come ce le trasmettono i manoscritti) nella penna di un intellettuale ebreo. -Nella ristampa del 2018 dell’edizione UTET delle Antichità, a cura di Luigi Moraldi, da cui è tratta la traduzione sopra riportata, il passo è presentato addirittura in copertina al secondo volume, di per sé un riconoscimento della centralità di quelle poche righe all’interno dell’opera di Giuseppe Flavio.
Si tratta però, prevedibilmente, di una centralità acquisita nel corso della tradizione e della sempre più grande fortuna che i padri della Chiesa costruirono attorno a Giuseppe Flavio e al suo Testimonium, decretandone di fatto la diffusione (e la copiatura). Proprio della storia di questa straordinaria fortuna ci fa dono Luciano Canfora nella breve ma densissima indagine dal titolo La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato, recentemente pubblicata per Salerno Editrice.
Il libro è organizzato in diciotto brevi capitoli, preceduti da un’introduzione e seguiti da un epilogo; ciascuno aggiunge un tassello al mosaico della tradizione testuale di Giuseppe Flavio, introducendone via via i protagonisti e i contesti. La struttura rende agevole a chi legge il viaggio tra i meandri di una tradizione testuale fatta di riconoscimenti, di attribuzioni pseudonime, di ritocchi più o meno tendenziosi, ma soprattutto, e fatalmente quando si tratta di testi cui si attribuisce valore religioso, di fazioni.
La storia del testo di Giuseppe Flavio narrataci da Canfora diventa infatti ben presto simile a quella della traduzione greca delle Scritture di Israele detta dei Settanta, campo di battaglia per dispute di natura teologica e oggetto di ripetute canonizzazioni. Secondo la puntuale ricostruzione del libro, infatti, la sopravvivenza delle opere quasi complete dell’autore (ovvero Guerra giudaica, Antichità, Contro Apione e Autobiografia) nella tradizione manoscritta sembra ricollegabile ad una cosciente appropriazione culturale da parte dei pensatori cristiani, fin da Eusebio di Cesarea (260-337 ca.) e Girolamo (347-419 ca.).
Nella temperie dei primi secoli del cristianesimo, apparve infatti vantaggioso che uno storico ebreo, che aveva assistito, dalla parte dei Romani, alla distruzione del Tempio a Gerusalemme, avesse anche solo menzionato Gesù e il suo processo, sebbene nel contesto di una serie di seditiones del tempo di Ponzio Pilato (cf. pp. 76ss.). Segno inequivocabile dell’avvenuta appropriazione è la migrazione del Testimonium all’altra grande opera di Giuseppe, la Guerra giudaica, che si trova in alcuni manoscritti, tra cui il Vossiano greco F 72, oggi conservato a Leiden, in cui il nostro testo è addirittura seguito da una scena di giudizio universale, che fa dunque della vicenda terrena di Gesù una tappa cruciale della storia della salvezza, secondo una visione strettamente cristiana; l’accoppiamento ha poi una vita propria nella tradizione successiva (cf. pp. 51s.).
Parallelamente alla fortuna negli ambienti dell’apologetica cristiana, nel mondo ebraico (come in quello pagano, in cui sempre cercò di inserirsi e di farsi leggere, senza successo) Giuseppe è stato ben presto ridotto al silenzio. Le vicende del testo sono alterne a seconda del contesto politico, ma per i cristiani il Testimonium sembra sempre un asso nella manica, come ad esempio nel periodo di crisi della Chiesa sotto Giuliano l’Apostata, in cui fu agevole forzare la dizione di un passo della Guerra guidaica (VI 250, 288-310) a significare una precisa volontà di Dio dietro la distruzione del Tempio, profetizzata ex post nei Vangeli (cf. pp. 155ss.).
Soffermandosi sul Testimonium e tratteggiando uno status quaestionis, l’autore si chiede come mai non ci si sia mai dedicati troppo alla domanda, per lui al contrario centrale, relativa all’appropriazione culturale operata dai cristiani sul testo di Giuseppe Flavio. Verrebbe da chiedersi se non ci sia forse ancora un impalpabile velo di sostituzionismo latente in questo genere di studi, che scoraggi i tentativi di fare luce su stadi precristiani dei testi poi incardinati nella tradizione della Chiesa. Pur lasciando irrisolta l’aporia a proposito degli studi moderni, Canfora punta il dito sul dato, eclatante per la storia della tradizione, che l’opera in greco di Giuseppe sia giunta intera (a fronte del naufragio di gran parte della letteratura, storiografica e non, in greco classico e postclassico), mentre non è rimasta nessuna traccia delle stesure aramaiche (cf. pp. 35ss.).
Importante è il riconoscimento e lo smascheramento del ruolo della progressiva cristianizzazione del Testimonium, che lo apparenta alla traduzione della Bibbia dei Settanta. Sul paragone l’autore si sofferma considerando un dato tanto ovvio quanto trascurato come l’appropriazione delle Scritture tradotte in greco dai giudei della diaspora ellenistica, che passano così nettamente nell’alveo della Chiesa da prendere il nome di ‘Antico Testamento’, che significa naturalmente un presupposto del Nuovo. Come Giuseppe Flavio perde terreno nella tradizione ebraica e di fatto ne scompare, lo stesso varrà per questa straordinaria impresa traduttoria del mondo antico.
Alla fine del capitolo IX è presentato con chiarezza il cruccio che fu di Ambrogio, ma anche di tutta la tradizione patristica, ovvero fino a quanto la Chiesa potesse permettersi di mostrare una continuità tra la tradizione cristiana e il mondo ebraico. In questo senso stabilire un canone diverso da quello ebraico, nella selezione dei libri sacri, nel loro ordine, nella denominazione e nel numero, fu un graduale ma vincente passo verso l’emancipazione della cristianità dalle sue pur irrinunciabili radici ebraiche[1].
La comunanza di destini che lega due testi molto diversi come le Antichità (e a partire da esse, come si è visto, gli opera omnia di Giuseppe Flavio) e la traduzione della Bibbia è occasione per una riflessione sull’importanza della philologia sacra per il metodo storico-critico. Così si esprimeva Pasquali a proposito della eccessiva divisione del lavoro all’interno della filologia: «La colpa di questa ignoranza [della prefazione di Lachmann al Nuovo Testamento] è, credo, tutta della specializzazione. La metà del secolo XIX fu il tempo dei classicisti puri e dei latinisti puri: chi si occupava di Catullo, sdegnava di leggere e studiare il Nuovo Testamento. E d’altra parte i teologi, anche quelli protestanti, non avevano interesse per le quisquilie della storia dei testi. Tutto questo è una prova di più che nella filologia la specializzazione non può che nuocere»[2].
Naturalmente, il testo di Giuseppe Flavio non è ritenuto sacro da alcuna confessione religiosa, ma si è visto come questo non impedisca alla sua storia testuale di presentare questioni simili a quelle tipiche dei testi religiosi, in quanto molto copiati e diffusi, proprio perché ritenuti oltremodo autorevoli. Un omaggio all’affinamento degli strumenti della philologia profana attraverso quella sacra sembra quindi doveroso (cf. pp. 87s.).
In questo libro, Canfora ha molti meriti: il primo è saper restituire gli ingranaggi di eventi molto lontani come se lontani non fossero, come se appartenessero a un presente senza tempo. Il merito di avvicinare le storie dei testi classici raccontandole per quello che sono, storie umane. E spogliandole così dell’aura di sacralità e intoccabilità che abbiamo progressivamente affibbiato all’antico. Nel suo narrare, assumono un ruolo centrale i recessi, il backstage che viene alla luce grazie alla minuzia filologica, col risultato di restituire un complesso vivo. Nei primi capitoli traccia un profilo dell’autore, sottolineando la tipicità e la concretezza della vita di un transfuga ebreo in epoca romana, il compromesso raggiunto con l’ellenismo e con la dominazione straniera, senza mai rinnegare la fede dei padri, ma tentando di inserirla nella (e legittimarla agli occhi della) cultura dominante. Come ci riferisce nel proemio, Giuseppe scrive «perché ritengo di essere debitore a tutti i Greci, perché - così mi pare - comprenderanno la nostra grande antichità e l’ordinamento politico degli Ebrei» (AJ, I 5). Nei capitoli successivi Canfora scava altrettanto scrupolosamente nelle ragioni dei rappresentanti delle fazioni pro e contra Giuseppe, restituendocene i tratti notevoli.
Un secondo merito è quello di aver sparso tra le pagine più di una lezione di filologia e di metodo, con un taglio divulgativo al punto giusto da essere comprensibile ai non addetti ai lavori, ma anche istruttivo, se non altro come memento, a chi addetto lo è eccome. Sfata, ad esempio, miti come quello del copista capriccioso che cambia il testo a suo (com)piacimento (pp. 42s.), e non lo fa per rendere meno appassionante la lettura di un saggio filologico, quanto per rinfrescare in chi legge l’attitudine al metodo storico-critico come valore inderogabile dello studio quotidiano; come ricorda, con felice espressione, a p. 49, «la via d’uscita è sempre la storia del testo».
In questo quadro credo debbano inserirsi anche le parole sferzanti riservate, spesso in nota ma non solo, ad alcune delle nuove imprese di studio comprensivo dell’antichità e dei suoi autori, in cui si ignora sistematicamente la discussione sei-settecentesca e in generale la storia della disciplina. Per esempio, l’affondo di p. 117 su studi contemporanei che, «purché espressi in inglese», possono dire quel che vogliono, dal momento che il nostro «è un ambito di studi nel quale non costa nulla fare passi indietro», o la desolante conclusione di p. 128: «Bilancio. Anche a seguito della feticistica devozione al monolinguismo anglico, si è andata via via smarrendo la conoscenza dei risultati cui era giunta la grande erudizione dei secoli XVI-XVII (quasi sempre in latino). Di conseguenza si riscrive goffamente e con qualche contributo peggiorativo ciò che era stato già da secoli prospettato e argomentato con ben altra finezza e disciplina critica». In effetti, quella di tornare a leggere la storia di una disciplina come la filologia, che funziona inevitabilmente per accumulazione, è nota importante, in un’epoca che sembra talora perdere l’attenzione per la storia[3]. Anche senza entrare in un discorso troppo generale e perciò troppo generico, occorre fare attenzione alla maniera in cui certe argomentazioni sono già state poste in passato; Canfora porta dunque alla luce del pubblico contemporaneo delle situazioni a loro modo paradigmatiche del mestiere della storia e della critica testuale, considerando uno spettro di fonti davvero ampio e riconoscendo il giusto credito a studiosi che sarebbero altrimenti dimenticati anche in opere di settore.
Oltre che illuminare sul metodo, Canfora ricorda a chi legge anche un dato cruciale della natura dei testi, ovvero la loro intrinseca mobilità (è forse questo che più di ogni altro cardine della filologia dovrebbe essere insegnato). L’autore riporta un breve ma significativo cenno ai tempi moderni, in cui sottolinea il valore costante e universale di questa caratteristica dei testi: «per chiarezza, è bene non dimenticare che una ‘citazione’ può nascere anche da un fraintendimento, o da una notizia di seconda mano, che - nel passaggio da una fonte all’altra - si gonfia e si complica, e magari [...] finisce in una ‘Enciclopedia’ (accade anche in tempi moderni)» (p. 51). Nel mutare continuo dei testi, anche una sola parola può bastare a cambiarne il volto, come nel caso del Testimonium, in cui è stato sufficiente sostituire un ‘era ritenuto’ con un ‘era’ nella frase cruciale «egli era il Cristo» (cf. p. 58). Non è certo la prima né l’ultima volta che un’unica parola è in grado di generare effetti così notevoli; si pensi al filioque dei primi concili cristiani, o al solum aggiunto da Lutero nella sua traduzione della Lettera ai Romani (3,28)[4].
Sebbene questo risulti quasi paradossale, vista la sua smisurata produzione scientifica, Canfora ricorda a chi si occupa di filologia il monito nietzschiano a proposito della lentezza di questa disciplina, per cui il/la filologo/a «non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento»[5]. Proprio nel lento ascolto delle fonti e nell’attento vaglio di ciascuna di esse sta la straordinaria (e forse per alcuni inaspettata) apertura della filologia: una metodologia non dogmatica, che presta attenzione alla pluralità delle fonti e al loro intreccio: lo si vede nel libro, ad esempio nell’uso della tradizione araba (cui è dedicato il cap. VII), o di quella siriaca. Le interazioni sempre più strette con le discipline orientalistiche e con le tradizioni delle lingue semitiche spostano l’orizzonte di quello che siamo abituati a conoscere come il mondo classico, ampliandolo e riformandone il concetto stesso.
L’ultima e forse la più importante delle lezioni che si può trarre dalla conoscenza così approfondita di certe controversie sull’autorità dei testi, fitte di accuse e controaccuse dettate da opportunità di politica religiosa (o culturale in senso ampio), è quella di tentare un affrancamento dalla faziosità, una visione laica, inclusiva e basata sulla profondità storica quando si approcciano testi dalla tradizione così imponente. È insomma quella di provare a sostenere un campo di studi che sproni a lasciarsi questo tipo di controversie finalmente alle spalle.
[1] Cf. J. Mead, The Biblical Canon Lists from Early Christianity. Texts and Analysis, Oxford University Press, Oxford 2018.
[2] G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Le Lettere, Firenze 2015, p. 8.
[3] Recentissimo il volumetto di Adriano Prosperi dall’eloquente titolo Un tempo senza storia. La distruzione del passato (Einaudi, Torino 2021).
[4] Sul primo caso, si veda l’inquadramento di L. Perrone, Da Nicea (325) a Calcedonia (451). I primi quattro concili ecumenici: istituzioni, dottrine, processi di redazione, in G. Alberigo (ed.), Storia dei concili ecumenici, Queriniana, Brescia 1990, pp. 11-118; sul secondo, basti leggere la luterana Lettera del tradurre, nella versione italiana a cura di E. Bonfatti (Marsilio, Venezia 2001).
[5] F. Nietzsche, Aurora. Pensieri su pregiudizi morali, trad. it. F. Masini, in B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 329.
* FONTE: PANDORA RIVISTA
Intervista. E a Mosca anche la Commedia divenne sovietica
A colloquio con Kristina Landa: «Stalin ne promosse una lettura ideologica facendone un classico di riferimento»
di Roberto Carnero (Avvenire, domenica 4 luglio 2021)
Celebrazioni di rito a parte, la ricorrenza dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri ha il merito di aver determinato una vivace fioritura di studi e di approfondimenti critici. Kristina Landa, giovane ricercatrice presso il Dipartimento di Interpretazione e traduzione dell’Università di Bologna, ha messo in cantiere un’indagine ad ampio raggio della ricezione dell’opera dantesca nel Novecento in Russia: il che significa, sostanzialmente, in Unione Sovietica. La studiosa ha anticipato alcuni risultati del suo lavoro (di prossima pubblicazione su una rivista russa) in una tavola rotonda su ’Dante e le sue traduzioni’ coordinata da Raffaella Baccolini il 21 maggio nell’ambito della rassegna forlivese ’Nel nome di Dante’, promossa dall’Adi (Associazione degli Italianisti). Il titolo dell’intervento di Kristina Landa era molto curioso: Dante e Stalin.
Professoressa Landa, che tipo di ricezione ha incontrato Dante in Unione Sovietica?
Dopo che nel XIX secolo, e soprattutto nella sua seconda metà, la Divina Commedia era stata tradotta integralmente in Russia, con la rivoluzione bolscevica del 1917 la diffusione di Dante subì inizialmente una battuta d’arresto. Per tutti gli anni ’20 faceva problema la dimensione religiosa dell’opera dantesca.
E dopo che cosa succede?
Negli anni ’30 le cose cambiano. Una casa editrice, Academia, prova con maggiore convinzione a favorire la pubblicazione dell’opera dantesca. Si trova finalmente una giustificazione ideologica: di Dante viene sottolineato il profondo valore sociale e l’atteggiamento ’anticlericale’ con riferimento alla sua lotta contro il potere temporale della Chiesa. Dante viene letto come un autore ’progressista’. L’endorsement, per così dire, viene niente meno che da uno dei padri nobili del comunismo, Friedrich Engels, di cui si cita, a mo’ di giustificazione, il seguente giudizio: ’Dante è una figura colossale, è l’ultimo poeta del Medio Evo e il primo del Rinascimento’. E se lo dice Engels, nessuno può contestarlo.
Neppure Stalin, è così?
No, neppure lui. Non abbiamo dichiarazioni di Stalin su Dante o sulla sua opera, ma abbiamo pronunciamenti molto positivi di diversi letterati del suo entourage: segno che lui era d’accordo. È un dato di fatto che una nuova traduzione della Divina Commedia viene realizzata, dalla casa editrice Goslitizdat, proprio dopo l’ascesa al potere di Stalin, negli anni ’30. E che il traduttore, Michail Lozinskij, riceve nel 1946 il prestigiosissimo ’Premio Stalin’. Possiamo dire perciò che Dante è uno dei grandi classici dell’olimpo della cultura staliniana.
Come possiamo spiegare le ragioni di questo cambiamento?
Negli anni ’30 Stalin lavora alla nascita della nuova società sovietica, e vuole costruirla su basi non solo economiche ma anche culturali. A tal fine servono dei modelli, delle auctoritates, e alcuni grandi classici che possano costituire una sorta di costellazione ideale in grado di nobilitare dal punto di vista letterario e filosofico lo Stato sovietico. I russi, certo: Puškin, Lermontov, Tosltoj, lo stesso Gor’kij. Ma anche gli europei: Shakespeare, Voltaire e Dante, appunto.
Ma al di là delle edizioni realizzate dell’opera di Dante, la Divina Commedia era realmente letta dai russi?
Assolutamente sì. Era un’opera apprezzata e amata. Anche perché l’opera di ’educazione’ culturale del proletariato messa in atto dallo Stato sovietico attraverso le sue varie iniziative, dai circoli operai alle biblioteche popolari, stava dando i suoi frutti; e la domanda di libri, compresi i classici, era cresciuta notevolmente.
E oggi? Qual è la presenza di Dante in Russia?
Gli studi accademici danteschi sono praticamente fermi da più di un cinquantennio. Tuttavia a un livello più generale Dante viene ancora letto, forse non come in passato, ma c’è un pubblico di persone colte molto interessate alla Commedia.
Che cosa si apprezza dell’opera dantesca?
Direi soprattutto tre cose, di cui evidentemente si sente il bisogno: il percorso di ricerca spirituale, la tensione etica, la passione per la giustizia
Il caso.
Quando Hitler "rubò Dante" e venne beffato
Nel 1944 Hitler aveva affidato a Speer la costruzione di un Pantheon che avrebbe dovuto accogliere le ossa di grandi personaggi e fra questi Dante. Ma don Mesini le salvò nascondendole in casa
di Franco Gàbici (Avvenire, domenica 4 luglio 2021)
Da sette secoli Ravenna conserva gelosamente le ossa di Dante e per proteggere questo prezioso tesoro ha fatto di tutto, disubbidendo perfino a papa Leone X che nel 1519 aveva autorizzato l’Accademia medicea a recarsi a Ravenna per prelevare le ossa e portarle a Firenze. Tutti sanno come andò a finire la storia. Prima dell’arrivo a Ravenna della delegazione fiorentina i frati Francescani, che si sono sempre considerati custodi delle spoglie del poeta, a notte fonda praticarono un buco nella tomba e nascosero le ossa nell’attiguo convento. Nel 1810, a seguito delle soppressioni napoleoniche degli ordini religiosi, dovettero abbandonare il convento e prima di lasciare la città nascosero la cassetta delle ossa nella cavità di un muro. Qui vennero ritrovate per caso da un muratore alla fine di maggio del 1865 durante i lavori di restauro della zona in occasione del sesto centenario della nascita del poeta. Ci fu grande festa in città per questo ritrovamento, definito l’evento del secolo, e le ossa ritornarono nella tomba.
Ora, secondo un articolo del ravennate Sergio Roncucci pubblicato il 1° luglio sulla rivista ’Pen Italia’ la vicenda delle ossa di Dante si arricchisce di un nuovo capitolo che si discosta dalle versioni ufficiali a suo tempo fornite. Nel 1944 Hitler aveva affidato all’architetto del regime Albert Speer la costruzione di un Pantheon che avrebbe dovuto accogliere le ossa di grandi personaggi e fra questi Dante. L’Oss, il servizio segreto statunitense precursore della Cia, viene a conoscenza del progetto e informa l’Organizzazione per la Resistenza italiana che faceva capo a Raimondo Craveri, genero di Benedetto Croce. Essendo in ballo le ossa di Dante, Croce mette al corrente l’illustre grecista Manara Valgimigli e quest’ultimo, che alcuni anni dopo sarebbe stato chiamato a dirigere la Biblioteca Classense di Ravenna, informa don Giovanni Mesini che subito prende le contromisure.
Don Mesini, conosciuto come ’il prete di Dante’, insieme a Bruno e a Giorgio Roncucci, padre e fratello di Sergio, e del custode della tomba Antonio Fusconi, si reca al cimitero di Ravenna, preleva le ossa da una tomba abbandonata e nella notte fra il 23 e il 24 marzo del 1944 le sistema al posto di quelle del Poeta.
Sergio Roncucci, che all’epoca aveva dieci anni, ricorda che don Mesini si era recato a casa sua portando la cassetta con le ossa del Poeta e alle domande legittime dei familiari aveva risposto col dito indice sulle labbra. «Zitti tutti!». Nel frattempo, sempre secondo Roncucci, le Ss trafugano le ossa di Dante e le portano a Berlino. Quando si accorgono della beffa è tardi, la guerra è ormai alla fine e hanno altro a cui pensare. La storia, dunque, si ripete. E come all’inizio del Cinquecento i Francescani, disobbedendo a papa Leone X, trafugarono le ossa del poeta, allo stesso modo don Mesini e i suoi amici beffarono Hitler.
#Parola Di Dante
...viro
(Paradiso XXIV, 34)
***
#Beatrice chiede al #proboviro
#SanPietro di verificare
se #Dante ha capito la differenza tra
l’#Ecce Homo dell’#antropologia
(#PonzioPilato: gr. «idou ho #anthropos»)
e
il #vir dell’#andrologia di
#SanPaolo
(#capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]: 1 Cor 11,1-3).
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. COME NASCONO I BAMBINI...*
È la nostra nascita il miracolo che salva il mondo
Quella postilla di Hannah Arendt che illumina i dati Istat sulla natalità
di Sergio Belardinelli (il Foglio, 24 apr 2021)
L’Istat ci ha comunicato di recente che, complice anche il Covid, in Italia nel 2020 i morti sono stati 746 mila e i nuovi nati 404 mila. Un dato agghiacciante nel suo significato sociale e culturale che a me, come una sorta di riflesso condizionato, richiama alla mente uno dei brani filosofici più intensi che abbia mai letto: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.
Con queste parole Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. Si tratta di un brano che cito e commento ormai da quarant’anni, nel quale viene messo a tema un nesso, quello tra la libertà e la natalità, tra la libertà e la vita, col quale, che io sappia, soltanto la Arendt ha avuto l’acutezza e il coraggio di cimentarsi e che, a prima vista, può apparire persino paradossale. La vita infatti, almeno immediatamente, sembra richiamare non tanto la libertà, quanto piuttosto il gigantesco, immutabile ripetersi dei cicli naturali, l’ambito di quelli che il grande biologo Adolf Portmann, autore peraltro assai caro alla Arendt, definirebbe i “rapporti preordinati” - il contrario, quindi, di ciò che in genere intendiamo allorché parliamo di libertà. Quanto poi alla vita specificamente umana, essa, è certo impastata di libertà, ma è anche qualcosa che, a diversi livelli, non dipende da noi, qualcosa di cui, nonostante le tecnologie della riproduzione, non possiamo avere il completo controllo: la riceviamo semplicemente; non scegliamo i nostri genitori, né il luogo dove venire al mondo; dobbiamo fare continuamente i conti con gli altri, con le nostre passioni, i nostri istinti, le nostre inclinazioni, con quel coacervo di natura, ragione, sentimenti, usi e costumi che vanno a costituire appunto il “gran mare” della vita. La vita insomma pone una serie di condizioni e condizionamenti alla libertà che possono renderla persino impossibile. Eppure, rompendo in un certo senso questa grande catena, è proprio la libertà che dà sapore e specificità alla vita umana; solo la libertà impedisce che il mondo si riduca spinozianamente a “sostanza”, a qualcosa di omogeneo, a qualcosa come un continuo fluire; solo la libertà è capace di introdurre nel mondo un elemento di novità, qualcosa di imprevisto.
Pensieri non nuovi, si potrebbe dire. Ma proprio qui si inserisce la fondamentale postilla arendtiana, preziosa per leggere in una chiave forse inusuale ma certo illuminante anche i dati Istat sulla natalità in Italia da cui siamo partiti: è la stessa vita umana, il nostro venire al mondo, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo scompaginamento, se così si può dire, della routine della vita.
La facoltà dell’azione, dice la Arendt, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni - la libertà e la natalità - ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme fiducia nel futuro. In questo senso ogni bambino che nasce è un segno di speranza nel mondo; è l’irruzione nel mondo di una “novità”, la cui memoria, è il caso di dire, ritroviamo da adulti nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai.
Novità, pluralità (gli uomini, non l’uomo abitano la terra, ripete spesso Hannah Arendt) e speranza: questo ci schiude direttamente e in modo straordinario il discorso arendtiano sulla libertà radicata nella natalità. Ma indirettamente, specialmente oggi, tale discorso ci schiude molto di più. Ci fa capire, ad esempio, quale tragedia, anche simbolica, si consuma nel momento in cui un paese come l’Italia registra in un anno un saldo passivo tra morti e nuovi nati di 342 mila unità. È un po’ come se il mondo e la nostra libertà perdessero la speranza, ossia ciò che dà loro sapore, ciò che è insieme accettazione della realtà nella quale viviamo e fiducia nel futuro.
È vero, tutto passa. La vita non è altro che un eterno dissolversi nel gigantesco circolo della natura dove, propriamente, non esiste inizio né fine e dove tutte le cose e gli eventi si svolgono in un’immutabile ripetizione: la mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Ma la Arendt non accetta questa mestizia, poiché a suo avviso “la nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali”; avvengono in un mondo dove vivono altri uomini; un mondo che acquista significato grazie alle loro azioni e ai loro discorsi; un mondo che per questo è sempre aperto alla novità.
Con la creazione dell’uomo, dice la Arendt, “il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo”. Di nuovo l’inizio, dunque, diciamo pure, la natalità.
È proprio perché, in quanto uomini, siamo initium, nuovi venuti, iniziatori, per virtù di nascita che secondo la Arendt, siamo indotti ad agire. La definizione che più si addice agli uomini non è quella di “mortali”, ma piuttosto quella di “coloro che nascono”. In questo modo, quasi per una sottile ironia della sorte, la categoria della natalità diventa fondamentale proprio nel pensiero di un’allieva (e anche qualcosa di più) di Martin Heidegger, l’inventore dell’essere per la morte. Non che la Arendt ovviamente trascuri che la morte rappresenta l’ineluttabile fine di ogni vita umana, solo che, a suo avviso, gli uomini, anche se debbono morire, non nascono per questo, bensì per incominciare. E siamo di nuovo al passo da cui siamo partiti: “Il miracolo che salva il mondo....”.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
Federico La Sala
"IAM REDIT ET #VIRGO" (#Virgilio).
Nell’approssimarsi dell’#alba,
un’ottima sollecitazione:
riascoltare la lezione di
#Stazio
su
#come nascono i bambini
(Purg. XXV, 34-78)
e riprendere le ricerche
#Giovanni Valverde
(#Kant - M. #Foucault).
Per evitare ulteriori astratti
particolarismi e universalismi,
interrogarsi con #Dante (Purg XXV)
su
e
reimpostare il problema di
(Hans Joas).
Intervista - "Letture" *
“Bibbia e Corano, un confronto” di Piero Stefani
Prof. Piero Stefani, Lei è autore del libro Bibbia e Corano, un confronto edito da Carocci: quanto sono simili i due testi sacri?
Comincio da una precisazione rilevante: i testi sacri sono in realtà tre. Occorre infatti distinguere tra Bibbia ebraica e Bibbia cristiana. Uno stereotipo ancora abbastanza diffuso parla di Bibbia e Vangelo. In realtà, esistono la Bibbia ebraica, e la Bibbia cristiana formata da Antico e Nuovo Testamento. I libri dell’Antico Testamento, salvo alcuni casi particolari, coincidono con quelli della Bibbia ebraica; tuttavia in questo caso si è trattato non di aggiungere alcuni libri a quelli precedenti bensì di creare un insieme da leggere e interpretare in maniera diversa.
La somiglianza più profonda è che Bibbia e Corano sono sacri soltanto a motivo dell’esistenza di tre comunità che li considerano tali, in quanto li ricevono, li leggono nella liturgia, li commentano e li trasmettono. Tutte e tre le comunità religiose condividono la convinzione che, nel corso della storia, Dio abbia fatto giungere agli esseri umani parole destinate in seguito ad assumere una forma scritta. Ciò è avvenuto grazie a specifici mediatori che hanno trascritto nella “lingua degli uomini” la volontà di Dio. Per ricorrere alla classificazione consueta, ebraismo, cristianesimo e islam sono «religioni rivelate». Tra esse ci sono molte e non lievi differenze, ma tutte emergono a partire da questo terreno comune. Le si può paragonare a un bosco in cui ci sono alberi molto differenti tra loro, anzi a volte uno di essi fa ombra a un altro, tutti però condividono lo stesso suolo.
Quali sono i più significativi punti comuni tra Bibbia e Corano?
Il primo, irrinunciabile punto in comune è che Dio è definito creatore. Ciò significa che la realtà nel suo insieme ha avuto inizio a causa di un atto libero di Dio. Per tutte e tre non si tratta di dimostrare l’esistenza di Dio a partire da quanto sperimentiamo in noi e attorno a noi; quanto affermato dalle tre religioni è che in noi e attorno a noi ci sono segni dell’opera creatrice di Dio. Per così dire, il Cantico delle creature di Francesco di Assisi esprime un convincimento comune a ebrei, cristiani e musulmani. Per tutte e tre le tradizioni religiose, specie di età moderna, nasce poi il problema di sapere come confrontarsi con la visione del cosmo e della natura proposta dalla ricerca scientifica. Qui le strategie sono in parte diverse.
Altro punto accomunante è che Dio abbia comunicato agli esseri umani delle leggi (per limitarci a un solo esempio, si pensi ai “Dieci comandamenti”) volte a regolare sia i rapporti interni alle singole comunità religiose sia quelli con le altre persone e società. In questo caso ci si deve confrontare con il problema di quale rapporto esista tra queste leggi credute di origine divina e i tempi storici in cui sono sorte. Nasce poi anche l’interrogativo di quale sia la relazione tra le leggi di natura divina e quelle, fondate su altri principi, che regolano la società civile. La questione è accomunante, le risposte sono invece molteplici e spesso non concordi. Sono tali non soltanto tra ebraismo, cristianesimo ed islam, ma anche tra i vari gruppi o membri interni alle singole comunità religiose.
Le tre grandi religioni monoteiste fondano sulla rivelazione divina la propria dottrina, tanto da meritare l’appellativo di ‘popolo del libro’: come definiscono, i due testi sacri, la comunità dei credenti?
Come accennato in precedenza è vero che tutte e tre le comunità hanno testi sacri, tutt’altro che certo è invece che le si possa chiamare concordemente «popolo del libro». Per limitarmi a un solo esempio, per il cristianesimo la fonte prima della rivelazione è Gesù stesso, di cui i Vangeli sono memoria e testimonianza. Si può affermare che tanto l’ebraismo quanto il cristianesimo definiscono i loro rispettivi testi sacri in modo gerarchizzato.
La Bibbia ebraica è costituita da tre parti: Torah (Legge, con parola derivata dal greco, detta Pentateuco), Neviim (Profeti) e Ketuvim (Scritti). Il ruolo decisivo è svolto della prima parte; nell’armadio sacro presente in ogni sinagoga è contenuta, non a caso, solo una copia manoscritta della Torah, l’unica che fonda i precetti osservati dagli ebrei.
Per il cristianesimo il vertice è invece costituito dai quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi). Essi sono incentrati sulla vita pubblica, morte e resurrezione di Gesù. I Vangeli sono colti come una specie di chiave interpretativa per leggere in modo unitario un libro, la Bibbia, composto da un vasto insieme di testi molto vari per origine e provenienza, sorti in un arco di tempo di parecchi secoli.
Il Corano ha avuto invece un processo redazionale molto più breve misurabile in qualche decennio. La sua scansione interna è tra sure (capitoli) “fatte scendere” (cioè rivelate) a Mecca e quelle, cosiddette medinesi, risalenti a un periodo successivo all’egira (622 d.C.). I contenuti del Corano si suddividono in annunci, narrazioni e leggi; queste ultime, che incidono maggiormente sulla vita della comunità, risalgono al periodo finale della vita di Muhammad, quando il Profeta esercitava già una forma di governo.
L’espressione «comunità dei credenti» calza bene per cristiani e musulmani in quanto l’appartenenza alla Chiesa e all’ Umma (comunità musulmana) presuppone la fede, meno agli ebrei che costituiscono un popolo vero e proprio, non a caso si è ebrei innanzitutto per nascita (secondo una discendenza matrilineare).
Come descrivono Bibbia e Corano l’origine del male?
Vi è una dimensione accomunante che individua l’origine del male nella trasgressione. Come ben compreso da Paolo nella Lettera ai Romani, perché ci sia una trasgressione bisogna che prima ci sia una legge o un comando. Occorre quindi trovare miti fondativi che si muovano in questa direzione; il più noto è quello della proibizione di mangiare l’albero della conoscenza del bene e del male. Non è difficile comprendere il suo valore simbolico incentrato propria sulla connessione tra divieto e violazione. Al pari di prospettive presenti nell’apocalittica tanto giudaica quanto cristiana, il Corano pensa a una violazione antecedente a quella compiuta dalle creature umane. Ecco allora irrompere il peccato angelico, nell’islam connesso alla figura di Iblis, angelo superbo e disobbediente. D’altra parte conviene riflettere sul fatto che una trasgressione c’è eppure non ci dovrebbe essere; in questo senso si vede chiaramente la sua connessione con il male, altra realtà che c’è ma non dovrebbe esserci. Individuare la radice del male nella trasgressione porta con sé però altri problemi: chi spinge a trasgredire? Ecco allora che si “personalizza” il peccato, presentandolo come una forza che induce a compiere atti brutali. Sia per la Bibbia sia per il Corano la storia di Caino rappresenta il simbolo più conosciuto di tutto ciò: quando uccise il fratello, il primo fra i nati da donna non aveva ricevuto il comando di non uccidere.
Aumentare a dismisura la forza del peccato o della tentazione come causa del male rischia però di fa scivolare la visione di insieme verso una forma troppo prossima al dualismo, vale a dire di prospettare l’esistenza di un Dio del male; ecco allora che in alcuni passi sia biblici sia coranici si legge che Dio crea il male (Isaia 45,7). Affermazione che non va assolutizzata ma neppure del tutto accantonata. La presenza del male rappresenta per tutti uno scoglio complesso.
In che modo Bibbia e Corano affrontano il tema della resurrezione dei morti?
Il tema è presentato in maniera per così dire defilata nella Bibbia ebraica, infatti lo si trova con chiarezza solo nel tardo e apocalittico libro di Daniele (che nella Bibbia ebraica non è annoverato neppure tra i libri profetici). La resurrezione dei morti svolge invece un ruolo centrale nel Nuovo Testamento; il motivo è evidente: il kerygma - cioè l’annuncio originario e fondamentale della fede - ha il proprio centro nella «buona novella» di Gesù Cristo morto e risorto. Come stabilito in modo definitivo da Paolo, per la fede cristiana vi è un legame inscindibile tra la risurrezione di Gesù Cristo e quella dei salvati. Anche per questo motivo nel cristianesimo, per quanto sia stato affermato più volte e venga attestato anche da alcuni passi neotestamentari, suscita sempre sconcerto la prospettiva secondo la quale ci sono dei risorti destinati alla dannazione eterna. Nel Corano la resurrezione dei morti è affermata in maniera forte e inequivocabile. Per trovarne il fondamento basta rifarsi alla perenne attività del Dio creatore: Allah, che ha plasmato l’uomo dalla polvere, è ben capace di dare nuova vita a ossa disseccate. La resurrezione è però intrinsecamente legata al giudizio in virtù del quale si è o beati o dannati; una prospettiva tanto presente nell’islam da essere anticipata da una specie di interrogatorio che avviene dentro le tombe.
Piero Stefani, di formazione filosofica, insegna “Bibbia e cultura” presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e “Diritto ebraico” all’Istituto internazionale di Diritto Canonico e Diritto comparato delle religioni dell’Università della Svizzera Italiana. È segretario generale di Biblia, associazione laica di cultura biblica. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano Il grande racconto della Bibbia, il Mulino 2017 e per Carocci I volti della misericordia (2015).
* Fonte: Letture.org
Nota:
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - ma le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Federico La Sala
Urgenze
Non strumentalizziamo Dante, no alla retorica del pater patriae
di Annalisa Barletta *
Dante profeta della nazione? Semmai sfuggì ad ogni fissità politica, linguistico-culturale di natura identitaria, integralista, limitanea. Non si commettano gli errori del passato, in vari momenti della notte della Repubblica il Poeta fu usato strumentalmente... Dante, invece, ci obbliga a dialogare con l’Altro, con il diverso per spazio e tempo...
«Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa d’Italia», così il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Dario Franceschini, annunciò il 17 gennaio del 2020 l’istituzione del Dantedì, fissato nel giorno del 25 marzo, quando Dante, a principio della settimana santa di quel lontanissimo anno giubilare del 1300 avrebbe collocato l’inizio del suo viaggio oltremondano. L’enfasi retorica del ministro sembra ricondurci anacronisticamente verso altre stagioni della storia dell’Italia, risorgimentale e fascista, verso altri periodi della notte della Repubblica, ovvero negli anni del Terrorismo, in cui il nome e l’opera del poeta furono usati strumentalmente per imprimere, legittimare, rafforzare l’idea di nazione, di identità culturale. Ancora oggi si ripropone un Dante negli allori vaticinanti di un poeta contemporaneo che offrirebbe risposte ad una società glocal in crisi di identità. Se da una parte la spinta omologante e sovranazionale della globalizzazione lo ha ridotto ad una icona pop, politicamente, culturalmente e moralmente depotenziata e spendibile per ogni causa pubblicitaria-memetica, dall’altra ha alimentato in controrisposta addomesticazione e accaparramenti del Poeta da parte di nicchie di resistenza populistica e rivendicazioni identitarie.
Il mondo per patria
Dunque, Dante fu davvero il profeta della nazione? Davvero egli rivolse il suo messaggio esclusivamente alla comunità dei parlanti la lingua del sì, davvero concepì tale strumento culturale come divisivo e nazionalistico? In realtà sfuggì ad ogni fissità politica, linguistico-culturale di natura identitaria, integralista, limitanea. Significativo il passo del De vulgari eloqeuntiae nel quale egli, con lucida e moderna consapevolezza relativistica, derivante dalla sua cultura enciclopedica, tomistica, universalistica ebbe a sostenere che:
La ricerca linguistica
Tendenza ibridante al sincretismo culturale e approccio problematico, definitorio con la realtà e il sapere furono i due aspetti della sua attività intellettuale che investirono l’intera produzione letteraria e l’intima evoluzione della sua Weltanshaung. Come ha evidenziato Pier Vincenzo Mengaldo, il carattere peculiare dell’opera del poeta fu «la forte discontinuità, la ricchezza di contraddizioni interne; esperienze letterarie, nel giro di pochi anni, disparatissime e violentemente antinomiche [...]; opere lasciate in tronco; palinodie; atteggiamenti e teorie a contrasto in testi contemporanei e gemelli [...] e talvolta all’interno del medesimo testo (ivi compresa la Commedia).» (P.V. Mengaldo, Introduzione al De vulgari eloquentiae).
Erede di una imponente e autorevole tradizione classica e medievale, che aveva trovato la sua massima espressione nelle forme cristallizzate della lingua latina, ma al contempo consapevole dei cambiamenti storico-culturali in atto, egli si interrogò per tutto il corso della vita su questioni di natura etica, culturale, estetica, sociologica e politica approdando a soluzioni differenti con il progredire e l’affinarsi della sua ricerca, sempre pronto a storicizzarsi e a smentirsi: sin dagli esordi lirici si interrogò sulla forma e la legittimità del volgare come lingua poetica, sui contenuti poetabili e sulla natura sociale e valoriale del pubblico cui destinare i risultati della sua creazione. La ricerca linguistica del poeta, iniziata con le riflessioni elaborate nel De vulgari eloquentiae e conclusasi con l’esperienza della scrittura comica, lo condusse alla consapevolezza della storicità della lingua, del suo essere prodotto umano, e come tutte le cose umane, “identità” compresa, mutevole e transeunte tanto da affermare nel Convivio che: «se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante».
Se nel De Vulgari eloquentiae egli si espresse circa la natura del linguaggio nei termini di una certa «forma locutionis a Deo cum anima prima concreata», ovvero di una lingua adamitica, pura ed incorruttibile, prodotta direttamente da Dio nella sua componente logico-sintattica (constructio vocabulorum), radicale (rerum vocabula) e morfologica (constructionis prolatio) poi precipitata nella confusione delle lingue babeliche, nel Canto XXVI del Paradiso egli arrivò ad includere, per bocca di Adamo, nella nozione di arbitrarietà e storicità del segno linguistico anche il primiloquium edenico:
In questo modo riscattava il pluralismo linguistico dalla colpa babelica con una retratactio che sottraeva alla lingua adamitica il sacro privilegio dell’inalterabilità e la consegnava, al pari delle altre lingue post-babeliche, al principio della mutevolezza dei linguaggi; attraverso questi versi, quindi, egli arrivò «ad autogiustificare il paradosso del poema sacro in una lingua peritura» (G. Contini, Un’idea di Dante). Per plasmare la multiforme e polisemica materia oltremondana, «al quale ha posto mano e cielo e terra» (Pd XXV v. 2) , e aderire con spregiudicata coerenza alla plasticità della Divina Mimesis, Dante fa ricorso ad uno sperimentalismo morfosintattico, fonetico e lessicale che Contini identifica nelle categorie di “plurilinguismo” o “multilinguismo”, espressione dell’engagement letterario, del suo approccio democratico alle potenzialità mimetiche e al contempo soterico-allegoriche della lingua. La locutio vulgaris che egli utilizza nella Commedia è la stessa in qua et muliercule comunicant (Epistola XIII) umile e dimessa, ma anche elegiaca nonché tragica che agisce con fine caritatevole, liberale ed universalistico in pro del mondo che mal vive (Pg XXXII). Il ricorso all’espressionismo plurilinguistico e la definizione democratica del pubblico cui il messaggio di salvezza è destinato, fu il frutto ancora una volta di un cambiamento di prospettiva, di un graduale allontanamento dalle posizioni espresse nel De vulgari eloquentiae prima e nel Convivio poi, opere in cui egli aveva individuato, forte dell’autorità aristotelica che imponeva l’osservanza della separazione degli stili, nelle forme del volgare illustre il mezzo atto a trasmettere ad un pubblico selezionato e nobile solo contenuti di natura tragico-filosofica.
No a un nazionalismo anacronistico
Dal punto di vista politico, infine, si tenne lontano dall’aderire faziosamente a istanze guelfo-municipalistiche, in nome di un cieco asservimento alla causa della lupa, vessillo di una società di parvenus spregiudicata e fratricida di cui egli stesso cadde vittima; mantenne una condotta anzi, così imparziale da indurlo, colpito dalla condanna all’esilio, a prendere anche le distanze dalla «compagnia malvagia e scempia» (Pg XVII v. 62), ovvero da quei Bianchi che tentarono un rientro armato in città di cui lo stesso Dante aveva presagito il fallimento, risolvendosi a far «parte per se stesso» (Pd XVII vv. 67-69). Dall’osservatorio privilegiato dell’exsul immeritus ebbe modo di assistere al moltiplicarsi di egoismi ed appetiti particolaristici, controversie tra opposte fazioni cittadine, lotte territoriali tra casate nobiliari, ambizioni espansionistiche del Papato ai danni dell’Impero che, nella totale noncuranza dell’Imperatore avevano ridotto l’Italia, «lo giardino de lo ‘mperio» (Pg VI v. 105), un tempo «signora di province» (Pg VI v. 78), alla stregua di un «bordello» (Pg VI v. 78). La soluzione che egli propose, nella riflessione politica della Monarchia e della Commedia, non poteva restare circoscritta entro i confini di un nazionalismo anacronistico ma assunse il respiro ampio ed universalistico proprio di quell’antico Impero romano che aveva fatto dell’integrazione socio-culturale la forza della sua provvidenziale stabilità.
Una lezione di alterità e universalità
Un «Libro che sorvola i secoli» sostiene Sermonti nel commento al VII canto del Purgatorio, in quanto si fa portavoce delle istanze di riscatto dalla provvisorietà umana insite nella veemenza etica e demiurgica della parola letteraria; ma che «odora tuttavia di tempo, del suo tempo, della storia della cronaca del suo tempo» pertanto continua Sermonti «noi non siamo contemporanei di Dante; ma per passione politica e severità morale ci ingiunge la responsabilità non da poco di essere [...] nostri contemporanei». In un’età postmoderna sottoposta ad un processo di erosione, disgregazione e polverizzazione identitaria, di fronte al quale si reagisce trincerandosi entro il rassicurante spazio di esperienze culturali passate assimilate con un approccio orizzontale ed ideologico privo di profondità temporale, la lezione che proviene da Dante è una lezione di alterità ed universalità al contempo; egli ci obbliga a dialogare con l’Altro, con il diverso per spazio e tempo, ovvero con il testo del Commedia, mediante un rigore ed una tensione critica che è la premessa necessaria per l’edificazione di un nuovo umanesimo globale.
* Fonte: Lucia-Libri, 27 maggio 2021 (ripresa parziale - senza immagine).
ISRAELE - PALESTINA /SENZA FINE
ABITARE DA STRANIERI UNA TERRA-SPOSA
Tra Israele e Palestina l’idea dei due popoli e due stati non regge più
Chi conosce i territori sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. Per questo serve immaginare un laboratorio politico nuovo
di Donatella Di Cesare (L’Espresso, 25.05.2021)
«Quelli sono occupanti! E gli altri sono occupati». Più esplicitamente: «Quel paese è frutto di occupazione!». Oppure con il nuovo motto: «Basta con l’esproprio etnico!». Sono solo alcuni esempi di slogan che circolano ovunque, dal web alle piazze, e che rilanciano una vecchia, vecchissima accusa (quasi immemoriale): Israele non dovrebbe essere lì dov’è. Non ci sarebbe quasi altro da aggiungere.
Il «peccato originale» che avrebbe segnato la nascita di Israele sarebbe quello di aver scalzato un popolo che c’era prima, indigeno, nativo, insomma autoctono. Alla fin fine non si tratta neppure tanto di limiti e confini, di linea verde e territori contestati. Dietro calcolo e contabilità, a cui spesso si fermano statisti e politologi, si nascondono questioni ben più profonde che di solito vengono aggirate. Forse perché non riguardano solo Israele e Palestina, ma investono tutti noi, le nostre frontiere, gli stati nazionali in cui siamo inseriti, il nostro abitare e il rapporto con gli altri.
Perciò occorre forse una prospettiva nuova, un modo diverso a cui guardare quel terribile conflitto che non per caso ci turba e ci coinvolge tutti con un’ondata di emozioni talvolta irrefrenabili, al punto da rendere impossibile una riflessione. E se nella tragedia si nascondesse invece una chance? Se Israele e Palestina fossero il laboratorio politico della globalizzazione?
Forse bisognerebbe chiedersi anzitutto che cosa significa «occupare». Questo verbo, che è il punto dirimente, non sembra solo legato alla frontiera e al fronteggiarsi. Rinvia anche al possesso originario, alla mitologia dell’origine, a cui non si sottraggono neppure i palestinesi quando rivendicano di essere i primi abitanti. La battaglia delle cartine è arrivata anche su facebook. Colori e bandiere diversi si avvicendano per quello stretto lembo di terra che va dal Giordano al Mediterraneo. E di nuovo: lo scontro non è tanto sulla geografia, quanto sulla storia. Chi c’era prima? I palestinesi che sono stati poi scalzati. Sono loro gli abitanti originari, gli autoctoni. Quelli che sono arrivati dopo - gli ebrei, gli israeliani - sono occupanti, colonialisti, ecc. Ma i nomi contengono anche una testimonianza storica. L’etimologia di «palestinese» va ricondotta a liflosh, ovvero filisteo, cioè invasore, e si riferisce a un popolo venuto dal mare. Dopo aver raso al suolo Gerusalemme i romani chiamarono Palestina la terra di Israele per sottolineare la rottura rappresentata dall’Impero e cancellare anche nel nome il ricordo del popolo ebraico. I palestinesi di oggi, discendenti in gran parte dall’immigrazione araba intorno al 1930, sono andati costruendo una identità nazionale nel confronto-scontro con Israele rivendicando radicamento e possesso originario.
Sono allora gli ebrei i veri autoctoni? No - e lo dice il nome. Perché ivrì, cioè venuto da altrove, non può essere del luogo. Abramo, il primo emigrante, segue l’ingiunzione: «va, vattene!». E così lascia tutto per andare a vivere da straniero in una terra non sua, promessa. Insomma, quelli che credono di essere venuti prima sono invece sempre venuti dopo.
Chi sono allora gli abitanti originari, gli autoctoni, di questa terra, e di ogni terra? Ma forse sbagliata è proprio la domanda: nessun popolo può dimostrare di essere autoctono.
Eppure, questo mito potentissimo alimenta ancora oggi la politica degli stati nazionali. Basti pensare alla guerra contro i migranti. È l’idea della terra-madre che, mettendo fuori gioco le donne, genera direttamente i suoi figli, tutti maschi e tutti cittadini, perché nati proprio lì, in quella zolla di terra, nel suolo stesso della città. Perciò sono i proprietari esclusivi, i figli legittimi, ben nati, in grado di respingere gli altri, i bastardi e gli stranieri. Questo avviene nell’Atene patria del sé, modello fulgido di pura, presunta autoctonia. Ma l’esempio - lo sappiamo - può vantare una tradizione secolare che nulla ha interrotto, nemmeno l’hitlerismo, la forma più esasperata dello ius soli. E oggi quel mito continua ad affermarsi tra radici inestirpabili e malattia identitaria, che ovunque rischiano di ridurre la democrazia a etnocrazia, una forma politica dove valgono non i diritti del popolo, ma quelli della stessa etnia. Si può puntare l’indice solo su Israele, parlando di stato etnico e magari usando una parola grave come «apartheid»? Oppure non si dovrebbe guardare anzitutto a quel che avviene nei paesi europei, anzitutto in Italia, dove la cittadinanza è basata ancora sul sangue e sul suolo?
Chi conosce i territori israeliani e palestinesi sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. E infatti sono sempre più le voci critiche che negli ultimi anni si sono levate contro la «soluzione dei due stati», giudicata una fantasia che dimentica la storia e ignora il contesto politico. D’altronde ovunque, sotto la spinta della globalizzazione, lo stato perde sovranità e i confini diventano un limite. In tale scenario quello tra Israele e Palestina è il conflitto tra uno stato post-nazionale e uno stato proto-nazionale. Sta qui in gran parte l’insolubilità.
Le due parti non si incontrano anche perché si trovano in fasi diverse della propria storia. Israele ha compiuto la «liberazione nazionale» e in molti ambiti (dallo high tech all’informatica) oltrepassa continuamente i referenti statuali. Resta allora la questione dello Stato palestinese. Al di là delle divisioni interne, si può essere sicuri che la fondazione di un nuovo stato sarebbe criterio di equità e favorirebbe la pace? La logica degli stati nazionali, che ancora nel secolo scorso poteva essere considerata la via dell’emancipazione, da tempo mostra tutte le proprie pecche, dall’aggressività nazionalistica alla costruzione di identità artificiali. Le «patrie» che gli stati nazionali hanno costruito per i propri popoli si sono rivelate trappole senza uscita.
Puntare a una comune cittadinanza deterritorializzata e denazionalizzata sarebbe invece la strada insieme più concreta, ma anche più lungimirante. Si tratta peraltro di un esperimento che viene praticato anche in altre parti del mondo, dove gli stati gomito a gomito impediscono la convivenza, oppure in alcune grandi città nelle quali è molto alto il numero degli immigrati (esemplare è il caso di New Haven che ha concesso stato civile e diritti politici). Tutto questo non potrebbe in nessun modo lasciare immutato lo stato di Israele che, anzi, proprio perciò, dovrebbe andare al di là dello stato.
Non avrebbe dovuto essere questo il suo compito? Mentre è accusato di occupare una terra non sua, mostrare la possibilità di un altro abitare? Era questo il senso della promessa, una promessa certo non dettata dalla Shoah, dei cui esiti atroci Israele ha dovuto semmai farsi carico. Eppure, ancora oggi Israele è inquisito nel suo essere: si contesta quel ritorno, negando la continuità della presenza su quella terra, e dunque la storia stessa del popolo ebraico. Capita che lo facciano subdolamente esimi storici che su youtube ironizzano sull’antico regno di Israele. Come se questo fosse il punto.
Ma che dire degli sfratti a Sheikh Jarrah? Soprattutto per ciò di cui sono simbolo? E tutta la miope e belligerante politica di espansione della destra che in questi ultimi anni ha provocato enormi e inutili tensioni? Si può ormai parlare di una tragicità del sionismo politico che sulla scia della normalizzazione ha inscritto Israele nella modernità al prezzo di un nazionalismo esasperato e una simbiosi con la terra. Proprio il popolo che dovrebbe mostrare la possibilità di un altro abitare, non nel solco del radicamento, bensì nella separazione. Questo vuol dire kadosh, santo, separato. Terra in cui si risiede come stranieri, venuti da fuori, come ospiti che non possono non concedere ospitalità.
Non una terra-madre, bensì una terra-sposa. Impossibile dimenticare l’estraneità, sacralizzando idolatricamente la terra. D’altronde in ebraico gher, straniero, è connesso con ghur, abitare. Si può e si deve abitare da stranieri. Nessun mito di autoctonia.
Abitare e coabitare sono verbi oggi politicamente decisivi e vanno al di là di vecchie categorie politiche che non rispondono più allo scenario attuale e all’ordine statocentrico. Si capisce che il conflitto tra Israele e Palestina abbia ripercussioni ovunque. Già solo perché viene tacitamente scossa la sovrana autocoscienza delle nazioni che vantano radici e possesso territoriali. Israele è una effrazione nel dimorare della Palestina e i palestinesi, i più prossimi, sono quasi delegati degli altri popoli, che d’un tratto si trovano faccia a faccia con il vuoto statuale e nazionale di cui Israele è memoria. In tal senso, guardando oltre il quadro bellico, è quello il laboratorio politico dove due popoli, loro malgrado, sono costretti a inaugurare nuove forme di coabitazione che saranno forse modello per gli altri.
Riletture
La magnifica inattualità della "Commedia"
Si fa un gran parlare di Dante mettendo l’accento sulla sua attualità, che è però distante dalla visione della vita, della morale civile e del rapporto creatura-Creatore che è nella sua opera
di Gianni Oliva (Avvenire, domenica 23 maggio 2021)
È sotto gli occhi di tutti che l’anno dantesco, il 2021 (700 anni dalla morte di Dante), vada a gonfie vele. Le manifestazioni erano già cominciate l’anno precedente con l’istituzione da parte del ministero dei Beni culturali del Dantedì, una ricorrenza fissa, come il giorno della memoria, che ha indubbiamente il suo valore promozionale. Già dagli ultimi giorni del 2020 è andato crescendo il clamore per la ’riscoperta’ (ahimé) di Dante nei salotti televisivi, ove si avvicendano dantisti dell’ultima ora col loro libro sotto braccio. Si tratta nella maggior parte di profili e di ricostruzioni biografiche non sempre di prima mano allestite per l’occasione o di adattamenti della Commedia in forma di narrazione, come se l’opera si risolvesse in un’affascinante avventura dagli Inferi «a riveder le stelle», magari alludendo alla pandemia in corso da cui tutti vorremmo uscire al più presto. Libri destinati a non lasciare traccia, adatti semmai a tamponare l’occasione della ricorrenza o a trasformarsi, nei casi peggiori, in regali di Natale, con soddisfazione degli editori e degli scaltri autori. In ogni caso c’è da chiedersi se tutto ciò sia un bene o un male.
Potremmo dire che è comunque un bene se come conseguenza ha l’avvicinamento del grande pubblico alla poesia dantesca, anche a rischio dell’estrema semplificazione e di una conoscenza approssimativa, se non distorta. Qualche anno fa venivano criticate dagli addetti ai lavori le istrioniche letture di Benigni ma certamente per la divulgazione di Dante hanno fatto molto di più quelle performances delle pur prestigiose (a volte noiose) lecturae Dantis delle accademie (nelle quali riconosco di essere stato molte volte coinvolto di persona).
Cento anni fa, nel 1921, altro anno deputato per il centenario dantesco, Giovanni Papini, in un libro intitolato Dante vivo, non si faceva scrupoli di prendere di mira i dantisti, i dantomani, gli sterili chiosatori del poema (Marinetti a sua volta parlava di un «verminaio di glossatori»), i quali, presi dalle loro minuzie interpretative (le cosiddette cruces dantesche), erano accusati di perdere di vista l’anima di Dante, insomma, la sostanza profonda del suo messaggio. Il dantismo celebrativo di oggi rischia di sortire forse gli stessi effetti perché il tema primario sembra essere quello dell’attualità del grande poeta.
Ci si chiede sempre: ma Dante è attuale? Come se gli autori possano essere scelti in base al tasso di attualità della loro opera ignorando la connessione stretta col loro tempo. Certo, come tutti i grandi classici, Dante contiene messaggi che riguardano il comportamento degli uomini e per questo è come Omero, come Shakespeare, autori in cui si riflettono le verità universali. Attenzione però. Alcune di queste verità, indubbiamente le più importanti, sono di natura spirituale e dunque connesse con un sapere teologico profondissimo e complicato con cui oggi si è persa dimestichezza. Va detto a scanso di equivoci che Dante è un poeta difficile e come tale richiede rispetto.
Etienne Gilson diceva che quando ci si accosta a Dante è necessario dismettere gli abiti laici. Un’epoca utilitaristica come la nostra, fondata sul tessuto finanziario e sull’economia è davvero in grado di recepire senza difficoltà un discorso ’anagogico’ che prevede il ricongiungimento della creatura col Creatore? Il viaggio di Dante non è un’escursione più o meno avventurosa nei regni dell’oltremondo, tra diavoli e gerarchie angeliche, in compagnia di personaggi alcuni dei quali indimenticabili protagonisti del suo universo. Affermare questo significa ignorare il realismo figurale, il significato delle scritture su cui Dante tanto insiste.
L’anagogia nel suo significato etimologico (dal greco anagoghè), ossia viaggio dal tempo all’eterno indica il fine ultimo dell’uomo che, in quanto creatura, tende a ricongiungersi con il Creatore. L’epoca attuale ricava da Dante quello che vuole e che più gli aggrada ( Quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur: Qualunque cosa venga ricevuta, viene ricevuta secondo le possibilità di chi la riceve), senza curarsi molto della verità sostanziale. Si vuol dire che i problemi che Dante pone sono molto più complessi di quello che sembra; sono molto più lontani dalle posizioni morali che convengono alla società evoluta dei tempi nostri. Il mondo dantesco, a livello politico, ideologico, culturale, è ben altro dal nostro e penetrarvi per conoscerlo richiede pazienza, attitudine all’ascolto e allo studio. Tutto si può fare e, volendo, anche senza essere degli specialisti, è possibile affrontare lo studio di Dante con cognizione di causa, rimuovendo però atteggiamenti frettolosi e superficiali. Magari un corso di lezioni tenute a un pubblico volenteroso (e davvero curioso) forse sortirebbe migliore effetto, qualora, al di là delle convenienze, si insistesse su un principio fondamentale: che la Commedia non è uno svago, ma è la coscienza e la consonanza della sorte umana, è il poema che ricorda agli uomini che la vita è assidua meditazione della morte e infinita malinconia di beni sperati e smarriti, prova incessante di passione e di pentimento, di violenze e rinunce, di verità e d’ignoranza.
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla
"#Visione di Dio" (1454),
si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia
(#Eschilo).
OLTRE LA #COSMOTEANDRIA DELLA #DOTTAIGNORANZA,
UNA #FENOMENOLOGIADELLOSPIRITO DI #DUESOLI:
UNA #COSMOLOGIA GALILEIANA (LEZIONE DI #KEPLERO!).
La #DivinaCommedia, un «Libro che sorvola i secoli»
#COSMOTEANDRIA E #ANTROPOLOGIA.
Paragonato con #Dante,
#NiccoloCusano
non trova la #dirittavia
sia filosofica (per il suo legame con #Socrate e #Platone)
sia religiosa (per aver scelto il primato dell’#uomosupremo, del #papa)
e... condivide
Nel nome di Dante. Germania e Italia: una speranza per l’Europa
Riflessione a quattro mani di due grandi intellettuali su come le affinità tra i due Paesi restino un punto di partenza per l’unità continentale
di Andreas Kablitz e Carlo Ossola (Avvenire, sabato 22 maggio 2021)
Questo 700° anniversario della morte di Dante Alighieri, nel 1321, è commemorato ovunque, e non solo nel suo Paese d’origine: l’Italia. Dante è diventato da tempo una delle figure di spicco di quella che è conosciuta come “letteratura universale”, con un termine - tanto citato - di Goethe, e in Germania ha titolo di “idolo letterario” dall’inizio del XIX secolo. In occasione della celebrazione del 600° anniversario della nascita di Dante, nel 1865, fu fondata la Società Dantesca tedesca, tuttora esistente, che si dedica alla continuità scientifica e alla divulgazione della sua opera. Per quanto sorprendente possa apparire, quando la Società Dantesca italiana venne costituita nel 1888 uno dei modelli per la sua fondazione fu la corrispondente Società Dantesca tedesca. La sorpresa ha tuttavia le sue ragioni, poiché il largo anticipo, in Germania, è spiegato da un’intensa accoglienza dell’opera e del mito di Dante e da un profondo entusiasmo dantesco, soprattutto tra i romantici. Per loro, egli era modello di una letteratura che si allontanava dal classicismo, essenzialmente francese, basato sulle regole.
Offriva un modello di libertà di immaginazione poetica; e sotto questo aspetto il suo ruolo era abbastanza paragonabile a quello che nello stesso momento iniziava a svolgere Shakespeare. Nel caso di Dante, però, la situazione è diversa: la sua autorità, come modello per la letteratura, non si limita infatti al punto di vista estetico. Con Dante emergono domande che hanno plasmato l’immaginario romantico anche sotto altri aspetti. In fondo, egli è visto come il rappresentante di una visione storica dell’Europa che, al di là dei nazionalismi che stanno anche ora riemergendo con le loro note e devastanti conseguenze, si presenta come l’utopia di una comunità pacifica dei popoli di questo continente. E tale visione ha cercato il suo modello nelle “origini”. In una sintesi in cui l’universalismo di ispirazione cristiana è combinato con l’istituzione storica dell’Impero romano per creare l’immagine di un futuro migliore. In un romanzo di Joseph von Eichendorff, scritto in Italia e ambientato nel 1818, intitolato Das Marmorbild, si sviluppa una storia romantica basata su un convergere di storia e psicologia, e si caratterizza così il Paese in cui è ambientata l’azione: «Impero sommerso ai tuoi piedi, / Dal cielo vicino e lontano / Saluti da un altro regno - / Questa è l’Italia!».
È l’immagine allora sentita dell’Italia che traspare in questi pochi versi: la Penisola incarna l’eredità storico-culturale dell’Occidente, che si estende tra il passato di un impero pagano e la cristianizzazione dell’Europa. Negli stessi anni Novalis celebrava in Cristianità ossia Europa [Die Christenheit oder Europa] questo mito universale di segno spirituale: «Erano tempi belli, splendidi, quando l’Europa era un paese cristiano, quando un’unica cristianità abitava questa parte del mondo plasmata in modo umano; un unico, grande interesse comune univa le più lontane province di questo ampio regno spirituale». In Italia, questa eredità di un passato in corso, in cui la Germania è ugualmente parte, è visibile fino ai giorni nostri. «La terra dove fioriscono i limoni», come viene chiamata nel Wilhelm Meister di Johann Wolfgang Goethe - anche lui appassionato viaggiatore in Italia - incarna per i contemporanei una sintesi tra un tipo ideale di natura e la “presenza” di una storia introvabile da qualsiasi altra parte. Si tratta di una storia comune, e in questa eredità storica nella quale i tedeschi hanno più di una semplice parte, perché essa collega Germania e Italia in uno speciale vincolo - ma questo significa anche: in un modo che è incline al conflitto.
Nella Divina Commedia, sesto canto del Purgatorio, il pellegrino Dante e la sua guida Virgilio - e questa coppia già ripropone un ibrido culturale tra un grandioso passato pagano e un (per ora meno radioso) presente cristiano - incontrano il trovatore italiano Sordello da Goito. Quando questi e Virgilio si accorgono di provenire dalla stessa zona, Mantova, i due poeti si salutano in un caldo abbraccio. Ma Dante coglie il loro affetto spontaneo come occasione per un’invettiva violenta e ampia contro lo stato attuale dell’Italia, che offre la contro-immagine di un profondo dissidio. Chiamata un tempo a governare i popoli, l’Italia si sta ora distruggendo in battaglie intestine incessanti. L’accusa di Dante è altresì diretta contro il re tedesco-romano Alberto I d’Asburgo, ch’egli accusa di negligenza nei confronti dell’Italia, il «giardino dell’impero» colpevolmente trascurato. Il suo rimprovero si inserisce ancora nella storia comune di Germania e Italia, il cui quadro istituzionale è fissato a partire dall’incoronazione imperiale di Carlo Magno nell’800.
Per secoli, questo tentativo di rinnovare l’Impero romano nell’Europa post-antica ha unito i due Paesi in una comunità di destino e ha condotto a quella alternanza continua di cooperazione e opposizione tra i due poteri che stanno all’origine della rinnovazione dell’Impero nel IX secolo: l’Imperatore e il Papa. L’idea di restaurare un’antica istituzione in un mondo completamente cambiato, questa miscela ibrida di presente e passato, dovrebbe - politicamente e culturalmente - avere conseguenze significative per l’Italia e per la Germania. L’aspirazione a un impero sovranazionale ha, tra le altre cose, contribuito in modo notevole al fatto che entrambi i Paesi hanno imboccato molto più tardi di altri un percorso orientato al futuro in tutta Europa: la formazione, cioè, di uno Stato nazionale. Questo ritardo ha portato alla percezione di uno “svantaggio” storico, che su entrambi i versanti delle Alpi nel XX secolo è sfociato in un nazionalismo eccessivo e violento, in cui Italia e Germania si sono di nuovo trovate riunite in una comunità politica e fatale di azione, le cui conseguenze catastrofiche si sono ripercosse non solo sul nostro continente.
È inevitabile che una storia comune così mutevole sia contrassegnata da uno ciclico scontento tra i due Paesi. Ma anch’esso è conseguenza della loro “unione”; è parte di una storia condivisa che, indipendentemente dall’entità del conflitto, ha consentito uno scambio singolarmente fruttuoso tra i due Paesi e ha prodotto una grande ricchezza culturale. Tutti gli sconvolgimenti temporanei - percepibili anche nel presente nei rapporti tra Italia e Germania - non possono intaccare questa eredità comune e duratura, e quindi non vanno dimenticati.
Non bisogna solo avere in mente la reciproca permeabilità di civiltà e i fecondi parallelismi che si illuminano a vicenda: Italia e Germania sono gli unici Paesi in Europa in cui le creazioni dello spirito, e specialmente la musica, là Wagner e qui Verdi, abbiano contribuito, nel XIX secolo, così vigorosamente alla coscienza nazionale. Ma si tratta anche di una collaborazione scientifica, industriale, filantropica, della quale i due esempi più illustri rimangono, a nord, Heinrich Mylius (Francoforte sul Meno, 1769 - Milano, 1854), imprenditore della seta, filantropo, fondatore della Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, la cui visione ed esemplarità industriale rimarrà per sempre legata al luminoso quadro di Giovanni Migliara, La filanda Mylius, 1828; e poi, a sud, Anton Dohrn (Stettino, Pomerania 1840 - Monaco di Baviera, 1909), promotore e fondatore della Stazione zoologica marina di Napoli, 1872, uno dei vanti scientifici dell’Ottocento europeo (con Ostenda e Concarneau). Non meno ricca e continua è la feconda presenza di italiani in Germania, a cominciare dal riformatore illuminista Carlo Denina (Revello 1731-Parigi 1813), alla corte di Federico di Prussia, autore non solo della Prusse littéraire sous Frédéric II (1790-1791), ma anche di un radicale trattato ergonomico Dell’impiego delle persone (1776-1777), nel quale immaginava una società nella quale tutti dovessero lavorare, nobili e clero compresi.
La storia comune è arricchita soprattutto da Clemens Brentano (della famiglia dei Brentano di Tremezzo), uno dei responsabili dell’«unità delle tradizioni popolari», delle leggende, fiabe, credenze europee, nutrita dalla conoscenza delle fiabe del Basile, e approfondita - nel solco di Novalis - dalla frequentazione e dalle visioni di Anna Katharina Emmerick. Il caso di Clemens Brentano mostra, ancora più in profondo, la vena che unisce Germania e Italia nel futuro dell’Europa comunitaria: una sapienza popolare di memorie e “storie di calendario” (come quelle di Johann Peter Hebel e in Italia di Carlo Collodi), unita a un anelito di universalità che non passa dalla formazione delle élite soltanto, ma soprattutto dalla “conservazione del patrimonio”, di tutto ciò che è comune nel popolo. In questo senso, anche le arti dello spettacolo sono una testimonianza attiva: basti pensare, per il XX secolo, all’attore italo-tedesco Bernhard Theodor Henry Minetti (Kiel 1905-Berlino 1998, nativo da una famiglia italiana immigrata in Germania da Crusinallo nel Verbano), del quale Thomas Bernhard ha voluto, nel suo Minetti, 1977, lasciare il più straordinario ritratto di purezza e follia, come le sue interpretazioni del Re Lear. Su altro piano, Hans Carossa (Bad Tölz, 1878-Rittsteig, 1956, di origini savoiarde), presidente - negli anni difficili della Seconda guerra mondiale - dell’«Unione europea degli scrittori», ci ha lasciato il primo ritratto dell’Italia del dopoguerra nel suo sensibile Aufzeichnungen aus Italien (Insel, 1947).
Ma se un emblema si deve scegliere di questa unità, e di questa missione congiunta della Germania e dell’Italia per l’Europa a venire, e per un’umanità raccolta nella dignità dello spirito, questo può essere riconosciuto, ci sembra - e lo suggerisce proprio questo anno dantesco -, in Romano Guardini (Verona 1885-Monaco di Baviera 1968), teologo, filosofo, interprete tra i più acuti della Divina Commedia. Il suo Landschaft der Ewigkeit (1950) e i suoi studi su Dante testimoniano dell’elemento essenziale che, ancora una volta, riunisce Germania e Italia, sotto il segno di una universalità dello spirito, «la vastità della speranza»: «Pende su ogni cosa il potere dell’astro d’amore, simbolo di quello spirito la cui mancanza ha fatto dell’Inferno appunto l’Inferno». È questa restituzione di vastità e di luce ai nostri destini umani, che ci attende come eredità e come compito.
DA VERSAILLES ALLA CIBERNETICA.
di Gregory Bateson
Devo parlare di storia recente, come appare a me nella mia generazione e a voi nella vostra, e mentre giungevo in aereo stamane, nella mia mente cominciarono a riecheggiare certe parole. Erano frasi più roboanti di quelle che io sarei mai capace di formulare. Una di queste frasi era: «I padri hanno mangiato il frutto amaro e i denti dei figli si sono allegati». Un’altra era l’asserzione di Joyce che « La storia è quell’incubo da cui non ci si sveglia». Un’altra era: «I peccati dei padri ricadranno sui figli anche fino alla terza o quarta generazione di quelli che mi odiano». E, infine, non così immediatamente pertinente, ma, penso, sempre pertinente al problema del meccanismo sociale: «Colui che vuol far del bene a un altro deve farlo nei Minuti Particolari. Il Bene Generale è la scusa del furfante, dell’ipocrita e dell’adulatore».
Stiamo parlando di cose gravi. Ho intitolato questa conferenza «Da Versailles alla cibernetica», menzionando i due eventi storici più importanti del XX secolo. La parola ’cibernetica’ è familiare, no? Ma quanti di voi sanno quello che accadde a Versailles nel 1919?
Il problema è: che cosa conterà della storia degli ultimi sessant’anni? Io ho sessantadue anni, e quando ho cominciato a pensare alla storia che ho visto nel corso della mia vita, mi è sembrato in realtà di aver visto solo due momenti che definirei veramente importanti dal punto di vista di un antropologo.
Uno concerne gli eventi che hanno condotto al Trattato di Versailles, e l’altro concerne la rivoluzione cibernetica. Forse sarete sorpresi o stupiti che io non abbia ricordato né la bomba atomica nè, addirittura, la seconda guerra mondiale. Non ho ricordato la diffusione dell’automobile o della radio e della televisione o molti altri fatti che sono accaduti negli ultimi sessant’anni.
Vi dirò il mio criterio per l’importanza storica.
I mammiferi in generale, e noi uomini in particolare, si curano moltissimo non degli episodi, ma delle strutture delle loro relazioni. Quando apro lo sportello del frigorifero e il gatto si avvicina emettendo certi suoni, esso non sta parlando del fegato o del latte, anche se so bene che è proprio quello ciò che il gatto vuole. Posso esser capace di indovinare e dargli ciò che desidera (se ce n’è nel frigorifero). Ciò che il gatto dice, in realtà, è qualcosa che riguarda la sua relazione con me. Se esprimessi con parole il suo messaggio, ne risulterebbe qualcosa del tipo: «dipendenza, dipendenza, dipendenza». In effetti il gatto sta parlando di una struttura piuttosto astratta nell’ambito di una relazione. Da quest’asserzione di una struttura, io dovrei passare dal generale al particolare: dedurre «latte» o «fegato».
Questo punto è fondamentale; questo è ciò che interessa i mammiferi. Essi si curano delle strutture di relazione, della posizione in cui si trovano rispetto agli altri in un rapporto di amore, odio, rispetto, dipendenza, fiducia, e astrazioni analoghe. Questo è il punto ove cadere in errore è doloroso. Se noi ci fidiamo di qualcuno e scopriamo che costui non meritava fiducia; o se diffidiamo di qualcuno e scopriamo che in realtà costui meritava fiducia, ci sentiamo male. Il dolore che può derivare agli uomini e a tutti gli altri mammiferi da questo tipo di errore è grandissimo. Se quindi vogliamo davvero sapere quali siano i punti significativi della storia, dobbiamo chiederci quali sono i momenti della storia in cui sono cambiati gli atteggiamenti. Sono questi i momenti in cui la gente soffre a causa dei ’valori’ precedenti.
Pensate al termostato di casa vostra. Il tempo fuori cambia, la temperatura della stanza scende, l’interruttore del termometro in soggiorno fa quello che deve fare e accende la caldaia, e quando la stanza è calda l’interruttore del termometro spegne di nuovo la caldaia. Il sistema è quello che si chiama un circuito omeostatico, o servomeccanismo. Ma c’è anche una scatoletta sulla parete del soggiorno con la quale si regola il termostato. Se nell’ultima settimana la casa è stata troppo fredda, dovete spostare in su il termostato dalla sua posizione attuale per far oscillare il sistema intorno a un altro livello. Il tempo esterno, in nessun modo, nè col freddo nè col caldo nè in altro modo, potrà cambiare questa posizione, che è detta ’polarizzazione’ del sistema. La temperatura della casa oscillerà, sarà più caldo o più freddo secondo varie circostanze, ma la posizione del meccanismo non sarà mutata da questi cambiamenti. Quando invece io vado a variare la polarizzazione, cambierò quello che si può chiamare l’ ’atteggiamento’ del sistema.
Analogamente, la domanda importante relativa alla storia è: la polarizzazione o l’atteggiamento sono stati cambiati? L’episodico accadere degli eventi sotto una polarizzazione stazionaria è cosa veramente trita. È questo che avevo in mente quando ho detto che i due eventi storici più importanti della mia vita sono stati il Trattato di Versailles e la scoperta della cibernetica.
I più, tra voi, probabilmente non sanno come si giunse a stipulare il Trattato di Versailles. La storia è molto semplice: la prima guerra mondiale continuava a trascinarsi; era abbastanza evidente che i tedeschi stavano perdendo. A questo punto George Creel, che si occupava di pubbliche relazioni (e vorrei che non dimenticaste che costui fu uno dei nonni delle moderne pubbliche relazioni) ebbe un’idea: l’idea era che forse i tedeschi si sarebbero arresi se avessimo offerto loro condizioni armistiziali leggere. Egli preparò allora un pacchetto di condizioni leggere, che non contemplavano provvedimenti punitivi. Queste condizioni erano articolate in quattordici punti; ed egli comunicò questi Quattordici Punti al Presidente Wilson. Se avete intenzione di ingannare qualcuno, come latore del messaggio dovete scegliere un uomo onesto; il Presidente Wilson era uomo di onestà quasi patologica e di sentimenti umanitari. Egli sviluppò i punti in un gran numero di discorsi: non dovevano esserci «né annessioni, nè riparazioni di guerra, nè distruzioni punitive...» e così via. E i tedeschi si arresero.
Noi, inglesi e americani (specialmente gli inglesi) continuammo ovviamente a tenere la Germania sotto embargo, perché non volevamo che i tedeschi si ringalluzzissero prima della firma del Trattato; e così, per un altro anno, essi continuarono a patir la fame.
La Conferenza di pace è stata vivacemente descritta da Maynard Keynes in The Economic Consequences of the Peace (1919).
Il Trattato fu finalmente redatto da quattro uomini, Clemenceau, «la Tigre», che voleva schiacciare la Germania, Lloyd George, che riteneva fosse politicamente vantaggioso ottenere dalla Germania molte riparazioni di guerra, e imporle qualche ritorsione; e Wilson, che doveva essere continuamente menato per il naso. Ogni volta che Wilson aveva dei ripensamenti su quei Quattordici Punti, essi lo portavano nei cimiteri di guerra e lo facevano vergognare di non sentirsi in collera coi tedeschi. Chi era l’altro? L’altro era Orlando, un italiano.
Si trattò di una delle più grandi svendite nella storia della nostra civiltà; un evento tra i più straordinari, che portò difilato e inevitabilmente alla seconda guerra mondiale. Portò anche (e questo è forse più interessante che non la prima conseguenza) a uno scadimento morale della politica tedesca. Se voi promettete qualcosa a vostro figlio, e poi vi rimangiate la promessa, inquadrando però tutta la faccenda su un piano etico elevato, la conseguenza sarà non solo che egli sarà in collera con voi, ma che i suoi atteggiamenti morali peggioreranno, in quanto egli sentirà l’ingiustizia della canagliata che gli fate. Non soltanto la seconda guerra mondiale è stata la risposta appropriata di una nazione che era stata trattata proprio in questa maniera; ciò che è più importante è che era lecito aspettarsi, da questo tipo di trattamento, uno scadimento morale di quella nazione. Lo scadimento morale della Germania ha causato anche il nostro scadimento morale. Ecco perché dico che il Trattato di Versailles è stato un giro di boa nell’ambito degli atteggiamenti morali.
Ritengo che sia necessario attendere ancora un paio di generazioni prima che i postumi di quella svendita esauriscano i loro effetti. Siamo, di fatto, come i membri della casa di Atreo nella tragedia greca. Prima ci fu l’adulterio di Tieste, poi Atreo ammazzò i tre figli di Tieste e glieli imbandì nel banchetto della riconciliazione; poi ci fu l’assassinio del figlio di Atreo, Agamennone, da parte di Egisto, figlio di Tieste; e infine Oreste uccise Egisto e Clitennestra.
La cosa continua ad andare avanti. È la tragedia della sfiducia, dell’odio e della distruzione, che vibrano e si propagano attraverso le generazioni.
Provate a immaginare di capitare nel bel mezzo di una tale sequela di tragedie. Come stanno le cose per la generazione intermedia degli Atridi? Essi vivono in un universo pazzesco. Dal punto di vista di quelli che hanno dato inizio al disastro, non è così pazzesco: essi sanno che cosa è accaduto e in che modo vi sono arrivati. Ma i successori, che all’inizio non erano presenti, si trovano a vivere in un universo pazzesco e si ritrovano pazzi proprio perché non sanno come ci sono capitati.
Prendere una dose di LSD va bene: si prova la sensazione di essere più o meno pazzi; ma ciò ha perfettamente senso, perché si sa che si è presa una dose di LSD. Se invece si prende I’LSD per accidente, e poi ci si sente impazzire senza sapere come e perché, questa è un’esperienza terribile e angosciosa; è un’esperienza assai più seria e spaventosa, molto diversa dal ’viaggio’, che potete anche godere se sapete di aver preso l’LSD.
Considerate ora la differenza tra la mia generazione e quelli di voi che hanno meno di venticinque anni. Tutti viviamo nello stesso pazzesco universo, in cui l’odio, la sfiducia e l’ipocrisia (specialmente a livello internazionale) risalgono ai Quattordici Punti e al Trattato di Versailles. Noi più anziani sappiamo come si è arrivati fino a questo punto. Ricordo che mio padre, leggendo a colazione i Quattordici Punti, disse: «Per Giove, vogliono conceder loro un armistizio decente, una pace onesta, o qualcosa del genere». E ricordo anche, ma non tento di ridirla, la cosa che disse quando il Trattato di Versailles fu reso noto: è una cosa che non si può stampare. Quindi io so più o meno come si è giunti a questo punto. Ma dal vostro punto di vista, noi siamo assolutamente pazzi, e voi non sapete quali eventi storici abbiano portato a questa pazzia. «I padri hanno mangiato il frutto amaro e i denti dei figli si sono allegati». Per i padri va bene: essi sanno che cosa hanno mangiato; ma i figli non sanno che cosa è stato mangiato.
DA VERSAILLES ALLA CIBERNETICA.
di Gregory Bateson
Vediamo che cosa è lecito aspettarsi da persone che abbiano appena subito un atroce inganno. Prima della prima guerra mondiale si pensava generalmente che il compromesso e un pizzico d’ipocrisia fossero ingredienti molto importanti per il raggiungimento di un certo comfort nella vita d’ogni giorno. Se leggete, per esempio, Erewhon Revisited, di Samuel Butler, capirete che cosa intendo dire. Tutti i personaggi principali del romanzo si sono cacciati in guai terribili: alcuni debbono essere giustiziati, altri debbono divenire oggetto di pubblica esecrazione; e il sistema religioso della nazione minaccia di crollare. Queste difficoltà e complicazioni sono appianate da Mrs. Ydgrun (o, come diremmo noi, «Mrs. Grundy») custode dei costumi di Erewhon. Ella ricostruisce con cura la storia, come un rompicapo a intarsio, in modo che nessuno stia realmente male e a nessuno capitino disavventure (e specialmente che nessuno sia giustiziato). Questa filosofia era assai comoda. Un po’ d’ipocrisia e un po’ di compromesso lubrificano gl’ingranaggi della vita sociale.
Ma dopo il grande inganno questa filosofia non può reggere. Avete perfettamente ragione, c’è qualcosa di sbagliato, e questo qualcosa ha la natura dell’inganno e dell’ipocrisia. Voi vivete in mezzo alla corruzione.
Ovviamente le vostre reazioni spontanee sono puritane. Non è un puritanesimo sessuale, poiché sullo sfondo non c’è inganno sessuale. Ma un rigoroso puritanesimo contro il compromesso, un puritanesimo contro l’ipocrisia che finisce col ridurre la vita in piccoli pezzi. Sono le grandi strutture integrate della vita che sembrano aver portato alla follia, e così voi cercate di concentrarvi sulle cose più minute. «Colui che vuol far del bene a un altro deve farlo nei Minuti Particolari. Il Bene Generale è la scusa del furfante, dell’ipocrita e dell’adulatore». Il bene generale puzza d’ipocrisia per la nuova generazione.
Non ho dubbi che se voi chiedeste a George Creel di giustificare i Quattordici Punti, egli invocherebbe il bene generale. È possibile che la sua operazioncella abbia salvato la vita di qualche migliaio di americani nel 1918. Non so però quante vite essa sia costata nella seconda guerra mondiale, e, dopo, in Corea e nel Vietnam. Ricordo che Hiroshima e Nagasaki furono giustificate col bene generale e col risparmio di vite americane. Ci fu un gran parlare di ’resa incondizionata’, forse perché non avevamo fiducia nella nostra capacità di osservare un armistizio condizionato. Il destino di Hiroshima fu decretato a Versailles?
Voglio parlare adesso dell’altro evento storico importante accaduto durante la mia vita, nel 1946-47 circa. Si trattò del coagularsi di numerose idee che erano sorte in luoghi diversi durante la seconda guerra mondiale. Possiamo chiamare l’aggregato di queste idee cibernetica, o teoria delle comunicazioni, o teoria dell’informazione, o teoria dei sistemi. Queste idee nacquero in molti luoghi: a Vienna con Bertalanffy, a Harvard con Wiener, a Princeton con von Neumann, nei Laboratori della Bell Telephone con Shannon, a Cambridge con Craik, e così via. Tutti questi sviluppi separati in diversi centri intellettuali avevano a che fare con problemi di comunicazione e specialmente col problema di quale fosse la natura di un sistema organizzato.
Noterete che tutto ciò che ho detto sulla storia e su Versailles è una discussione sui sistemi organizzati e le loro proprietà. Ora voglio dire che stiamo cominciando in una certa misura a comprendere in modo rigorosamente scientifico questi misteriosi sistemi organizzati. Quello che sappiamo oggi è assai più di quanto avrebbe mai potuto dire George Creel. Egli fu scienziato applicato prima che la scienza fosse matura per essere applicata.
Una delle radici della cibernetica risale a Whitehead e Russell e a ciò che si chiama la Teoria dei Tipi logici. In linea di principio, il nome non è la cosa cui il nome si riferisce, e il nome del nome non è il nome, e così via. In termini di questa potente teoria, un messaggio sulla guerra non è parte della guerra.
Diciamo così: il messaggio ’Giochiamo a scacchi’ non è una mossa del gioco degli scacchi; è un messaggio in un linguaggio più astratto di quello del gioco che si svolge sulla scacchiera. Il messaggio ’Facciamo la pace in questi e questi termini’ non è nello stesso sistema etico al quale appartengono gl’inganni e gli stratagemmi della battaglia. Dicono che tutto è lecito in amore e in guerra, e questo può essere vero all’interno dell’amore e della guerra, ma all’esterno e riguardo all’amore e alla guerra, l’etica è un po’ diversa. Per secoli gli uomini hanno giudicato il tradimento durante la tregua o le trattative per la pace peggiore dell’inganno in battaglia. Oggi questo principio etico trova un rigoroso fondamento teorico e scientifico. Ora l’etica può essere esaminata in modo formale, rigoroso, logico, matematico, e così via; e poggia su basi assai diverse dalle prediche e dalle invocazioni. Non è più inevitabile che ciascuno la pensi a suo modo; a volte possiamo distinguere ciò che è giusto da ciò che è errato.
Ho preso la cibernetica come il secondo evento d’importanza storica nella mia vita perché ho almeno una tenue speranza che possiamo indurci a usare queste nuove conoscenze con un po’ di onestà: se comprendiamo un pochino quello che stiamo facendo, forse ciò potrà aiutarci a uscire dal labirinto di allucinazioni che ci siamo orditi intorno.
La cibernetica, a ogni modo, è un contributo al cambiamento: non solo un cambiamento dell’atteggiamento, ma addirittura un cambiamento nella comprensione di ciò che è un atteggiamento.
La posizione che ho assunto nello scegliere ciò che è importante nella storia (quando ho detto che le cose importanti sono gli istanti in cui viene determinato l’atteggiamento, gli istanti in cui viene cambiata la polarizzazione del termostato), questa posizione deriva direttamente dalla cibernetica. Sono pensieri plasmati dagli eventi accaduti dal 1946 in poi.
Non dobbiamo illuderci di aver trovata la soluzione bell’e pronta. Abbiamo ora a nostra disposizione molta cibernetica, molta teoria dei giochi, e cominciamo a conoscere e comprendere i sistemi complessi. Ma ogni conoscenza può essere usata a scopi distruttivi.
Ritengo che la cibernetica rappresenti il boccone più grosso che l’uomo abbia strappato dal frutto dell’Albero della Conoscenza negli ultimi duemila anni. Ma la maggior parte dei bocconi di questa mela si sono dimostrati piuttosto indigesti (di solito per motivi cibernetici).
In se stessa, la cibernetica è integra, e questo può aiutarci a non essere indotti a più grande follia, ma non possiamo confidare che essa ci preservi dal peccato.
Ad esempio i ministeri degli Esteri di parecchie nazioni utilizzano oggi la Teoria dei Giochi, con l’ausilio del calcolatore, come un mezzo per decidere la politica internazionale. Dapprima, identificano quelle che sembrano essere le regole di gioco dell’interazione internazionale; poi considerano la distribuzione geografica di forze, armi, punti strategici, controversie, eccetera, nelle nazioni identificate. Essi poi chiedono al calcolatore di computare quale dovrebbe essere la mossa successiva per minimizzare le possibilità di perdere la partita; il calcolatore ronza e cigola e dà una risposta: e quasi quasi si è tentati di obbedirgli. Dopo tutto, se si dà retta al calcolatore si è un po’ meno responsabili che se si fosse presa una decisione autonoma.
Ma se si fa ciò che il calcolatore consiglia, con quella mossa si dà il proprio appoggio alle regole del gioco che si erano fornite al calcolatore: si confermano le regole del gioco.
Anche le nazioni rivali hanno certamente i calcolatori e fanno giochi simili e confermano le regole del gioco che essere forniscono ai loro calcolatori. Il risultato è un sistema in cui le regole dell’interazione internazionale divengono sempre più rigide.
È mia opinione che il vero problema in campo internazionale è che le regole debbono cambiare. Non è questione di che cosa sia meglio fare con le regole così come esse sono oggi; ma piuttosto di come ci si possa svincolare dalle regole secondo le quali abbiamo agito negli ultimi dieci o venti anni, o fin dal Trattato di Versailles. Il problema è di cambiare le regole, e nella misura in cui permetteremo alle nostre invenzioni cibernetiche (i calcolatori) di trascinarci in situazioni sempre più rigide, non faremo altro che calpestare e offendere la prima promettente scoperta fatta dal 1918.
Naturalmente vi sono altri pericoli latenti nella cibernetica, e molti non sono stati neppure individuati. Non si sa, ad esempio, quali possano essere le conseguenze dell’impiego del calcolatore per la gestione di tutti gli schedari della pubblica amministrazione. Almeno questo tuttavia è certo: che nella cibernetica è anche latente il mezzo per conseguire una nuova e forse più umana filosofia, un mezzo per cambiare la nostra strategia del controllo e un mezzo per vedere le nostre follie in una prospettiva più vasta.
* Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente [tit. orig.: Steps to an Ecology of Mind, 1972], Milano, Adelphi, 1977, pp. 487-496.
Un poeta “eracliteo”: Mandel’štam legge Dante
di Gianluca Venturini (La Chiave di Sofia, 07.08.2017)
Quando si affrontano i grandi autori della letteratura italiana, gettare nel contempo uno sguardo, anche fugace, ai commenti che essi hanno ispirato al di là dei nostri confini nazionali costituisce un’esperienza utile e sempre interessante, perché permette di capire come i nostri “giganti” sono recepiti e interpretati altrove. Vedere cose a noi note attraverso gli occhi altrui ci consente di apprezzarle da prospettive nuove e inaspettate; anche ciò con cui abbiamo molta familiarità può in tal modo svelare tratti inusuali o dettagli che avevamo tralasciato e colpirci come se fosse la prima volta. A chi stesse studiando Dante, per esempio, potrebbe tornare utile la lettura delle Conversazioni su Dante di Osip Mandel’štam, che rappresentano un vero e proprio «classico della critica letteraria del Novecento» e che sono state riedite di recente.
Molti si staranno chiedendo chi sia Osip Mandel’štam. In breve, possiamo dire che Mandel’štam (1891-1938) fu un poeta russo, fiero della propria ebraicità, che appartenne al movimento letterario postsimbolista noto come acmeismo, di cui fu in qualche modo il «primo violino». La sua fu una vita raminga, itinerante, randagia, fatta di traversie, ristrettezze e vagabondaggi (Remo Faccani lo definisce «un emigrato interno, un esule in patria»). A causa di alcuni suoi componimenti sferzanti e quindi “scomodi” per il regime staliniano, venne arrestato due volte e infine deportato con l’accusa di “attività controrivoluzionaria”. Morirà a Vladivostok, in un campo di concentramento di transito, prima di giungere al lager della Kolimà a cui era destinato.
L’amore di Mandel’štam per Dante era, senza mezzi termini, “viscerale”. Chi ebbe modo di conoscere Osip finiva inevitabilmente col notare che egli «ardeva tutto per Dante». La poetessa Anna Achmatova ricorda ad esempio che Mandel’štam «recitava la Divina Commedia giorno e notte» (una passione, quella per Dante, che la Achmatova condivideva, se è vero che, quando le chiesero se avesse mai letto Dante, ella rispose: «Non faccio altro che leggere Dante!»). Da parte sua, il giovane poeta Sergej Rudakov, mentre scambiava due chiacchiere con Mandel’štam, gli disse: «tutto ciò che attiene alla [tua] poesia ha girato intorno alla Conversazione su Dante, [...] tutto ha guardato ad essa». Tutto ciò che Mandel’štam aveva prodotto, secondo Rudakov, rinviava quindi, da ultimo, alla Divina Commedia. A quest’osservazione, Mandel’štam replicò scherzosamente: «Sì, me lo dicono tutti: mi dicono che se ne rende conto pure chi non conosce Dante!».
Il Dante venerato da Mandel’štam è tuttavia molto diverso da quello a cui siamo abituati. Mandel’štam stesso tiene a distinguere il “suo” Dante da quello di «generazioni e generazioni di scolastici, di striscianti filologi e di pseudobiografi». «Sottrarre Dante alla retorica scolastica» scrive Mandel’štam «equivale a rendere un servizio non da poco a tutta la cultura europea». Egli dichiara anche: «è indispensabile dar vita a un nuovo commento dantesco, che rivolga la faccia al futuro e metta in luce il legame dell’autore della Commedia con la nuova poesia europea».
Secondo Mandel’štam, quindi, Dante non è stato ancora veramente compreso, e questo nonostante tutti gli studi che sono stati scritti sul sommo poeta: «presi dalla terminologia teologica, dalla grammatica scolastica e dall’ignoranza allegorica, abbiamo perso di vista le danze sperimentali della Commedia dantesca, e abbiamo conferito a Dante una dignità conforme al modello di una scienza defunta, mentre la sua teologia era un vaso di dinamica». Per Mandel’štam, Dante guarda sì alla cultura del passato, ma non certo per riproporla pedissequamente e quindi in modo sterile; piuttosto, egli se ne appropria per poi rielaborarla, reinterpretarla, rinnovarla. Mandel’štam è infatti dell’opinione che Dante veda «nella tradizione [...] non tanto il suo lato sacro, accecante, quanto un oggetto da valorizzare per mezzo di un ardente reportage e di una sperimentazione appassionata».
Certo, Mandel’štam riconosce che la Divina Commedia è «un’orgia di citazioni» classiche, e che leggere il poema dantesco è come fare «una passeggiata [...] lungo tutto l’orizzonte dell’antichità». Ma il poeta russo tiene comunque a sottolineare che «Dante è stato scelto come tema di questa conversazione non perché io volessi concentrare l’attenzione su di lui con il sottinteso invito ad apprendere dai classici».
L’impressione che si ricava dalla lettura delle Conversazioni è che Mandel’štam voglia fare di Dante non tanto (o non più) un rappresentante della tradizione filosofico-teologica occidentale, ma un anticipatore della temperie culturale contemporanea.
Il Dante descritto da Mandel’štam, più che essere vicino a Platone e ad Aristotele (o a Tommaso d’Aquino e ai filosofi arabi), sembra infatti prendere posto tra Eraclito e Nietzsche.
Per capire perché Mandel’štam faccia di Dante un poeta “contemporaneo” ed “eracliteo”, bisogna comprendere che cosa significhi per lui “poesia”. Per Mandel’štam, la poesia è soprattutto creazione, «cambiamento», «gioia del divenire» (non dimentichiamoci che “poesia” in greco antico si dice poiesis, termine che significa anche “creazione”, “produzione”). Mandel’štam scrive che la poesia è un «flusso d’energia», un «campo d’azione» composto di «onde semantiche», «onde-segnali», che «svaniscono, una volta eseguita la loro funzione: quanto più sono intense, tanto più sono arrendevoli e tanto meno sono inclini a trattenersi».
Ebbene, Mandel’štam ritrova in Dante tutti i caratteri tipici della propria concezione della poesia: secondo il poeta russo, Dante è infatti «il più grande e indiscusso signore della materia poetica convertibile e in via di conversione, il più antico e al tempo stesso il più vigoroso direttore d’orchestra [...] d’una composizione poetica che esiste unicamente sotto forma di flussi di onde, sotto forma di impennate e bordeggi».
Mandel’štam ritiene che una delle “specialità” di Dante sia proprio la «metafora eraclitea», ovverosia una figura retorica «impegnata a sottolineare con tale forza la transitorietà di un fenomeno e a cancellarlo con tali svolazzi, che alla pura contemplazione, dopo che la metafora ha fatto la sua parte, non resta in sostanza di che alimentarsi». È proprio questa capacità di ritrarre ed esaltare ciò che è caduco, effimero e transeunte che fa sì, per Mandel’štam, che la «contemporaneità» di Dante sia «inesauribile, incalcolabile e inestinguibile».
Il mito di Roma antica dall’Africa del Petrarca al fascismo
di Sara Benaglia *
Pensando all’arte in Italia, alla sua distinzione tra antica e contemporanea e al ruolo patrimoniale oltre che culturale che essa ha in questo specifico territorio, non possono non essere notate contraddizioni in cui è chiaro che per garantire valore economico ad alcune opere si stia chiudendo un occhio sulla loro implicazione politica nel certificare il subumano.
Per quanto riguarda l’umanesimo, queste incongruenze emergono con chiarezza nell’opera forse maggiore di Francesco Petrarca (1304-1374). E l’interesse, e i dubbi verso l’umanesimo sono qui proposti alla luce di un limite del Post-human di Rosi Braidotti. Come evidenziato da David Lloyd in Under Representation: the Racial Regime of Aesthetics (2018), i termini che si riuniscono intorno al concetto di umano - libertà, autodeterminazione, diritti, proprietà - costituiscono le stesse linee di demarcazione che separano i soggetti umani dagli umani sottomessi. Nel Rinascimento - che potremmo dire iniziato proprio col Petrarca - l’essere universale è l’uomo bianco europeo. Il post-umano con le sue implicazioni scientifiche e tecnologiche è uscito da un desiderio di universalità? Come rispondere a questo quesito rispetto all’identità nera o sinti, per esempio? A chi appartiene l’universale (post-umano)?
Che cosa sono l’umano e il subumano nell’umanesimo petrarchesco? Questa domanda è posta rispetto all’opera che diede a Petrarca la gloria, quella per cui i suoi contemporanei lo premiarono con la corona di lauro in Campidoglio [1] sulle rovine della Roma classica: quest’opera è L’Africa.
La cultura Rinascimentale è strettamente legata alle espansioni geografiche, ma la relazione tra Rinascimento e “scoperte” ( vd. conquiste) ha per “tradizione” connotazioni positive. Nel XIV secolo viene riscoperta la letteratura greca, diffuso il superiore sapere dell’antichità, e avanzano i confini geografici - si pensi alla colonizzazione delle Canarie nel 1312 da parte di Lancelotto Malocello - il che non necessariamente implica una tolleranza di culture altre, anzi, può avere spinto l’italiano[2] rinascimentale a recuperare vecchi miti. È questo il caso de L’Africa, composta da Petrarca tra il 1339 e il 1343 e dedicata al re di Napoli Roberto d’Angiò[3]. Boccaccio (che negli stessi anni componeva De Canaria et insulis reliquis ultra hispaniam noviter repertis), e i circoli del primo umanesimo hanno in grande considerazione quest’opera, composta in lingua latina e appartenente al genere letterario dell’epopea. L’eroe protagonista dell’opera è Publio Cornelio Scipione l’Africano (Roma, 236 a.C. - Liternum, 183 a.C.), il vir vere Romanus che, dopo aver invaso l’Africa in risposta all’invasione dell’“Italia” da parte di Annibale, sconfigge quest’ultimo a Zame (202 a.C.). L’opera è un poema epico ispirato al Somnium Scipionis (54 a.C.) di Cicerone, il brano del De re publica in cui la seconda guerra punica viene narrata tramite l’espediente del sogno. A Scipione Emiliano compare in sogno Scipione l’Africano preannunciandogli glorie future e una morte prematura.
Il Petrarca decide di narrare la gloria di Scipione l’Africano dopo aver visitato Roma nel 1337, sospinto da uno spirito volto al ritorno delle grandiosità romane antiche. Per molti anni il poeta intrattiene uno scambio epistolare con l’imperatore Carlo IV, per il quale desidera che dia “inizio al rinnovamento del dominio romano sul mondo, cominciando con la liberazione della Terra Santa”[4]. Petrarca è il più celebre continuatore del sistema letterario classico, ed è fiero di questa posizione che egli vede in stretta connessione con un tipo concreto di civiltà. Egli desidera che l’imperatore risieda a Roma e che da lì, da questa componente “naturale” del mondo classico, governi il mondo. Per il poeta l’impero romano è un’idea eterna, la riappropriazione dell’antichità, dei suoi eroi mitici.
Petrarca sognava che L’Africa sarebbe stata riscoperta in futuro [5] e che, riemersa dalle tenebre, avrebbe dato origine a un nuovo rinascimento. Ebbene, il mito di Roma antica riemerge proprio nella propaganda fascista, che si propone come una riedizione delle vecchie glorie romane. E ancora prima di lui è l’inno risorgimentale di Mameli ad aprirsi proprio con l’elmo di Scipio, di cui l’Italia si sarebbe cinta la testa prima della guerra di indipendenza dall’Austria. Il cesarismo petrarchesco di Scipione l’Africano non lascia affatto indifferente né il risorgimento imperialista né il duce Benito Mussolini, che imita l’Imperatore Ottaviano.
Le campagne coloniali sono strumentali per la creazione dell’unità nazionale italiana, e il loro precedente storico è proprio l’Impero Romano. Il recupero di una romanità fittizia è evidente anche nel film di propaganda fascista[6] Scipione l’Africano (1937). Questo colossal di Carmine Gallone rientra tra i tentativi di legittimare una continuità storica tra Roma antica e l’impero fascista, con lo scopo di portare Mussolini sul piano del condottiero latino Scipione. Per fare questo il regime non bada a spese, producendo uno dei fiaschi più clamorosi della storia del cinema[7].
L’impero romano è stato un “arsenale di miti” tanto per la nascita del Rinascimento quanto per la scrittura di miti fascisti. È molto poco spesso evidenziata la responsabilità del Rinascimento nel veicolare fantasie virili, mentre dà lustro alla sua committenza, qualificando l’immagine pubblica di uomini (mercanti banchieri, papi e capitani di sventura) che spesso hanno una reputazione improbabile[8]. Il machismo fascista è invece condensato in una retorica dietro a cui è celata la violenza di Stato.
L’Africa del Petrarca nei secoli è stata dimenticata, e dell’autore sono state tramandate soprattutto le poesie in volgare. Ma è proprio questo prolungato silenzio accompagnato dalla “copertura” delle cattiverie rinascimentali con l’ideale di Bellezza, ad aver stimolato in me l’idea che in qualche modo una radice del fascismo italiano possa risiedere proprio nell’intoccabile Rinascimento italiano. Non è forse questa tradizione classica una forma di giustificazione di un confine geografico e umanistico che segna una sorta di primato italico pre-moderno?
Un fattore caratteristico del fascismo eterno è proprio il culto della tradizione - quella, però, che Walter Mignolo (1995) definisce come il processo di ricordare e dimenticare -, poiché la sua cultura sincretistica tollera contraddizioni in nome di una verità primitiva [9], e tale verità potrebbe essere proprio il tentativo secolare di scrivere, di decretare l’esistenza, di un’italianità priva di origine.
E se la storia dell’arte ha condannato artisti come Mario Sironi per la loro relazione con il fascismo, perché i futuristi sono entrati in collezioni museali senza che la collusione politica alterasse valutazioni del loro operato se non marginalmente? Che ruolo ha la bellezza nelle rimozioni di certe parti della Storia? Come ha attecchito la retorica del classicismo nell’arte contemporanea?
[1] La corona d’allora fu offerta a Petrarca sia dalla città di Roma sia dall’Università di Parigi. Petrarca rifiutò il rito medievale offerto dalla seconda e optò per una incoronazione da parte del Senato di Roma e del suo popolo per patriottismo.
[2] Ovviamente si tratta di una generalizzazione geografica, perché non c’è stata nessuna Italia prima del 1861.
[3] Bodo Guthmüller, Il volgarizzamento dell’«Africa» di Fabio Marretti: contributo alla fortuna del Petrarca nel Cinquecento, Lettere Italiane, Vol. 32, No. 1 (GENNAIO-MARZO 1980), pp.43-53. Pubblicato dalla Casa Editrice Leo S. Olschki.
[4] Jiří Špička, Petrarca e l’impero romano, Lettere Italiane, Vol. 62, No. 4 (2010), p. 529. Pubblicato dalla Casa Editrice Leo S. Olschki.
[5] Nel Quattrocento i valori estetico-culturali dati alle opere di Petrarca mutano: il fatto che gli autori antichi fossero considerati irraggiungibili e idealizzati porta a una tendenza verso il purismo linguistico (con Virgilio e Cicerone come modelli esclusivi) e quindi a un allontanamento dall’ammirazione incondizionata delle opere del Petrarca in lingua latina. Per questa ragione opere volgari che il Petrarca stesso considerava di poco valore furono le più apprezzate di questo autore.
[6] Il cinema è “l’arma più efficace” secondo il regime fascista e la creazione della mostra internazionale di Venezia (1932) e la Fondazione di Cinecittà (1937) sono due esempi del rilancio fascista dell’industria filmica italiana
[7] Il film è riportato da The Hollywood Hall of Shame (1984) tra le follie fasciste a fianco del tedesco Kolberg (1945), nonostante gli enormi sforzi promozionali anche del Ministero della Cultura Popolare. Come evidenziato da Giuman e Parodo, fu Luigi Freddi - alla Direzione Generale per la cinematografia - a scegliere di evitare una propaganda troppo diretta del regime, favorendo la produzione di “filmi” quali Squadrone bianco (1936), Luciano Serra Pilota (1938) o L’assedio di Alcazar (1940). In Garrone è chiara l’equivalenza tra Roma dei Cesari e Roma fascista, e a noi la sua insensatezza.
[8] Alexander Lee, Il Rinascimento cattivo. Sesso, avidità, violenza e depravazione nell’età della bellezza, Bompiani, Milano 2013, p. 24.
[9] Umberto Eco, Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano 2017, pp. 34-35.
* Fonte: Antinomie, 05/05/2021 (ripresa parziale, senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
FLS
Napoleone. Resta un mistero la conversione del nemico (e carceriere) dei Papi
Luca Crippa raccoglie gli indizi della controversa religiosità dell’imperatore e nel quadro delle tensioni dell’epoca, culminate con l’aperta ostilità contro Pio VI e il suo successore Pio VII
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, mercoledì 5 maggio 2021)
Con i poeti va sempre così: non hanno le prove, però sanno com’è andata. Sulla conversione di Napoleone, per esempio, Manzoni non pare avere dubbi. Il cinque maggio si chiude con l’immagine del «Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola », in una celebrazione della «bella immortal, benefica / fede» che, al momento si poteva solo intuire. Che Napoleone sia morto dopo aver ricevuto i sacramenti, invece, è un elemento storico niente affatto improbabile. Ad attestare il viatico sono alcune delle testimonianze provenienti da Sant’Elena, per quanto non manchino voci discordanti, sulle quali pesa tuttavia il sospetto di una riserva ideologica.
Da parte dei suoi collaboratori più stretti, insomma si voleva evitare di dare l’impressione che l’imperatore fosse spirato «come un cappuccino». Quale ne sia stato l’esito, quello di Napoleone con il cristianesimo fu un rapporto complesso e non di rado contraddittorio, ora ripercorso in tutte le sue implicazioni da Luca Crippa in Napoleone e i suoi due Papi (San Paolo, pagine 240, euro 22,00).
Seguendo le tappe di una biografia mai abbastanza conosciuta, l’autore si sofferma con intelligenza su una moltitudine di indizi che vanno dall’istante stesso della nascita (la madre, Maria Letizia, fu colta dalle doglie mentre tornava dalla chiesa) fino all’attestazione dell’abate Angelo Vignali, il sacerdote corso presente alla morte. Fra questi estremi si svolge l’avventura del giovane ufficiale che, pur avendo studiato in una école militaire gestita da religiosi, si era formato su Plutarco più che sui Vangeli.
Mai particolarmente devoto, ma coerente al punto di rifiutare di prendere la Comunione durante la cerimonia dell’incoronazione imperiale a Notre-Dame nel 1804, Napoleone sviluppò molto presto l’idea della religione come strumento di governo. Fu per considerazioni di convenienza, tra l’altro, che volle che la Francia rimanesse cattolica anziché aderire al protestantesimo, come pure gli veniva suggerito.
Crippa - che ha al suo attivo molte efficaci biografie storiche - insiste giustamente sulla frattura che la Rivoluzione aveva prodotto all’interno della Chiesa mediante la distinzione tra clero “costituzionale” e clero “refrattario”, ovvero tra quanti accettavano o respingevano le norme che subordinavano l’apparato ecclesiastico a quello dello Stato.
Si inserisce in questo quadro anche il braccio di ferro che Napoleone impegnò prima con Pio VI, al secolo Giovanni Antonio Braschi, il Papa travolto dai successi della Campagna d’Italia e destinato a morire prigioniero dei francesi nel 1799, sia con il suo successore Pio VII, al cospetto del quale si impose la corona imperiale.
Nonostante la ratifica del Concordato tra Francia e Stato della Chiesa nel 1801, neppure papa Chiaromonti sfuggì all’inimicizia di Napoleone, che nel 1809 non si oppose all’arresto del Pontefice. Da qui, come sottolinea a più riprese Crippa, la fama di “Anticristo” toccata al condottiero che pure era propenso a considerare la natura divina di Cristo.
Sempre tentato dall’idolatria di sé stesso, l’imperatore potrebbe essersi ben convertito in punto di morte. Ma quello che accade in quegli istanti è un mistero per tutti, ancor più misterioso nel caso degli uomini che si credono grandi.
Bicentenario. Napoleone Bonaparte e la fede, vinto anche da Dio
Il rapporto con Cristo e la Chiesa cattolica dell’imperatore morto due secoli fa secondo il cardinale Giacomo Biffi
di Giacomo Biffi *
Materialista e saccheggiatore di chiese e di conventi, miscredente e fedifrago, anticlericale e sequestratore del papa: questa è l’opinione che molti hanno di Napoleone Bonaparte, opinione tanto diffusa quanto acriticamente accolta.
Se andiamo alle fonti, e in particolare a queste conversazioni, scopriamo qualcosa di strabiliante. Napoleone grida con fierezza: «Sono cattolico romano, e credo ciò che crede la Chiesa».
Durante gli anni di isolamento a Sant’Elena Napoleone si intratteneva spesso con alcuni generali, suoi compagni di esilio, a conversare sulla fede. Si tratta di discorsi improvvisati che - come rivela uno dei suoi più fidati generali, il conte de Montholon - furono trascritti fedelmente e poi dati alle stampe da Antoine de Beauterne nel 1840. Dell’autenticità e della fedeltà della trascrizione possiamo essere certi, visto che, quando de Beauterne pubblica per la prima volta le conversazioni, sono ancora in vita molti testimoni e protagonisti di quegli anni di esilio.
Napoleone ammette con candida onestà che quando era al trono ha avuto troppo rispetto umano e un’eccessiva prudenza per cui «non urlava la propria fede». Ma dice anche che «allora se qualcuno me lo avesse chiesto esplicitamente, gli avrei risposto: "Sì, sono cristiano"; e se avessi dovuto testimoniare la mia fede al prezzo della vita, avrei trovato il coraggio di farlo».
Soprattutto attraverso queste conversazioni impariamo che per Napoleone la fede e la religione erano l’adesione convinta, non a una teoria o a un’ideologia, ma a una persona viva, Gesù Cristo, che ha affidato l’efficacia perenne della sua missione di salvezza a «un segno strano», alla sua morte sulla croce.
Perciò non ci stupiamo se Alessandro Manzoni nell’ode Cinque Maggio dà prova di conoscere la sua fisionomia spirituale quando scrive: «Bella Immortal! Benefica/ Fede ai trïonfi avvezza!/ Scrivi ancor questo, allegrati;/ che più superba altezza/ al disonor del Golgota/ giammai non si chinò».
L’imperatore si sofferma a lungo con il generale Bertrand, dichiaratamente ateo e ostile alle manifestazioni di fede del suo superiore, regalandoci un’inaudita prova dell’esistenza di Dio, fondata sulla nozione di genio, una lunga conversazione sulla divinità di Gesù Cristo.
Degni della nostra ammirazione sono anche le considerazioni sull’ultima Cena di Gesù e i confronti tra la dottrina cattolica e le dottrine protestanti. Alcune affermazioni di Napoleone mi trovano singolarmente consonante. Ad esempio, quando dice: «Tra il cristianesimo e qualsivoglia altra religione c’è la distanza dell’infinito», cogliendo così la sostanziale alterità tra l’evento cristiano e le dottrine religiose.
Oppure la convinzione che l’essenza del cristianesimo è l’amore mistico che Cristo ci comunica continuamente: «Il più grande miracolo di Cristo è stato fondare il regno della carità: solo lui si è spinto ad elevare il cuore umano fino alle vette dell’inimmaginabile, all’annullamento del tempo; lui solo creando questa immolazione, ha stabilito un legame tra il cielo e la terra. Tutti coloro che credono in lui, avvertono questo amore straordinario, superiore, soprannaturale; fenomeno inspiegabile e impossibile alla ragione».
Alla luce di queste pagine non possiamo non ammettere che Napoleone non solo è credente, ma ha meditato sul contenuto della sua fede maturandone una profonda e sapienziale intelligenza.
Questa a sua volta si è tradotta in fatti molto concreti: ha domandato con insistenza al governo inglese di ottenere la celebrazione della Messa domenicale a Sant’Elena; ha espresso gratitudine verso sua madre e de Voisins, vescovo di Nantes, perché da loro è stato «aiutato a raggiungere la piena adesione al cattolicesimo»; ha concesso il suo perdono a tutte le persone che lo hanno tradito.
Infine, le conversazioni riferiscono le convinzioni di Napoleone sul sacramento della confessione e i suoi rapporti con il papa Pio VII, rivelando che «quando il papa era in Francia (...) era esausto per le calunnie in base alle quali si pretendeva che io lo avessi maltrattato, calunnie che smentì pubblicamente».
Queste conversazioni non solo hanno lasciato un segno indelebile nella memoria dei generali compagni di esilio, ma hanno anche concorso alla loro conversione.
* Avvenire, mercoledì 5 maggio 2021 (ripresa parziale).
Storia.
Quando la mongolfiera di Napoleone Bonaparte ammarò nel lago di Bracciano
Il 2 dicembre 1804 a Parigi, in occasione dell’incoronazione di Bonaparte, il colonnello Garnerin innalzò un pallone aerostatico davanti a Notre Dame. Ma avvenne un incidente...
di Vincenzo Grienti (Avvenire, martedì 4 maggio 2021)
Venne definita “la magnifica mongolfiera” ed era costata ben 23.500 franchi. Una cifra considerevole nel 1804, anno in cui non si era badato a spese per le celebrazioni in onore di Napoleone Bonaparte, incoronato imperatore da papa Pio VII, giunto per l’occasione a Parigi il 2 dicembre. Il “pallone”, adornato di drappi e arricchito di oltre 3mila fiaccole accese era imbrigliato in una rete di seta grezza cui era appesa una pesante aquila imperiale. Uno spettacolo che i cronisti dell’epoca registrarono come un evento eccezionale elogiando il suo inventore: il colonnello Andrè-Jacques Garnerin, oggi considerato anche il padre dei paracadutisti, aeronauta e costruttore di aerostati.
Il luogo scelto per il decollo della mongolfiera senza piloti né passeggeri era l’area antistante la cattedrale di Notre Dame e stando ai calcoli di Garnerin doveva rimanere sospesa sui cieli parigini per le cerimonie bonapartiane, ma qualcosa andò storto. Il 16 dicembre 1804 il vento impresse una traiettoria tale da rendere il pallone aerostatico incontrollabile facendolo volare via. Un’eventualità che l’esperto colonnello Garnerin aveva messo in conto. Infatti, per assicurarsi il rinvenimento del mezzo in caso di incidente il militare aveva appeso al pallone una lettera che in caso di incidente avrebbe costituito il certificato di volo e la paternità del costruttore. Nella missiva vi era scritto: “Il pallone portatore di questa lettera si è innalzato da Parigi la sera del 25 frimale (il 16 dicembre, secondo il calendario rivoluzionario, nda), per opera del signor Garnerin, aeronauta privilegiato di S.M. l’Imperatore di Russia, ed ordinario del Governo Francese, nella circostanza della festa data dalla città di Parigi a S.M. l’Imperatore Napoleone. Quelli che troveranno questo pallone, sono pregati di averne cura e di ragguagliare il signor Garnerin sul luogo in cui è disceso”.
All’interno del mezzo inoltre erano nascoste delle lettere di papa Pio VII e un legato di trecento franchi, premio per chi l’avesse rinvenuto. Quasi un presentimento per Garnerin che restò attonito alla vista del pallone fuori controllo e in balia del vento che, dopo un volo di circa 22 ore, andò a precipitare definitivamente nel lago di Bracciano.
A testimoniare l’accaduto un documento rinvenuto in seguito, nel 1927, in cui il duca di Mondragone da Anguillara informava il cardinale Ercole Consalvi, Segretario di Stato di Pio VII, di quanto era successo: "Ieri sera, 17 dicembre, verso le ventiquattro ore - scrive il duca riferendosi alle prime ore dopo il tramonto - si vide comparire nell’aria un globo di smisurata grandezza che a poco a poco cadde nel lago di Bracciano nelle cui acque sembrava una casa galleggiante. Diversi navicellai vennero spediti nella stessa notte perché se ne impadronissero e lo conducessero a terra, ma insorsero tra loro alcuni alterchi, i quali impedirono l’operazione. Ritornativi questa mattina, per mezzo di una barca l’hanno trasportato nella riva".
Raccolto dai pescatori locali venne conservato in Vaticano, essendo quel territorio appartenente allo Stato Pontificio, per oltre 170 anni. Il 22 luglio del 1978 Paolo VI, primo pontefice nella storia della Chiesa ad aver volato sugli aerei dell’Aeronautica Militare, donò alla forza azzurra il cimelio in segno di gratitudine e apprezzamento come sottolineato nella lettera a sua firma consegnata all’allora generale Giuseppe Pesce incaricato di allestire e sviluppare il Museo di Vigna di Valle.
“Siamo lieti di aver contribuito col dono dell’aerostato lanciato da Parigi il 16 dicembre 1804 e planato alle porte di Roma poche ore più tardi alla nascita del Museo italiano dell’Aeronautica” scrisse Paolo VI sottolineando come “il singolare cimelio documenta un momento significativo della storia ardimentosa che ha portato l’uomo ad aprirsi nel cielo nuove vie di più celere comunicazione con gli altri esseri umani”.
Un reperto unico al mondo e importante “perché fa parte della stagione delle mongolfiere che tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo ebbero una grande popolarità in Europa - spiega il Generale Capo Ispettore Basilio Di Martino, tra i massimi studiosi italiani ed europei di storia dell’aeronautica militare - avviando il percorso che nell’arco di un secolo avrebbe portato al volo controllato e autopropulso. In un museo che ha una connotazione fortemente tecnologica, perché tale è l’anima dell’Aeronautica Militare, il pallone di Garnerin rappresenta a ragione l’ideale punto di partenza, proponendo una testimonianza tangibile delle soluzioni adottate dai primi aeronauti. È vero che il pallone non aveva persone a bordo, ma la tecnica costruttiva era quella, e le sue possibilità sono evidenziate dalla durata del volo, oltre 22 ore, e dalla distanza percorsa, da Parigi al lago di Bracciano. Un vero record, ed è questo un altro elemento che ne ribadisce l’importanza nella storia dell’aeronautica in senso lato.”
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO... *
In cammino con Dante/6.
Nel Veglio di Dante la nostra superba fragilità
Fra richiami alle Scritture e ai miti classici nel canto XIV dell’Inferno la compassione cristiana per la sorte degli uomini che rifiutano il vero amore fa costante appello alla saggezza antica
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 25 aprile 2021)
Nel canto XIV dell’Inferno, ove vengono puniti i superbi bestemmiatori del nome divino, con una delle pene più crudeli - «Sovra tutto ’l sabbion d’un cader lento, / piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe senza vento» (vv. 28-30) - Dante incontra Capaneo, che rivendica la propria ostinazione nel peccare: «Qual io fui vivo, tal son morto», sì che Virgilio gli rinfaccia il crudo rovello di quella pena: «O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu punito; / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito» (vv. 63-66). Avanzando in silenzio, i due pellegrini giungono a un fiumicello rosso sangue, «lo cui rossore ancor mi raccapriccia» (v. 78).
La scena cambia e Virgilio segnala a Dante che questa è la più «notabile» meraviglia tra quelle sin lì contemplate: e racconta egli stesso la storia del «Veglio di Creta», che influisce altresì sulla struttura del basso Inferno. Richiamandosi al mito classico, il poeta evoca i regni - favolosa età dell’oro - di Saturno che dominava Creta dall’alto del monte Ida: «Una montagna v’è che già fu lieta / d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida, / or è diserta come cosa vieta» (vv. 96-98).
Apprendiamo dunque che il luogo edenico, che Dante ritroverà appunto in cima alla montagna del Purgatorio (quasi figura del monte Ida), è ora ’diserto’ come deserto troverà Dante l’Eden in cui gli appare Beatrice.
Ma, superba congiunzione del mito classico con la memoria biblica, in quel monte «sta dritto un gran veglio» il quale volge le spalle a «Dammiata», Damietta, alla foce del Nilo (luogo che vale come simbolo dell’Oriente) e ad un tempo a «Roma guarda come suo speglio» (v. 105). È qui tutta la malinconia del mondo classico che s’affisa sulla nuova Roma cristiana; e infatti la magnifica descrizione del Veglio è tutta una riscrittura del modello biblico:
«La sua testa è di fin oro formata, / e puro argento son le braccia ’l petto, / poi è di rame infino a la forcata; / da indi in giuso è tutto ferro eletto, / salvo che ’l destro piede è terra cotta» (vv. 106-110).
Si tratta della ripresa della visione avuta in sogno da Nabucodonosor, il cui senso viene a lui disvelato dal profeta Daniele: «Tu stavi osservando, o re, ed ecco una statua, una statua enorme, di straordinario splendore, si ergeva davanti a te con terribile aspetto. Aveva la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte d’argilla. Mentre stavi guardando, una pietra si staccò dal monte, ma senza intervento di mano d’uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e d’argilla, e li frantumò.
Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via senza lasciare traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta la terra» (Dan. 2, 3135).
Ecco, tale è la fragilità della storia umana la quale, benché aurea nella sua divina e alta origine, si corrompe nei secoli e poggia su fragile argilla; mentre «la pietra che i costruttori hanno scartato / è diventata la testata d’angolo» (Salmo, 117, 22; Mt., 21, 42; Atti, 4, 11;) e ha fatto della terra il monte di Dio.
Questa possente rilettura del testo biblico giustifica la struttura intera dell’Inferno, poiché «ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta / d’una fessura che lagrime goccia» (vv. 112-113). La montagna trasuda lacrime, molto più che il ricettacolo di questa nostra «lacrimarum valle» ricordata nel Salve, Regina; e dai rivoli di dolore nascono i quattro fiumi del profondo inferno: «Lor corso in questa valle si diroccia; / fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; / [...] / Infin, là dove più non si dismonta, / fanno Cocito... » (vv. 115-119).
È forse il punto, in Dante, di più stretta unione tra eredità classica e figurazione biblica, sotto il segno del virgiliano «sunt lacrymae rerum et mentem mortalia tangunt » (Eneide, I, 462: ’Lacrime sono le cose, e il patire dei mortali segna la mente’). In quella dolente statua sono raccolti, insieme alla storia dell’umanità, i rivoli nascosti delle lettere occidentali: Plinio il Vecchio ricorda il rinvenimento, dopo un terremoto, all’interno di una montagna dell’isola di Creta, di un uomo gigantesco (Nat. hist. VII, XVI: «in Creta terrae motu rupto monte inventum e- st corpus stans XLVI cubitorum»), traccia del quale Dante trovava altresì in sant’Agostino (De Civitate Dei, XV, 9). Si delinea qui la profonda compassione di Dante sulla vicenda umana, tale che gli impedisce talvolta di interrogare le anime dannate; volgendosi a Virgilio aveva appena detto, contemplando l’«anima lesa» di Pier delle Vigne: «Ond’io a lui: ’Domandal tu ancora / di quel che credi ch’a me satisfaccia; / ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora’» (Inf. XIII, 82-84).
È il Leitmotiv dolente sulle pene dei dannati, che portano il pellegrino a perdere conoscenza, e a cadere, davanti al supplizio d’amore di Paolo e Francesca: «Al tonar de la mente, che si chiuse / dinanzi a la pietà d’i due cognati, / che di trestizia tutto mi confuse, / novi tormenti e novi tormentati / mi veggio intorno... » ( Inf. VI, 1-4). L’uomo siede sulla ’montagna di lacrime’ della storia che il reverendo John Stuart saprà riscrivere in tempi moderni: «We all, some time or other, stand on this mount of tears», ’Noi tutti, prima o poi, veniamo a trovarci su questo monte di lacrime. Non possiamo farci niente. Se abbiamo una sensibilità cristiana, non possiamo guardare all’indifferenza, alla volgarità, all’incredulità, al disprezzo di tutto ciò che è buono e santo, se non con uno spirito colmo di lacrime» (Sermons, IV; Edinburgh 1889).
Pochi decenni prima, una pagina del nostro Risorgimento porta impressa quella dolorosa memoria: «Accosto alle sue mura, a ponente, s’alza un monticello, e sovr’esso siede l’infausta rocca di Spielberg, altre volte reggia de’ signori di Moravia, oggi il più severo ergastolo della monarchia austriaca» (Le mie prigioni, cap. LVII); poche settimane prima che Silvio Pellico vi venisse rinchiuso, un rapporto del sopraintendente Smerczeck del 16/2/1822, definiva: «Nicht Spielberg: Weinenberg»: ’non la montagna del gioco, la montagna delle lacrime’. Dal monte che rinserra il Veglio di Creta a tutti gli Spielberg di ieri e di oggi, sempre più il dolore gela in noi e si rapprende, accecandoci, sopra gli occhi chiudendosi «le ’nvetrïate lagrime del volto» (Inf. XXXIII, 128).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
FLS
PER UN NUOVO ROMANZO DI FORMAZIONE ("BILDUNGS-ROMAN"), ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”.... *
Recensione:
Theodor W. Adorno, Teoria della Halbbildung
Come primo passo introduciamo il significato di alcune parole tedesche. Bildung sta per formazione, cultura; per contestualizzare la parola, ricordiamo che la storia della letteratura riconosce una posizione specifica al Bildungroman, il romanzo di formazione, il cui paradigma è il Wilhelm Meister di Goethe. Alla Bildung Adorno appaia la Halbbildung, ovvero la semiformazione, la semicultura. Per completezza è necessario nominare anche la possibilità di una Unbildung, un’assenza di formazione. La tesi attorno cui si costruisce il libro di Adorno è “che la Bildung oggi sia diventata Halbbildung socializzata. Questo non dipende dalla sua stessa storia - né vuol dire che la pedagogia è regredita - ma soltanto dal fatto che essa è socialmente in sviluppo” (p. 54).
La Cultura intesa in senso forte fa riferimento a modelli di senso che non dipendono dal soggetto ed in quanto tali non sono contrattabili; quando la forza della tradizione e delle convenzioni sociali lo imponeva, l’assunzione di questo modello era d’obbligo. In questo modo il percorso di formazione dell’individuo aveva delle tappe ben definite e poteva essere valutato sub specie aeternitatis, per così dire. Oggi non è più necessaria tutta questa fatica, perché effettivamente era una faticaccia doversi formare senza seguire neanche il più piccolo impulso personale.
Qua potrebbe esserci un’obiezione. Pare infatti esagerato affermare che la formazione nei bei tempi andati passasse per l’assoluta negazione dell’individuo e l’assoluta acquisizione di ciò che è sovra individuale. E’ chiaro che si estremizza per rendere il discorso più lineare: “Se riferita alla situazione presente qui e ora l’affermazione dell’universalità della Halbbildung è indifferenziata e esagerata” (p. 21). In altre parole tanto un tempo era possibile sfuggire alla Bildung quanto oggi è possibile salvarsi dalla Halbbildung. Il peso della tendenza all’individuale è però radicalmente diverso; accogliere una parte di individuo un tempo non permetteva di disconoscere le leggi generali, la dominanza odierna del soggettivo fa sì che anche i fatti generali, ove acquisiti, perdano il loro significato:
La Halbbildung è l’insieme dei valori cui si riferisce l’uomo moderno. Non riconoscendo più valore alla dimensione spirituale della vita, ma solo a quella pratica, l’uomo rifugge dalla responsabilità verso le norme tramandate dalla tradizione. Questa, che è soggettivamente un’acquisizione di libertà si trasforma oggettivamente in una perdita di radici, di sicurezza: “La coscienza passa direttamente da una forma di eteronomia all’altra; al posto dell’autorità della Bibbia subentra quella del campo sportivo, della televisione e delle ‘Storie Vere’, che si fa forte della pretesa della letteralità, della attualità al di qua dell’immaginazione produttiva” (pp. 16-17).
In questa nuova situazione la Kultur viene ipostatizzata come un valore assoluto; ma, così facendo, la si sgancia dalle sue basi materiali rendendola vuota, pronta per diventare alimento dell’insaziabile sete della Halbbildung. Lo sganciamento inoltre è una mossa di comodo, sostenuta da chi è già in possesso della Kultur: “Nell’ipostatizzazione dello spirito da parte della Kultur in riflessione sublima la separazione socialmente imposta di lavoro fisico e lavoro intellettuale” (p. 12). L’intellettuale giustifica la sua distanza dalla materia e in tal modo diviene sempre meno spiritualemateriale, sempre più imbevuto di Halbbildung, che non è né spirito né materia.
L’accettazione di un contenuto così indefinito, così poco impegnativo dal punto di vista pratico, è sorte comune: “Le masse sono fornite, attraverso innumerevoli canali, con dei beni formativi che prima erano riservati al ceto elevato” (p. 55). La Halbbildung diviene così una nota di merito, proprio come una volta lo era la Bildung classica. Le conseguenze oggettive sono l’abbassamento del discorso pubblico su tutti i livelli; trattandosi di un fenomeno dialettico, vi sono anche conseguenze soggettive, di estremo interesse pratico:
Il narcisismo collettivo favorisce la focalizzazione del soggetto su se stesso; quanto più si dedica a se stesso, tanto meno comprende ciò che gli succede attorno. E’ però necessario capire il mondo che ci circonda, per non cadere vittima dell’insicurezza: quindi la Halbbildung
La Halbbildung non conduce all’essenziale. Questa è la grande sconfitta dell’uomo postmoderno, ovvero lo svelamento del fatto che non esiste Un essenziale. Ciascuno è chiamato in proprio alla scoperta dell’essenza che sostanzia il mondo. Ma essendo individuale questa essenza perde la sua caratteristica fondante e diviene un puro accidente. La Halbbildung ormai divenuta modalità normale, automatica, di avvicinarsi alla Kultur non permette di cogliere la propria limitatezza, la propria relatività, sola via attraverso la quale sarebbe possibile una sua correzione:
La distruzione della Bildung non è la fine della Bildung. Le sue macerie sopravvivono all’interno della Halbbildung. Solamente supponendola ancora intera, ancora effettiva, ancora efficiente è possibile riscoprirne l’importanza. Si chiede quindi al soggetto uno sforzo pragmatico, quello di supporre all’orizzonte delle proprie azioni un significato, spirituale e materiale insieme, al quale offrire la propria incondizionata adesione. Solo attraverso un comportamento coerente è possibile dimostrare l’importanza della Bildung nei dannati anni della Halbbildung:
* FONTE: SPAZIOTERZOMONDO, TM-EXPRESS, 10 GIUGNO 2011.
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Sul tema, in rete, si cfr.:
PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES
Federico La Sala
IL SISTEMA IMPERIALE SPAGNOLO (AURELIO MUSI) E L’ATTENZIONE SU "TRE RITRATTI DI FILIPPO IV" ...*
Il sovrano e la monaca. Il malinconico re di spagna Filippo IV fu sorretto da suor Maria de Agreda
Un saggio di Aurelio Musi ricostruisce la vita di un personaggio roso dai sensi di colpa, giunto sul trono mentre il suo impero si avviava al declino. Negli ultimi anni con l’aiuto di una religiosa dimostrò notevoli doti di statista
di Paolo Mieli ( «Corriere della Sera», 30 marzo 2021)*
Filippo IV di Spagna, detto anche Filippo il Grande o il Re Pianeta, regnò tra il 1621 (quando aveva sedici anni) e il 1665. Una durata lunga, per di più in un’Europa sconvolta da un conflitto che ha lasciato un segno nella storia: la guerra dei Trent’anni (1618-1648). La stagione di suo padre, Filippo III (che regnò dal 1598 al 1621) era stata caratterizzata da una profonda crisi economica che, dopo l’epidemia di peste del 1600, aveva investito soprattutto la Castiglia. Crisi con radici lontane, quantomeno dalla bancarotta del 1596 che aveva fatto vacillare il trono di suo nonno, Filippo II (1559- 1598). Quel Filippo II già provato dalla catastrofica sconfitta dell’Invincibile Armata ad opera dell’Inghilterra (1588). Intendiamoci, la Spagna, a cavallo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, era ancora la più grande potenza europea. Un’Europa che nel 1571 aveva sconfitto i turchi a Lepanto, in un’epoca nella quale la Spagna aveva sì perso i Paesi Bassi con la proclamazione delle Sette Province Unite, ma aveva incorporato l’impero portoghese. Quella che si intravede nel libro di Aurelio Musi Filippo IV. La malinconia dell’impero (Salerno) è una Spagna che vive la fine del Siglo de Oro con una crisi di identità e si avvia a cedere alla Francia di Luigi XIV lo scettro del primato continentale.
Musi nota che il 1621 è ad un tempo l’anno dell’ascesa al trono di Filippo IV e della pubblicazione dell’opera L’anatomia della malinconia (Bompiani) dell’autore inglese Robert Burton. Un accostamento che, scrive Musi, «non deve apparire improprio». La crisi d’identità della Spagna, di cui si è detto, si poteva già individuare - come scrivono Carlos Alvar, José Carlos Mainer e Rosa Navarro nella Storia della letteratura spagnola (Einaudi) - nel capolavoro di Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia (Bompiani) dato alle stampe in dieci anni tra il 1605 e il 1615. Don Chisciotte, ha scritto John H. Elliott in Il miraggio dell’impero. Olivares e la Spagna dall’apogeo al declino (Salerno), è un libro nel quale «oltre tante parabole, c’era anche quella di un Paese lanciatosi in fiera battaglia solo per accorgersi poi di essere andato a sbattere con la testa contro dei mulini a vento». Sicché tutto era finito nel disinganno, dal momento che «l’illusione non poteva resistere troppo a lungo all’urto della realtà». La malinconia era stata l’effetto di questo disinganno.
Scrisse Robert Burton all’inizio del Seicento che, se c’è un inferno sulla Terra, esso risiede nel cuore di un uomo malinconico. Poi però anche i regni, sottolinea Musi, «possono essere un inferno perché, come corpi politici, sono soggetti alla malinconia». In che senso? Il «corpo infermo dello Stato si manifesta con turbamenti che hanno la loro causa primaria nell’assenza di buon governo». A questo punto «tutto è desolazione abbandono, inciviltà, paradiso trasformato in deserto». La malinconia non è «solo malattia dell’individuo, angoscia esistenziale della sua anima [...] essa è anche la malattia di una collettività, o di una forma di governo, quella monarchica che per Burton resta il modello di Stato migliore». Nella condizione umana di Filippo IV «si può leggere il disordine umorale che turbò il corpo sociale dell’Impero asburgico e l’affezione saturnina dell’epoca barocca».
Qualcosa che si può capire meglio da una rilettura di La vita è sogno (Adelphi) il dramma filosofico-teologico scritto nel 1635 dal drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de La Barca. «La vita è sogno», scrive Musi, «riunisce in un’espressione contratta i molteplici fili della sensibilità barocca» che, nell’età di Filippo IV, giunge alla sua massima maturazione. Nel libro di Calderón de la Barca troviamo il «labile confine tra veglia e sonno»; la «complementarità tra vita e sogno; tra «luce e ombra»; lo «spostamento della realtà nell’immateriale»; la «sospensione contemplativa»; il tempo della produzione simbolica che, per citare Fernando R. de la Flor, «si dà come oggetto un oltre di sé stessa cercando, nella sua strategia in essenza malinconica, di salvare le cose nei linguaggi formali dei caratteri allegorici». L’ingresso dei significanti in un «regime di delirio».
Per spiegare meglio questi concetti Musi fissa l’attenzione su tre ritratti di Filippo IV. Nel primo - del 1626 (attualmente esposto al Museo del Prado) - «se lo sguardo si sposta dalla sporgenza della mandibola rispetto alla mascella verso gli occhi, l’espressione di intensa malinconia non può sfuggire». Nel secondo - dei primi anni Trenta del Seicento (oggi alla National Gallery) - Filippo ha i baffi, abiti di insolito splendore, con vello e catena d’oro e vuole essere rappresentato «nella sua piena maturità». Nel terzo, una figura equestre (al Museo del Prado), «ritorna la grazia malinconica dello sguardo e la stessa espressione è colta da Velázquez nei ritratti dei figli del sovrano».
Ritratti, scrive Musi, che più di tutti gli altri ci rimandano ad un «monarca malinconico»; «l’interprete della malinconia di un impero che, nel giro di qualche decennio, oscillò tra apogeo e declino, tra luce e ombra, fra il delirio imperialistico e lo svanire della speranza di continuare ad essere il centro del mondo». Se ne può dedurre che lo «sprofondamento malinconico» del re sia stato quello dell’impero spagnolo.
Da dove si può immaginare che abbia avuto origine la malinconia del sovrano? C’è innanzitutto un dato di carattere biografico. La prima fase della vita di Filippo IV è segnata dalla perdita della madre, Margherita d’Austria, all’inizio del 1608, quando il futuro re aveva tre anni. La morte della moglie di Filippo III, sostiene Musi, condizionerà profondamente l’intera vita del figlio: «la depressione, l’ossessione della morte, provate fin da piccolo» lo accompagneranno per tutta l’esistenza. A ciò si accompagna la fragilità fisica, ereditata - secondo Voltaire - dal padre, che gli provocherà, a sette anni, una grave malattia. In seguito riceverà un’educazione «spiccatamente repressiva», nel segno dell’austera ortodossia della morale cattolica. Un’educazione che gli verrà impartita proprio nel momento in cui, nel fiore della pubertà, proverà «una sfrenata sensualità, stimoli e pulsioni sessuali assai spinte anche se necessariamente dissimulate».
Suo padre morì, quarantatreenne, dopo la drammatica cacciata dei moriscos cioè i musulmani più o meno sinceramente convertiti al cristianesimo ai tempi della Reconquista. La morte di Filippo III avviene nel pieno della crisi economica di cui si è detto, mentre è appena iniziata la guerra dei Trent’anni. Filippo IV sedicenne può contare sul conte-duca di Olivares (che abbiamo incontrato nel titolo del libro di Elliot). Questi sarà suo primo ministro dal 1621 al 1643, una lunga fase della vita (ventidue anni), nella quale, assecondato da Olivares, Filippo «supera i limiti imposti dalla repressione infantile e della prima adolescenza» e si dà alla seduzione di «donne di ogni ceto sociale, dame di Corte, attrici, cantanti, prostitute anche di basso livello».
All’inizio degli anni Quaranta alcune sconfitte militari, l’intervento francese in Catalogna, la crisi portoghese fanno vacillare la monarchia asburgica. Olivares viene messo alla porta, ma il «malessere» del Paese non si placa. Le rivolte del 1647-48 a Napoli e in Sicilia, i costi della lunga guerra con l’Olanda provocano una nuova crisi economica.
Filippo, ora senza Olivares, dà prova di una grandissima (fino a quel momento insospettabile) capacità di governo. Ma è ancora tormentato per la «dolorosa contraddizione fra le sue profonde convinzioni religiose e la coscienza di essere schiavo dei peccati della carne». E dall’ossessione della morte. Ossessione che si fa più intensa allorché al decesso della madre e del padre si aggiungono la drammatica scomparsa dei fratelli, della prima moglie (Isabella di Borbone), di dieci dei suoi tredici figli, tra i quali Baltasar Carlos, quello a lui più caro.
A questo punto è impossibile capire il «mistero» di Filippo IV senza dedicare attenzione al suo rapporto con suor Maria di Gesù. Suor Maria fu badessa del monastero di Agreda dal 1627 e Filippo la incontrò facendole visita nel 1643, l’anno dell’uscita di scena di Olivares. Filippo ne fu «folgorato», scrive Musi, «tanto da chiederle di iniziare una corrispondenza». Una corrispondenza non occasionale: 614 lettere (314 della badessa, 30o del sovrano) per uno scambio che durò oltre vent’anni dal 1643 al 1665.
Quando Filippo la incontrò, Maria era già famosa per ben cinquecento episodi di bilocazione nel corso dei quali, pur essendo rimasta nel suo monastero, avrebbe «visitato» numerose tribù del Nuovo Messico, del Texas, dell’Arizona, della California. Tribù che, quando furono raggiunte dai missionari, erano già state catechizzate da una misteriosa signora vestita d’azzurro (la dama azul) che «compariva e scompariva senza rivelare la sua identità e provenienza». Poi fu l’arcivescovo di Città del Messico a raccontare di una giovane monaca di Castiglia che, pur non essendosi mai mossa dal suo convento, in alcune sue lettere descriveva l’America come se le fosse familiare. E furono i missionari di cui si è detto ad associare il nome della dama azul a Maria de Agreda. La quale, interrogata dal padre superiore della provincia del Nuovo Messico che le fece visita nel 1631, fu in grado di rivelargli i nomi di tutti i missionari e fece riferimenti molto circostanziati alle tribù catechizzate.
Le esperienze della Agreda, scrive Musi, si inquadrano nel profetismo francescano spagnolo che predicava una conquista pacifica dei territori extraeuropei e l’espansione missionaria affidata alla «potente mano della Madonna». Le apparizioni miracolose della dama azul si comprendono meglio se inquadrate nel contesto «dell’evangelizzazione prima francescana poi gesuita che ebbero un’impronta fortemente mariana». Il personaggio di Maria de Agreda è sicuramente, secondo Musi, uno tra i più affascinanti tra quelli che affollarono la scena delle «sante vive», cioè quelle donne che andavano continuamente «soggette a fenomeni estatici e visionari durante l’età barocca».
Alla fine dell’Ottocento Antonio Silvela pubblicò e curò le Cartas de sor María de Agreda e Joaquin Sánchez de Toca dedicò a queste carte uno studio critico destinato a divenire fondamentale per comprendere appieno la personalità di Filippo. Da quell’ampio carteggio Sánchez de Toca, riassume Musi, traeva la convinzione che «la debolezza fosse il tratto determinante e il difetto principale del carattere di Filippo IV».
E in quest’ottica, sempre secondo Sánchez de Toca, andava interpretata la corrispondenza con suor Maria che, rispetto alla fragilità del suo interlocutore, rivelava «una forza straordinaria» e si accreditava come «la più affascinante figura» tra le donne che ebbero accesso al favore del sovrano. Suor Maria «riuniva in misura eccellente tutte le qualità necessarie al consigliere di un principe» ed era «la testimone della dipendenza emotiva del re dall’autorevolezza della sua guida, spirituale e non solo».
Ma il sostegno spirituale della dama azul non fu sufficiente. Gli storici sono concordi nel datare l’inizio del definitivo declino dell’impero molto più tardi ai tempi della guerra di Successione spagnola ai primi del Settecento. Ma, giustamente, Musi ne individua alcuni segni evidenti già nell’ultima fase del regno di Filippo IV dall’estromissione del conte-duca a quando l’«imperatore malinconico» morirà all’età di sessant’anni.
La capacità di governo di cui diede prova in questa ultima parte della vita è fuori discussione. Anzi, è quasi sorprendente se si tiene conto del lungo periodo in cui, su spinta di Olivares, si era dato ai bagordi. Ma a dispetto del suo talento, le paci di metà secolo, di Vestfalia (1648), Pirenei (1659) e Oliva (166o) «ridimensionano fortemente il peso mondiale del re cattolico».
E il sistema imperiale spagnolo, nei primi decenni della seconda metà del Seicento, appare sempre più limitato «dal complesso e multipolare sistema di Stati europeo». Con la Spagna di Filippo IV si eclissava un mondo e ne veniva alla luce uno del tutto nuovo.
* FONTE: NUOVA RIVISTA STORICA.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") DEL GOVERNO DI ZAPATERO ... CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO: RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE - E ANDARE OLTRE.
FLS
Le parolacce di Dante e quelle di Marx
Intervista. Federico Sanguineti, docente di filologia dantesca autore della prima lettura autenticamente marxista della Commedia
di Beatrice Andreose (il manifesto, Alias, 17.04.2021)
È un testo filologicamente ineccepibile ma soprattutto è la prima lettura sociologica integralmente marxista quella che Federico Sanguineti, docente di Filologia italiana e Filologia dantesca all’Università di Salerno, ci regala nel suo ultimo volume Le parolacce di Dante (Tempesta editore, prefazione di Moni Ovadia). Una lettura della Divina Commedia che affronta a chiare lettere, nei quattordici brevi capitoli, l’uso da parte del poeta di parolacce come «merda», «puttana», «bordello» in continuità con quelle vergate nella Bibbia dove si incontrano di frequente termini come «stercora sua» o «puttana». È inevitabile poi che alle parolacce del poeta si aggiungano nei secoli successivi quelle dei copisti tantoché per il filologo il vertice poetico della nostra letteratura consiste in «un mix di parole e parolacce». Nell’inferno, a cui è destinata la società corrotta e borghese, le parolacce sono dominanti. Non così in Paradiso dove la proprietà privata è abolita e dove Beatrice, donna in carne e ossa, assegna a Dante un’altra voce. L’unico dantista citato nel volumetto è Karl Marx che ama e conosce Dante e, a sua volta, in una lettera indirizzata ad Engels il 2 aprile 1851 etichetta col termine «merda» l’intera economia politica.
Marx dantista e Dante «materialista storico» antelitteram, in che senso?
Marx cita Dante a ogni piè sospinto, e lo pone in epigrafe anche nel primo libro del Capitale. A lui non sfugge che il poeta fiorentino manda all’inferno la nascente società borghese, denunciandone il carattere diabolico, infernale, patologico. Il viaggio dantesco, attraverso la società corrotta dell’inferno, la società in transizione del purgatorio e l’arrivo in paradiso (la società giusta dove la proprietà privata è abolita), prefigura il percorso indicato da Marx, il passaggio dal modo di produzione capitalistico, attraverso il socialismo (dittatura del proletariato), fino al comunismo. Come non vedere che Beatrice, che sulla cima del Purgatorio si presenta in modo dittatoriale, come «ammiraglio», e impone a Dante di vergognarsi, lo prepara così, rovesciando gli stereotipi di genere, al comunismo del paradiso?
Merda e bordello, parolacce in discreta quantità nella Divina Commedia. Una appartenenza postuma alla classe sociale più povera o uno sberleffo iconoclasta del poeta? Certo che dal tuo libro chi ne esce un po’ maluccio è il Petrarca avvezzo a frequentare il Francesco carrarese e che, come il suo signore, detesta qualsiasi contaminazione con i proletari.
Dunque, con ordine. Merda è parola che Marx usa per definire l’economia politica borghese. La stessa parola che ricorre più volte nella Bibbia e in Dante. Dante si rifà al salmo 113, ‘In exitu Israel de Aegypto’ (che è il paradigma ebraico della liberazione) e ai vangeli e agli atti degli apostoli, che sono libri di regole economiche e di amore (secondo la definizione di Alex Zanotelli). Gli apostoli, Dante e Marx hanno comunque un solo obiettivo: l’abolizione della proprietà privata, ossia la realizzazione di un paradiso in terra, un mondo dove le parolacce sono un ricordo del passato. Quanto a bordello, questa è semplicemente l’Italia, un paese storicamente occupato da forze militari straniere, già prima di Dante (Longobardi e Carlo Magno), dopo Dante (Francia o Spagna), fino ad oggi (le basi americane). Quanto a Petrarca, di fronte a Dante, poveretto, è patetico: lui, intellettuale aristocratico, ama una Laura borghese (che non parla mai). Dante ha un altro modello di donna: una Beatrice loquacissima, che dà a Dante diritto di cittadinanza («e sarai meco sanza fine cive») e infrange l’obbligo imposto da San Paolo alle donne, quello di non aver voce in capitolo, di non poter insegnare.
A proposito di genere, tu scrivi anche e soprattutto di donne il cui ruolo nella letteratura viene finalmente disvelato. A partire da quella straordinaria Cristina da Pizzano, emigrata in Francia da piccola, intellettuale che vive del suo lavoro ed autrice, a soli cento anni dalla morte di Dante, di un’opera che rovescia al femminile la cornice dantesca. Beatrice, inoltre, non risulta più essere la donna «gentile» che ci hanno insegnato a scuola ma una donna in carne ed ossa. Un ribaltamento radicale.
Le undici sillabe più straordinarie di Dante sono «Guardaci ben, se ben sè ‘n Beatrice». Qui il poeta è invitato a rendersi conto di trovarsi in Paradiso, cioè di essere, alla lettera, «in Beatrice», compenetrato in lei. In nuce è già presente l’idea dell’”«inleiarsi» che sarà con formidabili parasintetici neologismi, ripresa nella terza cantica. Queste undici sillabe sono insopportabili al gusto borghese e quindi manomesse dai copisti e filologi i quali le leggono «Guardati ben! Ben sembri Beatrice (errore congiuntivo di una famiglia di codici). Per fortuna la lezione genuina è conservata dal ramo beta della tradizione: Urbinate 366, Urbinate 365, Florio ed Estense. Nel paradiso terrestre Dante è in Beatrice. Al funereo colpo di fulmine , di un amore « che ratto s’apprende», perché irresistibile(«a nullo amato amar perdona»), ovvero il top per l’estetica borghese, urge contrapporre il punto di vista opposto, quello vitale di Dante che celebra il piacere.
C’è un punto specifico nella Commedia o in altre sue opere in cui Dante pre «figura» una società comunista?
Tutto il Paradiso è una società giusta, dove non c’è più proprietà privata. Lo spiega molto bene una studiosa americana, Joan Ferrante (Columbia University), in un suo libro, The Political Vision of the Divine Comedy, mai tradotto in italiano.
Poiché le anime brillano di più man mano che si avvicinano a dio, che ruolo gioca questo ultimo nella società giusta?
In paradiso ognuna e ognuno si avvicina a realizzare se stesso umanamente, secondo i propri bisogni. Nella misura in cui ciò accade, si intensifica il piacere, si gode di più, Beatrice brilla di più: è la «dolce vita», un piacere indescrivibile. E in paradiso la gerarchia è apparente. In realtà, spiega Beatrice a Dante, non c’è gerarchia. E non c’è patriarcato: Dio non è padre, neppure nella preghiera conclusiva a Maria: «Vergine madre, figlia del tuo figlio». In Petrarca, nella poesia che chiude il Canzoniere, Dio padre ritorna invece in piena regola.
Ritorniamo alle parolacce, i copisti nel corso dei secoli hanno spesso modificato il testo originario. Lo chiedeva la controriforma ma anche prima il testo di Dante viene spesso disatteso. Ora è conosciuto come il sommo poeta. Strano destino il suo.
Immediatamente dopo la morte di Dante, il suo Poema è diventato un bestseller. I borghesi fiorentini hanno fiutato l’affare e hanno prodotto centinaia di copie manoscritte per un pubblico borghese. Quest’ultimo, ancora oggi, si identifica coi personaggi dell’inferno censurando tutto il resto (salvo questa o quella terzina «poetica») come «non poesia» o «struttura», cioè come elementi secondari liquidabili come «teologici» e «medievali». Ma, a parte il fatto che il medioevo non è mai esistito (è una categoria ideologica eurocentrica), ed è esistito invece il modo di produzione feudale, occorre dire che Dante non è un teologo della conservazione, ma un teologo della liberazione al pari di Gioacchino da Fiore, dunque un teologo (come Tommaso Campanella) che anticipa Marx.
"ESSERE E TEMPO" E FILOLOGIA. La "svolta" di Hannah Arendt. .... *
L’anniversario del processo.
Eichmann e il male, sempre relativo
Si apriva l’11 aprile 1961 il processo al criminale nazista che ispirò a Hannah Arendt la celebre riflessione sulla “banalità del male”: ancora oggi una sfida al pensiero
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 11 aprile 2021)
Sessant’anni or sono (precisamente l’11 aprile del 1961), si apriva a Gerusalemme il processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, che era stato prelevato in Argentina dal Mossad e condotto in Israele per essere lì giudicato, da quel popolo, ormai nazione, che aveva contribuito a massacrare. Nella sala stampa del tribunale, sedeva la pensatrice tedesca Hannah Arendt, una delle menti più perspicaci e lucide del XX secolo, inviata dal “The New Yorker”, per redigere il reportage delle varie sedute del tribunale. La Arendt trasforma la cronaca in interpretazione filosofica della storia, tanto che introduce nei suoi articoli anche delle parole greche, memore forse di quanto il suo antico maestro Martin Heidegger amava ripetere ai suoi allievi, dicendo loro che si può pensare solo in greco e in tedesco. Fino alla fine rivolse un accorato appello, inascoltato, al filosofo suo mentore perché ritrattasse la sua adesione al nazismo. Al direttore del periodico che le faceva osservare che i lettori non conoscevano il greco, l’inviata filosofa avrebbe risposto che possono sempre impararlo, se vogliono imparare a pensare.
Nel 2012 Margarethe von Trotta trasse dalla vicenda un film molto bello, titolato col nome della pensatrice. Dai reportage la stessa Arendt aveva tratto il suo libro più famoso, La banalità del male (qui citiamo l’edizione digitale Feltrinelli, Milano 2019), il cui titolo originale è Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of Evil (1963). La prospettiva adottata, nel tentativo di districare una vicenda complessa, irta di ostacoli sul piano storico, giuridico (nel senso del diritto internazionale) ed emotivo, offrendone un’interpretazione filosofica, non poteva non avere una sporgenza teologica, almeno nel senso della “teo- dicea”, ovvero della riflessione sul misterium iniquitatis, di cui è intrisa l’esistenza dei singoli e dell’umanità.
L’attualità teo-logica della lezione che si può trarre dalla lettura del reportage, può essere intravista da alcuni passaggi che intendo sottolineare. Nel descrivere la posizione del criminale nazista che veniva processato a Gerusalemme, la Arendt non manca di evocare la sua teologia (che può essere quella del nazismo): «Secondo le sue credenze religiose, rimaste immutate dal tempo del nazismo (a Gerusalemme dichiarò di essere un Gottgläubiger, “credente in Dio” - il termine nazista per indicare chi ha rotto col cristianesimo - e rifiutò di giurare sulla Bibbia), questo avvenimento andava ascritto a un “Essere razionale superiore” (Höherer Sinnesträger), un’entità più o meno identica a quel “movimento dell’universo” a cui la vita umana, priva in sé di un “significato superiore”, è soggetta (La banalità del male, p. 63).
La Arendt avverte il lettore che denominare Dio Höherer Sinnesträger equivaleva ad assegnargli un posto di preminenza nella gerarchia militare. Rispetto a questa entità superiore, Eichmann si percepiva come un Befehlsempfänger, ovvero un portatore di ordini e al tempo stesso un depositario di segreti Geheimnisträger. Ed eccoci al punto decisivo, in cui si svela la “banalità del male”: la burocrazia del sistema. Infatti «il gergo burocratico era la sua lingua’, farcita di cliché, che rivelavano la sua ’incapacità di pensare». Non era un “mostro”, ma forse nemmeno un “buffone”, in lui si manifestava, come in molti oggi, in tutto il suo splendore, la mediocrità della burocrazia. Il suo avvocato ebbe a dire che Eichmann «si sentiva colpevole dinanzi a Dio, non dinanzi alla legge» ( ivi, p. 50), per certi aspetti un’Antigone capovolta.
Ma proprio al cospetto dell’epifania di tanta banalità, avviene la svolta nel pensiero della Arendt, che, nel suo saggio su Le origini del totalitarismo (1951), aveva interpretato i sistemi totalitari del secolo breve alla luce del “male radicale”.
E la traccia di tale Kehre (“svolta”) la rinveniamo in un’espressione particolarmente significativa, che si può leggere nel carteggio della filosofa con Gershom Scholem: «Ho cambiato idea - scrive l’allieva di Heidegger - e non parlo più di male radicale, ora credo che il male non sia mai “radicale”, ma che sia solamente estremo e che non possieda né profondità né spessore demoniaco». Agisce ed opera in quanto «sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di andare in profondità, di toccare le radici nel momento in cui si occupa del male, è frustrato perché non trova niente. È la sua banalità. Solo il bene ha profondità e può essere radicale» (Ebraismo e modernità, Unicopli, Milano 1986, p. 227). Ma la svolta esprime anche un rinon torno, ovvero la ripresa del pensiero agostiniano, oggetto della tesi dottorale (condotta sotto la guida di Karl Jaspers ad Heidelberg e pubblicata nel 1929 col titolo Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica). Il compianto Remo Bodei ha letto la parabola del pensiero della Arendt come un’inclusione agostiniana, che prendendo le mosse dal contenuto della tesi giunge al termine del percorso.
A noi pare decisiva per questa inclusione l’affermazione della radicalità del bene, che relativizza il male e lo sconfigge in un sempre nuovo inizio. Una citazione dell’Ipponense ricorre negli scritti della pensatrice tedesca:
«Initium ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit» (“affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nessuno”). E «questo inizio non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa, ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore. Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima» (Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2012, p. 251, edizione digitale).
L’unicità della persona e la sua libertà responsabile trovano in questo inizio il loro fondamento. Noi in tale inizio rinveniamo la possibilità di “ricominciare”. Per quanto, infatti, allorché ci troviamo nel pieno della tempesta, pensiamo che il male che ci assale sia invincibile e assoluto, la Arendt viene invece a ricordarci che esso è sempre e comunque relativo, ossia contingente e che può e deve essere sconfitto nell’esercizio del nostro agire responsabile. Nella visione cristiana, che appartiene alla filosofa ebreo-tedesca, la possibilità di un nuovo inizio si fonda sull’evento pasquale, come ha ricordato papa Francesco, nell’omelia della veglia: «Ecco il primo annuncio di Pasqua che vorrei consegnarvi: è possibile ricominciare sempre, perché sempre c’è una vita nuova che Dio è capace di far ripartire in noi al di là di tutti i nostri fallimenti. Anche dalle macerie del nostro cuore - ognuno di noi sa, conosce le macerie del proprio cuore - anche dalle macerie del nostro cuore Dio può costruire un’opera d’arte, anche dai frammenti rovinosi della nostra umanità Dio prepara una storia nuova. Egli ci precede sempre: nella croce della sofferenza, della desolazione e della morte, così come nella gloria di una vita che risorge, di una storia che cambia, di una speranza che rinasce. E in questi mesi bui di pandemia sentiamo il Signore risorto che ci invita a ricominciare, a non perdere mai la speranza».
E tale fondamento deve trovare terreno fertile nelle nostre menti e nei nostri cuori, perché non resti nel passato, ma si renda vivo e presente. E in questa prospettiva “antropologica” la lezione della Arendt è attuale e feconda. Un motivo di incredibile attualità, nell’orizzonte della banalità del male lo abbiamo trovato in una lettera di Karl Jaspers alla Arendt, risalente al periodo bellico. Qui il filosofo, per esprimere la “normalità” del male si affida all’esempio dei batteri, capaci di provocare epidemie letali per intere popolazioni, ma che restano pur sempre microorganismi (H. Arendt - K. Jaspers, Carteggio (19261969): filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989, p. 71). Microorganismi che con la ricerca scientifica possiamo conoscere sempre meglio, per non soccombere e ricondurli alla loro contingenza, immunizzandoci dal loro potere distruttivo.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica. L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
Hans Küng (1928-2021)
di Antonio Ballarò (Il Mulino, 08 aprile 2021)
Cattolico, prete, teologo, perito conciliare e professore universitario: difficile dire che cosa non sia stato Hans Küng durante questa vita. Che si è conclusa due giorni fa, all’età di 93 anni a Tubinga, la città in cui più di ogni altra sarebbe dovuto succedere.
Küng era nato il 19 marzo 1928 a Sursee, in Svizzera e precisamente nel cantone lucernese. La sua infanzia coincide con l’ascesa al potere di Hitler, minaccia che avvertirà profondamente grazie al deciso anti-nazismo che segna presto parenti e conoscenze. Ma anche prima indubbia esperienza di misurazione con una libertà non tanto ricercata, quanto ammessa e praticata. La sua è una Svizzera lontana dai contesti opachi della finanza per cui tra molte cose essa è conosciuta: Küng nasce da una famiglia benestante ma non elitaria, di cui sembra costituire una riuscita sintesi, anche ma non solo in senso intellettuale. Determinante, evidentemente, è il quadro religioso: non estraneo alle cornici medievali e barocche in voga al tempo, eppure anche, come ogni realtà complessa, capace di generare personalità i cui vissuti trasudano testimonianza. Nel caso del giovane Küng, ciò si concretizza quando nella sua città natale giunge il reverendo Franz Xaver Kaufmann, poi parroco nella stessa, cui dedicherà pagine di gratitudine e stima per ciò che riconoscerà come lo spirito di Gesù operante in lui. E che lo affascinerà al punto da condurlo al presbiterato: una scelta mai rinnegata e rivelatrice anche, forse, della sua fermezza. Una fermezza non insensibile.
Così Küng ricalca il percorso che era di tutti i candidati al ministero cattolico. Fino alla decisione di partire per Roma, dopo la scuola ginnasiale, per studiare teologia all’università Gregoriana, retta dai gesuiti: dove si accosterà al modello teologico neotomista, diffusosi su impulso di papa Leone XIII e dell’enciclica Aeterni Patris di quasi un secolo prima (1879), il cui impianto si mostrava razionale se non sillogistico, ma non sempre direttamente antimoderno. La teologia appresa da Küng è stretta tra sistole e diastole nel suo rapporto con la filosofia: della quale si concepisce, quindi, orientamento e compimento. Ma la formazione romana del giovane Küng include anche il Pontificium collegium germanicum et hungaricum, presso cui risiede e dove realmente pratica una teologia sostanzialmente mnemonica. Che si unisce a decisive frequentazioni romane (tra gli altri, Peter Lengsfeld e Josef Fischer).
E Roma diventa, in effetti, il convitato di pietra di un’esistenza, la sua, mai condotta senza la Chiesa, della quale non smetterà mai di dichiararsi membro. Il suo sentire cum ecclesia significherà sempre sentire in ecclesia, come imparerà dal gesuita Wilhelm Klein, allora direttore spirituale del collegio germanico. Sostenuto, in questo, dalla duratura fascinazione per il filosofo francese Jean-Paul Sartre, forse l’autore principale cui Küng deve uno spazio di libertà intellettuale (non intellettualistica) nella Chiesa, per la Chiesa.
La romanità della teologia che studia nella capitale d’Italia gli permette di dubitare della compatibilità di questa con la cattolicità della Chiesa: così che dirà, del tutto serenamente, che è la Roma cattolica ad averlo reso un cattolico critico verso Roma. Intendendo con questo soprattutto un fatto: la graduale attestazione dell’impossibilità di lasciare la Chiesa, come in uno scontro intimo e sconosciuto tra una libertà dell’agire e una libertà dell’esistere, in cui ha indubbiamente voluto che risuonasse il vangelo. Ne avrà modo specialmente a Parigi, dove si trasferirà, all’Institut catholique, per il completamento degli studi con il conseguimento di un dottorato in teologia incentrato sul grande teologo protestante Karl Barth, anch’egli svizzero, cui ricorre per un’indagine sulla dottrina della giustificazione.
Ma sono gli anni del concilio, annunciato da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, quelli probabilmente più densi di stimoli. Il Vaticano II (1962-1965), che il papa definisce «pastorale», permette a Küng, allora sui trent’anni, di coniugare idealmente cura d’anime e accademia, il che è sicuramente uno dei motivi per cui confesserà la sua parziale delusione per i risultati raggiunti dall’assise. Che il giovane teologo vivrà da perito, cioè esperto, senza cedere all’invito di rientrare nella Commissione teologica: una scelta che resta più di altre discutibile, specie alla luce di quanto avrà modo di ammettere da sé circa l’effettiva possibilità di cambiare le cose. Per Küng, che aveva da poco ottenuto una cattedra a Tubinga e pubblicato, oltre la tesi dottorale, Strutture della Chiesa e Concilio e riunificazione (1960), sembrò non essere scattata quella «veracità» che avrebbe predicato della Chiesa, andando a ricoprire una posizione esterna e non senza conseguenze per i successivi rapporti tra la teologia e la Chiesa, a maggior ragione nel post-concilio.
Si può fare l’esperienza, dunque, di ricostruire e interpretare perfino in questo modo la sua indubbia partecipazione attiva al Vaticano II, che a volte ha sfiorato, però, come noterà uno del calibro di Yves Congar, la creazione di un para-concilio dei teologi. Impressione, questa, che Küng smentirà solo in parte grazie alla pubblicazione del suo La Chiesa (1967), dal quale emergerà un’ecclesiologia biblica e fondata sui carismi, che non riuscirà a evitare del tutto una visione compartimentale della Chiesa.
Ma il successo del teologo svizzero si lega all’uscita di Infallibile? Una domanda (1970), che porrà questioni fondamentali per la comprensione del dogma dell’infallibilità papale e gli varrà l’apertura di un procedimento disciplinare che nove anni dopo produrrà la revoca del mandato di insegnamento della teologia a nome della Chiesa cattolica. Un procedimento contro il quale si schiererà la stessa università di Tubinga: che gli consentirà di mantenere lo status di professore.
Da allora, per il teologo Küng si schiudono gli orizzonti sconfinati di una teologia interessata all’altro, attraverso grandiose e leggibilissime esposizioni della fede cristiana (Essere cristiani, 1974), ambiziosi progetti etici (Progetto per un’etica mondiale. Una morale ecumenica per la sopravvivenza umana, 1991), il dialogo tra le religioni, specie i tre monoteismi (Ebraismo, 1991; Cristianesimo, 1994; Islam, 2004).
Con la morte di Hans Küng, sarà interessante seguire le prese di posizione ecclesiali. Perché non si può dire ancora quale posto avrà avuto rispetto alla Chiesa, ma soprattutto rispetto alla teologia, in un momento a dir poco magmatico per la sussistenza dell’impianto intellettuale di sostegno alla fede.
Con Hans Küng, non se ne va solo un uomo profondamente versato nella ricerca teologica, ma un largo frammento di storia della Chiesa e del secolo che ereditiamo. Un frammento che il pontificato di Francesco dovrà continuare in parte a smuovere e in parte a rimuovere.
In cammino con Dante/3.
Modello, mito, padre: chi è davvero Virgilio per Dante?
Non è solo Maestro ma anche “dolce padre”, consolazione e sprone, modello e mito per il Sommo Poeta: è l’“auctor”, colui che fa crescere il personaggio e ne è propriamente il “nutritore”
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 4 aprile 2021)
Delle guide che accompagnano e illuminano Dante nel viaggio di conoscenza e di salvezza, Virgilio ha il ruolo più esteso: è scorta di Dante per due cantiche sino alla cima del Purgatorio ove, nel Paradiso Terrestre, si rivela Beatrice. Non è solo Maestro ma anche “dolce padre”, consolazione e sprone, modello e mito. Appare sin dal canto I dell’Inferno, come uscito da un millenario silenzio: «dinanzi a li occhi mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco» (vv. 62-63), lieto a sua volta di acquistare voce e vita di fronte a un uomo che «rovinava in basso loco ». La sua autopresentazione è solenne, e subito intessuta dei caratteri che saranno proprii di tutta la Commedia, la naturalezza del latino, la coscienza dell’unità profonda della penisola italiana nell’eredità di Roma: «[...] li parenti miei furon lombardi, / mantovani per patria ambedui. / Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, / e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto / nel tempo de li dei falsi e bugiardi» (vv.68-72). Dante lo elegge come magister, al posto di Aristotele, come era uso nella tradizione medievale, e Dante dichiarava ad apertura del suo Convivio; nell’Eneide infatti viene cantato il destino provvidenziale della fondazione di Roma, «di quella Roma onde Cristo è romano» (Purg., XXXII, 102), poiché la Roma di Pietro, e non più Gerusalemme, è la sede della cristianità.
L’Eneide è dunque pensata come annuncio e preparazione della “nuova Roma” della fede: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne di Troia»: Virgilio si presenta come cantore di “quel giusto”, poiché giustizia è - dal Convivio al De Monarchia alla Commedia - il fondamento di ogni degno ordinamento terreno. Lo conferma, in uno dei passi più belli sul pensiero di Dante, il filosofo Étienne Gilson: «Se esiste una visione unificante della sua opera, essa non si identifica né in una qualche filosofia né in una causa politica, neppure in una teologia. La si troverà piuttosto nella coscienza, così personale, ch’egli ebbe della virtù della giustizia e delle fedeltà che essa impone» ( Dante e la filosofia). Il poeta si presenta, a sua volta, come discepolo fedele: «O dei li altri poeti onore e lume, / vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume. / Tu’ se’ lo mio maestro e ’l mio autore» (I, 82-85).
Il termine “autore” non significa soltanto il modello del «bello stilo che m’ha fatto onore» (sì che Dante si presenta a sua volta come autore di un poema epico), ma è anche auctor, colui che nutre e fa crescere il personaggio: ne è propriamente “il nutritore”. Dante si pone come “creato” di Virgilio, nuovo “pius Aeneas”, del quale nel Convivio aveva tracciato l’alta missione: «Per che Virgilio, d’Enea parlando, in sua maggiore loda pietoso lo chiama. E non è pietade quella che crede la volgar gente, cioè dolersi de l’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia ed è passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni» (lib. II, X, 5-6). E non è solo magnanimità umana, ma grandezza del destino di una Roma eterna: «Onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò s’accorda Virgilio nel primo de lo Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: “A costoro - cioè a li Romani - né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine”» (lib. IV, IV, 11).
Di questa Roma eterna, perché cristiana ormai, Dante si farà cantore. Sebbene quella del “famoso saggio” (I, 89) sia la funzione principale, e Virgilio additi a Dante, giunti al Limbo, la “bella scola” di cui fa parte: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, sì che - aggiunge con orgoglio Dante - «io fui sesto tra cotanto senno» (IV, 102); nel poema tuttavia Virgilio è davvero “compagno” maggiore di Dante, in tutto: con prontezza raccoglie una manata di terra e la butta in gola all’avido Cerbero: «E ’l duca mio distese le sue spanne, / prese la terra, e con piene le pugna / la gittò dentro a le bramose canne» ( VI, 25-27). Giunti nella palude che circonda la città di Dite (Inf., canto IX), Virgilio mette energicamente le proprie mani sopra quelle di Dante, per chiudergli gli occhi, affinché non abbia ad esser accecato dallo sguardo della Gorgone; esorta e sprona, difende Dante e lo punge, gli indica persino le anime con cui il viator deve parlare, e delle quali non s’era accorto: «Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata che s’è dritto: /da la cintola in su tutto ’l vedrai”» (X, 31-33).
Più cresce la gravità delle colpe e delle pene, più la dolente tristezza dei due viandanti li pareggia in un’unica angoscia: «Passo passo andavam sanza sermone, / guardando e ascoltando li ammalati, / che non potean levar le lor persone» (XXIX, 7072). Di fronte ai giganti posti a guardia del pozzo ultimo della Caina, Virgilio prende per mano Dante (XXXI, 28); stringe Dante a sé, alla presa di Anteo: «poi fece sì ch’un fascio era elli e io» (XXXI, 135), come prima l’aveva avvinto con le braccia, per scendere in groppa a Gerione a Malebolge (XVII, 1-27 e 91-111).
Ma il Virgilio più autentico è quello che, in Purgatorio, dispiega tutta la pietas e tutta la nobiltà della ragione, di cui è emblema: non solo deterge la caligine infernale (“sudiciume”) dal volto di Dante, ma via via si fa il suo araldo: da quando dice solennemente a Catone: «libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta» (I, 71-72) a quando coronerà Dante, libero ormai dalla colpa, e pronto a vedere Beatrice: «Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio / [...] / per ch’io te sovra te corono e mitrio » (XXVII, 139-140).
Dante cresce, ma Virgilio non scema: l’incontro con il conterraneo mantovano Sordello, al canto VI, e soprattutto con Stazio al canto XXI, sono tra i momenti più alti del poema, qui paragonata la scena addirittura all’incontro di Cristo con i discepoli di Emmaus: «Ed ecco, sì come ne scrive Luca / che Cristo apparve a’ due ch’erano in via, / giù surto fuor de la sepulcral buca, / ci apparve un’ombra, e dietro noi venìa» (vv. 7-10).
Ed è proprio Stazio a tessere il più alto, malinconico e inobliabile, elogio di Virgilio: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova» (XXII, 67 68). Egli è stato il lanternarius, il lampadoforo del nuovo Annuncio: «quando dicesti: “Secol si rinova; / torna giustizia e primo tempo umano”» (vv. 70-71). E allo svelarsi di Beatrice, Virgilio è come “mamma” alla quale corre il “fantolin” impaurito da tanta apparizione: Virgilio, madre e padre del pellegrino, così come, per i secoli cristiani sin da Agostino, era stato il sommo sapiente: «Quanto sia importante questo problema lo dichiara il nobilissimo verso di Virgilio: Fortunato chi è riuscito a conoscere le ragioni delle cose [ Georg., II, 489]» ( La Città di Dio, lib. VII, 9).
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG.... *
Riletture.
"Divina Commedia", il viaggio della speranza
L’itinerario di Dante si conclude sulle più alte vette. Le miserie lasciate nella desolata pianura degli uomini non sono state dimenticate, ma ormai sono viste con occhi nuovi
Giuliano Vigini (Avvenire, domenica 28 marzo 2021)
Dall’esilio terreno alla patria celeste, la Divina Commedia è tutta un’epifania di speranza. Inizialmente è l’angosciante anelito di Dante di uscire dalla «selva oscura» ( Inf. I,1) in cui si era smarrito; poi, la forte tensione per raggiungere il colle della «divina foresta» ( Purg. XXVIII, 2); infine, dopo il doloroso distacco da Virgilio e la comparsa di Beatrice, la consolante certezza di esser entrato nel regno «che solo amore e luce ha per confine» ( Par. XXVIII, 53.54).
Dall’umana necessità di sperare - bene supremo che i dannati dell’Inferno hanno definitivamente perduto ( Inf. III,9) - si passa dunque, procedendo nell’ascesa, alla speranza come virtù teologale, che si affianca alle due sorelle maggiori - come avrebbe detto Péguy -, la fede e la carità, per camminare insieme verso Dio.
Sono le tre “donne” che nel canto XXIX, 121-129 del Purgatorio danzano in cerchio sul lato destro del carro, ciascuna risplendente di un proprio colore (bianca la fede, verde smeraldo la speranza, rossa la carità). La fede è la radice della speranza (Par. XXIV, 73-75), perché se l’uomo non arriva a «conoscere» il Suo nome (Sal 9,11; 91,14), cioè a professare la fede nel Signore («Sperino in te»; «Sperent in te», Par. XXV, 73, 98), la sua speranza cammina al buio, senza mai trovare la via maestra della verità di sé stesso e della sua sospirata felicità. La carità è l’altra virtù essenziale, che dà forma e compimento alla fede, perché, quanto più si esercita la carità, fondandola in Dio e nel suo amore, tanto più ci si avvicina all’«amore perfetto» (1Gv 4,12) che in modo perfetto unisce anche le altre virtù. Beatrice è per Dante il volto della speranza. È lei che, mossa dall’amore («amor mi mosse», Inf. II, 72), lo guida e lo spinge in avanti verso quell’Amore di cui già gode; è lei che, innalzata da creatura umana a figura della teologia e a rappresentante della sapienza divina, è scesa dal cielo per aiutarlo a salire verso il Bene sommo che è Dio.
Di grado in grado, Beatrice non emana più soltanto il dolce profumo della donna bella e virtuosa amata da Dante in gioventù; lei gli porta il profumo stesso di Dio, dei santi e dei beati, dei maestri e dei testimoni della fede (da Tommaso a Bonaventura, da Francesco a Domenico a Bernardo) che sono con lei in paradiso. Sotto la guida di Beatrice, con davanti i suoi occhi luminosi e il suo radioso sorriso, la speranza di Dante si fa via via realtà concreta; non è un’illusione destinata a perdersi e a svanire; la speranza è sempre davanti a lui come orizzonte verso il quale alzare lo sguardo e camminare.
Quando raggiunge questo orizzonte, la speranza ha compiuto il suo ultimo tragitto e si trasforma in un’epifania di luce, nell’inebriante realtà della gloria di Dio e della gloria di Cristo, che da sole tutto illuminano. Lì anche Dante può contemplare il mistero trinitario (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) e volgere la sua devota preghiera a Maria, la «vergine madre », «umile e alta più che creatura », «termine fisso d’etterno consiglio» ( Par. XXXIII, 1-3). Il viaggio di Dante si conclude sulle più alte vette. Le miserie lasciate nella desolata pianura degli uomini non sono state dimenticate, ma il mondo di lassù gli fa ormai vedere con occhi nuovi anche le realtà di quaggiù.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Lector in fabula: in cammino con Dante... *
In cammino con Dante/2.
Quell’ansia del Poeta per noi lettori
Fin dal primo verso del grande poema ci considera coinvolti in un pellegrinaggio verso la felicità e la grazia. Così di volta in volta diventiamo suoi discepoli, accompagnatori e testimoni
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 28 marzo 2021)
Può mai essere un lettore, uno di noi, personaggio della Divina Commedia? Possiamo mai trovarci nel poema a dialogare con Dante? È ben vero che Ezra Pound ha osservato che: «In un senso ulteriore [la Commedia] è il viaggio dell’intelletto di Dante attraverso quegli stati d’animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o intelletto di Dante, può significare ’Ognuno’ [Everyman], cioè ’Umanità’, per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuor dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia» (Dante, in Lo spirito romanzo, 1910); ma è altrettanto vero che Dante ha scelto gelosamente le sue guide, tutte di alta responsabilità (il poeta Virgilio, l’amata Beatrice, il campione della Vergine, san Bernardo).
Ove mai potrà esserci posto per noi nel poema? Eppure c’è, e sin dal primo verso: «Nel mezzo del cammin di nostra vita »: quel ’nostra’ è la vita di Dante e di ognuno di noi, pellegrini con lui nella selva della tentazione, nel cammino di redenzione.
Da quel primo verso del poema il lettore non è più spettatore ma parte del dramma che viene messo in scena. Gli indirizzi, le apostrofi, i richiami al lettore sono molteplici (sedici in tutta la Commedia: 5 nell’Inferno, 7 nel Purgatorio, 4 nel Paradiso), e toccano tutti e quattro i gradi della ’lettura’, così com’era concepita dalla tradizione medievale: lectio, meditatio, oratio, contemplatio. Il patto di lettura, prima di tutto, e i limiti che l’autore detta: «Nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo» (Inf., XXXIV, 23); la medita- zione, poi, continua, che la lettera del testo richiede: «Pensa, lettor, se io mi sconfortai» (Inf., VIII, 94), «Pensa, lettor, s’io mi maravigliava» (Purg., XXXI, 124), «Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia / non procedesse...» (Par., V, 109-110); l’orazione attenta che è richiesta - e l’intercessione necessaria - per accedere alla conoscenza del vero: «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista...» (Par., X, 7-8), «Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto / di tua lezione...» (Inf., XX, 19-20); la contemplazione infine, che è frutto e dono di quel lungo esercizio: «Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero» (Purg., VIII, 19).
Come Dante è discipulus che ha costante bisogno di guide: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti del poema; così il lettore deve apprendere come scolaro: «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, / dietro pensando a ciò che si preliba, / s’esser vuoi lieto assai prima che stanco» (Par., X, 22-24), nella stessa attitudine che Dante per sé adotta: «come discente ch’a dottor seconda » (Par., XXV, 64).
Nello stesso tempo, divenire lettore della Divina Commedia è esercizio che richiede pazienza e almeno quattro letture che permettano di cogliere i quattro sensi del poema, che Dante trae dalla tradizione esegetica biblica e che spiega nella Epistola a Cangrande della Scala, suo protettore, spiegandogli i sensi crescenti del versetto: «In exitu Israel de Aegypto».
Il senso letterale è vero nella sua storicità (noi sappiamo che il popolo eletto uscì dall’Egitto sotto la guida di Mosè); così va inteso, egualmente, quello allegorico: la nostra emancipazione dal peccato per la Redenzione elargita dal sacrificio di Cristo; e non meno quello tropologico (la conversione di ogni anima credente dal lutto e miseria del peccato allo stato di grazia); e infine quello anagogico: l’uscita finale di ogni credente e di tutta la Chiesa dalla «servitù di questa terrena corruzione alla libertà dell’eterna grazia » (Ep. XIII, 21).
Dante segue qui la celebre Scala Paradisi: «Cercate leggendo e troverete meditando. Bussate pregando e vi sarà aperto contemplando. La lettura porge come un cibo sostanzioso alla bocca; la meditazione lo sminuzza e lo mastica; l’orazione gli dà sapore; la contemplazione è quella dolcezza che allieta e sazia». Ma Dante è personaggio complice con il suo lettore; lo chiama spesso a testimone di esperienze che considera comuni: «Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe / ti colse nebbia per la qual vedessi / non altrimenti che per pelle talpe».
È l’imperioso incipit del canto XVII del Purgatorio, e Dante vuole il lettore vicino quasi per fargli constatare qualcosa che questi può aver vissuto: la nebbia che avvolge d’improvviso chi salga verso una cima. Francesco Torraca osserva, a proposito di questo celebre paragone: «Ricorditi, lettor: entra speditamente in materia il poeta, supponendo che il lettore possa aver, qualche volta, osservato un fatto capitato a lui, forse più d’una volta, nell’alpe, ne’ monti, che separano la Toscana dalla Romagna (Inf., XIV, 30 n.) o in quelli della Lunigiana (Inf., XXXII, 29 n.)».
Ecco, il lettore non può stare indietro: l’apostrofe di Dante è quasi intimata proprio per accertarsi che il lettore lo segua, che stia al passo della propria ansia di salire e di raggiungere la vetta: Osip Mandel’štam nel suo saggio Conversazione su Dante, 1933, ha osservato che Dante è sempre in marcia, sempre in ascesa, e che anche la sosta è appena un movimento sospeso. Il lettore ugualmente non può concedersi tregua: è ’in cordata’ con Dante e non può cedere.
Più ancora, il poeta prende talvolta il lettore a testimone, arriva a sfogarsi e a giurare davanti a lui: «ma qui tacer nol posso; e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro, /...» (Inf., XVI, 127-128). Dante giura sul proprio poema per avvalorare ciò che vide («venir notando una figura in suso »).
Su questo verso l’Ottimo Commento, XIV secolo, ci propone una chiosa acuta: è davanti al proprio lettore che Dante, per la prima volta, pronuncia il nome del proprio poema, Comedia: «Considera qui, lettore, che l’Autore fa suo giuro per li versi di questa Commedia, ove sono da notare due cose: l’una, il nome di questo libro, lo quale qui l’Autore medesimo impone; l’altra, che l’Autore desidera, che questa sua opera sia gradita infra le genti per lungo tempo». La teoria moderna del Lettore come teste e garanzia del libro trova in Dante il suo primo e saldo fondamento: davvero Lector in fabula.
Terzine eponime
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
FLS
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, E STORIA. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" (2007) *
Beatrice, Lucia, Maria: il senso materno di Dio
Sono una triade che conduce a Dio e che Lo avvicina anche a noi lettori, facendoci notare l’aspetto più familiare, e in un certo senso materno, del Divino
di Bianca Garavelli (Avvenire, venerdì 26 marzo 2021)
Le tre donne che mandano Virgilio in missione, per così dire, rappresentano un filo verticale che dal Cielo arriva alla Terra, e sono perciò la parte più spirituale delle presenze femminili della Commedia. Maria ne è il culmine, perché è a lei che san Bernardo invita Dante a rivolgere lo sguardo, come all’essere creato che più somiglia a Dio, nel canto XXXII del Paradiso, poco prima della famosa preghiera. Perciò è una triade che conduce a Dio e che Lo avvicina anche a noi lettori, facendoci notare l’aspetto più familiare, e in un certo senso materno, del Divino.
C’è un’altra triade femminile che segue invece un percorso in apparenza orizzontale, perché procede attraverso le tre cantiche: un trio femminile più rasente alla Terra, ma che a sua volta illumina un percorso di salvezza, da un’angolazione del tutto umana e anche in gran parte autobiografica.
È il terzetto che inizia con Francesca da Rimini nel V canto dell’Inferno, prosegue con Pia da Siena in modo perfettamente simmetrico, nel V del Purgatorio e culmina nel canto III del Paradiso, con Piccarda Donati. Solo due fra le tre donne raggiungono la salvezza, nessuna di loro è un esempio perfetto di virtù, tuttavia sono tre personaggi perfetti per far vivere il grande messaggio di amore del poeta, che abbracci l’umanità intera.
Se la staffetta fra Maria, Lucia e Beatrice diventa nel poema la cordata verso la salvezza per Dante, Francesca, Pia e Piccarda si fanno ambasciatrici per tutti i lettori dei modi per arrivare all’eterna felicità del Paradiso. Il loro è un messaggio di pace, è l’esortazione suadente a superare i conflitti politici, di cui tutte e tre sono state vittime, attraverso l’esecrabile abitudine dei matrimoni politici, della necessità angosciosa a volte, altre volte avida, di ottenere alleanze, garantite da parentele forzate.
Francesca, che non ha fatto in tempo a pentirsi, è condannata per l’eternità; Pia da Siena, che forse è stata uccisa dal marito, a sua volta ha subito una morte violenta; Piccarda non ci dice, per delicata reticenza che l’autore trasferisce in lei, come è davvero morta. Ma anche per lei la causa indiretta è la politica, cioè la spietata prepotenza del fratello Corso, che la strappa al convento di clarisse in cui aveva scelto di vivere in armonia con la sua fede, costringendola a sposare un suo sodale.
Anche se non conosceva di persona tutte e tre, nella sua vita Dante aveva visto come la mancanza di scrupoli in politica potesse generare odio e violenza. Aveva personalmente combattuto in alcune battaglie delle guerre fra Guelfi e Ghibellini, tra cui Campaldino. E Pia ne è certamente una vittima, come testimonia la sua posizione nel canto, tragica conclusione, o tragico risultato, delle gravi tensioni fra i Guelfi, testimoniati da Iacopo del Cassero, e Ghibellini, rappresentati da Bonconte da Montefeltro. Tensioni che portarono allo scoppio delle ostilità fra Arezzo e la lega ghibellina e Firenze e la lega guelfa.
Con le tre donne Dante ci mostra il lato oscuro della storia del suo tempo, dominato dalla violenza maschile, e apre una finestra su un futuro possibile di pace. Le rende messaggere di tale pace, esempi di come il mancato rispetto dell’amore possa portare all’eterna rovina, come nel caso di Francesca, oppure a un infelice destino terreno, come nel caso di Pia e Piccarda. Anche loro perciò ci fanno puntare lo sguardo verso il Cielo, ma dall’angolazione della cronaca per Dante e della storia per noi, guidandoci nel centro della commedia umana. -Beatrice ne diventa la sintesi: in lei, perfetta messaggera di Dio, il poeta riconosce fin dall’infanzia lo stesso volto che più somiglia a Lui che rivedrà in Paradiso, la prima forma terrena dell’unico Amore, il primo volto umano dell’«amor che move il sole e l’altre stelle».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo.
Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
FLS
Vita di Dante. Una biografia possibile contro il politicamente corretto
di Giorgio Inglese (MicroMega, 27 Marzo 2021)
Ho accolto con vivo compiacimento la proposta di far tradurre in cinese il mio libro “Vita di Dante. Una biografia possibile”, anche perché la traduzione è stata affidata a una studiosa esperta come la dottoressa Yuze
Questo settimo centenario della morte di Dante Alighieri è anche il primo centenario della traduzione cinese di alcuni canti dell’Inferno per opera di Qian Daosun, che aveva studiato italiano proprio all’Università di Roma. La millenaria cultura cinese non poteva restare indifferente alla straordinaria ricchezza fantastica e alla forza emotiva della Commedia: oggi sono disponibili varie traduzioni cinesi dell’intero poema e delle altre opere di Dante. Gli studi sulla biografia del Poeta (il lettore cinese ha già a disposizione fonti rilevantissime, come il Trattatello in lode di Dante di Giovanni Boccaccio e la Vita di Dante dell’umanista Leonardo Bruni), sulla società e la cultura del suo tempo concorrono alla comprensione storica dei suoi testi.
Quando leggiamo, ad esempio, il quinto canto dell’Inferno siamo toccati dalla espressione, così viva e penetrante, della passione d’amore. Ma non dobbiamo ignorare un dato essenziale di storia della cultura. A partire dalle grandi corti feudali francesi e provenzali, dagli inizi del secolo XII si diffonde in mezza Europa, attraverso la poesia, un’idea dell’eros come altissima affermazione di personalità, per gli uomini come per le donne.
Questa idea apre una lacerante contraddizione nella coscienza morale di estrazione cristiana. Una figura come quella di Francesca, colta dal Poeta nella sua caratteristica passionale e tuttavia condannata a una eterna punizione, rappresenta al vivo tale contraddizione. Siffatta “crisi” del giudizio morale si è tradotta, in Dante, in una più raffinata capacità di ricognizione psicologica della dimensione erotica, del tormentoso e irrealizzabile desiderio di fusione fra gli amanti, che ha trovato espressione nel dolente e vano connubio fra le ombre di Francesca e Paolo.
E che diremo di Ulisse? Ci emozioniamo dinanzi al “piccolo” equipaggio di uomini vecchi e affaticati, che pure si lancia nell’estrema avventura, per contemplare stelle mai viste risplendenti su un oceano senza fine, su un emisfero disabitato.
Ma anche dietro questa figura si riconosce un evento capitale di storia del pensiero: la riscoperta, verso la fine del sec. XII, della filosofia di Aristotele, un potentissimo sistema concettuale che obbligò i teologi cristiani a un drammatico confronto e a un arduo tentativo di conciliazione. Alcuni pensatori, come Sigieri di Brabante (pure collocato da Dante fra i beati cultori della Sapienza), si spinsero fino all’enunciazione di certe “verità di ragione” non integrabili alla “verità di fede”.
Il naufragio dell’Ulisse dantesco è simbolo dei limiti imposti alla ragione umana quando non sia assistita dalla fede, ma è anche la rappresentazione di una realtà più profonda, e positiva. Il cristiano Dante non poteva non identificare la perfezione del sapere con la beatitudine oltremondana, ma la sua sensibilità e la sua fantasia realistica gli permisero di cogliere e rappresentare, nella sconfitta di Ulisse, quel desiderio di conoscenza che nell’uomo è sempre vivo e vitale proprio perché non giunge mai a una “perfezione” che coinciderebbe con l’immobilità e la morte.
Contro ogni superficiale rilevazione di un eventuale “rispecchiamento” della realtà sociale, Marx invita a studiare le creazioni dell’arte e della letteratura «partendo dalle contraddizioni della vita materiale, dal conflitto in atto tra le forze sociali di produzione e i rapporti di produzione» (Per la critica dell’economia politica. Introduzione, 1859). Come ogni “classico”, l’opera di Dante rappresenta le contraddizioni di una fase storica. Le prime energiche formazioni di economia mercantile in città come Firenze, appaiono al Poeta quali manifestazioni diaboliche. Allo stesso modo, il tramonto di un ordine politico aristocratico, che ha il suo vertice nell’Imperatore, gli si presenta - rovesciato - in termini apocalittici, come preparazione di un definitivo e risolutivo intervento della divina Provvidenza.
La rappresentazione ideologica della “fine di un mondo” come “fine del mondo” ha permesso a Dante di concepire la realtà nella forma di un giudizio universale, cioè di assumere come proprio oggetto tutte le passioni dell’uomo, tutta la sua storia e tutto il cosmo in cui abita. Su questa base, egli ha potuto esprimere una rappresentazione artistica che per ampiezza e ricchezza ha un paragone (nell’ambito della letteratura europea) solo nell’opera di Shakespeare: la cui fresca, libera e multiforme poesia sorge piuttosto (volendo inseguire il paragone) sulla rappresentazione ideologica della “nascita di un mondo” - l’Inghilterra mercantile - come nuova “nascita del mondo”.
L’assunto che ogni creazione dell’arte e della letteratura è radicalmente caratteristica di una cultura storicamente determinata va oggi ribadito di fronte alle suggestioni provenienti, in particolare, dalle università nord-americane. In quegli ambienti, lo studio dei classici è minacciato da una persecutoria polemica moralistica, condotta in nome della “correttezza politica”, descritta molto bene nel romanzo tragico-grottesco di Philip Roth, La macchia umana. Per proteggere, in particolare, Dante da tali aggressioni, alcuni critici statunitensi ritengono di renderlo più “digeribile” alienandolo dalla morale del suo tempo, e presentandolo come tollerante verso l’omosessualità, verso gli ebrei o verso l’Islam; come “femminista”, portatore di tesi “rivoluzionarie”, “scomode” e “anticonformiste”, ovviamente rimosse e normalizzate dal conformismo cattolico e dal secolare commento. L’operazione è artificiosa, priva di fondamento filologico, antiscientifica e comunque di corto respiro.
I classici non si “difendono” evocandone una pretestuosa attualità, ma riconoscendone l’autentica e preziosa universalità.
Scrive Marx: «Non è difficile intendere che l’arte e l’epos dei Greci sono legati a certe forme dell’evoluzione sociale. Il problema è che per noi essi continuano a suscitare un godimento estetico [...] Un uomo non può tornare fanciullo, perché altrimenti diviene puerile. Ma non gode forse dell’ingenuità del fanciullo, e non deve esso stesso a riprodurre a un più alto livello la verità del fanciullo? E il carattere proprio di questa verità naturale non rivive forse in ogni epoca nella natura del fanciullo? E perché mai la fanciullezza storica dell’umanità, nel suo sviluppo più bello, non dovrebbe esercitare un eterno fascino come fase che più non ritorna?» (Introduzione alla critica dell’economia politica, 1857).
Nella prospettiva del materialismo, non c’è universalità fuori della storia, e non c’è nulla nella storia umana che non sia “universale”, ossia disponibile all’interesse e alla partecipazione di ogni intelletto umano, in qualsiasi tempo e luogo. Se «l’uomo è soprattutto creazione storica» (A. Gramsci, Socialismo e cultura, 1916), la conoscenza della storia altro non è che un viaggio nella nostra memoria profonda, alla scoperta di “come siamo diventati quello che siamo”. Ma perché questo “viaggio” non si risolva in un sogno ingannevole è indispensabile che i monumenti e i documenti del passato siano riconosciuti, per quanto è possibile, nella loro «verità effettuale»: ed è questo il compito della filologia.
Giorgio Inglese è ordinario di Letteratura italiana all’Università di Roma La Sapienza. E’ specialista di letteratura italiana medievale e moderna, e in particolare ha realizzato l’edizione del Principe di Machiavelli e ora, nel quadro della edizione nazionale, una nuova edizione della Commedia di Dante. Ha studiato con Alberto Asor Rosa e Gennaro Sasso e ha fatto parte dell’esperienza della rivista “Laboratorio Politico”. È stata appena pubblicato una sua raccolta di Studi danteschi per Carocci.
#Dantedi
#26marzo
CON IL #QUINTODELLINFERNO (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2758)
#Dante
si porta oltre l’orizzonte
della #caduta,
della #tragedia,
di #Edipo,
e
di #Costantino!
#DANTE2021, #STORIOGRAFIA. -#MEMORIA DI UNA #FENOMENOLOGIADELLOSPIRITO ITALICO-ROMANO (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5889#forum3161063).
Il fascismo e la #storia, oggi
INTERVISTA. “Il fascismo e la storia” a cura di Paola S. Salvatori *
Dott.ssa Paola S. Salvatori, Lei ha curato l’edizione degli Atti del Convegno dal titolo Il fascismo e la storia, pubblicati dalla Scuola Normale Superiore: quale considerazione ebbe delle discipline storiche il regime fascista?
A Pisa, presso la Scuola Normale Superiore, il 16 e il 17 febbraio del 2017 è stato organizzato il convegno intitolato Il fascismo e la storia i cui risultati vengono pubblicati nel volume che stiamo presentando: è stata l’occasione per riflettere - con colleghi esperti di diverse epoche - sulla complessità di un fenomeno non solo culturale ma anche politico e identitario i cui lasciti sono giunti fino a noi.
Durante il Ventennio, l’utopia della costruzione dell’uomo nuovo - con la sua proiezione anche nella dimensione del futuro - funzionò da pungolo per una storicizzazione estrema di tutti i campi della vita quotidiana e intellettuale del Paese: la storia fu utilizzata e manipolata nella sua prospettiva più diacronica, conducendo a un’interpretazione del passato onnicomprensiva. L’uso politico dell’analogia storica fu dunque uno dei principali strumenti utilizzati dal regime per fabbricare e alimentare il consenso: attraverso una propaganda capillare, la storia contribuì a dimostrare la necessità teleologica dell’avvento del fascismo. Con la rappresentazione della sostanziale unitarietà dell’intera vicenda italica - dai tempi più remoti a quelli presenti - si legittimò l’irruzione di Benito Mussolini nell’attualità, come fosse uno svelamento che perfezionava e portava a maturazione un processo altrimenti incompiuto. Lo stesso duce utilizzò con disinvoltura i riferimenti al passato nell’ambito di discorsi pubblici e di interventi scritti.
Va ricordato che già nei due decenni precedenti la Marcia su Roma, Mussolini nella sua attività giornalistica e politica aveva spesso rievocato personaggi ed eventi della Roma antica, della Rivoluzione francese o del Risorgimento, riflettendo sui conflitti politici e sociali a lui contemporanei con modalità e intenzioni ovviamente molto differenti rispetto a quanto sarebbe accaduto dopo il 28 ottobre del 1922: su questi aspetti ho ragionato negli anni passati, lavorando specificamente sull’uso della storia nella retorica del giovane Mussolini.
Con la presa del potere, il ricorso al passato seguì alcune traiettorie evolutive che avrebbero condotto alla predilezione di specifici temi e di particolari personaggi: così, si pianificarono liturgie pubbliche e politiche in occasione di date e di ricorrenze significative, si celebrarono figure assurte al rango di «precursori» del fascismo stesso, si isolarono specifici aspetti della storia italiana che più di altri si prestavano a una rilettura politica.
Quale approccio alla storia greca, antica e moderna, caratterizzò l’età fascista?
Dopo gli studi fondamentali di Andrea Giardina, negli ultimi vent’anni la centralità del mito di Roma nella propaganda del Ventennio è stata riconosciuta e analizzata nei suoi molteplici aspetti: è ormai indubbio che l’ideologia fascista trovò nella romanità il principale esempio a cui richiamarsi. Recentemente, la storiografia ha iniziato a occuparsi anche dell’uso di quelle che possiamo definire «altre antichità»: si può quindi confermare che nel vagheggiamento fascista di un passato archetipico nel quale riconoscere la propria origine e il proprio riferimento proiettivo, anche la storia greca e quella etrusca si scioglievano in un continuo confronto con l’antica Roma, che è sempre rimasta il vero modello interpretativo.
Quando il 28 ottobre del 1940 l’Italia iniziò la campagna bellica in Grecia, gli intellettuali - archeologi, antichisti, filologi - dovettero assumere in una nuova ricostruzione il debito culturale e filosofico che la civiltà romana aveva contratto secoli prima con quella greca: si ricorse così a un parziale ripensamento della storia della Grecia antica che sfumava naturalmente in una nuova valutazione di quella contemporanea, legittimando politicamente e teoricamente l’aggressione a un popolo civile in nome della difesa dell’antica romanitas.
In che modo il fascismo affrontò il problema degli etruschi?
Il rapporto con gli etruschi costituisce una vicenda più problematica rispetto a quanto accaduto con la Grecia antica: si è parlato di «imbarazzo» creato dalla storia etrusca nella cultura italiana, poiché a essa già prima del Ventennio si legavano riflessioni di medici e antropologi sull’origine mediterranea o ariana di quel popolo. Sul finire degli anni Trenta, quando la questione della razza esplose con le drammatiche conseguenze a tutti note, la presenza degli antichi etruschi nella propaganda e nella cultura si intrecciò ai tentativi di trovare una combinazione di elementi scientifici e culturali che giustificassero un «razzismo italiano» autonomo rispetto a quello nazista.
Che rapporto intercorreva, nella concezione fascista, tra romanità e modernità?
La visione fascista della storia nazionale era di lunghissimo periodo, più che bimillenaria, come gli anniversari delle nascite di illustri poeti ed eroi dell’antichità romana che, per una casualità convenientemente sfruttata dalla propaganda, caddero negli anni Trenta.
Nel 1930 fu infatti celebrato il bimillenario della nascita di Virgilio, nel 1935-’36 di Orazio, nel 1937-’38 di Augusto, con una moltiplicazione di occasioni utili e preziose per sovrapporre la rappresentazione del passato imperiale romano al presente fascista. L’antica Roma offriva il più straordinario accumulo di precedenti storici che si potesse avere: proponendo un modello concreto e astratto al tempo stesso poiché fondeva caratteristiche politiche, etiche e culturali prelevate dalla fase repubblicana e da quella imperiale, elaborava un idealtipo di passato nel quale l’eternità di Roma assumeva una dimensione mistica. Roma era infatti il bacino dal quale estrarre continuamente esempi di virtù guerriere e morali, di comportamenti patriottici, di eroi a cui ispirarsi e a cui aspirare. In questa visione, si appiattivano ovviamente le tante fasi della storia romana per far emergere il predominio di Roma anche sulle antiche provincie in una visione di lunghissimo periodo, funzionale a rimarcare il suo primato spirituale e politico su tutta la storia passata e presente.
Quale interpretazione prevalse nell’Italia fascista di Comune e Signoria?
Della storia medievale, nella propaganda popolare furono esaltati soprattutto aspetti che da tempo sono concordemente analizzati con categorie che richiamano una dimensione folklorica: furono organizzati - e a volte inventati - pali cittadini e giochi ambiziosamente medievali, che rivendicavano specifiche identità municipali; restaurati e ricostruiti edifici, palazzi e piazze secondo stili che riecheggiavano quelli tipici del medioevo; riesumati presunti valori che fondevano insieme la combattività romana con la spiritualità cristiana. -Nel dibattito storiografico, i temi attorno ai quali gli storici medievisti si confrontarono riguardavano principalmente problemi relativi all’assetto statuale. Si trattava di questioni di primaria importanza che evocavano la genesi dell’idea di Italianità, la controversia sulla delega del potere, il rapporto tra la monarchia sabauda e il popolo italiano, la contrapposizione del concetto di comune e di quello di signoria. Nello specifico, l’esperienza del comune fu valutata per i suoi lasciti culturali come vicenda fondativa della nazione italiana; la signoria fu invece apprezzata fortemente per aver anticipato la realizzazione di uno Stato inteso in senso moderno, oltre che per il conferimento dei poteri da parte del popolo.
Quale giudizio espresse il fascismo sulla Rivoluzione francese?
L’ideologia fascista era il risultato della convivenza di componenti politiche differenti e che tali rimasero per l’intero Ventennio: non fu una ideologia monolitica, così come non fu monolitica l’interpretazione di una vicenda storica complessa come quella della Rivoluzione francese. Si può schematicamente riassumere che, accanto a posizioni di ascendenza sindacalista-rivoluzionaria proposte per esempio da Roberto Farinacci che vedevano nella rivoluzione mussoliniana del 1922 il superamento dell’impasse scatenata dalla rivoluzione del 1789, ve ne furono altre di più spiccata matrice cattolico-reazionaria profondamente avverse all’esperienza rivoluzionaria francese, altre ancora di stampo nazionalista, e infine di impronta liberal-nazionale.
Certamente, durante il Ventennio la storia francese fu pure valorizzata nei suoi sbocchi più grandiosi e imperiali, cioè prevalentemente attraverso la mitizzazione della figura di Napoleone, in un implicito (non sappiamo quanto lucido) tentativo di risolvere l’annoso intreccio tra l’originaria cultura rivoluzionaria mussoliniana, l’evoluzione nazionalista e antisocialista espressa nei tanti rivoli del regime, e l’incancellabile eredità della Rivoluzione francese presente anche nella politica italiana ottocentesca.
Quale lettura diede del Risorgimento il fascismo?
Il fascismo sperimentò un duplice atteggiamento nei confronti della più recente storia nazionale, riconoscendo al Risorgimento da un lato il ruolo fondante di genesi della rivoluzione italiana, dall’altro una sostanziale incapacità di completare il processo di unificazione territoriale e politica, con una adesione particolarmente stringente alla figura di Giuseppe Mazzini. Egli non fu di certo l’unico protagonista dell’Unità d’Italia a essere esaltato e celebrato durante il Ventennio (è sufficiente solo accennare alle celebrazioni per il cinquantenario della morte di Giuseppe Garibaldi, nel 1932, con - tra l’altro - l’emissione di una corposa serie di francobolli, la pubblicazione dell’edizione nazionale dei suoi scritti, l’allestimento di una mostra storico-documentaria a Roma); ma in Mazzini si fondevano il tema nazionale e quello sociale, permettendo una adesione al suo pensiero pressoché unanime, pur con inevitabili distinzioni.
Come si pose il regime fascista nei confronti degli studi storico-religiosi?
La sacralizzazione della politica compiuta dal fascismo esigeva una inevitabile collaborazione anche con quelle discipline che si occupavano proprio delle dimensioni del sacro e del religioso: fu il regime fascista a istituire a Roma la prima cattedra universitaria di Storia delle religioni già nel 1923. Subito dopo la presa del potere, si volle di fatto ordinare gli insegnamenti universitari in campo storico attraverso una politica di assegnamento delle cattedre e di concorsi che proseguì ancora negli anni Trenta. Si raggiunse comunque un relativo equilibrio tra quelle strategie chiaramente politiche che furono alla base di assunzioni e nomine di commissioni, e le ragioni intellettuali che le comunità scientifiche seppero far affermare sul piano professionale.
Quale approccio caratterizzava i manuali di storia nella scuola fascista?
La proposta pedagogica del fascismo fu impostata già nella scuola, attraverso scelte editoriali e didattiche nelle quali si evocava una presupposta continuità storica assicurata dal valore al richiamo generazionale: la storia era presentata come un valore affettivo familiare, e in esso il legame tra Risorgimento e Prima guerra mondiale creava il terreno più fertile per la nuova educazione nazionale.
Quale rappresentazione dei soggetti storici si riscontra nelle opere artistiche dell’epoca?
Il ruolo educativo che lo Stato assunse con l’obiettivo di costruire un uomo nuovo trovò uno strumento indispensabile nei mezzi di comunicazione di massa. La storia e la politica erano messe alla prova della divulgazione moderna, e il regime fascista superò tale prova. Grazie al cinema, alle arti, al teatro e alla fotografia (ampiamente utilizzata nelle tante mostre storico-espositive organizzate negli anni Venti e Trenta) il fascismo indirizzava le masse facendole sentire al centro di un grandioso progetto collettivo: l’estetizzazione della politica attuata attraverso manifestazioni nazionali, parate, esposizioni e documentari apologetici costituiva non solo un mezzo propagandistico, ma anche l’unica possibilità di incanalare e controllare le ansie rivoluzionarie del popolo.
Il regime si trovò così a far convivere antichi linguaggi culturali e nuovi codici di rappresentazione estetica in una coesistenza di mezzi espressivi, riuscendo a superare il rischio di una inevitabile competizione tra di essi: è quanto accadde col teatro e col cinema, ai quali furono affidati momenti diversi del progetto educativo fascista. Nel primo confluirono aspettative legate a quel gusto del melodramma che il popolo italiano esprimeva ormai da secoli nella predilezione per specifici tipi di letteratura, di poesia, di arte.
Persino il duce fu co-autore di tre copioni teatrali insieme al celebre drammaturgo Giovacchino Forzano: si trattava di soggetti legati a tre illustri personaggi della storia passata (Giulio Cesare, Cavour e Napoleone), nei quali Mussolini e Forzano vollero impersonare quelle individualità storico-eroiche che parevano essere antesignane del duce stesso, oltre che esplicitare la cruciale questione del rapporto tra individuo e masse. Ma il teatro avrebbe potuto subire la rivalità della grande innovazione che il fascismo impose nel racconto degli avvenimenti passati e presenti, cioè del cinema di finzione e narrativo. Al contrario, la convivenza portò a esiti per vari aspetti significativi, in alcuni casi fondendo le due anime e i due linguaggi: proprio Forzano, per esempio, fu anche autore e regista cinematografico, tra i principali protagonisti dell’industria del cinema del Ventennio. La storia diventò soggetto privilegiato di questo mezzo espressivo, ancora una volta con funzione pedagogica: il ricorso all’aneddoto e a episodi specifici trasformava il racconto filmico quasi in un racconto scolastico, poiché il passato, nel regime fascista, legittimò sempre il presente.
Paola S. Salvatori, storica contemporaneista, è contrattista di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e docente a contratto presso l’Università degli Studi Roma Tre. Studiosa delle politiche culturali e propagandistiche del fascismo e delle retoriche celebrative dell’Italia repubblicana, ha scritto saggi sul mito fascista della romanità, sull’uso della storia nella retorica nazionalista e fascista, sul rapporto tra razzismo, propaganda e politica, e sul ruolo degli intellettuali nel Ventennio. Ha pubblicato inoltre la monografia Mussolini e la storia. Dal socialismo al fascismo. 1900-1922, Viella, Roma 2016, e ha curato i volumi Nazione e antinazione. Il movimento nazionalista dalla guerra di Libia al fascismo (1911-1923), Viella, Roma 2016, e Il fascismo e la storia, Edizioni della Normale, Pisa 2020.
La lezione universale del poeta
Dante: tutti possiamo (e dobbiamo) leggerlo.
La collana con il «Corriere». Da martedì 23 marzo la serie sull’Alighieri a 700 anni dalla morte: 18 volumi (anche i saggi dei maggiori studiosi) in collaborazione con Salerno Editrice. Qui la premessa
di Enrico Malato *
Jorge Luis Borges ha definito La Divina Commedia «il più bel libro della letteratura mondiale»; aggiungendo: «La Commedia è un libro che tutti dobbiamo leggere. Non farlo significa privarci del dono più grande che la letteratura possa offrirci». È uno dei tanti che hanno detto o scritto con entusiasmo di Dante e della sua opera. Altri, molti (e tra questi personaggi del calibro di Ernesto Giacomo Parodi, Erich Auerbach, Eugenio Montale, Gianfranco Contini), hanno parlato addirittura di «miracolo» dantesco, di «prodigio» della sua opera. Un maestro della ricerca storico-letteraria come Ernst Robert Curtius ha scritto: «La personalità di Dante sovrasta con la sua statura i secoli».
Siamo ormai al Settimo Centenario della sua morte, che è un’occasione di riflessione e di sintesi. Il coro dei consensi, spesso in toni entusiastici (a lungo, tra Otto e Novecento, si è addirittura parlato di «culto di Dante»), è universale. È il momento di riprendere, tutti, in mano l’opera di Dante, di rileggerla (o magari anche, qualcuno, leggerla), meditarla, perché è ancora e sempre una fonte dissetante come nessun’altra.
Un contributo durevole al rinnovamento e al progresso degli studi danteschi è stato messo in atto fin dai primi Anni 90 del Novecento dal Centro Pio Rajna, che, in stretta sinergia con la Casa di Dante in Roma, ha delineato e avviato a realizzazione un fitto programma di attività mirato ai Centenari: il 750enario della nascita di Dante, caduto sei anni or sono (1265-2015), il 700enario della morte, che viene a cadere quest’anno (1321-2021).
Tra le varie iniziative, soprattutto editoriali, spiccano la pubblicazione, tuttora in corso, della «Edizione Nazionale dei Commenti danteschi» e quella, pressoché compiuta, della «Nuova Edizione commentata delle opere di Dante (NECOD)», oltre a numerosi altri volumi di argomento dantesco.
A tale patrimonio, che si propone - può dirsi senza enfasi e con legittimo orgoglio - come il prodotto più avanzato della filologia e critica dantesca tra il XX e il XXI secolo, ha ritenuto di attingere il «Corriere della Sera» per portare il proprio contributo alle celebrazioni del Settecentenario. Tale che, offrendo ai suoi lettori un ricco e variato strumento di avvicinamento all’opera dantesca, sia anche garanzia della qualità dell’offerta. -Qualità nella presentazione dei testi, attentamente riveduti alla luce dei risultati più recenti della filologia dantesca italiana e internazionale (soprattutto, per questa, la Monarchia); con esiti talvolta di grande rilievo, particolarmente per La Divina Commedia: basti ricordare, a mero titolo d’esempio, le peccatrici che diventano pettatrici = «pettinatrici, cardatrici del lino», sulle sponde del ruscello simile al Bulicame di Viterbo (in Inf., XIV 80); il Monte Viso, tradizionalmente identificato nel Monviso, dove sono le fonti del Po, che diventa Monte Veso, nell’Appennino tosco-emiliano, da cui sgorga il fiume Montone che sfocia presso Forlì, citata nel testo (in Inf., XVI 95); le famigerate scalee/ che n’avea fatto iborni a scender pria (in Inf., XXVI 13-14), inteso come le scale che ci avevano resi «eburnei», pallidi come l’avorio, prima, nello scendere, rilette invece come le scalee/ che n’avean fatt’i borni a scender pria, nel senso di i borni, gli spuntoni di roccia, che prima, nello scendere, ci avevano offerto (quasi) una scalinata; e via dicendo, per centinaia di luoghi, migliaia con gli interventi minori.
Qualità, si diceva, del commento e della documentazione accessoria, che nella redazione della serie «I Diamanti», preferita per ragioni di spazio e per la ovvia necessità di rendere la proposta agevolmente accessibile al più vasto pubblico, resta pur nello spazio contratto guida sicura, essenziale ma non cursoria, per il pieno intendimento del dettato poetico: il quale nei passi più complessi, per esempio del Paradiso, è supportato da una parafrasi pressoché integrale del testo, che ne renda sempre pienamente comprensibile il senso letterale e ben illustrato quello allegorico e dottrinale, trovando ulteriore possibilità di ripresa nel Dizionario della Divina Commedia che integra l’edizione: con la duplice funzione di spazio illustrativo di questioni che lo richiedano, di raccordo interno, per richiami e recuperi a distanza, ma insieme strumento di ricerca, quasi piccola «enciclopedia dantesca» che consenta un rapido orientamento anche per il lettore meno esperto.
La serie si apre con il poema (i primi 3 volumi: Inferno, Purgatorio, Paradiso), cui segue il ricordato Dizionario (vol. 4 e 5): cinque unità che dovrebbero restare sempre congiunte, nell’uso, perché reciprocamente correlate. Vengono poi La Vita nuova e le Rime (vol. 6), il Convivio (vol. 7), le , in 2 volumi (8, De vulgari eloquentia, Monarchia; 9, Epistole, Ecloge, Questio de aqua et terra), con i quali è conclusa la serie delle opere di Dante.
A questo punto si inserisce una selezione di volumi di diversi autori, italiani e stranieri (Alison Morgan, Rocco Montano, Manfred Hardt, Manlio Pastore Stocchi, Nicolò Maldina) -, ritenuti utili per un verso ad approfondire punti particolari della problematica dantesca di più generale interesse, per l’altro a fornire un saggio originale della moderna critica dell’opera di Dante.
Chiudono la serie tre volumi di chi scrive, riscontro epilogativo dei cinque iniziali: Dante e Guido Cavalcanti, punto d’arrivo di un lungo percorso e prima provvisoria tappa della ricerca che ha portato a schiudere le «Nuove prospettive degli studi danteschi» trattate nel volume stesso; sette Letture dantesche di altrettanti cruciali canti de La Divina Commedia, primi esperimenti di un nuovo «modo» di lettura e insieme sondaggi del «nuovo commento» del poema quale ora si propone; infine quel Dante «monografico» che è stato concepito come tentativo di messa a fuoco di un personaggio e un contesto storico la cui conoscenza è da ritenere premessa imprescindibile per un utile approccio all’opera dantesca.
Nella presunzione che non si possa capire la poesia di Dante se non sullo sfondo di un itinerario biografico e intellettuale che la determina e la condiziona: al là del piacere in sé che possa dare la lettura del profilo non cursorio di un personaggio come il nostro poeta, che - vale la pena di ripetere il giudizio di Curtius - si presenta al mondo con una «personalità» che «sovrasta con la sua statura i secoli».
In questo «pacchetto» articolato e vario, calibrato con grande attenzione dai sagaci operatori del «Corriere della Sera» in relazione alla destinazione che ne è prevista, il lettore più esperto, come il meno esperto, si muoveranno con pari agilità anche se con prevedibile diverso atteggiamento.
Ognuno, se sarà pervenuto ad avere questi libri tra le mani, mosso dunque da un interesse di fondo ravvivato dalla ricorrenza centenaria, ritroverà forse le antiche emozioni di quando, nelle prime letture scolastiche, avrà iniziato a leggere (e i più anziani, come al bel tempo antico usava, mandare a memoria: to learn by heart, dicono gli inglesi) i versi iniziali e più popolari: «Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura,/ ché la diritta via era smarrita . . .». Oppure: «Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio bianco per antico pelo,/ gridando: “Guai a voi anime prave . . .”»: il demonio Caronte, che compare improvviso e atterrisce (con i lettori alla prima lettura) i dannati sulla sponda dell’Acheronte, nel canto III dell’Inferno. Oppure, nel canto V di Francesca, la confessione del cedimento all’amore: «Noi leggiavamo un giorno per diletto/ di Lancialotto, come amor lo strinse». Leggono insieme, lei e Paolo, il romanzo cavalleresco di Lancillotto del Lago, immedesimandosi entrambi nella vicenda amorosa del cavaliere e della regina Ginevra. Si guardano, impallidiscono; poi, «Quando leggemmo il disïato riso/ esser baciato da cotanto amante,/ questi, che mai da me non fia diviso,/ la bocca mi baciò tutto tremante . . .».
Quanti altri luoghi? All’inizio del Purgatorio: «Dolce color d’orïental zaffiro,/ che s’accoglieva nel sereno aspetto/ del mezzo, puro infino al primo giro . . .». Oppure, nel canto VIII: «Era già l’ora che volge il disio/ ai navicanti e intenerisce il core,/ lo dì c’han detto ai dolci amici addio;/ e che lo novo peregrin d’amore/ punge, se ode la squilla di lontano/ che paia il giorno pianger che si more . . .».
O ancora, nel Paradiso, la emozionante percezione di Dio, punto d’arrivo dello sforzo di conoscenza che è il fine esistenziale dell’uomo, già ricordato da Ulisse, nel XXVI dell’Inferno, ai suoi stanchi compagni profughi da Troia: «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza». Riflettete sulla vostra natura di uomini, appartenenti alla specie «uomo», l’unico animale fornito di ragione, che lo distingue, aveva avvertito nel Convivio, dagli animali bruti. L’impegno per la conoscenza, la conquista della verità, è la forza interna che muove l’uomo e dà ragione al suo vivere, mirato alla conquista di quel «vero in che si queta ogne intelletto», quella verità assoluta che è supremo appagamento dell’ansia dell’esistere: Dio stesso, che si esprime come «luce intellettüal piena d’amore,/ amor di vero ben, pien di letizia,/ letizia in che trascende ogne dolzore».
È il messaggio fondamentale che il poeta trasmette ai suoi lettori, intorno al quale da secoli si gira e trova ora una risolutiva definizione. La nuova lettura del poema ha portato alla luce venature profonde rimaste a lungo occultate, altre sollecitazioni, altre suggestioni prima sfuggite o fraintese che lo muovono e ne mettono in luce un respiro nuovo, più ampio e coinvolgente, plausibile ragione prima della sua popolarità intramontabile.
Semplificando al massimo, si potrà dire che La Divina Commedia, capolavoro riconosciuto della letteratura universale, si scopre nel disegno dell’autore concepita come non opera letteraria fine a sé stessa, ma costruzione complessa mirata a inviare un messaggio salvifico, di orientamento e di riscatto, all’umanità smarrita e travolta dalle turbolenze del mondo: il mondo, s’intende, del tempo di Dante, che però sotto questo aspetto in poco o nulla è cambiato (se non in peggio) dopo di lui, così che non è perduta la validità di quel messaggio.
Scopo di Dante è ridare all’uomo consapevolezza di sé, animale fornito di ragione, raccomandando che questa sia a lui guida nella vita. Di qui una complessa elaborazione ideologica che assume a fondamento i principî basilari del credo cristiano: gli uomini nascono e sono liberi, uguali, fratelli. Sono quei principî che, è appena il caso di rilevarlo, ammessi alla libera circolazione con l’editto di Costantino dell’anno 313 dell’era volgare, dopo aver scosso le fondamenta delle società del mondo antico - e dell’Impero romano, che tentò invano di esorcizzarne gli esiti attraverso le persecuzioni dei cristiani -, approdarono un millennio più tardi alla cultura dell’Umanesimo; e, fatti propri dalla Rivoluzione francese nel motto: «Liberté, Égalité, Fraternité», sono diventati, nell’art. 1 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, la base (almeno teorica) della convivenza civile nell’età moderna.
Dante non poteva naturalmente immaginare questo seguito, ma sente di quei principî la forza immediata, perentoria, irriducibile, che tenta di illustrare e riaffermare nel poema. La libertà è un diritto inalienabile e incomprimibile dell’uomo, che trova un solo limite nei medesimi diritti degli altri uomini, con implicito divieto di atti comunque lesivi di questi. Tale limite, avverte, deve l’uomo ritrovare in sé stesso, nella costante vigile consapevolezza della propria umanità attraverso l’uso della ragione: «Uomini siate, e non pecore matte», dirà (Par., V 80) in un rinnovato estremo messaggio, dopo l’esortazione di Ulisse ai compagni.
La Divina Commedia si configura in definitiva come una grande lezione di umanità e severa ammonizione per chi la tradisce. Che nella forma poetica grandiosa e nella strategia espositiva dell’exemplum - la dimostrazione data attraverso l’ «esempio» di ciò che accade a chi o non riesce ad adeguarsi a quei principî, o consapevolmente li rifiuta, oppure li fa propri e vi si adegua -, trova la sua forza, il suo indelebile fascino, la sua perenne attualità.
La collana in edicola
Esce martedì 23 il primo volume della collana «Dante», La Divina Commedia. Inferno (edizione con testo aggiornato). L’iniziativa, in collaborazione con Salerno Editrice, raccoglie 18 volumi (euro 7,90 più il costo del «Corriere») con opere dell’Alighieri e i saggi dei maggiori studiosi dedicati al poeta. Seguono: Purgatorio (30 marzo) e Paradiso (6 aprile; a cura di Malato).
Il Dantedì
Giovedì 25 marzo si celebra la prima edizione del Dantedì. La giornata dedicata all’Alighieri è nata sulle pagine del «Corriere» nel 2017 da un’idea del giornalista Paolo Di Stefano (il nome è stato coniato con Francesco Sabatini, presidente onorario della Crusca). La Giornata è stata poi istituita nel 2020 dal governo su proposta del ministro Dario Franceschini. Lo stesso anno, durante il lockdown di primavera, si è tenuta l’«edizione zero» del Dantedì a cui hanno partecipato, da remoto, scuole e studenti di tutta Italia. Ora, in occasione della prima edizione della Giornata e del 700° anniversario della morte del poeta, è in libreria Dantedì. Visioni contemporanee del poeta (pp. 115, e 15), edito dalla Fondazione Corriere e da «la Lettura», a cura della Redazione Cultura del «Corriere». Il volume è realizzato con il contributo di noti visual designer che hanno creato 25 Cartoline per Dante (progetto ideato da Franco Achilli) e dell’art director del «Corriere», Bruno Delfino. Il libro, con testi di Franco Achilli, Alberto Casadei, Paolo Di Stefano e Arturo Carlo Quintavalle, è acquistabile nelle Librerie.coop. (j. ch.)
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Controparola/
Donne al futuro
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 20 marzo 2021)
Da quando ho scoperto che nella grammatica esistono termini marcati e termini non marcati - me li ha spiegati un illustre linguista amico di tastiera - non dico che non dormo di notte ma quasi. I termini non marcatI, se ho capito bene, sono dominanti e includenti: per esempio il termine «giorno», che comprende il giorno e la notte; notte invece è un termine marcato, giacché designa soltanto il tempo dell’oscurità. Non marcato è uomo (ci avviciniamo al tema) in quanto comprende se stesso e anche la donna, la quale invece, guardacaso, è marcata quale «soltanto» donna.
Dovevo ripensare a questa disparità grammaticale nel leggere Donne al futuro, raccolta di saggi di donne che parlano «soltanto» di altre donne, uscito per il Mulino a cura delle amiche di Controparola. Si tratta di un gruppo di scrittrici e giornaliste, nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini, che ha pubblicato diversi libri sulle donne tra i quali Donne del Risorgimento, Donne nella Grande Guerra, nella Repubblica, nel Sessantotto e ora al futuro. Sono Paola Cioni, Eliana Di Caro, Paola Gaglianone, Dina Lauricella, Lia Levi, Dacia Maraini, Cristiana Palazzoni, Maria Serena Palieri, Valeria Papitto, Linda Laura Sabbadini, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Mirella Serri, cui si deve Donne al futuro (il Mulino, Bologna 2021). Sempre e soltanto donne. O donne sole, si potrebbe anche dire, che è un’espressione un po’ deprimente ma anche molto divertente, a leggerla con ironia, e con la quale si intendono donne in compagnia di altre donne ma non di uomini. Mentre la dicitura per soli uomini sta per luoghi e/o attività in cui le donne non possono entrare e a cui non devono partecipare (e così è intitolata l’eccellente analisi statistica Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, appena pubblicata da Codice Edizioni e condotta dalla giornalista Emanuela Griglié e del collega Guido Romeo).
Le donne al futuro di questo libro, soltanto donne marcate nella loro donnità, sono di fatto figure straordinarie, proiettate, come dice il titolo, al futuro o declinate al futuro, visto che siamo partiti dalla grammatica (che innocentemente mi costringe qui a scrivere al maschile benché io sia donna che scrive di donne che scrivono di donne. La lingua sarà anche colpevole ma non nel modo semplificato e a tratti oltraggioso che le attribuiscono le interpretazioni corrive, come spiega puntualmente l’amico linguista il cui nome adesso svelo, Nunzio La Fauci, ma la dice lunga). Donne giovani che lavorano per fabbricare il futuro con l’arte e la musica, l’architettura e l’astrofisica; con l’impegno civile e umanitario (donnitario?), con la ricerca medica, l’economia, la pratica sportiva e l’insegnamento.
Le elenco qui tutte in fila in ordine alfabetico: Alice Pasquini (AliCè), Paola Antonelli, Marica Branchesi, Francesca Bria, Ilaria Capua, Silvia Colasanti, Ilaria Cucchi, Emma Dante, Sara Gama, Rita Giaretta, Giuseppina Multari, Eliana La Ferrara, Laila Abi Ahmed e Isabella Mancini, Barbara Riccardi, Fulvia Signani e le altre, Beatrice Vio. Un ricordo è dedicato alla cittadina del mondo Agitu Ideo Gudeta, uccisa nel dicembre scorso in Trentino, dove si era trasferita e portava avanti la sua attività di imprenditrice.
Non potendo parlare di tutte ho scelto di citarne una sola, l’unica tra l’altro che mi era del tutto ignota, lo confesso e chiedo venia: Sara Gama. Sara Gama, classe 1989, madre triestina e padre congolese, capitana della Nazionale azzurra femminile di calcio nonché vicepresidente dell’Assocalciatori (termine non marcato che comprende anche le calciatrici mentre le calciatrici, marcate dall’essere soltanto donne, non comprendono i calciatori).
Sara Gama, ho scoperto, non soltanto gioca al calcio femminile da quando era una bambinetta ma rivendica anche, per quel calcio di donne, assicurazione sanitaria, previdenze, stipendio e soprattutto dignità. Studentessa liceale, studentessa universitaria - sulla storia del calcio femminile in Europa ha anche scritto la tesi - Sara Gama, che nell’immagine di copertina sembra, coi suoi bei capelli ricci, l’Italia turrita, nel discorso del 4 luglio 2019 al Quirinale, di fronte al presidente Mattarella, ha ricordato l’articolo 3 della Costituzione che sancisce la dignità di tutti i cittadini «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
E questo grazie alle donne della Costituzione, le madri costituient, che contro l’opinione di alcuni padri della costituzione insistettero affinché nell’art. 3 venisse inserita la specificazione «di sesso», perché senza quella la conquista della parità sarebbe stata ancor più difficile di quanto già lo sia.
LA POCA SAGGEZZA DELLA FILOSOFIA, I “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO DI DANTE E LA PRESENTE STORICA CRISI DELLA CULTURA EUROPEA...
CONSIDERATO CHE UN FILOSOFO, "Anche quando sbaglia di grosso, se è un vero filosofo sbaglia con argomenti non banali, fino al punto che, grazie a lui, l’errore brilla della luce convincente della verità" (cf. S. Benvenuto, op. cit.), E VISTO CHE EGLI HA MESSO IL DITO NELLA PIEGA (e nella piaga) della storia della filosofia, nel gioco sofistico di Socrate: «Malgrado lo slogan “so di non sapere”, tutti ci rendiamo conto che Socrate in realtà sapeva tante cose. Ma il suo sapere squisitamente filosofico era proprio quello di non sapere, ovvero, il suo appello all’epistheme come “ricominciare tutto daccapo”» (op.cit. ), VISTO IL PERSISTERE E , AL CONTEMPO, L’ESAURIRSI DELLA "GRANDE INSTAURAZIONE" ANTROPOLOGICA ED EPISTEMOLOGICA apollinea-socratica (su questo, si cfr. la grande analisi di Nietzsche!), forse, è bene e salutare riprendere alla radice (Marx!) la questione e, riaccogliendo l’indicazione di Sofocle, ripensare le «perversioni» di tremila e più anni (come sapeva Dante, meglio di Goethe), rileggere il cap. 15 del manuale di "Anatomia" (Roma, 1560) di Giovani Valverde, e ripensare l’«edipo completo», come voleva Freud e Fachinelli. Altro che continuare a menare la canna per l’aria. O no?!
COME NASCONO I BAMBINI? LA “RISPOSTA” DELLA TRADIZIONE CATTOLICA NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA... *
SOLLECITANDO CON QUESTA “RIPRESA” UNA LODEVOLE E RINNOVATA ATTENZIONE AL TEMA DELLA “ANNUNCIAZIONE” NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA E RICORDANDO CHE L’EVENTO “rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione [...] il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo”, e, che “Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante”, FORSE, è UTILE riconsiderare come nel “corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema” E ANCORA, se si vuole, cominciare a riesaminare con attenzione proprio il “mosaico dell’Annunciazione” di Pietro Cavallini (del 1291 - vedi, sopra: la seconda figura dell’articolo) e, poi, proseguire con le opere specifiche degli artisti “fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele” - e osservare con attenzione, IN PARTICOLARE, l’immagine del pannello centrale della “ANNUNCIAZIONE” (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin#/media/File:Robert_Campin_011.jpg) del “Trittico di Mérode” (1427) di Robert Campin (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin).
Proseguendo e, non dimenticando di riflettere anche sulla rilevanza per gli artisti del lavoro del cardinale Gabriele Paleotti sulle immagini sacre (“Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, del 1582), è opportuno arrivare all’attuale presente storico (il prossimo 25 marzo è anche il giorno della prima Giornata dedicata all’opera e alla memoria di Dante - il “Dantedì”) e ricordare quanto “poco fa”, proprio all’inizio del Terzo Millennio dopo Cristo, il CARDINALE CASTRILLON HOYOS (proprio come un artista del 1200 o del 1400) dichiarò alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” ("la Repubblica" del 17 novembre 2000, p. 35).
Forse, in questo “Anno speciale di San Giuseppe” indetto da papa Francesco (cfr. “DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” .. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-262319), sarà possibile sapere come nascono i bambini e le bambine e sarà possibile avere un’altra rappresentazione artistica della nostra stessa nascita?! Con Dante, non c’è affatto da dubitare: “L’amore muove il sole e le altre stelle” - e anche la Terra!
Buon lavoro...
*
#FILOLOGIA e #ARCHEOLOGIA. L’Uomo-#Sapienza di #Ruysbroec ("nel cuore di ogni uomo un #Ecco, cioè #Vedi, guarda"), il corteo "andrologico" dei #Magi (https://it.wikipedia.org/wiki/Cappella_dei_Magi), e l’«uomo» di #PonzioPilato («#Eccehomo»: gr. «idou ho #anthropos»), oggi... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195 ...
in dialogo con il testo di Giorgiomaria Cornelio, Verumtamen in imagine pertransit homo, "Nazione Indiana".
FLS
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
L’analisi.
Il mercato delle donne-donate tra eredità e prezzo sociale
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 27 febbraio 2021)
Il mercato delle doti è tra i fenomeni economici e sociali più rilevanti tra Medioevo e Modernità, che ci fa intuire l’alto prezzo pagato dalle donne, vittime sacrificali immolate sull’altare della società mercantile. La dote era la porzione di eredità paterna che una figlia riceveva al momento del matrimonio. Una volta ottenuta la sua dote, una donna non aveva più diritti sui beni della famiglia di origine. Quindi la dote era il prezzo per escludere le figlie dall’eredità paterna, stabilendo una linea successoria tutta maschile.
Il sistema della dote come estromissione delle donne dall’eredità viene stabilito dagli statuti cittadini italiani già nel Duecento, e il suo peso crebbe insieme alla ricchezza delle nuove famiglie di mercanti. Maritare le figlie divenne per le casate patrizie un problema sempre più serio, al punto che Dante rimpiangeva la Firenze pre-mercantile del suo avo Cacciaguida, quando «non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre» (Pd XV, 103). Qui Dante racchiude in un solo verso l’essenza del fenomeno della dote nella sua Firenze, dove l’arrivo di una bambina era un futuro costo per i genitori. La discriminazione delle donne è sempre iniziata sul volto di donne, le levatrici, che dovevano dare la triste notizia a un’altra donna che aveva appena generato una femmina - esperienze e dolori che, grazie a Dio, non capiamo più e abbiamo dimenticato. Il celibato per i maschi era come un segno di nobiltà, il nubilato "civile" delle donne era invece socialmente stigmatizzato e scoraggiato.
Dalla fine del Trecento inizia in Italia un’inflazione di quello che era diventato il "prezzo delle figlie" per la nuova aristocrazia: a Venezia dagli 800 ducati di fine Trecento si passò ai 2.000 di inizio Cinquecento, e a Roma nel corso del Cinquecento le doti passarono da 1.400 a 4.500 scudi (Mauro Carboni, Le doti della "povertà", p.30). Un’inflazione dovuta soprattutto alla competizione posizionale tra famiglie ricche, che usavano le figlie come bene di status, in una dinamica oggi nota come "Dilemma del prigioniero", dove l’aumento del prezzo delle doti non avvantaggiava nessuno dei "competitori" - tranne, in alcuni casi, le mogli che videro crescere il loro peso economico all’interno della famiglia del marito.
Con il Rinascimento, poi, tra le famiglie patrizie italiane riprese piede l’istituto romano del fedecommesso, nelle sue varianti del "maggiorasco" e della "primogenitura". Le eredità venivano cioè lasciate interamente a un solo erede maschio, in genere il primogenito, il "maggiore". Ciò consentiva la conservazione dei patrimoni, che se frammentati tra molti eredi rischiavano di disperdersi.
Questa "innovazione" produsse però due grandi effetti collaterali. I figli maschi cadetti (cioè tutti tranne il primo) vennero via via scoraggiati dalle loro famiglie a sposarsi, tanto che nel secolo XVIII a questi figli era di fatto preclusa qualunque possibilità di contrarre matrimonio, e le due carriere che restavano loro erano quella militare e quella ecclesiastica. Il secondo effetto riguardava la sorte delle ricche figlie. La scarsità di maschi di pari grado faceva sì che la domanda di mariti eccedesse di gran lunga l’offerta. Ma se un padre patrizio dava sua figlia in sposa a un non-patrizio avrebbe disperso la sua dote e compromesso il buon nome della casata. Il "bene comune" della famiglia era anche qui troppo più importante del bene dei singoli individui, soprattutto di quello delle donne. Che fare allora?
Innanzitutto, le famiglie dovevano, quasi a ogni costo, dotare le figlie. Ecco allora che nel 1425 il Comune di Firenze creò un fondo per le ragazze "non dotate" (senza dote): il Monte delle doti. A questo fecero seguito molte altre istituzioni simili, tra cui il "Monte dei maritaggi" di Napoli (1578) e il "Monte del matrimonio" di Bologna (1583). Erano, a un tempo, istituzioni di credito e istituzioni di beneficenza, perché oltre a garantire interessi sui depositi gestivano anche lasciti e donazioni, private e pubbliche, a vantaggio di ragazze senza dote o con doti insufficienti. A Firenze, tra il 1425 e il 1569, circa 30.000 ragazze furono iscritte al Monte delle doti. Il primo fiorentino che usufruì del Monte, Federigo di Benedetto di Como, depositò per sua figlia Diamante 200 fiorini; quando Diamante si sposò nel 1440 il fondo dotale che liquidò era diventato di 1.000 fiorini - e come non pensare alla fatica dei Francescani per far accettare alla Chiesa il pagamento del 5% annuo nei loro Monti di Pietà!? Le famiglie che troviamo iscritte sui registri del Monte sono soprattutto le famiglie dei ricchi mercanti di Firenze - Acciauoli, Pazzi, Rucellai, Medici, Bardi, Strozzi -, che chiaramente ricorrevano al Monte per far fruttare meglio i propri investimenti. La metà delle ragazze ricche di Firenze aveva un titolo (un "libretto") al Monte, e questo non stupisce. Sorprende invece vedere molte figlie di artigiani modesti (per esempio, i padrenostrai) titolari di un conto. Un genitore con modesta ricchezza e povere origini faceva il possibile e l’impossibile per ottenere un conto dotale per sua figlia, perché sapeva che quel libretto poteva essere l’unica chance per darle un futuro migliore (Anthony Molho e Paola Pescarmona, «Investimenti nel Monte delle doti di Firenze», Quaderni storici, 21).
La nobildonna Alessandra Macinghi negli Strozzi così scriveva riguardo le prossime nozze di sua figlia Caterina: «Gli dò di dota fiorini mille; cioè cinquecento che ella ha da avere nel 1448 dal Monte [delle doti]; e gli altri cinquecento chi ho a dare, tra danari e donora [corredo], quando ne va a marito». E quindi aggiunge: «Però chi to’ donna [tòrre donna: prende moglie] vuol denari, e non trovavo chi volesse aspettare d’avere la dota fino nel 1448, e parte nel 1450: sicché dandogl’io questi cinquecento tra denari e donora, toccheranno a me, se ella viverà, quegli del 1450» (Lettere di una gentildonna fiorentina<, 1877, p.4). La liquidazione anticipata delle dote era infatti un rischio, perché in caso di morte dell’intestataria la somma restituita dal Monte si riduceva di molto.
Il valore economico della dote della sposa era dunque un indicatore del valore sociale della donna. La dote restava, formalmente, proprietà della moglie ma amministrata dal marito, e tornava in possesso della donna in caso di vedovanza. Una donna senza dote, perché la famiglia si era impoverita o caduta in disgrazia, era considerata "pericolante" ed esposta al vizio. Ecco allora la nascita di molte istituzioni di assistenza per donne senza dote, spesso intitolate a Maria Maddalena, per giovanette e/o per il recupero di donne cadute in peccato (per esempio, prostitute). "Conservatori" e "reclusori" che, mentre trattenevano in clausura forzata le donne a rischio, raccoglievano donazioni per garantire loro la dote al momento del fidanzamento - che avveniva per "tocco della mano" della donna di fronte a testimoni - o dell’entrata in convento (Luisa Ciammitti, «Quanto costa essere normali. La dote nel conservatorio femminile di Santa Maria del Baraccano (1630-1680)», Quaderni storici, 18).
Esiste, infatti, uno stretto rapporto tra il mercato delle doti e la vita religiosa. Cosa "fare" delle figlie che non si riusciva a "piazzare" nel mercato dei matrimoni? Rassegnarsi a un marito di rango sociale ed economico inferiore era un’umiliazione e un "costo" troppo alto che le famiglie patrizie non erano disposte ad accettare. Ecco allora che monasteri e conventi offrirono una soluzione.
Per le ricche famiglie la claustrazione di una figlia divenne la via maestra per «eliminare dal mercato matrimoniale le donne in eccesso collocandole in convento, rendendole istituzionalmente sterili» (Susanna Mantioni, Monacazioni forzate e forme di resistenza al patriarcalismo nella Venezia della Controriforma, 2013). Se un capitale troppo prezioso (una figlia aristocratica) non può essere allocato adeguatamente sul mercato deve essere distrutto con la monacazione. Perché è preferibile distruggere che svendere un asset così prezioso, poiché la sua svendita a una famiglia inadeguata avrebbe iniziato una decadenza sociale cumulativa dai costi imprevedibili. L’eliminazione tramite la clausura risultava la soluzione migliore. E poi il sacrificio di alcune figlie patrizie collocate in convento consentiva i convenienti matrimoni delle loro sorelle più fortunate.
Anche perché la dote monastica, o dote spirituale, era molto più economica di quella matrimoniale (fino a venti volte meno). Si spiega così sia la moltiplicazione dei conventi e monasteri femminile dopo il Quattrocento, e perché la quasi totalità delle monache e suore in età moderna provenissero da famiglie nobili o alto-borghesi, e perché più delle metà delle figlie di famiglie patrizie diventavano suore o monache.
Ma c’è di più. Le famiglie più ricche facevano costruire per la figlia celle private, dei veri e propri appartamenti all’interno dei monasteri, che restavano in uso esclusivo della monaca per tutta la sua vita. Queste monache gestivano spesso in proprio la dote, insieme a rendite su capitali di loro proprietà. Il che mette in luce un complesso rapporto tra vita comune, proprietà privata e uso simbolico dello spazio personale dentro i monasteri della prima età moderna (Silvia Evangelisti, «L’uso e la trasmissione delle celle nel monastero di S. Giulia di Brescia», Quaderni Storici, 30).
Bastano questi cenni per capire cosa significò la riforma della vita religiosa femminile di Teresa D’Avila.
Un’ultima considerazione. È molto significativo l’uso del registro semantico del dono per simili operazioni. Diceva riguardo le monache Giovanni Tiepolo, patriarca di Venezia: «Facendo della propria libertà un dono non solo a Dio, ma anco alla Patria, al Mondo, et alli loro più stretti parenti» (inizio del ’600).
Ma quale dono era in gioco, per quelle figlie che non sceglievano quale vita vivere? Innanzitutto era il dono del padre, non il loro dono. Era il dono che la famiglia e la società chiedeva a quelle donne per salvare l’ordine sociale e la casata. Era il dono simile a quello dei potlach delle isole del Pacifico studiati da Marcel Mauss (1925), dove il "dono" non aveva nulla di gratuità, ma era solo il linguaggio del potere politico e commerciale, che arriva fino alla distruzione dell’oggetto donato (potlach dissipativi), pur di affermare la propria superiorità.
Soltanto gli angeli conoscono il dolore di queste donne-donate, prezzi pagati alla società che stava nascendo. Oceani di sofferenza femminile, nei monasteri e dentro le case. Sono state queste lacrime la prima acqua con cui abbiamo impastato l’edificio della città moderna.
La sola, piccola, parziale ma non vana consolazione che ci resta è pensare che alcune, forse molte, di quelle suore e monache saranno state più grandi del loro destino. Come il loro "sposo" si sono ritrovate, senza volerlo, anch’esse inchiodate su una croce, e lì alcune hanno deciso di vivere quel dolore innocente e non scelto come dono, un dono diverso e finalmente libero. E qualche volta sono risorte. Se oggi molte donne possono vivere la loro vita nei conventi e nei monasteri come vero dono e come vera libertà, dietro questi doni e queste libertà ci sono anche quelle antiche resurrezioni.
***
Teologia.
La Chiesa superstite, profezia sul domani
Il biblista Walter Vogels indaga la questione del “resto” come unità residuale che sembra indicare il declino, ma in realtà può annunciare una rinascita
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 19 febbraio 2021)
L’esilio babilonese: James Tissot, “ La deportazione dei prigionieri” - WikiCommons
Resto. Oggi viene da pensare al popolo dell’Artsakh, violentemente aggredito da turchi e azeri e costretto a rifugiarsi in Armenia, abbandonando case e campi, oltre che chiese e monasteri testimonianze di una civiltà millenaria.
Nelle culture precristiane, il concetto di ’resto’ fu applicato a quel che rimaneva di una popolazione dopo una guerra o un disastro naturale e, come noto, la Bibbia abbonda di citazioni relative al popolo di Israele. In particolare, dopo la serie di crudeli invasioni e deportazioni da parte di Assiri e Babilonesi. Nell’Antichità infatti, al termine di un conflitto, i vincitori si abbandonavano alla distruzione quasi totale degli avversari, a cominciare dai loro leader, ma anche delle fonti di vita, dei villaggi e delle vigne.
Un’esperienza verificatasi più volte, dai Sumeri agli Ittiti, dagli Assiri agli Egizi. Eppure, nonostante questa sistematica opera di annientamento dei vinti, qualche sopravvissuto rimaneva sempre. E in alcune circostanze, dopo anni o decenni la vita poteva riprendere. È il caso appunto di Israele, che riuscì a risorgere dopo periodi di cattività a Babilonia. «Racimolate, racimolate come una vigna il resto d’Israele», scrive Geremia dopo l’invasione babilonese che portò, nel 586 a.C., alla distruzione di Gerusalemme.
In realtà, il primo a parlare di ’resto’ era stato Amos, considerato anche il primo profeta-scrittore. Molto severo verso gli israeliti che avevano abbandonato il Signore, egli preannuncia la distruzione del regno del Nord da parte degli Assiri, che si verificherà nel 721 a.C., ma esprime pure la speranza che «forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe ».
La nozione di ’resto’ si affaccia la prima volta dunque, come accennato, in un contesto di guerra. È noto che gli Assiri erano particolarmente feroci, puntavano ad schiacciare completamente i popoli conquistati e, nei loro rapporti ufficiali, i re rimarcavano come ’il resto’ fosse stato catturato, ucciso o deportato, in modo che i vinti non potessero ribellarsi in futuro. Però, v’era sempre un ’resto’ che era riuscito a fuggire nel deserto.
Gli Assiri dovettero accontentarsi di prendere la Samaria ma non giunsero sino a Gerusalemme, cosa che si verificò invece anni dopo con Nabucodonor, prima nel 597 e poi nel 586, quando il tempio venne distrutto dalla foga dei Babilonesi, e infine in un’ultima deportazione voluta da Nabuzaradan, nel 582. In queste circostanze, vari profeti, da Isaia a Sofonia e Geremia, lamentarono la sorte del resto d’Israele. Dice Isaia: «Da Gerusalemme uscirà un resto, dal monte di Sion un residuo». E Geremia auspica che il suo popolo si lasci sottomettere dai Babilonesi per sopravvivere.
Così Ezechiele, che vede una speranza e un futuro possibile per il popolo di Dio anche nell’esilio. Sarà Ciro, re di Persia, nel 538 a.C., a ridare la possibilità al resto d’Israele di tornare nella sua patria. Così finì il periodo di castigo e purificazione. Nella Bibbia il riferimento al resto è legato anche a circostanze diverse, come il diluvio di Noè o l’incendio di Sodoma (probabilmente conseguenza di un terremoto), ma tutti questi disastri sono dovuti al peccato d’Israele, cui Dio dà però sempre la possibilità di risollevarsi.
È a partire dall’esame accurato di questo tema biblico che attraversa tutte le Scritture che il biblista e teologo Walter Vogels, docente emerito di Antico Testamento all’Università Saint-Paul di Ottawa, nel suo libro Il piccolo resto nella Bibbia (Queriniana, pagine 144, euro 16,00) finisce per applicarlo al declino attuale della Chiesa: «E se la manciata di fedeli pronti a mantenere viva la fede in Cristo svolgesse oggi la stessa missione dei superstiti dell’Antico Testamento».
È sotto gli occhi di tutti il calo enorme non solo nella frequenza alle cerimonie religiose, ancor più evidente in questo periodo di pandemia, tanto che risulta ben difficile parlare ancora di ’Europa cristiana’. Anche secondo le indagini recenti, meno della metà delle persone che vivono nel Vecchio Continente si dice credente o religiosa e i cristiani si collocano ormai fra il 20 e il 30 per cento.
Diversa la situazione nel resto del mondo, in particolare in America, Asia e Africa, dove semmai il cristianesimo è messo in pericolo non dall’abbandono dovuto dalla secolarizzazione ma dalla persecuzione. Vogels enumera il Medio Oriente, che ha visto i seguaci dell’Isis assassinare centinaia di cristiani, o la Nigeria, il Pakistan e l’India, ove molti subiscono angherie, se non conversioni forzate all’islam o uccisioni, solo perché cristiani.«Non è sorprendente - commenta l’autore - che papa Francesco parli della nostra epoca come quella dei martiri. In Occidente, una cultura umana e cristiana è del pari in via di estinzione, e chi si preoccupa?».
Le persone che si collocano dentro la Chiesa hanno tre diverse reazioni. Ci sono i profeti di sventura, che rimpiangono i bei tempi andati e mettono sotto accusa tutta la cultura moderna. Poi ci sono quelli che guardano alla differente e più positiva situazione della Chiesa nel resto del mondo e perciò non si preoccupano più di tanto.
Infine vi sono coloro che vedono in questa situazione di crisi un’opportunità, quella di tornare alle origini, «un’umile, piccola Chiesa, lievito nell’impasto, granello di senape, luce per il mondo». Si apre insomma la possibilità di ritrovare la natura vera ed essenziale della Chiesa, che si deve purificare abbandonando ogni compromissione col potere.
Qui il tema del ’resto’ non appare affatto ingiustificato. Come ha detto Gesù: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?», una domanda che non ha una risposta scontata e che deve far riflettere, perché la perdita di fede in Europa potrebbe non aver raggiunto il culmine.
Anche il popolo d’Israele subì una terza deportazione e «rimase il resto di un resto di un resto»: accadrà così anche ai cristiani d’Occidente? Per Vogels non si tratta di consolarsi sostenendo che ora va a Messa solo chi ci crede davvero e che la Chiesa è più pura. Se in questo c’è del vero, non ci si può illudere che il futuro delle comunità cristiane sia costituito solo da pochi eletti, che magari si ritengono perfetti. Anche coloro che in passato frequentavano in massa la parrocchia e che magari non erano acculturati, vivevano però una fede sincera e profonda. E trasmettevano la fede ai loro figli.
Il volume esamina anche le possibili cause del declino, fra cui le stesse colpe della Chiesa dovute per esempio agli scandali e agli abusi, ma pone pure alcuni segni di speranza. «Quanto durerà questo esodo?», si chiede Vogels, e aggiunge: «Dopo tutte le apologie degli ultimi papi per le colpe della Chiesa, la chiamata costante e fervida di papa Francesco alla misericordia di Dio sarebbe una profezia che questo tempo della misericordia, che darà il cambio a quello dell’ira, è vicino?».
Si tratta di ripartire proprio dal ’resto’, da coloro che rimangono legati alla Chiesa e continuano ad impegnarsi e a trasmettere la fede alle nuove generazioni. Sarà capace questo ’resto’, grazie a un processo di riforma autentica e una nuova evangelizzazione, di recuperare almeno una parte di coloro che se ne sono andati? «La rimpatriata non sarà facile. Ma non abbiano il diritto di lasciare i feriti della vita da soli, in esilio, lontani o esclusi dalla comunità». E ancora: «Spalanchiamo le porte della misericordia, della comprensione e della tolleranza. Ci deve essere posto per molti nella casa del Padre, per coloro che sono chiamati liberali o conservatori, tradizionalisti o rivoluzionari, di sinistra o di destra. Ci sarà del vecchio e del nuovo. Nessuna comunità è perfetta ».
Ma si può ricostruire rispettando due condizioni: che sia salvaguardato il patto fra la Chiesa e i diritti dell’uomo, nel rifiuto di ogni violenza, e che si testimoni il primato dell’agape, segno vero della presenza dei cristiani nel mondo.
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#STORIA #STORIOGRAFIA E #DRAGHI: USCIRE DAL #LETARGO (#DANTE2021). #Tracce per una #svolta_antropologica e una #transizione_ecologica. #Dante, la #crisi culturale e #politica dell’#Europa e "l’#antropologia d’#ancien régime" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908).
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Un altro deus ex machina sul piano inclinato della crisi
Draghi e non solo. La via tecnocratica, costruita con sofisticata ingegneria istituzionale, per ricondurre a «ordine» l’anomalia del voto del 2018, ridisegnando il sistema di governo
di Marco Revelli (il manifesto, 16.02.2021)
La Banca sopra la Politica, il Nord sopra il Sud, i maschi sopra le donne. Questa appare, ridotta all’essenziale, la struttura architettonica del nuovo governo: una fotografia perfetta dello stato di cose esistente e delle sue inamovibili gerarchie.
Non può sfuggire a nessuno, intanto, che l’ex governatore di Bankitalia e della Bce ha riservato a sé e ai propri fedelissimi il controllo della cassaforte, in primis del «tesorone» in arrivo dall’Europa, perché la gestissero con l’unica logica che gli uomini di banca conoscono: quella del denaro che rispetta solo se stesso (e che va dove già ce n’è).
E che poi abbia affidato per così dire «d’ufficio» un certo numero di ministeri chiave a quella che può essere considerata un’élite del sapere tecnico. Quasi volesse «mettere in sicurezza» il «cuore dello stato», o del sistema, da una politica malata, per certi versi comatosa, che nelle convulsioni dell’ultimo bimestre ha mostrato a nudo la propria incapacità di venire a capo della crisi che essa stessa aveva scatenato, riservandole un parterre tanto ampio quanto poco qualificato.
Uno spazio di tutti (e del contrario di tutti) da popolare secondo i dettami del manuale Cencelli, in cui le scarse competenze e l’esuberante litigiosità potessero in qualche misura offrire un simulacro di «copertura politica» senza rischiare di danneggiare i gangli vitali del sistema (più che commissariamento, «confinamento» si potrebbe dire).
Questo deve essere stato il pensiero congiunto di Draghi e Mattarella: la via tecnocratica, costruita con sofisticata ingegneria istituzionale, attraverso cui ricondurre a «ordine» l’anomalia selvaggia inaugurata col voto del 2018, ridisegnando il sistema di governo sulla mappa gerarchica del potere reale rispettandone con certosina attenzione le isobare.
Ed è esattamente quel criterio che ha portato a premiare il Nord (18 ministri) a scapito del Sud (appena 4), tanto che verrebbe da dire che, parafrasando la Moratti, i «posti» sono stati assegnati territorialmente in base al Pil: ben 9 ministri vengono dalla Lombardia, 4 dal Veneto, nessuno dalle isole...
Mentre per le donne - 8 su 24 - non è cosa nuova, è l’antropologia d’ancien régime che ha parlato.
Funzionerà? Si può davvero pensare di venire a capo di una grave «crisi di sistema» - quale quella che effettivamente l’Italia vive - con espedienti ingegneristici o con la logica del deus ex machina?
È per lo meno la terza volta che si tenta questa via - la prima con Ciampi, la seconda con Monti, ora con Draghi, peraltro figure assai simili per competenze e profilo tecnico-culturale - e ogni volta se ne è usciti con uno scatto in avanti sul piano inclinato della crisi istituzionale e sociale.
Il governo Ciampi, non dimentichiamolo, fu l’ultimo della Prima Repubblica. Dopo la sua fine dilagò il berlusconismo, espressione di una metamorfosi regressiva dell’elettorato nel suo complesso. Quindici anni più tardi, dopo diciassette mesi di governo Monti emerse il corpaccione grillino al centro di un sistema politico terremotato e sulla superficie di un corpo sociale martoriato, diventato addirittura nel 2018 maggioranza relativa, con una percentuale simile alla vecchia Dc.
Un altro terremoto che sconvolse vecchi e nuovi poteri, istituzionali ed economici, che infatti si misero subito all’opera per ricuperare centralità e controllo. E che oggi festeggiano il ritorno alla casella di partenza in questo gioco dell’oca che già ha percorso due giri a vuoto, nella speranza di fare, finalmente, l’en plein, e di poter sovrapporre al disordine di quel voto «obsoleto» un nuovo ordine venuto dall’alto di un’Europa non più matrigna.
È un’impresa arrischiata. Anche per poteri abituati da sempre a vincere. E nella sua sostanza opaca. Non perché violi, in qualche modo, la lettera della Costituzione: tutto è avvenuto entro i canoni degli articoli 92 e 94 (peraltro molto sobri). Ma perché sfida la «costituzione materiale» di una democrazia rappresentativa nella quale la volontà di rottura di continuità espressa, sia pur in modo convulso e contraddittorio, nell’ultima elezione generale viene neutralizzata (le convulsioni dei 5Stelle, ma anche il triplo salto mortale della Lega, lo testimoniano), per essere infine piegata a una deriva iper-continuista (che difficilmente, pur collocandosi in un’Europa diversa, e pur disponendo degli euro del Recovery, sanerà le ferite sociali e il malessere che produssero la rivolta nelle urne del ’18).
E poi perché crea un governo ibrido, in cui l’élite tecnica siede su un tappeto di macerie costituite da un sistema dei partiti profondamente lesionato dove ogni forza politica si presenta negando una parte di se stessa e ogni cultura politica appare dissolta, rendendo assai improbabile l’efficacia del confinamento.
Un governo che, come tutti i governi omnibus, ospita una pletora di partecipanti, ognuno dei quali non rinuncerà a usare il »posto a tavola» ottenuto come megafono per regolare i conti col proprio vicino: i «polli di Renzo», anzi di Renzi potremmo dire, di cui già Salvini e compagni offrono un bell’esempio usando il podio che l’altro Matteo gli ha offerto per aprire una campagna elettorale permanente.
Fin dall’inizio dei miei studi in Scienza politica ho dovuto imparare che per il buon funzionamento di una democrazia moderna, è necessario che tra il livello della Società e quello delle Istituzioni esista una solida Società Politica, a svolgere il ruolo di canale di comunicazione e di fattore di legittimazione. Se questa avvizzisce o muore, avvizzisce e muore la democrazia.
In questo senso il «miracoloso» governo di Mario Draghi rischia di sfidare le leggi fisiche della politica, con esiti potenzialmente infausti.
La frase con cui Giovanni Agnelli commentò il governo Ciampi - «dopo il governatore, c’è solo un generale, o un cardinale» - potrebbe ritornare di attualità non se Draghi fallisse ma se, completato il mandato, la politica si presentasse ancora nuda alle elezioni del ‘23.
La mostra.
Napoleone tra Cesare e Alessandro: Bonaparte e il mito di Roma
Bonaparte ha cercato di emulare gli imperatori romani e una importante mostra ai Mercati Traianei ne ripercorre la fama attraverso le arti e l’immaginario
di Marco Busssagli (Avvenire, venerdì 12 febbraio 2021)
Ci sono almeno due ragioni oggettive per andare a vedere l’affascinante mostra dedicata a Napoleone e il mito di Roma che si tiene in questi giorni nell’irripetibile sede dei Mercati Traianei (a cura di Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Massimiliano Munzi e Simone Pastor). In origine prevista per il dicembre dello scorso anno, l’esposizione - che è rimata chiusa per mesi a causa della pandemia del Covid-19 -, è stata prorogata grazie alla sensibilità solidale dei prestatori a cominciare da quelli francesi che hanno riconsiderato i termini del contratto di prestito.
È questo il motivo per cui si possono ancora ammirare due opere celeberrime della pittura di quel folgorante periodo storico. Mi riferisco al capolavoro di Jacques Louis David Napoleone valica il Gran San Bernardo che esaltava le imprese dell’allora generale all’indomani della Campagna d’Italia. Sebbene sia presente in mostra una copia d’epoca dell’originale conservato al Castello di Malmaison (una delle cinque versioni realizzate dal grande pittore francese fra il 1801 e il 1803), tuttavia l’accuratezza della tela a grandezza naturale, realizzata ad olio, è in grado di restituire quelle emozioni che nascono davanti agli originali conservati a Versailles, a Berlino e a Vienna.
Quella che è assolutamente autentica, invece, è l’opera di François Gérard che nel 1805 dipinse Napoleone con gli abiti dell’incoronazione proveniente dal Palais Fesch-Musée des Beaux-Arts di Aiaccio. Straordinaria per la resa dei velluti, dei ricami e dei materiali (si osservi la piccola mano d’avorio in cima allo scettro abbandonato accanto al globo con la croce che rappresenta il mondo, inconsapevole prefigurazione dell’epilogo della stagione napoleonica) la tela emana il fascino di un’intera epoca avviata alla conclusione.
Si tratta di opere che, da sole, valgono una visita alla mostra e che segnano i confini di quella irripetibile avventura politica, storica e culturale che fu la vicenda di Napoleone, partito come generale della Rivoluzione e finito come Imperatore dei Francesi che scosse l’Europa e travolse la pigra agiatezza delle monarchie allora esistenti.
A muovere Bonaparte c’erano la volontà di recuperare il mito di Roma e il desiderio di emulare i grandi condottieri dell’antichità, da Alessandro Magno a Caio Giulio Cesare. A sostegno di questo confronto, la mostra offre al pubblico opere importanti come il bronzo di Alessandro Magno a cavallo proveniente dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’aspirazione al dominio su un impero senza confini (si pensi alla sfortunata campagna di Russia che, tuttavia, porto Bonaparte sulle rive della Moscova) lega il mito di Alessandro Magno a Napoleone il quale, come già molti condottieri prima di lui, tra cui Giulio Cesare, fece dell’imitatio Alexandri la propria ragione di vita.
Non per nulla, è esposto il grande bronzo dello scultore Lorenzo Bartolini che raffigura Napoleone I Imperatore, proveniente dal Louvre, in cui Bonaparte è ritratto all’antica, con le fattezze di un imperatore romano e la corona d’alloro sulla testa. Le gesta napoleoniche s’ispirarono pure alla magnanimità del primo degli imperatori romani, Augusto, presente con un ritratto in marmo proveniente dai Musei Capitolini. Così, la mostra approfondisce gli impegni di carattere artistico e urbanistico del grande francese per la sistemazione di Roma e, in particolare, proprio dell’area della Basilica Ulpia, prospiciente i Mercati Traianei, allora ridotta a fossa maleodorante, i cui progetti di bonifica (nonostante le proteste della madre superiora del Conservatorio delle zitelle che si vide abbattere la sede con conseguente trasferimento) furono affidati agli architetti Camporese e Valadier.
Nessuna sede, perciò, poteva dirsi più adatta dei Mercati Traianei che furono il cuore della grandezza economica e commerciale della Roma antica. Nello sforzo d’imitazione della figura di Augusto rientravano, però, anche i gesti umanitari documentati dall’incisione di Masson ripresa dal celebre quadro di Antoine-Jean Gros, Il generale Bonaparte visita gli appestati di Jaffa, proveniente dal Palais Fesch-Musée des Beaux-Arts di Ajaccio. Il che alimentava il mito di Napoleone, come un eroe antico ma pure un santo e un taumaturgo, in continuità con i re del medioevo francese.
Roma, Mercati Traianei
Napoleone e il mito di Roma
Fino al 30 maggio
L’INIZIATIVA
Sacro e quotidiano, i segreti del Medioevo: la collana del «Corriere»
Dal 5 febbraio in edicola (col quotidiano) una serie curata dallo storico Franco Cardini sul periodo in cui si posero le basi del mondo moderno. Si parte con Johan Huizinga
di FRANCO CARDINI *
Quando il Medioevo sia cominciato non è chiaro: se non altro perché un discorso sulle origini implica anche un discorso sulle ragioni. Non basta proporre un punto di partenza, dire quando è cominciato; bisogna anche dire che cosa, dal momento che i contenuti non ne sono affatto chiari; e infine spiegare, o tentare di farlo, perché. -Che cos’ha mai messo in moto la macchina medievale? La diffusione del cristianesimo? La crisi demografico-climatico-economico-etica dei secoli II-VII? Le migrazioni dei popoli? E ponendoci problemi del genere non si rischia di ricadere nel vecchio «mito» romantico o evoluzionistico o paleostoricistico «delle origini»?
D’altro canto è evidente che, così com’era nato, era sorto e si era affermato, il Medioevo andò anche decadendo e «sfiorendo»; ebbe un suo tramonto o un suo «autunno». Ancora una volta, perché? Quali e quante ne furono le cause, ed è possibile attribuire loro una maggiore e minore importanza? L’eclisse del senso religioso e il vacillare delle istituzioni ecclesiali? L’esaurirsi dell’universalismo politico, a quello religioso strettamente connesso, insieme con il nascere e il rafforzarsi dei particolarismi e il sorgere degli «Stati» e delle «nazioni»? La crisi della concezione sacrale dell’ordine cosmico e della finalità della vita umana, e con essa l’imporsi del «processo di secolarizzazione»? Il sovvertimento dell’ordine etico-religioso, con il progressivo imporsi dell’individualismo e la conseguente ridefinizione della logica valoriale e l’affermarsi del primato dell’economia e della tecnologia? La pressione di nuovi popoli da est, il profilarsi di nuove «invasioni barbariche» ora configurantesi come nuove affermazioni religiose? Ancora, la spirale delle crisi demografica ed economica accompagnata al generale raffreddamento ciclico dell’emisfero boreale a partire già dalla fine del XIII secolo, che avrebbe accompagnato la lunga crisi pandemica sviluppatasi in coincidenza con la «piccola età glaciale» dalla quale si sarebbe usciti solo nel XVIII secolo? L’inquietudine religiosa che avrebbe finito con il determinare la rottura irreversibile dell’unità cristiana occidentale, mentre si scatenava la lotta politica e militare degli Stati assoluti e le scoperte geografiche e le invenzioni del XVI secolo, rispondevano, come avrebbe detto Toynbee, alle «sfide» del secolo precedente?
Insomma, Medioevo come risultato dell’intersezione di molteplice forme dialettiche: unità versus differenze, omogeneità versus diversità, conservazione versus riforma, ordine versus mutamento, continuità versus discontinuità e/o rottura.
E tutto ciò in un contesto che si mantenne omogeneo nella sua compagine sostanzialmente mediterraneocentrica sino alla fine del Quattrocento: allorché il mondo si dilatò improvvisamente divenendo immenso rispetto ai parametri ai quali gli europei erano abituati; ma al tempo stesso, paradossalmente, si rivelò davvero limitato e conchiuso, come in fondo tanto la teologia quanto la geografia lo avevano sempre immaginato ma molto diversamente da come lo avevano pensato.
La modesta «torta» circolare di terraferma circondata dall’oceano ch’era il vecchio mondo del sistema aristotelico-tolemaico, piccola finché si vuole, era rimasta semi-inesplorata; l’immensa realtà pluricontinentale che gradualmente si svelò dai primi del Cinquecento si manifestò disposta a lasciarsi esplorare, conquistare, dominare. Questo il paradossale dramma cosmico del passaggio dal Medioevo all’Età moderna.
Il primo, solidale con l’età antica, aveva concepito una sfera terraquea di limitate dimensioni, caratterizzata da una massa di terraferma circolare traversata da un non largo sistema di mari interni e cinta da un immenso oceano. Ma quella non troppo ampia terraferma era piena per giunta di montagne di ghiaccio, d’impervie paludi, d’intricate foreste, di deserti aridi e infestati da belve feroci o addirittura da mostri. L’uomo non avrebbe mai potuto esplorarla e «possederla» per intero.
La seconda, al contrario, si presentò come una sfera immensa, nella quale però la volontà e la tecnologia dell’homo faber fortunae suae sarebbe riuscita a progressivamente penetrare domando le distanze oceaniche grazie alle vele mobili e conquistando la terraferma con l’audacia e la forza dei suoi esploratori. Sono state le navi e i cannoni - come ci ha insegnato un grande storico, Carlo Maria Cipolla - a trasformare il mondo antico e medievale, fatto di culture che si costeggiavano ma che non si compenetravano, nel mondo moderno caratterizzato da quella che fu definita l’«economia-mondo». E se nell’Antichità e nel Medioevo il mondo occidentale aveva vissuto in uno stato di inferiorità dinanzi alle grandi civiltà dell’Asia, la Modernità si configurò come un Occidente progressivamente e irreversibilmente egemonico.
Esce venerdì 5 febbraio in edicola con il «Corriere della Sera» il libro dello storico olandese Johan Huizinga (1872- 1945) Autunno del Medioevo, in vendita al prezzo di euro 8,90 più il costo del quotidiano. Si tratta della prima uscita della nuova collana Medioevo curata dalla storico Franco Cardini, professore emerito nell’Istituto di Scienze umane e sociali. Lo stesso Cardini firma l’ampia presentazione che apre il volume, della quale qui sopra pubblichiamo un estratto.
Lo scopo della nuova iniziativa del «Corriere» è fornire ai lettori, attraverso opere dei più qualificati specialisti, un’ampia panoramica di quel periodo storico che ormai nessuno più considera, caratterizzato da un cupo oscurantismo (nonostante l’uso che si fa a volte dell’aggettivo «medievale» nel linguaggio comune), ma va invece esaminato in tutta la ricchezza dei suoi variegati aspetti, anche perché all’epoca si posero le basi per la successiva fioritura del mondo moderno.
In particolare il libro di Huizinga, pubblicato in prima edizione nel 1919 e riproposto in versione aggiornata due anni dopo, è considerato un autentico capolavoro del suo genere (Cardini lo definisce «libro epocale») per il modo in cui descrive il passaggio cruciale tra il XIV e il XV secolo, un’epoca di grandi trasformazioni nella cultura, nell’arte e nel costume. Il secondo volume della collana, in vendita dal 12 febbraio allo stesso prezzo del primo, sarà La civiltà dell’Occidente medievale dello storico francese Jacques Le Goff. Seguiranno: Bernhard Schimmelpfennig, Il Papato (19 febbraio); Julius von Schlosser, L’arte del Medioevo (26 febbraio).
Se dopo 700 anni
#Beatrice appare come un «manichino senza corpo»,
forse,
non è il caso di
osare un’altra ipotesi di lettura
della #DivinaCommedia e della #vita di #Dante?
FLS
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Patristica. Sant’Ambrogio e i troppi Naboth dei nostri giorni
La grande attualità del vescovo di Milano è confermata dalla ripubblicata omelia dedicata al vignaiolo biblico vessato dal re Achab. Denuncia durissima contro i ricchi, potenti e sfruttatori
di Alessandro Capone (Avvenire, giovedì 28 gennaio 2021)
«La terra è di tutti, non solo dei ricchi, ma quelli che possono utilizzare ciò che appartiene loro sono assai pochi rispetto a chi non può farlo». Queste parole, che potremmo pensare di papa Francesco, sono in realtà del vescovo di Milano Ambrogio, il quale negli ultimi anni della vita scrisse un omelia su La storia di Naboth, appena pubblicata a cura di Domenico Lassandro e Stefania Palumbo (Loescher, pagine 336, euro 45,00), all’interno della giovane, ma molto promettente, serie patristica della Corona Patrum Erasmiana, promossa dal Centro europeo di studi umanistici ’Erasmo da Rotterdam’ di Torino sotto gli auspici di Renato Uglione.
Nell’opera Ambrogio trae spunto dalla vicenda dell’israelita Naboth (1 Re 21), che aveva una vigna vicino al palazzo del re Achab, il quale, spinto dalla brama di possesso, ordinò a Naboth di cedergli la sua vigna in cambio di un’altra o di denaro. Nulla poté Naboth, che rifiutò di obbedire perché quella vigna era eredità dei suoi padri: per mezzo di un inganno ordito dalla moglie del re, egli fu accusato di bestemmia e lapidato.
La vicenda di Naboth rappresenta il filo conduttore di tutto il testo ambrosiano e consente al vescovo di Milano, il quale oltre che sull’esperienza episcopale poteva far leva anche su quella di politico, di presentare una lucida denuncia del dramma dei poveri del suo tempo, di cui ci offre qualche vivido esempio. Egli infatti si sofferma sui sacrifici di vite umane per soddisfare la fame dei ricchi: uno cade dalla sommità di un tetto per preparare granai più ampi; un altro precipita dalla cima di un albero, mentre ispeziona i tipi di uva; un altro annega in mare per procurare pesci e ostriche... Vengono in mente i sempre attuali ’incidenti sul lavoro’, come osserva Lassandro, ma ancor di più la folla di uomini sfruttati e venduti, di turoldiana memoria, sparsi in tutto il mondo e asserviti a un lavoro mortale utile solo per il godimento di una minoranza.
E ancora il padre, di cui Ambrogio si professa testimone oculare, costretto a vendere all’asta i propri figli per rinviare la pena a cui era condannato per la mancanza di vino sulla tavola del potente. Di questo padre il vescovo descrive la tempesta interiore e la disperazione infinita e denuncia la situazione innaturale a cui l’uomo è costretto: «Come potrei dunque discernere tra i sentimenti della natura, come potrei dimenticarli, come potrei spogliarmi dei sentimenti di un padre?».
È evidente che lo scopo di Ambrogio non è di proporre semplicemente un’interpretazione del sopruso sofferto da Naboth, ma principalmente di sottolineare la necessità di rendere concreta ed efficiente una giustizia sociale basata sui valori evangelici.
Il testo ambrosiano rappresenta dunque la testimonianza drammatica di una società in cui i rapporti economici hanno conseguenze devastanti su quelli umani e sociali e allo stesso tempo propone il manifesto e l’auspicio di una società più equa e solidale, in cui il bene sia realmente, secondo la legge di natura, comune e non a vantaggio di un’élite: «Per tutti è stato creato il mondo, quel mondo che invece voi pochi ricchi tentate di rivendicare solo per voi».
Le parole del vescovo rappresentano pertanto un messaggio perennemente rivoluzionario, che ha conquistato personalità come Concetto Marchesi, Ernesto Buonaiuti e David Maria Turoldo, che nel duomo milanese in una sua predica lesse, senza riferire il nome dell’autore, alcuni passaggi proprio del testo ambrosiano, suscitando profondo scandalo e vibrate proteste dell’uditorio.
Un messaggio scomodo ancora oggi e in perfetta consonanza con quanto papa Francesco ha scritto al punto 120 dell’Enciclica Fratelli tutti: «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società».
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI.
FLS
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA: SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO *:
"Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista
«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
diss’io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’esser fuia.
Dunque la voce tua, che ‘l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,
perché non satisface a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
Dante Alighieri, Paradiso IX, 70-81.
* Sul tema, nel sito, cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
FLS
ANTROPOLOGIA CULTURALE, LETTERATURA, E PENSIERO CRITICO. Lo sciamano che c’interroga...
ANDARE "A SCUOLA DALLO STREGONE" (Carlos Castaneda, 1968) e non capire un’acca ("h"). Alla luce delle dichiarazioni di Arnold Schwarzenegger, attore ed ex governatore repubblicano della California: “Dobbiamo cercare di guarire insieme dal dramma che si è svolto qualche giorno fa”, conclude nel suo videomessaggio, “e dobbiamo mettere la democrazia al primo posto", forse, è meglio rileggere il lavoro di Elémire Zolla, su "I letterati e lo sciamano. Il pellerossa come cattiva coscienza del bianco" e riprendere non solo l’indicazione di Orazio-Kant-Foucault del "Sàpere aude!" , ma anche la lezione di Jim Morrison: "Ognuno di noi ha un paio di ali, ma solo chi sogna impara a volare"; e, infine, per evitare qualche "rimorso d’incoscienza", rimeditare anche la "profezia" di McLuhan.
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA.... *
Siamo fili dell’unico arazzo dell’essere
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 31 dicembre 2020)
II Domenica dopo Natale
Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.
In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).
Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui.
«In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.
In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini.
Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera.
Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia».
Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
FLS
I grandi temi che la Chiesa ha pensato di non vedere
Si parla poco della condizione di declino e di crisi gravissima che il Cristianesimo sembra conoscere attualmente
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 30 dicembre 2020)
È opinione diffusa che l’attuale pontificato si caratterizzerebbe per un indirizzo audacemente innovativo, si dice addirittura rivoluzionario. A causa vuoi di una pastorale tutta rivolta alle grandi questioni mondiali dell’ecologia e della giustizia economica tra le nazioni, vuoi di una straordinaria e quasi indiscriminata apertura alle diversità culturali, al dialogo tra le fedi, alla «carità». È però singolare che a questa proiezione del pontificato verso il mondo, e all’attivismo indefesso con cui essa viene alimentata, corrispondano tuttavia un silenzio e una mancanza pressoché assoluta di riflessioni e di iniziative sulla condizione generale che il mondo stesso riserva oggi alla fede cristiana e alla Chiesa stessa.
Una condizione di crisi gravissima. Nell’intero emisfero settentrionale del pianeta il Cristianesimo sembra conoscere, infatti, un tale declino da far pensare che esso stia addirittura sul punto di spegnersi. Lo mostra al semplice sguardo la quantità di edifici religiosi che in tutti Paesi europei hanno chiuso i battenti. Specialmente le chiese, trasformate in gran numero in supermercati, sale bingo o centri commerciali. Ma lo indicano in modo ancor più pregnante due fatti decisivi. Innanzi tutto la sparizione di ogni residuo di quella che un tempo era la Cristianità intesa come fatto pubblico, cioè come connessione tra istituzioni religiose e istituzioni politiche che per secoli ha caratterizzato tutti i regimi europei, ancora in sostanza sul modello dell’Impero romano. In secondo luogo, il fatto che ormai non rimane quasi più traccia di quel «compromesso cristiano-borghese» instauratosi dopo la Rivoluzione francese che fino a qualche decennio fa era tipico di tutte le classi dirigenti euro-occidentali. Un compromesso in forza del quale, pur laicizzandosi e modernizzandosi, esse erano però rimaste legate in qualche modo all’antica fede. Da tempo, invece, nei loro modelli di vita, nell’educazione dei figli, nell’autocoscienza di sé, nei loro valori pubblici, le élite delle società sviluppate appaiono virtualmente scristianizzate. E inevitabilmente il resto della società segue il loro esempio.
Ora, di fronte a questa gigantesca frattura storica - che oggi si manifesta in tutta la sua straordinaria ampiezza ma che nell’ultimo mezzo secolo non ha mancato di sollecitare le alte e tormentate riflessioni del magistero, da papa Montini a papa Ratzinger - appare davvero singolare il silenzio non solo dell’attuale Pontefice ma dell’insieme della gerarchia. L’attenzione e l’iniziativa dell’uno e dell’altra non sembrano attratte neppure da altre due questioni di enorme portata ormai arrivate drammaticamente al pettine. Tali, a me pare, da obbligare la Chiesa a mettere in discussione di fatto la propria intera vicenda identitaria, a riformularne gli esiti in misura radicale.
La prima di tali questioni è quella della democrazia. È vero naturalmente che la Chiesa non può essere una democrazia perché Dio non può essere messo ai voti. La democrazia però non è solo questione di voti. È anche - anzi soprattutto - una questione di diritti. Innanzi tutto di quei diritti della persona alla cui origine c’è il Cristianesimo e sui quali da decenni non a caso insiste in ogni occasione il magistero della Chiesa stessa. Ma allora la domanda ovvia che si pone è la seguente: come può essere compatibile con la tutela di tali diritti della persona il tipo di potere che esercita il Papa sul suo Stato e sull’istituzione ecclesiastica - un potere assoluto e incontrollato, arbitrario nel più vero senso della parola? Com’è compatibile ad esempio il diritto di ogni persona a conoscere le accuse che gli vengono mosse, a conoscerne i motivi, ad avere un giusto processo da parte di giudici indipendenti, con la sorte riservata al cardinale Becciu, il quale, spogliato dal Papa di alcune importanti prerogative legate alla sua carica senza nulla sapere dei motivi, in teoria aspetta giustizia - si noti il paradosso - da giudici nominati e revocabili ad nutum dal Papa stesso? Come si può chiedere al mondo di essere giusto, mi chiedo, se in casa propria le regole della giustizia sono queste? E d’altra parte, che in quella casa ci sia un problema vero di democrazia non è forse testimoniato anche dal fatto che ancora oggi in seguito a un episodio come quello appena detto (ma anche a mille altri) nessuno osi dire pubblicamente nulla? Sollevare qualche dubbio? Chiedere, Dio non voglia, qualche spiegazione? O l’obbligo democratico alla trasparenza tante volte invocato vale solo per gli altri?
Né si tratta solo di questo. Finora, infatti, a far da contrappeso alla natura autocratica del potere papale è stato il carattere elettivo della carica. Incontrollatamente elettivo, bisogna aggiungere: grazie al quale, quindi, a un Papa di un certo orientamento era possibilissimo (come infatti è accaduto quasi sempre) che succedesse un Papa di un orientamento affatto diverso. Ora invece, con la nomina da parte dell’attuale Pontefice di un sempre maggior numero di cardinali in tutto e per tutto a lui omogenei, minaccia di nascere di fatto al vertice dell’istituzione un vero e proprio «partito del Papa», detentore della maggioranza nel conclave. Grazie al quale al Papa regnante stesso diviene perciò possibile scegliere il proprio successore o perlomeno influenzarne in modo decisivo l’elezione. Determinando così il passaggio da un’autocrazia dalla titolarità incontrollata a una autocrazia dalla titolarità designata.
Infine, al problema della democrazia si ricollega direttamente pure la seconda delle grandi questioni arrivate al pettine che oggi interrogano la Chiesa e la sua storia: la questione del ruolo delle donne all’interno dell’istituzione ecclesiastica. O per dire meglio la questione della loro assoluta, continua, esclusione da qualsiasi ruolo significativo. Non mi riferisco al sacerdozio femminile. Mi riferisco al potere, alle cariche, che so, di presidente dello Ior, di governatore dello Stato, di nunzio o di segretario di Stato: che a mia conoscenza nessun passo dei Vangeli prescrive debbano essere affidate a uomini anziché a donne. Ma che la Chiesa invece continua imperterrita a credere un esclusivo monopolio maschile. Mi chiedo come possa immaginare di avere un qualsiasi futuro un’istituzione che nel mondo di oggi si muove in questo modo. Mostrando cioè una mancanza di senso storico che ricorda tristemente la vana battaglia che la stessa Chiesa cattolica ingaggiò per oltre un secolo contro i principi liberali. Oltre tutto - ancora una volta, come allora - smentendo in tal modo l’ispirazione più luminosa della propria storia e la testimonianza più straordinaria del proprio fondatore.
Ma se le cose stanno così, mi risulta allora abbastanza incomprensibile come possa essere definito innovativo, progressista o addirittura rivoluzionario, papa Francesco. Il quale esercita il suo potere al modo che ho detto e circa tutte le questioni e i problemi fin qui enumerati è convinto evidentemente che essi non esistano, o comunque che non meritino la sua attenzione. Per quel che conta la mia opinione, ho il sospetto che la sua via non porti lontano.
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO ... *
«QUELLA ROMA ONDE CRISTO È ROMANO»: LA RICEZIONE DI DANTE NEL MAGISTERO PONTIFICIO CONTEMPORANEO
di VALENTINA MERLA *
In un clima di polemica tra cattolici e non cattolici, negli anni dell’Unità d’Italia, in cui i patrioti italiani avevano studiato la concezione politica dell’Alighieri incasellandola sotto l’egida del ghibellinismo anticlericale, Leone XIII sceglie la strada del dialogo con la società, progettando una riforma della cultura cattolica sulla base del tomismo. La sua ricezione di Dante è possibile proprio alla luce del tomismo: Leone XIII è, in effetti, secondo una definizione di padre Semeria, un’«anima dantesca», soprattutto per la significativa consonanza tra il suo pensiero sociale e la Monarchia (era stato proprio il suo intervento ad assolvere il trattato dantesco dall’accusa di eterodossia, escludendolo dall’indice dei Libri Proibiti). Infatti, come Dante, anche papa Pecci partecipa al dibattito sui rapporti tra Stato e Chiesa, riflettendo “laicamente” sul potere politico e sostenendo la reciproca indipendenza delle due istituzioni.
Alla morte dell’anziano pontefice sale al soglio pontificio Pio X, attento riorganizzatore del Catechismo della Chiesa Cattolica e sostenitore di una nuova concezione pastorale, che considera ogni strumento culturale, anche il testo dantesco, funzionale all’esigenza catechetica. Il pontefice incentiva, dunque, le iniziative in preparazione alla commemorazione del VI centenario dantesco, tra le quali una è particolarmente vicina ai suoi orientamenti pastorali. Si tratta di un lavoro di sinossi e comparazione tra il testo del catechismo del pontefice e la scrittura dantesca, che, in questo modo, viene frammentata al duplice scopo di supportare le affermazioni del catechismo e di dimostrare la perfetta aderenza del poeta al cattolicesimo. L’opera, firmata con lo pseudonimo d Minimo Sacerdote in Cristo, si intitola Il più bel ricordo del VI centenario di Dante, ossia Catechismo della Dottrina Cristiana pubblicato per ordine di sua Santità Pio X, meditato e studiato con Dante.
Una linea spartiacque nella rivalutazione dell’Alighieri da parte del magistero pontificio si ha con l’enciclica In praeclara summorum (1921), scritta da Benedetto XV per commemorare il VI centenario della morte del sommo poeta, che viene per la prima volta apostrofato come figlio prediletto della fede cattolica. Sulla scia del predecessore, sebbene in modi differenti, si colloca il riuso che dell’opera dantesca fa Pio XI, riportando nei suoi documenti ufficiali un ricco corredo di citazioni.
Ciò emerge maggiormente quando riflette sulla romanità della Chiesa, poiché papa Ratti risolve definitivamente la “questione romana”, affermando la necessità della reciproca collaborazione tra potere spirituale e potere politico.
Di questa collaborazione si fa simbolo la città di Roma (residenza del Papato e antica capitale dell’Impero di Roma), che assurge a figura della città di Dio, secondo la più canonica esegesi di Pg XXXII 102, verso prediletto dal pontefice e più volte citato. Con Pio XI Dante si presta per la prima volta, in modo significativo, ad essere rispolverato e letto criticamente. In effetti papa Ratti consacra la Commedia come un’opera di fede e se ne avvale come auctoritas a supporto delle argomentazioni dei suoi discorsi.
Ad imitare il suo esempio è Pio XII, in cui si nota una fitta trama di allusioni desunte dall’Alighieri soprattutto nei discorsi rivolti alla Pontificia Accademia delle Scienze (di cui era membro onorario). Queste prolusioni finiscono inevitabilmente per riflettere sulla vastità dell’universo, sede e immagine di Dio attraverso l’utilizzo della fonte dantesca.
Diversa è la fruizione di Dante da parte di Angelo Roncalli, il cui nome si lega inequivocabilmente al Concilio Vaticano II e all’esigenza di un rinnovato dialogo con il mondo intero, sicché anche la sua ricezione del poeta di Firenze si può ascrivere a questo desiderio di un più agevole confronto con la contemporaneità. Anche se in realtà, nel corpus degli scritti del pontefice, sia in quelli ufficiali che in quelli destinati alla scrittura privata, non se ne conserva una memoria significativa.
Vero e proprio punto di svolta nella lunga vicenda della ricezione dantesca è la lettera apostolica Altissimi cantus, che Paolo VI divulga il 7 dicembre 1965 in occasione del VII centenario della nascita di Dante. In essa il pontefice non esita ad appellare il sommo poeta con l’epiteto di teologo perché ha saputo comunicare le verità di fede servendosi della bellezza del verso. È, quella di papa Montini, una forte presa di posizione che innalza l’Alighieri al ruolo di maestro delle cose di Dio. Non a caso le citazioni del poema abbondano quando affronta temi particolarmente rilevanti, come l’amore di Dio; oppure quando parla del giubileo; numerosi sono poi i documenti che riflettono sul significato simbolico della città di Roma (in cui, a sostegno delle argomentazioni, viene citato If II 22-24 e Pg XXXII 102, evidenziando il significato provvidenziale che il poeta attribuisce all’Urbe).
Albino Luciani è ricordato dalla storia per il suo brevissimo pontificato, ma pur nella esiguità dei documenti del suo magistero, la fonte dantesca non passa sotto silenzio: l’Alighieri, infatti, è uno degli autori più citati dal papa bellunese. La prima interessante presenza si nota nella raccolta, pubblicata nel 1976, sotto il titolo di Illustrissimi. Lettere del Patriarca, in cui non mancano riferimenti danteschi espliciti, tra i quali i più interessanti si ravvisano nella lettera indirizzata a Casella, amico di Dante e personaggio della Commedia. -Tra i documenti che precedono l’elezione al soglio di Pietro, il più interessante è il messaggio quaresimale del 31 gennaio 1978, che risulta essere un vero e proprio microsaggio sul Purgatorio, perché il suo esordio trae spunto proprio da questa cantica.
Durante il periodo del pontificato, Giovanni Paolo I, sceglie di citare Dante nell’udienza generale del 20 settembre 1978, richiamando alla memoria l’esame teologico sulla speranza che il poeta affronta nel paradiso (Pd XXV).
Se per Paolo VI e per i suoi predecessori la scrittura dantesca assume una notevole rilevanza come auctoritas, nei discorsi di Giovanni Paolo II la vastissima gamma di citazioni, oltre che emergere nelle più svariate occasioni, predomina nelle riflessioni che hanno per argomento l’arte e il ruolo dell’artista.
Nel caso del pontefice polacco tale preponderanza assume un particolare rilievo perché, prima dell’elezione papale, Wojtyla è stato drammaturgo e poeta.
Il riuso di Dante si intravede non solo nei documenti ufficiali del magistero wojtyliano, ma anche nella sua produzione letteraria, in cui, al di là delle tracce intertestuali (irrisorie a mio parere), è possibile un accostamento a Dante, considerando non solo la concezione del ruolo del poeta e della poesia, ma anche lo sviluppo di alcuni nuclei tematici, ad esempio: il legame con le terra natia; la ricerca problematica di Dio; l’attenzione alla storia contemporanea considerata nella prospettiva escatologica; l’incontro con l’uomo, la concezione dell’io autoriale come “poeta visionario”. Si possono notare anche confluenze dal punto di vista stilistico come, ad esempio, l’insistenza sulle sfere semantiche dell’acqua, del fuoco, della luce, del viaggio, e ciò soprattutto nell’ultimo lavoro poetico, risalente al 2003: il Trittico romano.
Interessanti sono anche i documenti ad argomento prettamente dantesco. Tra questi, molto significativa è la lettera indirizzata a Mieczyslaw Kotlarczyk, datata 27 maggio 1964 e risalente al periodo in cui Karol Wojtyla era vescovo di Cracovia. Come già nel magistero dei suoi predecessori, anche nei documenti di Giovanni Paolo II le presenze dantesche non sono sporadiche e casuali: numerosissime sono quelle mariane, (desunte essenzialmente da Pd XXIII 73-74, Pd XXIII 88-89 e Pd XXXII 85-87, da Pd XXXIII 1-18). Tra le citazioni ricorrenti si annovera quella riferita all’Ulisse dantesco (If XXVI 118-120) e quella che descrive la scelta ascetica di san Pier Damiani (Pd XXI 117).
La Commedia non è ignorata neanche da papa Ratzinger. È esemplare in tal senso il messaggio per l’incontro promosso dal Pontificio Consiglio Cor Unum, il 23 gennaio 2003 in cui il pontefice, sin dall’esordio, afferma di aver attinto da Dante lo stimolo per elaborare l’intera prolusione. La fonte dantesca è, inoltre, ridondante nei discorsi mariani: è come se i luoghi topici della mariologia dantesca avessero delineato in modo talmente ineguagliabile il profilo di santità della Madre divina, da pretendere di essere richiamati alla memoria, proprio per la loro ineguagliabile bellezza.
* Scheda: Cineca Iris (Università di Foggia, Tesi di dottorato - 24-giugno-2014).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
La Morte sogna la vita
di Nikos Kazantzakis *
La Morte viene a coricarsi al fianco di Ulisse;
ha vagato tutta notte e ha le palpebre pesanti,
vuole stendersi in riva al fiume con il vecchio amico
all’ombra dell’agnocasto, dormire anche lei un poco;
posa lievemente le mani ossute sul petto dell’Arciere,
e così avvinta la valorosa coppia si addormenta.
Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,
che sulla terra s’innalzino case, palazzi e regni,
che sorgano giardini fioriti, e che alla loro ombra
passeggino donne nobili e cantino le schiave.
Sogna che sorga il sole, e che la luna illumini,
che giri la ruota della terra, e che ogni anno porti
erbe e fiori, frutti d’ogni sorta, piogge dolci e neve;
che la ruota giri ancora, e che la terra si rinnovi.
La Morte ride di nascosto, lo sa ch’è solo un sogno,
vento multicolore, fantasia della mente stanca,
e tollera imperturbabile che l’incubo la assilli.
Pian piano la vita si fa sfrontata, la ruota prende slancio;
la terra avida apre le viscere alla pioggia e al sole,
infinite uova si schiudono, il mondo brulica di vermi;
si muovono folti eserciti, uomini, uccelli, fiere,
e pensieri, si avventano per divorare la Morte.
Una coppia di umani si rannicchia nelle sue nari,
accende il fuoco e lo attizza per prepararsi il pranzo,
e sul suo labbro appende la culla del neonato.
Ha un solletico sulle labbra, formicolano le nari,
la Morte si scuote all’improvviso e svanisce il sogno.
Nel sonno fulmineo ha avuto un incubo: la vita.
*
poesia tratta da: Odissea di Nikos Kazantzakis , Crocetti Editore
Il poema.
L’Ulisse di Kazantzakis, esploratore del mistero
Prima traduzione in italiano dell’epopea che impegnò il poeta greco per quasi quindici anni: ricercò in tutta la Grecia le parole impiegate da pescatori e contadini, sopravvivenza della tradizione
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, venerdì 4 dicembre 2020)
Il secolo breve delle riscritture novecentesche dell’epica omerica si apre e si chiude in lingua inglese. Si apre in prosa nel 1922, con Ulisse di James Joyce, e si chiude in poesia nel 1990, con Omeros di Derek Walcott. Nel frattempo, sul finire degli anni Trenta, il mito ha ritrovato la sua lingua originaria, il greco, e ha addirittura ritrovato il ritmo di un verso, il decaeptasillabo, che ricalca l’esametro classico. Si potrebbe pensare che la versione che ne consegue sia la più fedele e forse è davvero così, in un certo senso. Ma la storia non può essere la stessa, l’avventura non può ripetersi in modo identico, il viaggio del nuovo Ulisse deve seguire un altro itinerario. Deve, più che altro, avere un approdo diverso.
Itaca non basta più, come aveva intuito Dante, i Proci sono appena stati sterminati ed è già tempo di ripartire. Comincia così, con l’eroe improvvisamente disamorato di Penelope, l’Odissea di Nikos Kazantzakis, poema a sua volta circondato da una fama leggendaria, non fosse altro che per la misura esatta di quei 33.333 versi suddivisi in 24 canti che ne fanno la più imponente tra le opere del genere in ambito occidentale.
Non è soltanto la mole, non è soltanto la complessità delle vicende immaginate da Kazantzakis a rendere impervia l’impresa di tradurre l’Odissea. Il vero nodo è quello della lingua e, in particolare, dei circa duemila athisàvrista, i termini non censiti dai dizionari dei quali il poeta si serve per dare ulteriore concretezza al suo stile.
Con una tenacia che di nuovo ricorda la scelta di Dante a favore del volgare, nei lunghi anni della stesura della sua Odissea (iniziata nel 1924, fu pubblicata nel 1938) Kazantzakis si muove per tutta la Grecia alla ricerca delle parole impiegate da pescatori e contadini, collezionando varianti dialettali e invenzioni lessicali che rappresentano l’estrema sopravvivenza della tradizione orale da cui erano discesi gli stessi poemi omerici.
Di questa vicenda - grandiosa anche solo sul piano formale - il lettore italiano aveva finora notizie indirette oppure parziali. Ora, a conclusione di un lavoro a sua volta protratto nel tempo, Nicola Crocetti firma la prima traduzione dell’epopea di Kazantzakis, accompagnata da un corredo essenziale di note e di apparati (Crocetti, pagine 800, euro 35,00). Anche nella sua veste di editore, Crocetti è la figura che più di ogni altra si è spesa nel nostro Paese per la conoscenza e la diffusione della poesia greca moderna, come dimostra la ripresa di molti importanti titoli del suo catalogo, da Seferis a Ritsos, nella collana realizzata dopo l’accordo con il gruppo Feltrinelli.
L’Odissea occupa un posto a sé, a conferma di un interesse per Kazantzakis che già aveva reso disponibili da Crocetti i libri maggiori dell’autore in versioni affidabili (perché condotte sull’originale e non su traduzioni in altre lingue). Nato nel 1883 a Iraklio, sull’isola di Creta, e morto nel 1957 a Friburgo, Kazatnzakis ha rappresentato e ancora rappresenta un caso irrisolto, e non solo per via del mancato riconoscimento del Nobel, negatogli dopo il clamoroso boicottaggio da parte della stessa comunità intellettuale greca. Tutta la sua esistenza è caratterizzata da un’irrequietezza spirituale che non mancò di provocare incomprensioni e condanne, fino alla scomunica comminata nel 1953 dalla Chiesa ortodossa per il romanzo L’ultima tentazione di Cristo. Anche il suo Ulisse è essenzialmente un esploratore del mistero, che nel poema viene affrontato nella prospettiva di un sincretismo nel quale gioca un ruolo rilevante un’interpretazione molto personale del messaggio evangelico.
In estrema sintesi, l’Odissea descrive un percorso tra il visibile e l’invisibile, che può essere riassunto in una delle numerose invocazioni di preghiera e di sfida che il protagonista rivolge verso il cielo: «Dio, ti chiamano Spirito perché generi la carne; / Dio, ti chiamano Carne perché generi lo Spirito».
Ulisse lascia Itaca, dicevamo, ma non senza aver favorito le nozze tra il figlio Telemaco e Nausicaa. Fa rotta verso Sparta, rapisce un’Elena non meno inquieta di lui, ripara dopo una tempesta a Creta, dove si sta consumando il crepuscolo della civiltà minoica. Allo stesso modo, più tardi farà tappa in Egitto, risalendo il Nilo fino a Tebe.
Nella prima metà del poema Ulisse (che Kazantzakis designa con una ricchissima varietà di epiteti: Arciere, Millenanime, Asceta e molti altri ancora) è un uomo d’azione, ovunque suscita l’amore di schiave e principesse, si unisce a rivolte, ha l’ambizione di cambiare il corso degli eventi. L’apice di questa fase è rappresentato dalla fondazione di una Città ideale che subito viene distrutta da un cataclisma, a riprova dell’antagonismo tra umano e divino che attraversa tutta la riflessione di Kazantzakis. Stremato e nello stesso tempo purificato dalla sconfitta, Ulisse intraprende un pellegrinaggio attraverso l’Africa scandito da una seri di incontri nei quali si rispecchiano i momenti fondamentali dell’esperienza interiore: il Principe della Terra, tormentato dall’idea della morte, allude al Buddha, la cortigiana Margarò è l’emblema dell’eterno femminino (il Faust di Goethe è una delle principali fonti del poema), Capitan Uno rinvia all’idealismo di Don Chisciotte e il Pescatore gentile, infine, è lo stesso Cristo, dal quale il protagonista si congeda a malincuore per intraprendere l’ultimo viaggio, che lo porterà a trovare l’illuminazione e la morte tra i ghiacci del Polo Sud (qui invece è il Gordon Pym di Poe a fare da modello).
È un racconto impetuoso e sovrabbondante, che Crocetti riproduce in versi distesi ed eleganti, riuscendo nell’intento di restituire la commistione tra aulico e popolare. L’ambizione visionaria di Kazantzakis (che all’interno del poema si ritrae nelle vesti di un cantore) può apparire eccessiva e a tratti contraddittoria, ma è difficile negare la bellezza che la sua Odissea riesce a sprigionare, a partire dal magnifico proemio. «Sole, grande astro orientale, berretto d’oro della mente, / che amo portare di traverso, / ho voglia di giocare, / perché gioiscano i cuori finché entrambi siamo vivi».
Il caso.
Dante e i Fedeli d’Amore: soltanto fake news
La “setta” cataro-templare di cui avrebbe fatto parte Dante è il fortunato frutto di una mistificazione novecentesca Ma i filologi ignorano le lacune dantesche sul neoplatonismo
di Franco Cardini (Avvenire, martedì 1 dicembre 2020)
Nell’approssimarsi del 2021, “Anno Dantesco” - e nella speranza ch’esso ci porti in dono anche la liberazione dall’epidemia - , è utile auspicare che alcune questioni dantesche vengano definitivamente risolte; e che su alcuni equivoci si faccia finalmente piena luce. In tempi di trasformazione epocale della “cultura diffusa” in seguito alla crisi delle istituzioni tradizionali scolastiche e universitarie e del diffondersi dei social (con la conseguenza allarmante di un intensificarsi della confusione dei linguaggi e della perdita progressiva di ancoraggi culturali autorevoli sui quali fondarsi) stanno pericolosamente riemergendo questioni dalle quali speravamo di essere definitivamente usciti.
Una delle più divertenti da un lato e angoscianti dall’altro, e che riguarda appunto Dante e il suo tempo, è quella dei “Fedeli d’Amore”. Una strana storia, un equivoco nato fra Otto e Novecento e in seguito bizzarramente trascinatosi in seguito all’affermarsi nella nostra cultura sia d’élite, sia “diffusa”, dell’interruzione di un dialogo che ha dato luogo a una sorta di schizofrenia, di dialogo tra sordi.
Nel sonetto dantesco A ciascun’alma, il primo accolto nella Vita Nova (III), il giovane poeta c’informa di essere stato còlto nella sua stanza “da un soave sonno” dopo aver incontrato diciottenne (si era quindi verso il 1283) per la secondo volta “la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice”. -Durante il sonno, egli narra di essere stato visitato verso l’alba da uno di quelli che Carl Gustav Jung avrebbe definito “sogni significanti”: svegliatosi, aveva composto un sonetto e lo aveva inviato alla ristretta cerchia di coloro che egli chiama “tutti li Fedeli d’Amore”- Guido Cavalcanti e Lapo Gianni principalmente -, pregandoli “che giudicassero la mia visione”. La quale era terribile: Dante aveva sognato il loro “signore”, cioè Amore personificato, in quale teneva fra le braccia “madonna” (cioè Beatrice) addormentata e in mano il cuore di Dante stesso, ardente; e, svegliatola, la costringeva spaventata a mangiarlo.
Il “cuore ardente” e il “cuore mangiato” sono immagini archetipiche fondamentali nella nostra cultura, e anche in altre: ne parla anche il Boccaccio, nella nona novella della IV giornata del Decameron.
L’ispiratore primario del giovane Dante era il poeta Guido Guinizzelli, il quale a sua volta era divenuto un celebre caposcuola per la sua canzone Al cor gentil, nella quale con efficace e affascinante chiarezza, ma sulla base di un’esile autocoscienza filosofica, aveva diffuso la lezione ripresa in pieno XII secolo dal trattato De amore di Andrea Cappellano, chierico al servizio di Maria di Champagne, figlia di Luigi VII di Francia e della grande Eleonora d’Aquitania, e pertanto sorella di Riccardo Cuor di Leone.
Ora, Eleonora aveva fatto conoscere in Francia settentrionale, cioè nel “paese della lingua d’oïl”, la poetica di suo padre Guglielmo IX, duca d’Aquitania e celebre trovatore, fondata sul servizio dell’innamorato all’amata: il primo considerato vassallo ( fizel, cioè fidelis) della seconda, che gli ha concesso in feudo il suo stesso cuore.
Ma la dottrina di Andrea era una metafora del magistero relativo all’amore che risaliva a Platone e che, dopo aver animato tutto il neoplatonismo medievale, era giunto nella cristianità occidentale alla sua piena maturazione con il platonismo della scuola di Chartres, cui ha dedicato un “classico” Tullio Gregory con il suo Anima mundi (nuova edizione, Fondazione CISAM, Spoleto 2020). Il fatto è che l’aristotelismo scolastico di Tommaso d’Aquino, principale referente di Dante, aveva spazzato via un insegnamento senza il quale gli stessi Agostino e Boezio, capifila della filosofia cristiana medievale, risultavano quasi incomprensibili, e durante il secolo XIX Dante e il suo richiamo ai “Fedeli d’Amore” (ormai divenuto un gruppo penitenziale esclusivo e segreto) era stato reinterpretato in modo tanto originale quanto obiettivamente mistificatorio da un professore liceale di filosofia, Luigi Valli (1878-1931), il quale aveva reinterpretato il misticismo politico laicista “ghibellino” di Ugo Foscolo e di Dante Gabriele Rossetti ohimè legittimato dalla sterminata, equivoca erudizione di Giovanni Pascoli. Era così nata la “sètta” medievale dei “Fedeli d’Amore”, oscuramente collegata al catarismo, al templarismo e alla Weltanschauung massonica, alla quale avevano fornito credibilità gli stessi saggi dell’esoterista René Guénon. Il tutto era stato sigillato da un altro geniale pasticcione, Alfonso Ricolfi, anch’egli documentatissimo critico dei “Fedeli d’Amore” e delle “Corti d’Amore” in polemica col Valli.
Bisogna dire che i professionisti della ricerca storico-filolgica dantesca, anziché replicare mostrando semplicemente gli equivoci generati dalle scarse cognizioni filologiche del giovane Dante (e anche di quello non più giovane) a proposito del neoplatonismo antico e medievale, si erano dottamente impegnati a sottolineare che i “Fedeli d’Amore” non erano mai esistiti con l’aiuto di ottimi documenti autentici, che per loro natura tutto potevano però provare meno che l’inesistente fosse mai esistito. Risultato di tutto ciò, un’incredibile follia schizofrenica: da una parte storici e filologi occupati a scomunicare - si leggano le pagine del Garin, del Viscardi e del Sapegno - l’inconsistenza e l’irrazionalismo dei seguaci del Rossetti e del Valli, dall’altra coloro che ne approfondiscono incuranti le tematiche.
Il punto però è che entrambe le “scuole” - chiamiamole così - sono partite da Dante e hanno seguito le polemiche nate sui “Fedeli d’Amore” fino ai giorni nostri senza ascoltare mai l’altra campana. Sarebbe stato sufficiente che gli studiosi seri e i dantisti filologicamente attrezzati avessero ricostruito - e avrebbero potuto ben farlo - le lacune di Dante relative ai fondamenti neoplatonici dell’Amor cortese. Il Contini e il Vinay c’erano andati vicini; nel segno aveva colpito la scuola di Maria Teresa Beonio Brocchieri, che però non si era preoccupata di “disincantare” né il Pascoli né il Valli.
Oggi, Franco Galletti torna sui “Fedeli d’Amore” con La bella veste della verità (Mimesis, pagine 602, euro 32,00), nel quale ricostruisce l’influenza della dottrina avviata (involontariamente) dal giovane Dante sui secoli successivi senza però nemmeno toccare “l’anello debole”, la sua inconsistente conoscenza del neoplatonismo del XII secolo che gli avrebbe fatto capir tutto; e sì che nel frattempo il capolavoro di Tulio Gregory è stato ristampato (esaminate il silenzio della sua bibliografia su alcuni autori a proposito di catari, di poesia francese medievale e di templari: capirete tutto).
Quanto ad Alberto Ventura, che ha fornito al Galletti l’assistenza delle sue solide cognizioni islamologiche, egli parla certamente con ottime ragioni del sufismo musulmano, senza avvertirci (non era suo compito il farlo) che esso - pur essendo l’islam, col commento aristotelico di Averroè, alla base della scolastica tomista - non aveva mai reciso né dissimulato il rapporto con la tradizione neoplatonica.
Insomma: un grazie a Rossetti che ha riportato la nostra attenzione sull’equivoco tardoromantico-esotericomassonico della lettura di Dante e un invito a tutti a riprendere in mano le cose dal principio. Cultura, alla fine e nella sostanza, è questo: avere il coraggio e l’energia di rimettersi in discussione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Europa. Letteratura medioevale ...
L’AMORE E LA PAROLA. Che cos’è l’amore, chi può amare, chi è massimamente degno di amore, come amare ? Del "Gualtieri" di Andrea Cappellano (XII sec.), una recensione
FLS
LA MENTE EROICA: LA MISURA EROICA..... *
Il Festival del classico
Andrea Marcolongo: «Nessun sano di mente vuole fare l’eroe. Ma tutti abbiamo bisogno di un Enea»
La scrittrice sarà ospite della Notte degli eroi: «Parleremo di Virgilio e del bestseller laico più venduto nella storia della letteratura occidentale contro la volontà del suo autore»
di Francesca Angeleri (Corriere della Sera/Torino, 26.11.2020)
«Non vedo l’ora di rituffarmi nuovamente negli scritti di Omero, tra le avventure di Ulisse e le grandi passioni di Achille. Un anno fa, nessuno si sarebbe mai sognato che avremmo avuto bisogno di un Enea che ci insegnasse a resistere». C’è una parola che Andrea Marcolongo pronuncia ripetutamente mentre racconta del suo libro La lezione di Enea ed è: macerie. L’intervento della scrittrice nella serata che precede il Festival del Classico racconterà dell’uomo/eroe Enea e del ruolo che la sua figura ha nelle nostre vite di oggi.
Perché Enea?
«Non è un libro che avrei voluto scrivere. Quando tutto va bene è doveroso scegliere dal catalogo omerico. Ma quando tutto va male, l’Eneide è il manuale d’istruzione per stare in piedi. Siamo in mezzo alle macerie tra ciò che eravamo e i cocci che rimetteremo insieme a forma di futuro. Sempre mi chiedevo se l’Eneide mi piacesse o meno. Virgilio l’ha scritta tra le sue di macerie, a metà tra la Repubblica e l’Impero. Baudelaire era un fan dell’Eneide. Questo libro a un certo punto è stato necessario. C’è una differenza tra resistere e sperare che passi e reagire, guardare in faccia le macerie e costruire qualcosa di nuovo. Il Festival del Classico, come Enea, sta facendo questo».
Ha poi scoperto se l’Eneide le piace o meno?
«In realtà sono davvero stanca e non vedo l’ora di dimenticarmela tutta questa Eneide. Certamente Virgilio mi piace tantissimo. È un grandissimo poeta e aveva chiaramente scritto, prima di morire, che assolutamente non voleva che il poema venisse pubblicato. Quindi, al festival parleremo del bestseller laico più venduto nella storia della letteratura occidentale contro la volontà del suo autore. Di Virgilio amo il fatto che non pretende di insegnarci niente. Non ci dice che impareremo dal dolore, né che ne usciremo migliori, non fa speculazioni filosofiche e non ci dice che saremo bravi se resisteremo né vigliacchi se piangeremo. Nessuno se è sano di mente vuole fare l’eroe. Nessuno si lancia in imprese impossibili se non è costretto a farlo per davvero».
Cosa ne pensano i suoi lettori?
«Io come scrittrice non mi sarei mai aspettata che ancora oggi avremo vissuto questa situazione. Immaginavo i festival, le presentazioni, gli incontri con i ragazzi. L’unica eco che ho arriva dai social e dagli eventi online. Ieri, durante un incontro digitale con un liceo di Lecce, ho trovato strabiliante che tanti quindicenni mi dicessero: “Enea è il nostro eroe. Vogliamo resistere e ricostruire come ha fatto lui”. Mi hanno fatto molta tenerezza, perché non sono loro a dover essere Enea, loro sono Ascanio. Noi adulti dovremmo prenderli per mano e ricreargli un futuro. Prima di ricostruire si dovrebbe avere il diritto a contestare e rivoluzionare il presente. Dovrebbero poterci dire: distruggiamo la vostra incapacità».
Dopo Enea, di cosa avremo bisogno?
«Non penso di festeggiamenti folli o grandi odissee. Io desidero stabilità. Credo ci sarà bisogno di tanta poesia, e di gentilezza. E chi avrà voglia di partire sarà libero di farlo».
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FILIAZIONE DIVINA E "PRATICA DELLA SCIENZA NUOVA". VICO : "LA MENTE EROICA". Il testo dell’orazione inaugurale del 1732
FLS
Speciale: SanLorenzo
La spedizione degli Argonauti
di Luigi Grazioli *
“Su tutti gli abissi del mare, soltanto una nave si vede”, così scrive Valerio Flacco descrivendo una delle profetiche sculture che decorano la porta del tempio di Febo nella Colchide, dove sono da poco approdati proprio con quella nave gli Argonauti, il fior fiore degli eroi della Grecia pre-iliadica guidati da Giasone, per sottrarre il prodigioso Vello d’oro al suo attuale possessore, il re Eeta, figlio del Sole, che secondo loro non avrebbe diritto di detenerlo.
La nave è Argo, la prima nave secondo certe versioni del mito, la migliore e più veloce secondo altre, ma pur sempre la prima ad avere un suo nome e a sfidare il mare aperto, rotte ignote. Nei tempi antichi le navi erano considerate esseri viventi, con gli occhi dipinti a prua per permettergli di orientarsi sul mare sconfinato. Alcuni dicono che Argo avesse invece una polena a forma di ariete, forse lo stesso del vello d’oro, anche se una cosa non escluse l’altra: nelle strategie apotropaiche abbondare non guasta. Infatti Poseidone, notoriamente possessivo e permaloso, considerava ogni navigazione come un’offesa personale: tanto più nei confronti di Argo che per prima aveva osato violare il suo regno.
Per questo, per affrontare le sue tempestose vendette c’era bisogno della protezione di altri dei concorrenti, come si usava a quei tempi tra gli olimpici. Serviva quindi una nave divina, e Argo lo era, perché era stata sì costruita dall’eroe eponimo, Argo, ma sotto la guida di Atena, che l’aveva dotata anche di “un legno con voce umana” collocato “in mezzo alla carena”, secondo Apollonio Rodio, come a suggellarne lo statuto di un essere vivente vero e proprio, protagonista della spedizione al pari del suo equipaggio. Argo infatti partecipa direttamente all’azione non solo, per esempio, quando muore Tifi, il suo primo nocchiero, per designare personalmente il suo successore in Ergino; ma soprattutto perché è grazie a lei, e al favore divino che incarna, che in molte occasioni troverà la salvezza Giasone con i suoi compagni; e sarà sempre lei, alla fine, come giusto, la causa della morte dell’eroe, ucciso, come forma suprema di sarcasmo, da una sua trave in seguito alla maledizione scagliata contro di lui da Era per aver tradito la promessa di fedeltà fatta a Medea.
Attraversare il mare resta un pericolo ancora oggi, anche se non per tutti. Ma ancora c’è chi lo affronta alla ricerca del suo vello d’oro, o più modestamente dell’oro di una sopravvivenza dignitosa e pacifica. Ma coloro che il mare reclama a sé, con la connivenza degli uomini, oggi raramente hanno tumuli, sacrifici offerti agli dei, rituali che li accompagnino nell’Ade e ne conservino la memoria come per gli Argonauti morti durante il loro viaggio. Vanno a fondo, le ossa spolpate come già Fleba il fenicio 3000 anni prima, o galleggiano sul mare, portati a spalla dalle onde verso riva, come se solo così possano trovare un porto. Favore degli dei non ne hanno, nessuna Argo che li trasporta e protegge.
Argo è il soggetto principale, almeno dal punto di vista visivo che in un quadro è ciò che conta, di un’incantevole tavoletta che si può ammirare al museo di Padova, e che si trova riprodotta ormai pressoché ovunque si parli del viaggio degli Argonauti.
La tavoletta, di circa mezzo metro di lato (46x53), apparteneva al secondo di una coppia di cassoni nuziali realizzati attorno al 1485 per le nozze di un appartenente alla famiglia patrizia bolognese Guidotti, decorati da sei immagini che narravano la storia degli Argonauti ora disperse in vari musei (vedi la ricca scheda della tavola di Paola Tosetti Grandi nel catalogo della mostra Da Bellini a Tintoretto). Il soggetto era un tema ricorrente della decorazione di questi mobili nuziali, di cui restano vari esempi come quello di Jacopo del sellaio, del 1465, o quello attribuito a Biagio d’Antonio, entrambi al Metropolitan, o quello, coevo al nostro, che appartiene alla Serie di pannelli con storie degli Argonauti dipinti per il matrimonio di Lorenzo Tornabuoni con Giovanna di Maso degli Albizzi, riprodotti qui sotto
La ragione di questa predilezione sembrerebbe quella, alquanto curiosa secondo la nostra mentalità, che individuava in Medea un simbolo di fedeltà coniugale, pronta a tutto pur di difenderla; nonché, mi vien da aggiungere, un monito al marito perché osservi il patto coniugale, se si pensa a cosa Medea è stata capace di fare quando ha scoperto il tradimento di Giasone, con il tradizionale strascico grandguignolesco che miti e tragedie non si fanno scrupolo di raccontare in ogni dettaglio, nell’eterna vicenda che vede come prime vittime i figli, come dimostra la cronaca nera di tutti i tempi, con la differenza che le stragi, oggi, sembrano appannaggio quasi esclusivo dei padri, deboli e isterici quanto violenti.
L’attribuzione dell’opera è stata alquanto tribolata, ma negli ultimi decenni è prevalsa quella a Lorenzo Costa giovane (da ultimo da Alessandro Serrani), quando era sotto l’influenza di Ercole de’ Roberti, se non sotto la sua personale direzione, negli anni in cui collaborava con lui a Bologna. La sua matrice è di sicuro ferrarese, ad ogni modo, come attestano l’Ercole estense a poppa e la forma di nave che riproduce con precisione quella di un’imbarcazione da trasporto di fattura ferrarese detta cocca o nave tonda, anche se ultimamente Valentina Balzarotti ha portato argomenti alla tesi della paternità di Bernardino Orsi da Collecchio, dando una convincente lettura dell’episodio che vi è rappresentato, pure oggetto di molte controversie.
Quella rappresentata nella tavola infatti è una scena che è quasi impossibile definire con esattezza nel complesso contesto del mito degli Argonauti e delle sue versioni letterarie più note, quelle citate di Apollonio Rodio e di Valerio Flacco, a meno di incongruenze che peraltro si presenterebbero, di volta in volta diverse, a ogni versione scelta; e altrettanto se si tiene conto della comprovata posizione della tavola come ultima della serie dei due cassoni. Tra i titoli proposti ricordo “La spedizione degli Argonauti”, “Fuga degli Argonauti dalla Colchide” o semplicemente “La nave Argo e il suo equipaggio”, per non parlare di chi vede nella scena il momento in cui Argo ha superato gli scogli mobili delle Simplegadi che da quel momento resteranno per sempre ancorate alla terraferma liberando così il passaggio per tutti i successivi naviganti. Si tratterebbe anche in questo caso di un momento decisivo: dopo di allora il mare sarà reso disponibile all’impresa, e poi a guerre e commerci; lo spazio lontano, selvaggio, inaccessibile, diventerà una possibile meta di incontri, guadagni e conquiste, sempre pericolose - sono barbari in fin dei conti - ma ricondotte nell’ambito delle finalità realizzabili.
Siccome non sono un filologo né un iconologo, non entrerò nella discussione e mi atterrò a ciò che vedo, adottando di volta in volta le ipotesi ad hoc che mi sembreranno più convincenti per la mia lettura. Qualcuna la si deve pur fare quando si usano parole per descrivere immagini, essendo la pura ekphrasys impossibile.
E ciò che si vede dipinto è una scena drammatica e insieme incantata. Una nave apparentemente grandissima, per quanto scarsamente popolata tenendo conto che gli Argonauti erano cinquanta, si sta allontanando da riva sospinta da venti favorevoli. Il mare è calmo, nessuna avvisaglia di pericolo o di tempesta, come nelle marine bibliche o olandesi sovraccariche di insegnamento religioso o allegorico, o in Turner, sovraccarico di nient’altro che non sia gloriosa pittura.
Sul ponte alcuni marinai o passeggeri stanno seduti a godersi la brezza marina senza fare nulla di particolarmente significativo, come una bella comitiva “in piccioletta barca”, mentre a prua un energumeno belluino brandisce una clava con fare minaccioso verso riva, con alle spalle un bel guerriero protetto da uno scudo che agita una spada nella stessa direzione, diversamente da un altro guerriero elegante e ben armato che se ne sta in piedi a poppa intento a nient’altro, sembrerebbe, che a incarnare una posa vezzosa.
Il primo è senz’altro Ercole, che non dovrebbe esserci in nessuna delle scene proposte, essendo già stato abbandonato a terra quasi all’inizio dell’avventura alla ricerca del suo amato scudiero Ila, rapito da una ninfa lei pure invaghita di lui: un soggetto molto amato dai pittori, da Francesco Furini a John William Waterhouse; degli altri il secondo dovrebbe essere Giasone che, se corretta l’interpretazione del momento rappresentato come quello della fuga dalla Colchide dopo aver trafugato il vello d’oro, ha appena tagliato la gomena dell’ancoraggio per prendere il largo in fretta e furia. Dalla scena è inopinatamente assente Medea, che compare invece in un’altra tavoletta del cassone, forse il quinto della serie, ora al museo Thyssen-Bornemisza di Madrid
I fuggitivi, stando a questa interpretazione, sono inseguiti dal gruppo di cavalieri che si vedono sulla destra, minacciosi ma schiumanti di rabbia delusa per il ritardo, mentre accorrono su una specie di ponte ricavato dalla roccia. A loro si rivolge altrettanto minaccioso Ercole, che agita la clava e forse persino li deride, assecondato anche da Giasone, ora che la nave non è più a tiro. In fondo l’impresa che hanno appena portato a termine (ma resta sempre il ritorno, che come d’uso sarà perigliosissimo a sua volta) è piuttosto discutibile. -Che diritto hanno Giasone e il suo re Pelia, che peraltro aveva usurpato il potere che spettava a Esone, padre dell’eroe, di rivendicare il possesso del vello d’oro, per quanto in origine appartenente a Frisso, un suo parente? Frisso aveva sposato una figlia di Eeta e in cambio gli aveva donato l’ariete miracoloso. Il suo recupero è un furto bell’e buono. Una razzia, di cui parte integrante è Medea, preda e protagonista a sua volta, oggetto di incantamento (da parte di Era e Atena via Afrodite) e maga incantatrice, sottomessa e fedelissima al futuro marito, ma spietata traditrice del padre e del fratello, tanto per cominciare.
Di chi è il vello d’oro, allora? Di chi sono le opere che riempiono collezioni e musei di tutto il mondo provenienti da altre regioni e contesti, acquisite in modi non di rado illeciti? La restituzione è doverosa? Totale? Entro quali limiti? Il recupero va effettuato ad ogni costo? Dopo quanto le razzie passano in giudicato? E secondo le leggi di chi, tra i contendenti?
Fatto sta che gli eroi fuggono con la refurtiva sentendosi in diritto di detenerla e quindi di minacciare gli inseguitori nelle persone di Ercole e Giasone, mentre gli altri se ne stanno a oziare come se niente fosse, a parte il damerino in armi sospeso a una spanna dal suolo a prua, nello spazio incantato della nave, come del resto sembra librata Argo stessa. È bensì vero, infatti, che la spuma si increspa contro lo scafo, ma la nave per il resto sembra decollare dallo spazio immacolato del mare come se si apprestasse a veleggiare, volando, verso una sua celeste destinazione.
È proprio questo incanto che mi ha colto quando mi sono trovato davanti al quadro la prima volta che l’ho visto dal vero a Padova. A suscitarlo era stato, ed è, qualcosa nella costruzione dello spazio, nei candidi colori del mare e delle rocce, nella forma di quest’ultime e nel loro rapporto con il resto del paesaggio, ancor prima di riconoscere il suo soggetto. Qualcosa che ricorda lo spazio vago dei sogni costellato di dettagli vivissimi rappresentati con minuziosa precisione, accostati gli uni agli altri più che fusi in un’ambientazione spazialmente coerente e realistica.
Più che di un improbabile effetto ricercato dal pittore, si tratta di una conseguenza involontaria, almeno per come l’ho vissuta io, dei difetti nella costruzione dello spazio e di esecuzione delle figure in esso collocate, congiuntamente al rapporto tra la nave e il paesaggio e alla storia che sembra raccontare. Il difetto si ribalta allora in pregio; il non cercato in trovato. Messe tra parentesi le considerazioni di accuratezza nell’esecuzione prospettica che di solito declinano la scena in senso realistico, si spalanca un mondo immaginario in cui il mito si riallaccia ai racconti domestici di fantasia, alle fiabe da cui in origine forse nulla lo distingueva. Eroi con un solo sandalo o zoppi, prove da superare, aiuti magici o divini, mostri, avventure, errori, principesse sposate e in certi casi tradite, brillanti riuscite che talvolta si rivelano più nefaste dei peggiori fallimenti.
Gli eroi sulla tolda sono quasi tutti giganteschi in rapporto alla nave, non solo Ercole che ovviamente lo è più di tutti, mentre il gruppo degli inseguitori, che dovrebbe essere in primo piano, è invece proiettato in lontananza, come la costa con i suoi alberelli. In primo piano, enorme quasi a saturare tutto lo spazio, è la nave, almeno dal punto di vista visivo, dipinta senza tener conto della prospettiva, o con una prospettiva rovesciata sommaria, e di fatto misurata sull’importanza e la gerarchia che l’autore intendeva assegnare alle cose rappresentate, ingenua come quella di certi ex-voto, all’apparenza, ma di fattura nel complesso alquanto accurata.
Le rocce su cui stanno i cavalieri formano un ponte (a meno che non si tratti di un ponte vero, sotto cui scorre l’acqua di un fiume che dovrebbe sfociare nel mare anche se non si vede dove, limitandosi a formare una specie di pozza, stagno o palude alla base dell’immagine) non sembrano portare da nessuna parte e scendono a precipizio verso il mare o la costa; la città in lontananza, circondata da monti e rocce che la proteggono come nel palmo di una mano, quasi si confonde con il paesaggio, come un miraggio esotico; i cavalieri a loro volta sembrano figurine collocate tra la strada e le rocce più che poggiarvi saldamente, e ciononostante rendono bene la delusione, o forse la rabbia di essere giunti troppo tardi; il mare, incorniciato in basso e a destra dalla costa con spiagge, piccoli alberi e cespugli isolati o ammassati in macchie di vegetazione e di colore, più che dettate da qualche notazione naturalistica; una costa frastagliata, in parte di scogliera ma con spiagge e piane che scendono verso di esso in lontananza... tutto concorre al risalto della nave, a proiettarla in una dimensione che condivide con essa, ma non la racchiude.
Su tutto, Argo si staglia maestosa, eroica, salpata non verso il mare aperto ma verso l’aria, il cielo, dove peraltro è destinata fin dalla sua origine dal catasterismo di prammatica nel mito antico, non solo greco, come illustrano Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend nel loro meraviglioso Il mulino di Amleto.
Argo infatti, come alcuni dei suoi passeggeri, i gemelli Castore e Polluce per esempio, alla fine della sua parabola assurgerà al cielo, dove formerà la costellazione australe omonima, o della Nave, che sorge all’orizzonte il 14 marzo e tramonta il 22 settembre, tracciando la sua rotta negli infiniti mondi e mandando segnali e vaticini a chi li cerca e li sa leggere. Guardando la tavoletta, anche lo spettatore è preso, come da un’agitazione ignota, dal desiderio di imbarcarsi per questo viaggio celeste e salire verso il firmamento alla ricerca della sua stella fissa, della costellazione a cui forse appartiene lui pure da sempre, dove trovare finalmente un approdo, una dimora. Una casa lontanissima da casa; una casa che non è una casa; che è chissà cosa.
Dal 1958 i cantieri navali Sanlorenzo costruiscono motoryacht su misura di alta qualità, distinguendosi per l’eleganza senza tempo e una semplicità nelle linee, leggere e filanti, che si svela nella scelta dei materiali e nella cura dei più piccoli dettagli.
* Doppiozero, 20 novembre 2020 (ripresa parziale - senza immagini).
IL «SISTEMA IMPERIALE SPAGNOLO» E L’ «UNIVERSALISMO» DI CARLO V...*
SE E’ VERO CHE, "Fin dal titolo, «Capitali senza re nella Monarchia spagnola. Identità, relazioni, immagini (secc. XVI-XVIII)» - i due tomi, curati mirabilmente da Rossella Cancila, editi da «Quaderni di Mediterranea Ricerche Storiche» - appaiono intriganti e utili per un avanzamento degli studi storici sul sistema imperiale spagnolo" (A. Musi, qui), FORSE, è opportuno tenere presente che l’organizzazione stessa del sistema imperiale ha una sua "storia" e, più propriamente che, sì, "La Castiglia gioca sicuramente - come sostiene nell’Introduzione Rossella Cancila (p. VIII) - un ruolo preponderante all’interno dell’insieme" all’epoca di Filippo II, ma - è da precisare, per non perdere la differenza - non nella fase di Carlo V.
Dimenticare il legame di Carlo V con le sue "radici" (i Paesi Bassi e la Borgogna) porta, a mio parere, a distorsioni e a fraintendimenti non solo delle stesse relazioni all’interno del sistema imperiale ma a "dimenticare" anche il ruolo importante (ancora non ben messo a fuoco) del portoghese Ruy Gomez, Principe di Eboli, grande collaboratore dello stesso Filippo II: "La proposta di polycentric monarchies è applicabile anche al caso portoghese e non solamente in relazione agli anni di unione delle due corone (1580-1640), ma anche in riferimento all’eredità che gli Asburgo lasciarono alla monarchia lusitana negli anni successivi" (p. IX); e, ancora e non ultimo, a non comprendere la grande portata ideologica e strutturale dell’Ordine del Toson d’Oro, creato da Filippo di Borgogna.
* Nota a margine della rec. di Aurelio Musi, "Alla scoperta della monarchia spagnola dei secoli XVI-XVIII, nei volumi curati da Rossella Cancila" (L’Identità di Clio, 16 novembre 2020)
Federico La Sala
LA VIA DELLA “SETA”: RIPARTIRE DA “GRANADA”. Una “fruttosa” sollecitazione storiografica... *
VISTA la ricca documentazione storica e artistica sul “viaggio” della «”seta”(il melograno/la melagrana)» nell’area mediterranea e, al contempo,l’ammissione preziosa da parte dell’ Autore della ricerca (Armando Polito, "La “seta” (il melograno/la melagrana) 5/5", Fondazione Terra d’Otranto, 04.10.2013) che “In Europa l’unica forma, per così dire, di istituzionalizzazione della melagrana che io conosca è lo stemma della città di Granada”), forse, è il caso di ripartire proprio da Granada e rimettere in moto l’indagine sulla presenza della «”seta”» in tutta l’Europa.
A ben guardare, infatti, la conquista di Granada da parte di Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona avviene nel 1492 e la melagrana, nello stemma araldico di Ferdinando II d’Aragona, compare proprio dal 1492 e, poi, ricompare - definitivamente “istituzionalizzata” - nella mano dell’imperatore del Sacro Romano Impero, Massimiliano I d’Asburgo, ritratto da Albrecht Durer nel 1519. **
A partire dalla “melagrana”, e ripartendo da Granada, l’orizzonte si apre sulla nascita del “sistema imperiale spagnolo” e, all’indietro, sui passi accidentati di una “storia del mondo”, iniziata almeno nel IX sec. a.C (riguardare la documentazione “archeologica”: “il frammento di un bassorilievo ittita del IX secolo a. C. raffigurante la dea Kubaba ... La dea stringe nella destra una melagrana”).
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UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
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Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
UNA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" ITALICA. L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma: *
A) Mussolini, Discorso dell’anno IX - Roma, 27 ottobre 1930: "Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, è universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. -Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, unì Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo.
Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. Per questo noi sorridiamo quando dei profeti funerei contano i nostri giorni. Di questi profeti non si troverà più non solo la polvere, ma nemmeno il ricordo, e il Fascismo sarà vivo ancora. Del resto ci occorre del tempo, moltissimo tempo, per compiere l’opera nostra. Non parlo di quella materiale, ma di quella morale. Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. È una fatica grandiosa.
Il Risorgimento non è stato che l’inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno per giorno, in questa opera di rifacimento del carattere degli italiani [...]"(Messaggio per l’Anno Nono - Roma, 27 ottobre 1930, in B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIV, p. 283).
B) Mussolini - Milano, Piazza Duomo, 25 ottobre 1932: "Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che questo secolo decimoventesimo darà il secolo del Fascismo. Sarà il secolo della potenza italiana. Sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere direttrice della civiltà umana. Perché fuori dai nostri principi, e soprattutto in tempi di crisi, non c’è salvezza né per gli individui e tanto meno per i popoli.
Fra dieci anni - lo si può dire. Senza fare i profeti - l’Europa sarà cambiata. Non da ora si sono commesse delle ingiustizie, anche contro di noi, soprattutto contro di noi. E niente di più triste il compito che vi spetta di dover difendere quello che è stato il sacrificio magnifico di sangue di tutto il popolo italiano. [...] Tra un decennio l’Europa sarà fascista o fascistizzata!
L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma [...]" (B. Mussolini, Opera Omnia, XXV, pp. 147-148).
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAFIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924). IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO : MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Recensione a:
Sappiamo che Socrate amava intrattenere conversazioni con i concittadini nell’agorà di Atene, ponendoli ironicamente di fronte a insolite questioni e sollecitandoli a spiegare e giustificare le proprie affermazioni al riguardo. Il filosofo non intendeva insegnare qualcosa ai suoi interlocutori e introiettare in loro una qualche conoscenza dall’esterno, bensì condurli a trovare la verità nascosta in se stessi, portandola alla luce attraverso l’interrogazione e lo sradicamento delle false doxai. Lo scopo era, cioè, quello di aiutare il soggetto a partorire la propria verità, seguendo la celebre metafora della maieutica proposta dallo stesso Socrate. L’obiettivo è realizzabile nel corso di una vita fatta di riflessione, interrogazione continua e messa in discussione dei convincimenti più radicati, poiché proprio dietro la più proclamata sicurezza può nascondersi una subdola ignoranza della verità. Solo a partire dalla conoscenza di se stessi e dal riconoscimento dei propri limiti, risulta possibile dare alla luce la verità. Precisamente in virtù dell’attività socratica, la filosofia inizia a delinearsi come conversazione dialettica e come disciplina caratterizzata da lineamenti precisi.
Non è un caso che la personalità di Socrate attraversi e accompagni la totalità della riflessione di Hannah Arendt, fornendo all’autrice un vivo esempio per la formulazione di tesi che ruotano intorno al controverso rapporto tra filosofia e politica, alla coscienza individuale e al tema del male.
Il saggio Socrate compare per la prima volta in traduzione italiana nel 2015, figurando in origine come terza e ultima parte di un corso tenuto presso la Notre Dame University nel 1954.
Il testo si apre con un’introduzione a cura di Ilaria Possenti, la quale contestualizza il contributo arendtiano nel contesto della produzione letteraria dell’autrice, e che nelle sue considerazioni prende avvio da una lettera indirizzata da Arendt a Karl Jaspers nell’estate del 1956, dove l’autrice individua nel processo a Socrate il principio del conflitto tra filosofia e politica. Ricostruendo la genesi di questa contrapposizione, Possenti spiega che Arendt non condanna la polis ateniese, bensì chiama in causa Platone, l’allievo di Socrate. Egli avrebbe lasciato in eredità alla storia del pensiero occidentale due convinzioni fondamentali: “che la politica, così come Atene l’aveva intesa, fosse una pericolosa fonte di ingiustizia; e che i criteri per porre rimedio all’ingiustizia dovessero essere trovati altrove, al di fuori e al di sopra della polis” (p. 9). Ciò è evidente se ci rivolgiamo alla Repubblica: la città ideale delineata nel dialogo si regge su un ideale statico di giustizia, definito a priori, che deve la sua realizzazione nel contesto sociale alla reggenza dei filosofi, coloro che, distanti dalla polis, hanno dedicato la loro vita al puro pensiero inteso come noein, come intuizione e contemplazione della verità.
Secondo Arendt, Platone definì “i termini del conflitto tra filosofia e politica” (p. 10), generando uno iato tra le due, di cui l’autrice lo accusa direttamente. L’allievo fallì così nel cogliere l’eredità del maestro, in cui filosofia e politica risultano invece coessenziali: “così facendo, Platone inaugura la ‘grande tradizione’ rendendo immortale la figura di Socrate e marginale il suo pensiero politico” (p. 11).
Arendt individua, invero, precisamente nella prospettiva socratica un’alternativa a una filosofia ormai esaurita, inserendola peraltro nella sua visione fenomenologica. Nell’ottica arendtiana, l’unica realtà è data dall’apparire e dal mondo comune, lo stesso mondo comune a cui si rivolgeva il filosofo greco. La sua concezione della “condizione umana, in qualche modo intesa come condizione ‘politica’, [...] dovrebbe aiutarci a ripensare da capo il senso della vita della polis [...] e l’oggetto stesso della ‘meraviglia’ filosofica - la pluralità che ci unisce, ci distingue e ci attraversa” (p. 18): è precisamente in ciò che possiamo individuare il fulcro delle riflessioni arendtiane contenute in Socrate.
Il saggio si apre con Il processo di Socrate e la replica di Platone. L’autrice inizia le sue considerazioni partendo dal contesto di appartenenza del filosofo, dominato dall’arte della persuasione, l’arte più elevata e più prettamente politica, che rappresenta ciò in cui fallì Socrate, non riuscendo a persuadere i giudici della sua innocenza. Il filosofo non avrebbe dovuto mirare a far partorire una verità che i giudici non erano disposti ad accogliere, bensì a persuaderli della validità del suo punto di vista.
Nell’ottica platonica, la causa della sconfitta del maestro è da ricercare nel fatto che Socrate si rivolse ai giudici nello stesso modo in cui era solito conversare con gli Ateniesi, secondo il metodo dialettico, e non retorico: il dialeghesthai, però, risulta possibile solo come dialogo tra due soggetti, mentre peitho si rivolge sempre a una moltitudine, ragione per cui Socrate avrebbe dovuto ricorrere alla persuasione piuttosto che alla dialettica. Ciò condusse Platone a dubitare del valore del peithein e con esso anche della doxa, che il maestro cercava di far esprimere agli interlocutori: “è lo spettacolo di Socrate che sottopone la propria doxa alle opinioni irresponsabili degli Ateniesi, e che viene infine sconfitto da una maggioranza, a spingere Platone al disprezzo delle opinioni e a fare di lui un ardente fautore di criteri assoluti” (pp. 26-27).
L’adesione platonica a una normatività suprema è, dunque, motivata da Arendt in base alla delusione provata di fronte alla condanna del maestro. A una politica basata sull’opinione plurale, Platone sostituì principi univoci e inequivocabili che non possono essere oggetto di persuasione. Ma egli andò ben oltre la vendetta del maestro affidando il governo ai filosofi, a quei sophoi che per definizione esulano dalla sfera degli affari della città, ribaltando il vecchio aneddoto di Talete deriso dalla servetta perché caduto nel pozzo, in quanto troppo intento a guardare il cielo. Cionondimeno, se Socrate fu il primo filosofo a rivestire un ruolo politico, Platone fu l’ultimo.
Nella seconda parte del saggio Arendt passa a discutere in maniera sistematica la posizione di Socrate. Nella ricostruzione arendtiana, egli fu indubbiamente il primo a ricorrere al dialeghesthai, ma senza considerarlo la controparte di peitho e della doxa, come arrivò invece a fare l’allievo.
Nella prospettiva socratica, la doxa corrisponde alla comprensione che ognuno ha del mondo, della maniera in cui la realtà si apre e si mostra al soggetto particolare, a seconda del posto occupato in essa. È lo stesso mondo comune a rivelarsi, presentandosi però a ciascuno in modo diverso. Ciò spiega perché la dialettica socratica prenda avvio da una serie di domande attraverso le quali il filosofo cerca di capire quale sia la posizione del suo interlocutore nella realtà, al fine di aiutarlo poi a portare alla luce la propria verità: “Socrate voleva rendere la città più veritiera facendo partorire a ogni cittadino la propria verità. Il metodo per farlo è il dialeghesthai, ma quest’arte dialettica [...] non distrugge la doxa, l’opinione; al contrario, ne rivela la veridicità” (p. 35).
La maieutica di Socrate assume dunque i tratti di un’attività politica, che mira a rendere migliori i cittadini, facendo di loro in ultima istanza degli amici, in contrasto con lo spirito agonale regnante nella polis, costituente una minaccia per il bene comune. In particolare, l’aspetto politico dell’amicizia risiede nel fatto che l’amico è capace di comprendere il modo in cui la realtà si apre all’altro, attraverso il dialeghesthai socratico: si tratta della stessa virtù dell’uomo politico, il quale dovrebbe dimostrarsi in grado di comprendere lo spettro più ampio possibile di realtà, al fine di rendere evidente l’essere-in-comune del mondo e formare su tale base una comunità, costruendola sulla comprensione propria degli amici.
È sul tema della philia che Arendt struttura la parte più dinamica del saggio, La scoperta del “due-in-uno”. -Premessa indispensabile di questo capitolo è il precetto delfico “Gnôthi sautón”, esemplificato dalla personalità socratica. Nell’ottica arendtiana, l’invito alla conoscenza di se stessi comporta che il principio guida del soggetto deve tradursi nella comprensione veritiera della propria doxa e nell’accordo dell’individuo con se stesso, ossia nella philia interiore. La paura di incorrere in questo genere di contraddizione è giustificata in base al fatto che ognuno di noi può parlare con se stesso: nel pensiero ognuno di noi è due-in-uno, e l’armonia di questa dualità si pone come la condizione imprescindibile per l’accordo con l’altro; la paura della contraddizione, dunque, altro non è che timore della scissione e della perdita della coerenza. La pluralità si rivela così come una condizione ineliminabile della natura umana, dacché è sì possibile l’allontanamento da qualsiasi forma di organizzazione sociale, ma mai dall’altro dentro di noi.
Ciò implica la convivenza con un testimone di tutte le azioni individuali, con uno spettatore giudicante a cui non è possibile sfuggire: è quel tribunale che la modernità chiamerà coscienza. L’io è così sdoppiato in imputato e testimone, in esecutore e pubblico.
Vista l’impossibilità della separazione da quest’ultimo, per il soggetto è preferibile essere in disaccordo con l’intera società piuttosto che con se stesso, col quale deve sempre convivere: si tratta precisamente della tesi affermata da Socrate nel Gorgia, dove egli dimostra peraltro con forza che è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla (Gorg. 482b). Il compimento di un atto malvagio comporta la convivenza obbligata con un individuo che vorremmo invece evitare e col quale non è possibile essere in armonia, dacché nessuno sceglierebbe di accompagnarsi a un criminale. Ciò costituisce dunque una situazione di disaccordo interiore, accentuata dalla presenza di un testimone che giudica negativamente le nostre azioni malvagie.
La pluralità esterna può anzi distrarci dalla molteplicità più angosciante, rappresentata dal due-in-uno. Nella discussione, inoltre, l’altro ci riconosce come singolo, come una sola voce.
Poste queste premesse, abbiamo modo di comprendere in che modo le presenti considerazioni si pongano in stretta relazione con quanto affermato relativamente alla philia. Solo chi, vivendo l’esperienza del dialogo interiore, è in accordo con se stesso e una persona affidabile, che in quanto tale può diventare un amico, definito in termini aristotelici come un altro se stesso, secondo a quello che abbiamo dentro di noi. Se, cioè, l’individuo supera il giudizio del tribunale della coscienza presieduto da se medesimo, dimostrandosi un compagno leale, può rapportarsi con l’altro in quanto uno, in qualità di soggetto coerente con se stesso e degno di fiducia.
Nella quarta parte, La sconfitta di Socrate, Arendt riflette sulle conseguenze tangibili della visione socratica analizzata nelle pagine precedenti. “Il conflitto tra la filosofia e la politica, tra il filosofo e la polis, esplose dopo che Socrate, più che svolgere un ruolo politico, aveva voluto rendere la filosofia rilevante per la polis” (p. 48): l’opposizione si concluse con la sconfitta della filosofia e determinò la separazione tra pensiero e azione, conducendo la figura del filosofo a disinteressarsi degli affari della polis.
Nella lettura arendtiana, la filosofia venne così a trovarsi di fronte a un bivio: interpretare l’esperienza filosofica secondo le categorie degli affari umani, oppure giudicare quanto rientra nella sfera politica alla luce della visione filosofica. È in questa seconda direzione che è andato Platone, costruendo una polis retta dai filosofi. Nella parabola della caverna egli condensa la biografia del filosofo, il quale si trova ad attraversare emblematici momenti di ribaltamento del proprio essere.
Ma Platone non ci spiega perché il filosofo decida di intraprendere questo percorso. Per risolvere la questione, Arendt richiama quanto si legge nel Teeteto, dove Platone individua l’elemento alla base della nascita della filosofia: “la meraviglia è ciò che appassiona di più il filosofo, poiché non c’è altra origine della filosofia diversa dalla meraviglia” (Thaet. 155d). Ed è proprio con la questione del thaumazein che Arendt chiude questo scritto. A suo avviso, la meraviglia nell’ottica platonica consiste in un pathos, in qualcosa rispetto a cui il soggetto è passivo e che non può trovare espressione nelle parole, ma che consente al soggetto di cogliere l’autentico significato della formula socratica “So di non sapere”. Nel momento in cui l’individuo subisce il thaumazein, capisce cosa significa non sapere. Da tale consapevolezza deriva l’impulso alla filosofia e alla continua interrogazione socratica. Arendt conclude il saggio rivolgendosi ai filosofi contemporanei, i quali, se vorranno raggiungere una nuova filosofia politica in seguito al conflitto con la polis, dovranno “però assumere come oggetto del thaumazein la pluralità degli uomini, dalla quale sorge [...] l’intera sfera degli affari umani” (p. 62).
I due saggi critici di Adriana Cavarero e Simona Forti, in appendice al testo di Arendt, rappresentano un interessante ausilio alla riflessione sul saggio. Cavarero nel suo commento, Il Socrate di Hannah Arendt, si concentra sulla comparsa della personalità socratica in due particolari momenti della riflessione arendtiana, ripercorrendo anche le differenze originarie rispetto allo sviluppo platonico: la prima scena colloca Socrate all’origine di una “pratica filosofica e insieme genuinamente politica” (p. 73), e individua nell’antitesi tra il maestro e l’allievo la scissione della filosofia dalla sfera politica e la conseguente fuga del sophos da tale contesto; l’altra situazione riconosce in Socrate il fondatore di un modello di pensare critico, l’ideatore della coscienza moderna, intesa nei termini di un tribunale interiore in cui il soggetto si interroga e deve rendere conto di sé a se stesso.
Se, però, nelle sue riflessioni Arendt ci ha convinto a difendere Socrate, Cavarero nel suo commento prende invece le parti di Platone, il quale è messo sotto inchiesta nel saggio arendtiano. Nelle pagine precedenti, infatti, ci siamo imbattuti nella disamina delle colpe metafisiche dell’allievo, che si possono riassumere in ultima analisi nel sacrificio di quella pluralità al cuore dell’insegnamento socratico a favore del totalitarismo dell’Uno, che si pone come l’oggetto supremo della conoscenza muta e contemplativa del filosofo. Cionondimeno, Cavarero ricorda al lettore che l’istante della contemplazione è sì presentato da Platone come la forma più elevata del pensiero, ma il filosofo ammette l’esistenza anche di altre articolazioni del conoscere, tra cui quella del “dialogo senza voce che l’anima fa con se stessa” (Soph. 263e). Tuttavia, Arendt sembra attribuire questo riconoscimento esclusivamente a Socrate, ma risulta evidente la presenza del dialogo silenzioso nell’interiorità dell’individuo anche nel contesto della riflessione platonica. La lezione che indubbiamente è doveroso trarre dall’insegnamento socratico, a discapito dell’allievo, è quella di “ripensare l’umanità, o forse pensarla per la prima volta nei suoi tratti concreti [...] registrare la pluralità che rende ciascun essere umano un essere unico, diverso da ogni altro” (p. 97).
Il saggio di Simona Forti, Letture socratiche. Arendt, Foucault, Patočka, è dedicato alle interpretazioni posteriori della figura di Socrate, in particolare, all’analisi dei tratti di quella “grande tribù del socratismo novecentesco della filosofia come forma di vita” (p. 100). Questa corrente individua in Socrate una testimonianza vivente di una condotta “che si singolarizza scegliendo per quanto possibile lo spazio indeterminato della libertà” (p. 100), distaccandosi da un’etica fondata su regole universali che definiscono a priori il bene e il male, delineandosi peraltro come una soggettività immanente che si assume la responsabilità delle azioni individuali di fronte all’altro e al soggetto stesso. In particolare, l’autrice individua un’affinità concettuale tra la prospettiva socratica sul daimon e la parresia e la riflessione di Hannah Arendt, Michel Foucault e Jan Patočka, commentatori novecenteschi del filosofo greco.
Se al centro della riflessione arendtiana vi è la scoperta del due-in-uno, al cuore dell’indagine di Foucault vi è, invece, la parresia, sulla quale Arendt non si sarebbe soffermata, secondo la lettura di Forti. La parresia può dischiudere uno spazio etico nuovo in cui l’interiorità si apre all’altro e alla collettività, delineandosi come una prassi politica in antitesi con l’adulazione e la retorica tipiche delle strutture di potere, dacché assume ad oggetto la verità.
Per quanto concerne l’altra figura al centro del commento di Forti, Patočka, citato dallo stesso Foucault in un corso tenuto nel 1984, concepisce la cura di sé, dell’anima, come radice della cultura europea, nei termini di una pratica filosofica di continua riflessione e interrogazione del soggetto su se stesso, suscettibile di aprirsi alla prassi e così alla dissidenza nei confronti dei meccanismi di potere.
In ultima analisi, ciò che unisce i tre volti novecenteschi nel loro confronto con Socrate è “la convinzione che l’azione politica [...] deve essere la manifestazione visibile di un’etica [...] l’effetto collaterale di un ethos, di una postura e di una condotta che si radicano saldamente nelle pieghe del ‘modo di vita’ del singolo” (p. 117). Ritornare a Socrate costituisce, dunque, un richiamo alla possibilità del soggetto di opporre resistenza alla forza delle circostanze, “è il nome della possibilità, del potere di ciascuno di resistere a un altro potere” (p. 123).
* Fonte: Discipline Filosofiche.
STORIA E STORIOGRAFIA.
LA "RESURREZIONE DEI MORTI". SULL’UTILITA’ E IL DANNO DELL’ARALDICA PER LA VITA... *
LO STEMMA DELLA CITTA’ DI APRILIA *
Un approfondimento
di don Antonio Pompili, Socio Ordinario dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano
Lo stemma di una città riflette le peculiarità, le tradizioni del suo territorio, della sua storia, rappresentando, attraverso figure e colori scelti per il loro significato simbolico, i valori sui quali la città è stata concepita e nei quali una intera comunità si riconosce, perché assimilatati nel corso delle generazioni e degli eventi che ne hanno caratterizzato il passato. Aprilia, come gli altri comuni di fondazione dell’Agro Pontino è il risultato di un intervento massiccio e invasivo dell’uomo che, attraverso la bonifica tentata per più volte nel corso della storia ma realizzata solo nel secolo passato, ha modificato sostanzialmente un ambiente ostile all’uomo e al suo insediamento, convertendolo alle sue esigenze economiche, politiche e strategiche. Si tratta di uno scenario completamente nuovo rispetto ad origini molto più antiche vantate da moltissimi altri comuni italiani che, nati a partire dal Medioevo, trovarono la base vitale per la genesi dei relativi stemmi civici nelle insegne dei signori che dominavano i loro territori, o in miti legati alla loro fondazione, o ancora negli stilemi architettonici di torri, castelli, abbazie e altri monumenti che ne tratteggiarono i connotati e tutt’oggi ne costituiscono il fascino.
Il processo di composizione delle insegne araldiche di Aprilia è stato fortemente condizionato dall’assenza di una storia civica o di miti fondatori cui appellarsi, prevalendo dunque inevitabilmente l’aspetto politico e ideologico, insieme al nome stesso imposto alla Città, scelto per il suo valore simbolico.
Lo stemma della Città di Aprilia si caratterizza come un’arma «parlante», più specificamente diremmo «alludente», in quanto le figure che lo caratterizzano, le 5 rondini che si stagliano su un campo di cielo, richiamano in maniera allusiva il nome stesso della Città, che è legato alla fondazione nel mese di Aprile (del 1936).
Quarta città dell’Agro Pontino bonificato (dopo Littoria, oggi Latina, quindi Sabaudia e Pontinia), il nome che le fu imposto suona come fortemente augurale poiché allude all’«aprirsi» del luogo ad una nuova vita. Presso l’Archivio Centrale dello Stato si trova un documento a firma dell’Architetto Oriolo Frezzotti, autore del piano regolatore di Latina e degli edifici pubblici di Pontinia e anche di alcuni a Sabaudia.
In una cartella presente nel fondo relativo al Comune di Pontinia si trova un appunto manoscritto dello stesso Frezzotti che descrive l’origine del nome dei centri dell’Agro Pontino. Secondo tale documento la descrizione dell’origine del nome di Aprilia, sulla quale si basa l’iconografia simbolica dello stemma della Città, è da individuarsi - similmente agli altri comuni pontini di nuova fondazione - come aggettivo del sostantivo civitas, per cui Aprilia civitas è «la città dell’Aprile o della Primavera».
Il primo bozzetto acquerellato dello stemma del nuovo centro dell’Agro Pontino fu predisposto da Araldo di Crollalanza, presidente dell’O.N.C. (Opera Nazionale Combattenti), e erede di una famiglia di insigni araldisti che contribuirono tra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX a un aggiornamento in Italia della scienza del blasone. -Il Crollalanza spedì il bozzetto, realizzato su un cartoncino di tipo bristol di dimensioni 24 per 32 centimetri, il 2 ottobre del 1937: esso consisteva in uno scudo azzurro su cui erano presenti cinque rondini nere sormontate dal Capo del Littorio, che in base alle leggi allora in vigore (R.D. n. 1440 del 12 ottobre 1933) doveva completare gli stemmi civici e che era di rosso con fascio littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e d’alloro annodati da un nastro dei colori nazionali. Tra il capo e il campo principale vi era un «filetto d’argento». -Tale presenza si giustificava probabilmente ai fini di una corretta sintassi araldica, per evitare quello che in termine tecnico si direbbe un «cucito», vale a dire l’accostamento diretto tra di loro di due dei cinque «colori» (rosso, azzurro, verde, porpora, nero) o dei due «metalli» (oro e argento) contemplati come «smalti» propri dall’araldica. In questo caso per evitare l’accostamento tra il rosso del capo littorio e l’azzurro del campo principale.
Simile accortezza non è riscontrabile negli originali stemmi degli altri comuni pontini che pure furono costituiti nelle loro versioni al tempo del regime fascista da uno scudo d’azzurro. Lo scudo del bozzetto per lo stemma di Aprilia era infine sormontato da una corona color giallo-oro e ornato ai fianchi e in punta da un listello bicolore giallo e verde.
Nell’istanza di richiesta indirizzata dal Commissario prefettizio (che ad Aprilia assolveva alle funzioni del Podestà) al Re Vittorio Emanuele III, oltre al disegno a colore dello stemma, furono indicati i criteri seguiti per la composizione simbolico-raffigurativa dello stemma comunale. Ne emergeva da una parte come lo stemma volesse illustrare il nome di Aprilia, e dall’altra come per tale composizione mancava una simbologia precedente a cui appellarsi, anche in relazione dell’origine artificiale del territorio su cui sorgeva il nuovo Comune, ultimo dei quattro di fondazione dell’Agro Pontino bonificato.
Si legge infatti nella deliberazione n. 4 datata 28 gennaio 1938:
Merita attenzione anche l’aspetto grafico del bozzetto. Questo rispecchiava lo stile e le espressioni grafiche dell’epoca, ricordando canoni estetici propri dell’architettura razionalista - secondo i nuovi ed inediti criteri della quale era stata concepita l’urbanistica di Aprilia - e mostrando l’influsso del movimento artistico-culturale futurista. Infatti l’impianto grafico del disegno era caratterizzato da un aspetto stilizzato e di gusto dinamico, soprattutto a motivo della forma arcuata dello scudo, evidenziata dal movimento del nastro decorativo, oltre che dalla corona turrita, che non corrispondeva alla grafica propria della corona araldica codificata per gli stemmi civici ma ne era una libera più moderna interpretazione, pur conservandone indubbiamente la funzione di contrassegno.
Di fatto, il bozzetto non era corrispondente alle regole stabilite in materia araldica. Lo scudo doveva essere di forma sannitica, mentre troviamo una libera interpretazione della sua foggia, per quanto interessante potesse essere il suo stile; il nastro decorativo era un vezzo che non poteva avere spazio dovendo gli elementi esterni allo scudo avere solo il ruolo identificativo del rango dell’ente territoriale; la corona turrita manteneva solo un vago aspetto della corona muraria che era prescritta per gli stemmi civici.
Anche se non conforme alle regole araldiche, lo stemma civico campeggiava, in una versione scultorea realizzata secondo le fattezze del bozzetto originario e con tanto di nastro decorativo, all’ingresso dell’arengario, andato distrutto insieme alla torre civica con i bombardamenti che hanno duramente provato la Città. La stessa raffigurazione proposta per la concessione, in stile più contemporaneo e non rispondente alla foggia poi effettivamente concessa, si trova sulla medaglia commemorativa coniata per Aprilia, raffigurante da un lato il profilo del Duce, dall’altra lo stemma civico.
Ma tornando all’iter per la concessione dello stemma, si comprende bene come la relazione a Benito Mussolini svolta dal Commissario del Re presso la Consulta Araldica il 16 dicembre del 1938 in merito alle istanze presentate dal Podestà di Aprilia nel precedente mese di aprile, riporti un blasone nel quale non si parla del nastro ornamentale ma si richiamano le ornamentazioni caratteristiche degli stemmi civici: «Lo stemma proposto può così descriversi; campo di cielo, a cinque rondini di nero al volo spiegato, in formazione di cuneo rovesciato. Capo del Littorio: di rosso (porpora) al fascio Littorio d’oro circondato da due rami di quercia e d’alloro annodati da un nastro dei colori nazionali, sostenuto da una fascia d’argento. Ornamenti esteriori di Comune».
Notiamo che nel blasone descritto nel testo nella concessione regia dello stemma e del gonfalone comunale, non si nominerà la «fascia d’argento» (in realtà, secondo una più precisa terminologia, considerata la ridottissima altezza di questo elemento, dovremmo dire il «filetto d’argento»), che pure era presente nel bozzetto originario, come nel testo della deliberazione del Commissario Prefettizio del gennaio 1938. Notiamo inoltre che il campo principale non è di azzurro, ma «di cielo». Si tratta di una variante dell’azzurro caratteristica dell’araldica italiana, che riproduce il cielo nel suo aspetto naturalistico, anche comprensivo di formazioni nuvolose indistinte. Di fatto non corrisponde dunque ad un campo ripieno di un piatto celeste (come poteva ad esempio essere inteso dalla suddetta deliberazione, in cui si parlava di un «campo celeste chiaro», non essendo necessariamente note agli amministratori comunali le regole per una corretta blasonatura). -Esattamente il campo di cielo sarà quello descritto nella concessione di Re Vittorio Emanuele III con R.D. dell’8 aprile 1939: Campo di cielo, a cinque rondini di nero al volo spiegato, in formazione di cuneo rovesciato. Capo del Littorio, di rosso (porpora) al Fascio Littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e d’alloro, annodato da un nastro dei colori nazionali. Ornamenti esterni da Comune.
STORIA E STORIOGRAFIA.
LA "RESURREZIONE DEI MORTI". SULL’UTILITA’ E IL DANNO DELL’ARALDICA PER LA VITA... *
LO STEMMA DELLA CITTA’ DI APRILIA *
Un approfondimento
di don Antonio Pompili, Socio Ordinario dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano
Il Gonfalone concesso viene così descritto: drappo di colore nero, riccamente ornato di ricami d’argento e caricato dello stemma sopra descritto con l’iscrizione centrata in argento “COMUNE DI APRILIA”. Le parti di metallo ed i nastri saranno argentati. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto nero con bullette argentate poste a spirale. Nella freccia sarà rappresentato lo stemma.
Il gonfalone, donato dal Comune di Capannori in provincia di Lucca (uno dei comuni rurali più grandi d’Italia) fu benedetto dal cardinale Granito Pignatelli di Belmonte e consegnato ad Angela Vacchi Curzola, colona di Aprilia e madre di dodici figli, scelta come madrina della Città appena inaugurata, il 29 ottobre dello stesso anno.
Lo stemma fu ufficializzato con la concessione dopo la fine della seconda guerra mondiale. Eliminata la «pezza» araldica innalzante l’emblema fascista, lo stemma sarà fissato nella sua forma attuale con decreto del 10 aprile del 1954 a firma del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Dall’originario stemma era stato correttamente rimosso solo il capo del littorio, in quanto le altre figure non evocavano la tramontata ideologia del deposto regime, ma si trattava di simboli universali e condivisibili anche nell’accezione originaria: la rondine, sul campo di cielo, è evocativa della primavera, dell’avvento di una nuova stagione che prelude al lavoro nei campi e al raccolto. Questo a differenza di quanto era accaduto con gli stemmi degli altri comuni di fondazione pontina, i quali hanno conosciuto nel dopoguerra una modifica molto più marcata o sostanziale. Possiamo forse pensare che lo stile con cui erano state rappresentate le rondini nello stemma di Aprilia potesse richiamare il glifo che era innalzato nell’emblema dell’Ala Littoria, la prima compagnia aerea di linea italiana di proprietà statale, data la forte somiglianza raffigurativa.
D’altra parte le rondini dello stemma comunale nella formazione a cuneo rovesciato ricordavano proprio degli aeroplani, il che accentuava quel dinamismo già presente nella particolare forma dello scudo secondo il bozzetto originario dello stemma, foggia che, ben lontana dai canoni relativi alle armi civiche, era in perfetta linea con i canoni stilistici dell’epoca in cui irrompevano le suggestioni del futurismo e del razionalismo.
Il connubio tra la vocazione bucolica di Aprilia e il mito del volo e della velocità caro al movimento futurista non è privo di fascino. Una cosa è certa: applicata la normativa che prevedeva la soppressione del capo littorio, il resto dell’impianto iconografico dello stemma civico il quale non prevedeva altri simboli utilizzati dal fascismo, poteva rimanere tranquillamente inalterato. Evidentemente, eliminato il capo littorio, era ancor meno necessaria la fascia (il filetto) d’argento che separava la pezza dal campo principale dello scudo.
Nel documento presidenziale veniva concesso al Comune di Aprilia anche il gonfalone attualmente in uso, che invece aveva subito una modifica più sostanziale, essendo cambiato il colore del drappo; da nero, colore utilizzato per tutti i comuni di fondazione fascista ed evocativo dell’ideologia del regime, è stato cambiato in azzurro, che peraltro corrispondeva al colore originario richiesto a suo tempo dal Podestà di Aprilia perché meglio riflettesse la natura del neo costituito Comune.
Lo stemma nuovamente concesso è così blasonato: Campo di cielo a cinque rondini di nero al volo spiegato, in formazione di cuneo rovesciato.
Il gonfalone ufficiale si presenta come un: “Drappo di colore azzurro, riccamente ornato di ricami di argento e caricato dello stemma sopradescritto con l’iscrizione centrata in argento “Comune di Aprilia”. Le parti in metallo e i cordoni sono argentati. L’asta verticale è ricoperta di velluto azzurro con bullette argentate poste a spirale. Nella freccia è rappresentato lo stemma del Comune e sul gambo inciso il nome. La cravatta e nastri tricolorati dei colori nazionali e frangiati di argento”.
Lo stemma del Comune, oltre alla descrizione già citata, si compone di uno scudo di aspetto «sannitico moderno», che secondo il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28 gennaio 2011 circa le «Competenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di onorificenze pontificie e araldica pubblica e semplificazione del linguaggio normativo» deve mantenere una proporzione di 7 moduli di larghezza per 9 moduli di altezza. Lo scudo siffatto è timbrato da una corona «formata da un cerchio aperto da quattro pusterle (tre visibili), con due cordonature a muro sui margini, sostenente una cinta aperta da sedici porte (nove visibili), ciascuna sormontata da una merlatura a coda di rondine, ed il tutto d’argento murato di nero». Terzo elemento dello stemma è l’elemento decorativo: «consiste in due rami: uno di quercia con ghiande e uno di alloro con bacche, tra loro incrociati sotto la punta dello scudo e annodati da un nastro dai colori nazionali».
Il gonfalone consiste in un drappo quadrangolare di un metro per due del colore di uno degli smalti dello stemma del Comune, sospeso mediante un bilico mobile ad un’asta, ricoperta di velluto dello stesso colore con bullette poste a spirale, e terminante in punta con una freccia sulla quale è riprodotto lo stemma, e sul gambo il nome del comune. Il drappo riccamente ornato e frangiato, è caricato nel centro dello stemma del Comune, sormontato dall’iscrizione centrata: «Comune di Aprilia». La cravatta frangiata consiste in nastri tricolore. Le parti metalliche, i ricami, i cordoni, l’iscrizione e le bullette sono d’argento.
Nel 2012, a seguito del decreto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che conferisce ad Aprilia il titolo di Città, cambiano diversi dettagli dello stemma e del gonfalone. Oltre all’iscrizione «Città» invece che «Comune» al di sopra dello stemma, i comuni insigniti del titolo di «Città» utilizzano una corona turrita formata da un cerchio d’oro aperto da otto pusterle (cinque visibili) con due cordonature a muro sui margini, sostenente otto torri (cinque visibili), riunite da cortine di muro, il tutto d’oro e murato di nero. Le parti metalliche, così come i ricami, i cordoni, l’iscrizione e le bullette a spirale del gonfalone, da argentate, passano ad essere dorate.
A conclusione di questo breve percorso può essere utile una riflessione finale sulla attualità della simbologia dello stemma di Aprilia, radicato nel nome della Città e nelle sue origini. Infatti, pur essendo scampato ai bombardamenti e alla damnatio memoriae seguita alla caduta del regime fascista, il contenuto dello stemma è stato in qualche modo superato dalla trasformazione della società civile e dell’economia, che ha fatto di Aprilia dal dopoguerra in poi un sito industriale.
La Città ha visto una trasformazione del territorio che la circonda e uno sviluppo demografico ed edilizio che, insieme allo sviluppo industriale, rendono impossibile allo stemma così come concepito al momento della sua fondazione di essere pienamente espressivo della sua radicale trasformazione, della sua storia più recente e della sua contemporanea missione civica.
E tuttavia, la composizione araldica, legata nella sua origine al significato bucolico del nome che intendeva celebrare il fiorire di una nuova vita nei territori prima inospitali e malsani delle paludi pontine, mantiene inalterata l’attualità di un messaggio: quello dell’aprirsi al futuro, al mutamento sociale e alle peregrinazioni in terra straniera, come quelle dei coloni chiamati a popolare i nuovi insediamenti.
Lo stormo delle cinque rondini che si stagliano sul campo di cielo sembra un felice intramontabile simbolo della speranza di una sempre nuova primavera che può fiorire grazie al senso civico e al lavoro serio e generoso del singolo cittadino come della collettività di cui egli fa parte.
Approfondimento a cura di don Antonio Pompili, Socio Ordinario dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano
Bibliografia:
Aa.Vv. Dizionario di Toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani, Torino 1997.
Giacomo Bascapè - Marcello Del Piazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata medievale e moderna, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Sussidi 11, Roma 1983.
Luigi Borgia, «Introduzione allo studio dell’araldica civica italiana con particolare riferimento alla Toscana», in Gli stemmi dei Comuni toscani al 1860, a cura di Pagnini G.P, Firenze 1991, pp. 81-117.
Corrado Lampe (ed.), Regione Lazio - Stemmi e sigilli, Roma 1988.
Giovanni Papi, Aprilia città della terra. Arte, architettura, urbanistica, Roma 2005.
Antonio Rossi, Agraldica. L’araldica civica nelle città di fondazione dell’Agro Pontino, 20172.
Alberto Paolo Torri, Gli stemmi e i gonfaloni delle province e dei comuni italiani, Firenze 1963.
Massimiliano Vittori - Carlo Fabrizio Carli - Roberta Sciarretta (ed.), Futurismo e Agro Pontino, Latina 2000.
* Fonte: Città di Aprilia
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NOTA: SULL’UTILITA’ E IL DANNO DELL’ARALDICA PER LA VITA...
A) - I PROMESSI SPOSI: "L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia [...]" (A. Manzoni).
B) - LA RESURREZIONE DEI MORTI: "[...] Al solo considerare queste evocazioni storiche di morti, si palesa tosto una spiccata differenza. Camille Desmoulins [9], Danton, Robespierre, Saint-Just [10], Napoleone, tanto gli eroi quanto i partiti e la massa della vecchia Rivoluzione francese adempirono, in costume romano e con frasi romane, il compito dei tempi loro, quello di liberare dalle catene e di instaurare la moderna società borghese. Gli uni spezzarono le terre feudali, e falciarono le teste feudali cresciute sopra di esse. L’altro creò nell’interno della Francia le condizioni per cui poté cominciare a svilupparsi la libera concorrenza, poté essere sfruttata la proprietà fondiaria suddivisa, e poté essere impiegata la forza produttiva industriale, della nazione liberata dalle sue catene; e al di là dei confini della Francia spazzò dappertutto le istituzioni feudali, nella misura in cui ciò era necessario per creare alla società borghese in Francia un ambiente corrispondente sul continente europeo [11]. Una volta instaurata la nuova formazione sociale disparvero i mostri antidiluviani; e con essi disparve la romanità risuscitata: i Bruti, i Gracchi, i Publicola, i tribuni, i senatori e lo stesso Cesare [12]"
La società borghese, nella sua fredda realtà, si era creati i suoi veri interpreti e portavoce nei Say, nei Cousin, nei Royer-Collard, nei Benjamin Constant e nei Guizot [13]. I suoi veri generali sedevano al banco del commerciante, e la testa di lardo di Luigi XVIII [14] era la sua testa politica. Completamente assorbita nella produzione della ricchezza nella lotta pacifica della concorrenza, essa finì col dimenticare che i fantasmi dell’epoca romana avevano vegliato attorno alla sua culla. Ma per quanto poco eroica sia la società borghese, per metterla al mondo erano però stati necessari l’eroismo, l’abnegazione, il terrore, la guerra civile e le guerre tra i popoli. E i suoi gladiatori avevano trovato nelle austere tradizioni classiche della repubblica romana gli ideali e le forme artistiche, le illusioni di cui avevano bisogno per dissimulare a se stessi il contenuto grettamente borghese delle loro lotte e per mantenere la loro passione all’altezza della grande tragedia storica. Così, in un’altra tappa dell’evoluzione, un secolo prima, Cromwell e il popolo inglese avevano preso a prestito dal Vecchio Testamento le parole, le passioni e le illusioni per la loro rivoluzione borghese [15]. Raggiunto lo scopo reale, condotta a termine la trasformazione borghese della società inglese, Locke dette lo sfratto ad Abacuc [16].
La resurrezione dei morti servì, dunque, in quelle rivoluzioni a magnificare le nuove lotte, non a parodiare le antiche; a esaltare nella fantasia i compiti che si ponevano, non a sfuggire alla loro realizzazione; a ritrovare lo spirito della rivoluzione, non a rimetterne in circolazione il fantasma [...]" (K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte : https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1852/brumaio/cap1.htm - ripresa parziale, senza note).
C). SIGMUND FREUD, IL MAESTRO DEL SOSPETTO: "Dopo Copernico, dopo Darwin, non si può non riconoscere che è proprio Freud a stabilire che chi scrive la storia (a tutti i livelli) non è più padrone o padrona in casa sua. Vale a dire, diversamente, come sosteneva il maestro dello stesso Musi, Giuseppe Galasso (rievocando la lezione di Nietzsche) : "non è la storia maestra di vita, ma la vita maestra di storia" (Federico La Sala, "Storicizzare Freud? Missione impossibile...", L’identità di Clio).
D). LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
E) GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
DUE SOLI.
La Costituzione, la "Monarchia" di Dante, e la indicazione di Papa Francesco...
Pagare il tributo a Cesare «è un dovere»! Con la precisazione evangelica sulla necessità di pagare le tasse allo Stato (secondo la Costituzione della Repubblica italiana), Papa Francesco apre la strada a Dante -2021 e, insieme, a una comprensione più precisa e contestualizzata della "misteriosa" figura che "fece per viltade il gran rifiuto".
Federico La Sala
Lettera all’Europa.
Il Papa: ruolo dell’Europa ancor più rilevante al tempo del Covid
Nella lettera al cardinale Parolin sulla Unione Europea: “Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti”
di Redazione Internet (Avvenire, martedì 27 ottobre 2020)
L’Europa ha avuto e deve ancora avere "un ruolo centrale": lo sottolinea papa Francesco in una lettera al cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in occasione di alcuni anniversari: il 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea, il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Unione Europea e il 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa.
"Tale ruolo - sottolinea il Pontefice parlando dell’Europa - diventa ancor più rilevante nel contesto di pandemia che stiamo attraversando. Il progetto europeo sorge, infatti, come volontà di porre fine alle divisioni del passato. Nasce dalla consapevolezza che insieme ed uniti si è più forti, che l’unità è superiore al conflitto e che la solidarietà può essere uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita".
"Nel nostro tempo che sta dando segno di ritorno indietro, in cui sempre più prevale l’idea di fare da sé, la pandemia - dice il Papa - costituisce come uno spartiacque che costringe a operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella strada della fraternità, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna, a partire proprio da Robert Schuman".
Il Papa lancia, quindi, un appello all’Europa affinché ritrovi sé stessa. "All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti - scrive il Papa nel messaggio al Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, per condividere con lui delle riflessioni in occasione delle celebrazioni di alcuni anniversari - a guardare al tuo passato come ad un album dei ricordi. Nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico".
"Europa, ritrova te stessa! Ritrova dunque i tuoi ideali - prosegue il Papa - che hanno radici profonde. Sii te stessa!"
"Non avere paura della tua storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato. Non avere paura del tuo bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano; del tuo bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti; del tuo bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo patrimonio di fede, di arte e di cultura".
"Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società" scrive ancora papa Francesco nella Lettera al cardinale Parolin.
"Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma - si spera - anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana. I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europa, per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società. Li esorto dunque ad impegnarsi con coraggio e determinazione a offrire il loro contributo in ogni ambito in cui vivono e operano".
DANTE 2021: DUE SOLI. "Sogno un’Europa sanamente laica" (papa Francesco, Lettera all’Europa) *
Laicismo.
Crocifisso nelle aule scolastiche senza pace, questa volta va in Cassazione
Rimessa alla decisione delle Sezioni unite la questione sollevata dalla battaglia legale di un insegnante di lettere toscano che chiede di rimuovere il simbolo cristiano durante le sue lezioni
di Marcello Palmieri (Avvenire, sabato 31 ottobre 2020)
Crocifisso sì o crocifisso no? Il simbolo cristiano divenuto nei secoli anche immagine di "laicissimi" e condivisi valori universali, torna di nuovo nelle aule giudiziarie. Ma non sul muro: sul banco degli imputati.
A portarcelo, stavolta, è un insegnante di lettere toscano, che ha ingaggiato da anni una battaglia legale contro il proprio dirigente scolastico - e pure contro l’assemblea dei suoi studenti - per vedersi riconoscere il diritto di staccare dal muro delle aule il crocifisso durante le ore delle proprie lezioni.
La vicenda, ora, è arrivata in Cassazione. Dove la Sezione lavoro, ritenendo la causa di particolare importanza, ha deciso di rimetterla al primo presidente della Corte, perché la devolva alle Sezioni unite. Così facendo, la pronuncia avrà un grande valore: difficilmente, infatti, i giudici territoriali potranno decidere in modo difforme eventuali casi analoghi che dovessero presentarsi successivamente in Italia.
Ma, già ora, sorge una perplessità di fondo: solitamente la Cassazione decide a Sezioni unite le questioni sulle quali si era formato un contrasto giurisprudenziale. Spesso, infatti, situazioni quasi uguali vengono risolte dai giudici in modo diverso, e lo stesso accade anche tra le diverse sezioni della medesima Cassazione.
Sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, però, sembrava non esserci più alcun dubbio. Il Consiglio di Stato nel 2006 aveva stabilito che «è un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, etc...)», che hanno sì un’origine religiosa, ma che pure «delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato». Da qui, dunque, l’idea che «il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte laico, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica, altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni».
E che il crocifisso potesse rimanere nelle scuole l’ha detto più di recente, nel 2011, anche la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, massima istanza della Cedu: «È un simbolo essenzialmente passivo - hanno scritto i giudici di Strasburgo, decidendo la causa intentata da Soile Lautsi, un’italiana di origini finlandesi, contro il nostro Pese - che non contrasta né con il diritto dei genitori alla libera educazione dei figli né con la libertà di pensiero, coscienza e religione. E se è vero che questa icona «dà alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico», è pur sempre una discrezionalità dello Stato - insindacabile dalla Corte europea - quello di decidere dove esporlo.
Ma ecco che l’ordinanza di remissione alle Sezioni unite della Cassazione mette in dubbio proprio questa "passività" riconosciuta dalla Cedu: «Si potrebbe dubitare dell’asserito ruolo passivo - hanno scritto i giudici della Sezione lavoro - qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama».
Ma per Angelo Salvi, giurista del Centro Studi Livatino, questa perplessità «non sembra valorizzare l’eredità più importante del causo Lautsi, che consiste nell’individuazione del perimetro nel quale va delimitato il concetto di neutralità religiosa».
In parole povere: secondo la Cedu, lo Stato non deve astenersi da qualsiasi richiamo religioso. Semplicemente, gli viene chiesto di non offendere i diritti di ognuno in relazione al proprio credo. Cosa che, ovviamente, un crocifisso appeso al muro non può fare. Ma attenzione: diversamente - è sempre Salvi a notarlo - si rischierebbe di «virare verso un modello di laicità "rigida" alla francese, che si declina in termini di incompatibilità con la religione».
L’Italia e il crocifisso, una controversia infinita
Dall’Europa l’ultimo sì, ’la sua esposizione non lede la libertà religiosa’
di Redazione ANSA 01 ottobre 2019
ROMA L’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici - in particolare nelle scuole, nelle aule di giustizia e nei seggi elettorali - è legittima o è in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini, di libertà di religione e di laicità dello Stato? La controversa questione - che contrappone da decenni cattolici e laici - si ripropone periodicamente e torna ora di nuovo di attualità alla luce delle ultime affermazioni del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti, il quale ha detto di ritenere l’esposizione della croce nelle aule scolastiche "una questione divisiva" e di preferire una "scuola laica", suscitando reazioni di disapprovazione da parte del mondo cattolico, favorevoli da parte degli atei e degli agnostici.
Sull’argomento, l’ultima pronuncia giurisdizionale di rilievo si è avuta nel 2011 ed è stata della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo, che, accogliendo un ricorso dell’Italia, ha definitivamente ritenuto legittima l’esposizione del crocifisso, ribaltando una sentenza di segno opposto della stessa Corte europea.
La vicenda giudiziaria, durata quasi nove anni, ebbe origine in una scuola di Abano Terme e seguì un iter complesso: IL FATTO - Il 27 maggio 2002 il Consiglio di Istituto della scuola Vittorino da Feltre di Abano Terme (Padova) respinge il ricorso della famiglia di due alunne e decide che possono essere lasciati esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi, ed in particolare il crocifisso, unico simbolo esposto.
IL RICORSO - La decisione del Consiglio di Istituto viene impugnata dalla madre delle due alunne davanti al Tar del Veneto. Nel ricorso si sostiene che la decisione del Consiglio di Istituto sarebbe in violazione del principio supremo di laicità dello Stato, che impedirebbe l’esposizione del crocifisso e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, perche’ violerebbe la "parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose".
LA POSIZIONE DEL MINISTERO - Il Ministero dell’Istruzione, costituitosi nel giudizio, sottolinea che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista da disposizioni regolamentari contenute in due regi decreti: uno del 1924, n. 965; l’altro del 1928, n. 1297 Tali norme, per quanto lontane nel tempo, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere reso dal Consiglio di Stato n.63 del 1988.
LA PRIMA DECISIONE DEL TAR, ATTI ALLA CONSULTA - Il Tar compie un esame delle norme regolamentari sull’esposizione del crocifisso a scuola e conclude che esse sono tuttora in vigore. Rimette, tuttavia, gli atti alla Corte costituzionale. La norma che prescrive l’obbligo di esposizione del crocifisso - scrivono i giudici - sembra delineare "una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio", che apparirebbe in contrasto con il principio di laicità dello Stato.
LA CORTE COSTITUZIONALE, RICORSO INAMMISSIBILE - La Consulta dichiara inammissibile il ricorso: le norme sull’esposizione del crocifisso a scuola sono "norme regolamentari", prive "di forza di legge" e su di esse "non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale". Gli atti tornano al Tar.
SECONDA DECISIONE TAR, CROCE NON CONTRASTA CON LAICITA’ - Il crocifisso, "inteso come simbolo di una particolare storia, cultura ed identità nazionale (...), oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità (...), può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato". Si conclude con queste parole la sentenza del 2005 con la quale il Tar rigetta il ricorso della madre della due alunne di Abano.
IL CONSIGLIO DI STATO, CROCIFISSO HA FUNZIONE EDUCATIVA - Il Consiglio di Stato chiude la parte italiana della vicenda, con il rigetto definitivo del ricorso della madre delle due alunne.
Il crocifisso - scrivono i giudici - non va rimosso dalle aule scolastiche perché ha "una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni"; non è né solo "un oggetto di culto", ma un simbolo "idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili" - tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, riguardo alla sua liberta’, solidarietà umana, rifiuto di ogni discriminazione - che hanno un’origine religiosa, ma "che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato".
CORTE EUROPEA BOCCIA ITALIA, POI RIMETTE A GRANDE CAMERA - Il 3 novembre 2009 la Corte europea per i diritti dell’uomo boccia l’Italia: il crocifisso appeso nelle aule scolastiche - rileva la Corte - è violazione della liberta’ dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni. Il governo italiano ricorre e la Corte europea decide di affidare la soluzione del caso alla Grande Camera.
GRANDE CAMERA STRASBURGO ASSOLVE L’ITALIA. Con la sentenza del 18 marzo 2011 la Grande Camera ribalta il verdetto della Corte e dice definitivamente sì all’Italia, ritenendo che l’ esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e negli altri luoghi pubblici non possa essere considerato un elemento di "indottrinamento" e dunque non comporta una violazione dei diritti umani. "Le autorità - dice la Grande Camera - hanno agito nei limiti della discrezionalità di cui dispone l’Italia nel quadro dei suoi obblighi di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che assume nell’ambito dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire l’istruzione conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche".
FLS
Orfeo, il Buon Pastore
di Fabrizio Bisconti *
La sinagoga di Dura Europos (città ai confini dell’impero romano, nell’attuale Siria, sulle sponde dell’Eufrate) propone un programma decorativo realizzato ad affresco. Tale decorazione (oggi conservata nel Museo Archeologico di Damasco) documenta quell’infrazione al divieto relativo alla rappresentazione del "sacro" che interesserà anche la civiltà cristiana dei due primi secoli. Lungo le pareti della sinagoga si snodano storie di Mosè, Aronne, Elia, Samuele, Ezechiele e si riconosce l’immagine di Davide Salmista che recupera l’antica immagine di Orfeo citaredo e che anticipa quella del Buon Pastore cristiano.
A Dura Europos esisteva una domus ecclesiae cristiana, il cui programma decorativo del battistero, staccato e oggi conservato alla Yale University Art Gallery di New Haven, presenta un’organizzazione iconografia non dissimile da quella della sinagoga, se non per l’inserimento di scene ovviamente ispirate al Nuovo Testamento. Nella lunetta che sovrasta la vasca battesimale vediamo che il Buon Pastore e Adamo ed Eva convivono per descrivere la «festa della salvezza», che prende avvio con la felix culpa di progenitori e si conclude con il recupero della pecorella smarrita.
Il Buon Pastore della domus e l’Orfeo della sinagoga sono figure che partecipano di uno stesso linguaggio, genericamente riconducibile alla tematica bucolica e che costituisce una delle ambientazioni passe par tout capaci di richiamare un contesto felice, tranquillo, beato, dunque paradisiaco.
Orfeo, poi, raffigurato mentre suona la cetra, confluisce nella cultura figurativa romana, specialmente nei pavimenti musivi, ma anche nei contesti funerari. L’immagine di Orfeo appare sulle fronti di tre sarcofagi di manifattura ostiense, uno dei quali conservato a Porto Torres, che sembrano essere utilizzati per la sepoltura di defunti cristiani, come suggeriscono le iscrizioni (anche se potrebbero essere state incise in un secondo momento). Ma la figura appare in contesti sicuramente cristiani quando decora ambienti catacombali. Orfeo citaredo appare effigiato tra due ovini, attorniato da mostri marini e uccelli. In alcuni affreschi, l’eroe è attorniato da altri animali, come in un affresco del cimitero dei Santi Marcellino e Pietro dove è accompagnato da un’aquila in volo. In un’altra pittura del medesimo cimitero si colloca alla sommità di quattro scene bibliche, dove si alternano episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento, alludendo già al Cristo unificatore delle due economie. In un affresco ormai tardo del cimitero di Priscilla si accompagna alla solenne scena della Traditio legis.
Ma l’affresco catacombale più interessante è collocato a Domitilla e si riferisce agli anni centrali del IV secolo. Esso propone Orfeo citaredo al centro della volta di un cubicolo, mentre Davide con la fionda appare in un campo laterale, secondo un’iconografia rara, che torna però in un celebre affresco delle catacombe napoletane di San Gennaro. Dopo queste testimonianze antiche e oscillanti nel significato effettivo, tra l’immagine di Orfeo e Davide, la figura del cantore del mito si diffonde in tutto il mondo antico, come succede ad esempio nel mosaico pavimentale di una sinagoga a Gaza, dove si riconosce il re Davide, definito da una didascalia in ebraico, vestito di panni sontuosi, coronato, nimbato, mentre suona il kinnor bizantino tra animali selvaggi.
Da questa immagine, che un’iscrizione data al 508-509, l’iconografia del musico che ammansisce gli animali si diparte e si diffonde da Oriente a Occidente, interessando anche le arti minori, nella specie di oggetti di ceramica e di avorio. Ma anche lo ritroviamo in un mosaico pavimentale di una basilica, pure siriana, ad Apamea, del V secolo, dove si vede Adamo, identificato da una didascalia, che attribuisce i nomi agli animali. Questa iconografia - ripetuta in un mosaico di Hama e in un altro conservato a Copenaghen - si riferisce al passo della Genesi, che recita: «Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati».
Appare interessante a questo punto seguire le voci dei Padri della Chiesa, che sentirono il desiderio di decodificare la figura di Orfeo, attribuendo all’immagine un significato cristologico, a cominciare da Clemente Alessandrino che tiene a precisare come il Logos sia il vero Orfeo, capace di addomesticare le bestie malvagie e feroci come il leone, il porco e il lupo. Ma potremmo continuare con Cirillo d’Alessandria, con lo Pseudo Giustino, sino a Eusebio di Cesarea: «Se Orfeo, con il suono della lira, ammansì le fiere... il Verbo di Dio fece di più: ammansì i costumi dei barbari e dei pagani».
Orfeo e Cristo si affrontano, si sovrappongono e si sciolgono attraverso l’esegesi dei Padri. Il Buon Pastore intrattiene con Orfeo, Adamo, Davide e con il Cristo molti motivi di confronto e, se nella letteratura patristica si apprende che un nesso collega Cristo ad Adamo, a maggior ragione Orfeo si giustappone al Buon Pastore, tanto che due singolari affreschi catacombali propongono altrettanti pastori che vigilano rispettivamente sugli animali da cortile a Priscilla, su pesci e ovini nel cimitero della via Ardeatina. È noto come la figura del Buon Pastore provenga dall’immaginario relativo all’otium campestre e, segnatamente, all’idillio agropastorale, dal quale viene estratto il tipico villico con l’ovino sulle spalle. Il contesto ameno, già definito in età ellenistica, trova la sua più compiuta realizzazione nei cosiddetti sarcofagi "a grandi pastorali", prodotti in un atelier romano negli anni centrali del III secolo.
Da questi contesti, che rappresentano dei veri e propri "tessuti bucolici", emerge la figura del pastore con la pecorella sulle spalle che, in realtà, è tipica di molte epoche e culture, in quanto espressione simbolica dell’offerente, del crioforo (portatore di agnello), di colui che reca la vittima sacrificale.
Come figura abbreviata di una scena pastorale, il crioforo fu simbolo della philantropia e della humanitas, impersonando il Mercurio psicopompo, colto mentre conduce le anime dei defunti nell’aldilà. In questo senso dobbiamo considerare affreschi pagani, sincretici e cristiani: così nell’ipogeo della via Trionfale, così sulle catacombe di Vibia, così in un arcosolio di San Sebastiano, dove nel corso del IV secolo l’immagine del Buon Pastore convive con quella di Mercurio e dell’Orante.
Nell’arte paleocristiana la figura del Buon Pastore costituisce, con l’immagine dell’Orante, uno dei due ideogrammi della storia della salvezza, impersonando rispettivamente il Salvatore e il defunto. L’«Io sono il Buon Pastore» del vangelo di Giovanni diviene argomento privilegiato dell’esegesi patristica, a cominciare dall’epitaffio di Abercio vescovo di Gerapoli che si definisce «discepolo del pio pastore». Il Buon Pastore diviene il più eloquente tipo cristologico, tanto che nel martirio di Policarpo si paragona Cristo, salvatore delle anime e guida dei nostri corpi, a pastore della Chiesa cattolica nel mondo, e nel Paedagogus di Clemente Alessandrino si allude al Logos come a un sollecito pastore dei bambini, cioè a un pedagogo che conduce i fanciulli alla salvezza. Un brano del De pudicitia di Tertulliano ci suggerisce che già tra la fine del II secolo e gli esordi del III il crioforo ha sicuramente un significato cristologico.
*Segretario della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra
Uscire dal letargo (Dante), dall’orizzonte di Edipo (Freud)!
Dopo sette secoli dalla morte di Dante Alighieri non è forse giunta, infine, l’ora di chiarirsi le idee sulla "bella e beata" (Inf. 53), Beatrice, e sulla relazione evangelica del Figlio con la Madre?! :
DANTE ALIGHIERI (1265-1321) !!! LA LINGUA D’AMORE : UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA".
Federico La Sala
Inclusa est flamma, Ravenna omaggia Dante
Focus su celebrazioni del 1921, VI centenario morte del poeta
di Marzia Apice (Ansa, 27 agosto 2020)
RAVENNA, 27 AGO - I celebri sacchi di Gabriele D’Annunzio pieni di foglie di alloro e decorati da Adolfo De Carolis col motto "Inclusa est flamma" ("la fiamma è all’interno") in omaggio a Dante, a stabilire un parallelo tra la fiamma che ardeva sulla tomba del sommo poeta e la fiamma perenne che veniva custodita presso il santuario di Apollo a Delfi; il modello in bronzo del monumento di Dante a Trento, realizzato da Cesare Zocchi nel 1896; le opere del triestino Carlo Wostry (1865-1943), dal titolo Dante nella pineta e I funerali di Dante. E poi alcune firme, di personaggi illustri e comuni cittadini, lasciate come testimonianza durante la visita al sepolcro di Dante, tra cui gli autografi di papa Pio IX, che trascrisse dei versi danteschi ma non lasciò firma, e di quell’anonima signora fiorentina che chiese perdono al poeta per espiare la colpa di Firenze, quando, cinque o sei secoli prima, venne decretato il suo esilio dalla città natale.
Sono alcuni dei pregiati e originalissimi
pezzi - tra libri, manifesti, fotografie, dipinti, manoscritti e oggetti d’arte - che impreziosiscono la mostra "Inclusa est flamma. Ravenna 1921: il Secentenario della morte di Dante", a cura di Benedetto Gugliotta e organizzata dal Comune di Ravenna, dal MAR - Museo d’Arte della città di Ravenna e dalla Biblioteca Classense per celebrare i 700 anni dalla morte del sommo poeta.
La mostra, in apertura l’11 settembre alle 17 presso la Biblioteca Classense e prima delle tre che compongono il progetto espositivo "Dante. Gli occhi e la mente" (in programma da settembre 2020 fino a luglio 2021 presso il MAR, la chiesa di San Romualdo e la Classense), è a ingresso libero e resterà allestita fino al 10 gennaio: un’occasione non solo per rendere omaggio all’incommensurabile valore dell’opera dantesca, ma anche per ricordare una pagina della storia ufficiale (nazionale e ravennate), a sua volta legata a tante piccole storie particolari, ancora poco conosciute.
L’esposizione si configura come un accurato percorso di documentazione storica, che ha il suo fulcro nella rievocazione delle celebrazioni nazionali per il VI centenario dantesco del 1921, inaugurate l’anno prima proprio alla Biblioteca Classense alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce. -Come documenta la mostra, le celebrazioni del 1921 vennero precedute da altri momenti importanti: nel 1908 furono organizzate per esempio dalla Società Dantesca Italiana le "Feste dantesche", nel corso delle quali si ritrovarono a Ravenna rappresentanti di città e territori allora sotto la sovranità dell’Impero asburgico. Proprio in quell’occasione nacque la Cerimonia dell’olio, con la città di Firenze che offre l’olio destinato ad ardere nella tomba di Dante, sempre come atto simbolico per riparare alla decisione di mandare in esilio il poeta.
L’esposizione offre anche la possibilità di vedere riuniti per la prima volta insieme due esemplari (uno della Biblioteca Classense, l’altro della storica Casa editrice Olschki) della pregiata edizione celebrativa per i 50 anni dell’Unità d’Italia e a tiratura limitata (solo 306 esemplari) della Divina Commedia, accanto al manoscritto autografo del proemio, scritto da Gabriele D’Annunzio. Infine, tra i pezzi più importanti, anche il manifesto ufficiale del Secentenario, di grande formato (cm 200x150) recentemente restaurato ed esposto a Ravenna per la prima volta dopo il 1921, ottenuto grazie alla collaborazione con l’Archivio Chini di Lido di Camaiore (LU), custode della memoria di Galileo Chini (1873-1956), grande interprete italiano dello stile Liberty.
Nota:
STORIA, STORIOGRAFIA, E IMMAGINARIO: DANTE 1921.
D’Annunzio imbarca sulla sua Nave, la tragedia adriatica ("tragoedia adriaca") del 1905 (e film nel 1921), anche Dante Alighieri, con la sua Divina Commedia - Dantes Adriacus!
Federico La Sala
Interpretare la «Commedia»
Dante era anche un profeta?
di Claudio Giunta (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12 luglio 2020)
«Dante, io credo, aveva avuto esperienze che egli riteneva di una certa importanza». Dopo tanto leggere e meditare, questa frase sempliciotta di un amatore, non di uno studioso, T.S. Eliot, finisce per essere quella che ancora definisce meglio, cioè con minor coefficiente di arbitrio, la singolare personalità artistica di Dante Alighieri.
Quali furono queste esperienze «di una certa importanza»? Ci fu l’innamoramento per una ragazza morta giovane, Beatrice Portinari, un innamoramento che Dante trasfigurò in una vicenda di miracolo e di redenzione; ci fu la condanna all’esilio, e vent’anni di contumacia con i pericoli e la miseria che questa portava con sé, dal 1301 alla morte nel 1321; e ci fu... Qui le cose si complicano, perché la terza esperienza è quella che si trova raccontata nella Commedia, e mentre le prime due sono state certamente reali, radicate nella biografia, questa è un’opera dell’immaginazione, benché il protagonista si chiami Dante e presenti la sua avventura ultraterrena non come un sogno ma come un avvenimento verificatosi nel mezzo del cammino della sua vita.
Non basta: all’interno di quest’opera d’immaginazione che si presenta come referto di un’esperienza reale Dante dissemina una serie di profezie che riguardano sia il destino del mondo dopo l’anno 1300, quando il viaggio ultraterreno ha luogo, sia il suo proprio destino. Non basta ancora: queste profezie appartengono in parte alla categoria che si definisce post eventum, vale a dire che il poeta annuncia o meglio fa annunciare a un suo personaggio, adoperando un verbo al futuro, eventi che si sono già verificati nel lasso di tempo che intercorre tra la data del viaggio di Dante e la scrittura del poema (per esempio: «Dopo lunga tencione / verranno al sangue e la parte selvaggia / caccerà l’altra con molta offensione»: questa resa dei conti tra Bianchi e Neri, vaticinata da Ciacco, ha già avuto luogo quando Dante scrive); ma in parte sono profezie reali, affidate a un futuro che Dante può solo immaginare, o meglio sperare, come quella relativa al riscatto della Chiesa dalla cattività avignonese e alla prossima vendetta di un «cinquecento diece e cinque», cioè di un imperatore, che Dante fa pronunciare a Beatrice nell’ultimo canto del Purgatorio.
A questo aspetto cruciale e complesso della Commedia, la sua dimensione profetica, è dedicato questo bel volume curato da Giuseppe Ledda. Il tema ha alcuni snodi quasi obbligatori, e tra l’altro, dal lato storico, il rapporto tra il profetismo dantesco e la predicazione di Gioacchino da Fiore, con i suoi riflessi sul pensiero di francescani spirituali (Pietro di Giovanni Olivi, Ubertino da Casale) che a Dante poterono essere familiari; dal lato storiografico, la verifica delle tesi di Bruno Nardi, il cui saggio Dante profeta, pubblicato nei primi anni Quaranta, ha riaperto la moderna discussione critica sull’argomento.
Il saggio di Sergio Cristaldi che apre il volume è una guida eccellente sotto entrambi gli aspetti (e in realtà molto di più perché la questione del profetismo viene calata da Cristaldi in una storia dell’interpretazione della Commedia dal Trecento ai giorni nostri dalla quale può imparare qualcosa anche il lettore esperto: tanto è vero che anche il riepilogo di cose note può riuscire illuminante, se il punto di vista dal quale si guarda è originale).
I saggi successivi si possono riunire in due famiglie, a seconda che studino la questione sotto il profilo generale, storico (Anna Rodolfi, che illustra i trattati profetologici del secolo XIII, con particolare riguardo per Tommaso d’Aquino), o approfondiscano il tale o talaltro aspetto del profetismo dantesco, con proposte inedite sulle possibili fonti (la Vita Mariae di Giacomo da Vitry, studiata da Francesco Santi), approfondimenti su intertesti già esplorati ma ancora potenzialmente ricchi di spunti (Niccolò Maldina e Paola Nasti sulla Bibbia, Giuseppe Ledda sui classici latini, Luca Azzetta sull’Epistola a Cangrande).
Il libro è pieno di dati e riflessioni interessanti, ed è un libro che parla di Dante - precisazione che può sembrare superflua, ma che superflua non è dal momento che gli studi danteschi degli ultimi anni, o decenni, sono spesso studi intorno a più che studi su: se ne esce dottissimi, ma sulle idee o sui versi di Dante non si è imparato granché. Qui no; e, tra tante questioni sottili che vi si discutono (a volte anche troppo sottili, a volte contro i dantisti bisognerebbe ritorcere Dante «Per apparer ciascun s’ingegna e face / sue invenzioni; e quelle son trascorse / da’ predicanti e ’l Vangelo si tace»), ne indico una che tanto sottile non è, e alla quale - lo dico con un po’ di vergogna - non avevo mai veramente pensato, o solo distrattamente: che, nella Commedia, Beatrice o Cacciaguida profetizzino si spiega, perché l’una e l’altro vedono il futuro nel «punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Pd XVII 17-18); ma il dannato Ciacco? Il dannato Farinata? Perché mai, con quale giustificazione Dante fa loro dono della facoltà di prevedere il futuro? Rimando il lettore interessato al saggio di Anna Rodolfi (e naturalmente non conta, non conta mai, che la spiegazione sia del tutto convincente, conta aver posto bene il problema).
Che fine ha fatto Creusa? Un’esegesi drammatica
Speciale "Classical reception". In un affresco di Palazzo Ratta attribuito a Ludovico Carracci, al tradizionale gruppo di Enea in fuga da Troia si aggiunge la figura della moglie dell’eroe, rapita mentre dà l’ultimo saluto ad Ascanio. Così l’artista bolognese «colmava» il silenzio di Virgilio
di Ermanna Panizon (il manifesto, Alias, 09.08.2020).
Un uomo lascia la propria città in fiamme portando sulle spalle il padre e tenendo per mano il figlio. Immagine emblematica di pietas filiale, simbolo della rinascita di una nazione, il gruppo di figure composto da Enea, Anchise e Ascanio in fuga da Troia appartiene alla cultura figurativa europea; se volessimo tracciare la storia di questo tema attraversando le epoche, non dovremmo temere cesure nel nostro racconto: lo troviamo dipinto sui vasi greci a figure nere, modellato sulle lucerne in terracotta romane, delineato dal fine pennello dei miniatori medievali. Artisti eccelsi del Rinascimento e dell’età barocca, come Michelangelo e Bernini, hanno raffigurato la famiglia troiana in cammino, attirati dall’opportunità di cimentarsi con una composizione di figure complessa (difficili le pose dei personaggi e articolato il rapporto che li lega), varia (un giovane, un anziano, un bambino) e drammatica. Grazie alla sua forza iconica, quell’immagine dei tre profughi che vengono dall’est approdando infine in Italia è spontaneamente evocata dalla nostra memoria ogni volta che ci imbattiamo nelle fotografie delle famiglie che ai giorni nostri scappano a piedi dalle città bombardate del Vicino Oriente e si rivolgono all’Europa per avere rifugio.
Per quanto la Fuga di Enea sia il tema figurativo più diffuso tra quelli ispirati all’Eneide - un testo la cui fortuna non ha mai subito interruzioni -, molti artisti nel rappresentare questa storia si discostano dal testo di Virgilio e variano fra loro soprattutto nel modo in cui raffigurano il destino del quarto membro della famiglia troiana: Creusa, la prima moglie di Enea. -Un caso che merita speciale attenzione è l’affresco di Ludovico Carracci in Palazzo Ratta a Bologna, per almeno due ragioni: perché è un tesoro nascosto, come tanti in Italia, che versa in uno stato di conservazione precario; e perché il grande artista bolognese che ha ideato la composizione si è fatto qui portavoce di una lunga storia di esegesi del testo virigiliano e, allo stesso tempo, ha dato forma a questa tradizione secondo la sua personale sensibilità.
Solo di recente un affresco staccato, che si conserva in una sala di Palazzo Ratta a Bologna, è stato identificato con la Fuga di Ludovico Carracci di cui parlano le fonti seicentesche, un dipinto che decorava il camino di un’altra sala dello stesso palazzo e che si credeva perduto. Si tratta di un’opera della prima maturità dell’artista (databile al 1586) che già ne rivela il talento narrativo e la finezza nell’indagare le emozioni dei personaggi. La scena dipinta, che dobbiamo immaginare illuminata in controluce dai bagliori del fuoco acceso nel camino, è tra le più drammatiche versioni di questo tema: mentre Enea cammina a grandi falcate portando il padre su una spalla, il piccolo Ascanio e la madre si scambiano disperati un estremo saluto, perché Creusa è trascinata via da un uomo armato.
Non si è persa, è stata rapita
Qui apparentemente Ludovico ha risposto con la propria fantasia a una questione che il racconto di Virgilio lascia in effetti aperta: cosa accade ad Ascanio e Creusa quella notte, dal momento in cui escono di casa fino a quando Enea, giunto al punto di incontro concordato con gli altri fuggiaschi, si accorge dell’assenza della moglie? Il poeta può evitare di nominare Creusa nelle fasi centrali della fuga - narrata in prima persona dall’eroe a Didone durante il banchetto che fa da cornice al II libro del poema - e segnalare a un certo punto la sua sparizione, lasciando al lettore il compito di immaginare quando e come essa sia avvenuta. Ma l’artista figurativo, se vuole introdurre nella storia dipinta la parte della vicenda che riguarda la prima moglie di Enea, deve mostrare la figura di Creusa e ciò che le accade. Spesso i pittori hanno rappresentato la donna in cammino vicino ai famigliari; alle volte, per alludere alla sua scomparsa, Creusa è raffigurata qualche passo indietro rispetto agli altri, come se già stesse per perdere le tracce del marito. Ludovico propone una soluzione diversa: Creusa non si è persa, è stata rapita.
Anche se siamo di fronte a una variante piuttosto rara, altre opere figurative precedenti e successive all’affresco di Carracci mostrano la moglie di Enea presa di forza da un soldato. Una di esse, in particolare, offre la chiave per comprendere questa versione del racconto: è un piatto di maiolica urbinate di metà Cinquecento dipinto su disegno di Battista Franco. Da un lato mostra la famiglia di Enea in cammino e Creusa rapita, dall’altro reca l’iscrizione ‘I Coribanti a Enea rapir Creusa’.
Ma cosa c’entrano i Coribanti, ovvero i seguaci della dea Cibele? Per capirlo bisogna ritornare al testo del poema. Il racconto di quella fatidica notte non svela cosa sia successo a Creusa. Enea ricorda che, accortosi dell’assenza della moglie, ripercorre i suoi passi dentro le mura di Troia, finché il fantasma della donna gli appare per dissuaderlo a continuare la ricerca: per lui, dice l’imago di Creusa, il destino ha in serbo una nuova compagna e una nuova terra, mentre lei stessa non andrà schiava a un principe acheo «sed me magna deum genetrix his detinet oris (mi trattiene in queste regioni la grande Madre degli Dei)».
C’è chi, come Boccaccio, legge in queste parole una perifrasi per indicare la morte: la Madre degli Dei (ovvero la terra) mi trattiene in queste regioni (ovvero sono qui morta e sepolta). Non tutti gli interpreti del testo concordano con questa lettura, perché il verso è in effetti ambiguo. Sembra che il poeta abbia lasciato volontariamente indefinito il destino di Creusa.
L’aporia del testo virgiliano nel tempo si è trasformata, come sempre accade, in sorgente di dotte interpretazioni e nuovi racconti. Alcuni commenti di età umanistica, tra i quali quello di Cristoforo Landino, spiegavano così le parole di Creusa: la dea Cibele (nota anche come la Grande Madre), impietosita dal triste destino della donna, mandò i suoi ministri, i Coribanti, a rapirla perché restasse in Frigia come sua sacerdotessa.
Ecco dunque spiegata l’iconografia del dipinto di Ludovico. È la risposta a una questione lasciata aperta nel racconto di Virgilio, che ha sollecitato l’ingegno di generazioni di lettori attenti. L’esegesi ha offerto una risposta possibile, che una volta incontrata e immaginata dall’artista, come un seme germoglia in un nuovo racconto. L’artista infatti, per la natura stessa del suo linguaggio, non può accettare ambiguità nel testo che intende tradurre in immagini: non può cioè trascurare di decidere quale emozione attribuire alle figure che tratteggia, né come vestirle, né come muoverle nello spazio. Se vuole dipingere Creusa, deve anche stabilirne il destino.
Pittore degli affetti
Ora, nessuna delle opzioni che si presentavano a Ludovico Carracci in merito a questo particolare problema, si accordava meglio alla sua sensibilità di quella effettivamente scelta per Palazzo Ratta. Ludovico è un pittore degli affetti, sensibile a tutta la scala delle emozioni umane e specialmente portato a indagare e rendere in immagine le sfumature dell’animo femminile. -L’artista qui non si è accontentato di illustrare ciò che qualche colto lettore dell’Eneide (il cugino Agostino?) gli avrà suggerito in merito alla fine di Creusa, ma ha a sua volta ragionato sugli eventi traendone una visione del tutto originale. È frutto della fantasia del pittore l’idea del commiato straziante tra Ascanio e Creusa: come potrebbe in effetti un bambino perdere di vista la madre in una situazione di così grave pericolo, sembra aver pensato Ludovico, e come potrebbe una madre accettare di staccarsi dal proprio figlio piccolo? L’inconsapevolezza di Enea, che guarda l’osservatore negli occhi e continua a marciare, senza avvedersi di ciò che accade al suo fianco, intensifica il carattere drammatico della scena.
Vediamo qui all’opera non un mero illustratore ma un interprete del testo virgiliano, che ha impiegato i mezzi espressivi proprii della sua arte come strumenti di esegesi del racconto. Si auspica perciò che un dipinto di tale bellezza e importanza culturale sia presto sottoposto alle operazioni di restauro necessarie a restituirgli, per quanto possibile, il suo aspetto originale.
CULTURA
A Troia fu guerra civile: Godart riscrive leggenda omerica
(di Paolo Martini) *
Dagli ultimi scavi sulla collina di Hissarlik, in Turchia, un’ipotesi diventa certezza: a Troia non furono due popolazioni diverse a scontrarsi, molto più semplicemente fu una ’guerra civile’. Gli Achei venuti dalla Grecia combatterono contro gli Achei che si erano già insediati in città. Lo sostiene uno dei massimi studiosi delle civiltà egee, il professore Louis Godart, in un articolo che esce sul nuovo numero della rivista "Archeologia Viva" (Giunti Editore).
"Greci e Troiani parlavano la stessa lingua, avevano le stesse credenze, stessi usi e costumi, stesso tipo di armamento. Omero lo dice chiaramente nella sua Iliade. Oggi la conferma arriva dall’archeologia che aiuta a riscrivere un’intera pagina di storia, decisamente la più nota e popolare": così sintetizza la scoperta lo storico e archeologo Louis Godart, che ha insegnato Civiltà egee all’Università ’Federico II’ di Napoli ed è stato consigliere per la conservazione del patrimonio artistico presso la Presidenza della Repubblica italiana ed è membro dell’Accademia dei Lincei, dell’Institut de France e dell’Accademia di Atene.
"Le ricerche condotte a Troia dalla missione archeologica dell’Università tedesca di Tubinga abbinate a una riflessione sullo studio dei testi delle tavolette in lineare B scritte nel dialetto acheo dei Greci micenei - dichiara Godart - cambiano radicalmente le nostre prospettive sulla storia dell’Anatolia nord-occidentale e dell’Egeo alla fine del II millennio, in particolare tra il 1200 e il 1180 a.C.".
È a questo periodo che risale la cosiddetta Troia VIi (secondo le numerazione che gli archeologi hanno dato ai vari strati della lunga vita della città), in quel momento la città più importante dell’Anatolia e del Vicino Oriente, dove la gente si rifugiò all’interno delle mura sistemando nel suolo grandi vasi per lo stoccaggio di derrate alimentari (rinvenute dagli archeologi) per poter sostenere il lungo assedio che poi si concluse con la caduta della città, come lasciano intendere i resti umani e le tracce dei combattimenti rinvenuti nello strato di distruzione dell’insediamento.
Achei e Troiani, due facce dello stesso popolo. In Omero Achei e Troiani non sono mai differenziati in modo netto. Secondo l’Iliade, i due popoli pregavano gli stessi dèi, ai quali tributavano gli stessi sacrifici. Parlavano la stessa lingua e i troiani avevano nomi greci. Non vi sono mai problemi di comunicazione tra Achei e Troiani e anche il nome Ettore non era un nome barbaro per i greci, spiega sempre Godart. Vi era un culto di Ettore a Tebe; a Taso, isola vicina alla costa della Tracia, una divisione della città portava il nome di Priamides. In una serie di tavolette in lineare B (la scrittura dei Micenei) di Pilo, è stato identificato l’antroponimo ’e-ko-to’ che corrisponde al greco ’Hector’, mentre in un altro testo rinvenuto sempre nel palazzo di Nestore, c’era il patronimico ’e-ko-to-ri-jo’, ’Hectorio’s, ’figlio di Ettore’.
"Il nome Ettore è quindi un nome acheo, anche se nell’Iliade indica il grande campione troiano - illustra sempre Godart - Poiché i nomi degli eroi troiani sono greci, Omero, facendo parlare una stessa lingua agli Achei e ai Troiani, non fa altro che rispecchiare la situazione che vigeva sull’acropoli di Troia alla fine del XIII secolo a.C.".
"Sarei assolutamente propenso, come sostengo nel mio articolo su ’Archeologia Viva’ e nel mio libro ’Da Minosse a Omero’ (Einaudi) - spiega Godart - a ritenere che sia stata un’aristocrazia micenea a comandare a Troia nella fase VII che ispirò Omero. L’abbondante ceramica micenea rinvenuta sul sito di Troia negli strati del XIII secolo a.C. conforta indubbiamente una simile ipotesi. Se è davvero così e se Priamo era un re acheo, dovremmo ritenere che la guerra di Troia cantata da Omero sia stata una guerra civile in cui implacabilmente si opposero gli Achei del continente, delle isole e di Creta a altri Achei".
Louis Godart è autore di importanti pubblicazioni presso Einaudi: "Il disco di Festo. L’enigma della scrittura", "L’invenzione della scrittura", "L’oro di Troia. La vera storia del tesoro scoperto da Schliemann" (con Gianni Cervetti), e il recente "Da Minosse a Omero. Genesi della prima civiltà europea".
Il poeta e l’interprete: storia di una passione dantesca
di Valentina Pagnanini (Il Chiasmo/Treccani, 29 giugno 2020)
Ufficialmente è stato al servizio del governo cinese, prima interprete, poi diplomatico, infine console, appassionato di scacchi nonché grande conoscitore della lingua e cultura cinese, coinvolto in iniziative militari segrete: l’effettiva professione di Eugenio Volpicelli ancora oggi resta un mistero.
È stato uno dei più grandi sinologi italiani, tra i primi ad aver diffuso la Divina Commedia in Oriente, coltivando la passione per Dante oltre l’attività diplomatica. È grazie a lui se nell’Ottocento in Cina iniziarono a circolare le prime traduzioni del poema dantesco, l’opera più rappresentativa della cultura italiana in Asia. A far luce su alcuni periodi oscuri della sua vita interviene il saggio di Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, nel quale si ripercorrono i viaggi, le missioni diplomatiche e gli incontri politici di Volpicelli e della moglie Iside. Quello tra i due coniugi è stato un sodalizio affettivo e ideologico. Eugenio e Iside si sono sposati a Milano il 14 febbraio 1891, insieme hanno condiviso l’amore per Dante e per la patria, le missioni diplomatiche e i segreti di stato, nonché i viaggi, da Milano a Hong Kong, a Nagasaki e Macao.
L’interesse per Dante sorge in lui in giovane età. La formazione di Volpicelli è affidata all’Istituto Orientale di Napoli, un unicum organizzato sul modello del Collegio dei cinesi, che costituisce la base per la sua attività diplomatica. Qui egli studia con profitto la letteratura italiana e le lingue orientali, per primo ottiene «una borsa di studio offerta dall’Istituto asiatico. E agli esami finali del 1881 si posizionò ancora una volta in testa a lla classifica. Dieci decimi in persiano e arabo, lingua questa che fu incaricato di insegnare» riporta Eric Salerno. In quello stesso anno, appena diplomato, egli decide di abbandonare Napoli e di seguire il richiamo dell’Est.
Volpicelli si interessava ai complotti della diplomazia e alle strategie politiche, praticava l’arte della guerra sfidando gli alti ufficiali a scacchi e wei ch’i, un gioco molto praticato in Giappone come esercizio di tattica militare, «istruttivo nell’arte della guerra». Si appassiona a tal punto da pubblicare due articoli su di essi per il Journal of the North China Branch of the Royal Asiatic Society di Singapore. «L’oggetto del gioco di wei ch’i può apparire molto facile, eppure sarà sufficientemente difficile portarlo a termine. Si tratta di occupare più spazio possibile sul tavolo e di impedire all’avversario di fare lo stesso» scrive nel 1892 e continua: «l’interesse del gioco non è concentrato in un posto come con gli scacchi, intorno al re, ma è sparpagliato ovunque sul tavolo, in quanto ogni singolo posto ha un effetto ugualmente importante nel risultato del gioco e conta nel totale finale che rappresenta la posizione delle due parti alla fine della lotta». Per concludere il gioco, «tradotto in termini militari, più che dare scacco matto al re bisognava puntare alla conquista del territorio». In ventotto pagine di spiegazioni e illustrazioni Volpicelli forniva le prime istruzioni di gioco del wei ch’i in una lingua europea, l’inglese. Se in Cina «lo veneravano come esperto degli scacchi cinesi», in Italia «lo idolatravano come uno dei primi ad aver compreso e descritto la struttura della lingua cinese, tra i simboli e le tonalità più diverse».
Egli arriva in Cina sul finire del diciannovesimo secolo e trova un paese profondamente diverso rispetto ai suoi studi, in piena crisi e in balia di conflitti interni ed esterni. Il suo primo incarico inizia nel 1882 ad Amoy, l’attuale Xiamen, porto strategico per le esportazioni di tè nel corso del Novecento. Qui, Volpicelli risiede per un lungo periodo, alternando visite alla capitale e ad altre città d’interesse coloniale, e racconta con orgoglio di una sua impresa compiuta in quegli anni che gli valse un importante impiego. Egli riuscì a circumnavigare a nuoto l’isola di Kulangsu - chiamata anche l’isola dei pianoforti per la più elevata presenza dello strumento musicale - prova della sua intraprendenza e coraggio, nonché di virtù. L’episodio fu seguito dall’assegnazione di un nuovo mandato: si richiedeva la sua presenza come interprete nella missione imperiale cinese volta a ottenere un armistizio con la Francia per il comando del Tonchino. Volpicelli prese parte alla missione, coordinata dalle dogane dell’impero, e diede prova delle sue abilità dialettiche. «Ebbe diritto, in segno della gratitudine cinese, all’ordine del Doppio Dragone» nota Eric Salerno, Parigi invece «insignì Volpicelli della commenda del Dragone dell’Annam, creata ad hoc per chi aveva fornito assistenza durante le operazioni navali in quel settore del Sudest asiatico».
La sua fama era giunta ben presto anche in Italia, il suo volto si stagliava in primo piano sulle copertine delle riviste italiane, le sue imprese erano motivo di orgoglio e onore per il governo italiano. L’8 novembre 1885 è dedicata a lui la copertina Un mandarino italiano in Cina del settimanale L’illustrazione italiana dove appare un’immagine di Volpicelli, fotografato con un casco coloniale in testa, corredata dalla didascalia: «L’italiano Volpicelli e i plenipotenziari per la pace in Cina». L’articolo menzionava le missioni diplomatiche nel Tonchino e in Corea, alle quali aveva partecipato Volpicelli come interprete e mediatore degli interessi italiani, ottenendo per i suoi servizi una commenda cinese:
La carriera di Volpicelli però non fu sempre costellata da riconoscimenti e onorificenze. Ci furono anche momenti bui, periodi di sospetti, critiche e accuse che coinvolsero Volpicelli in intrighi diplomatici. In Gran Bretagna c’era molta attenzione al modo in cui circolavano le informazioni e venivano diffuse le notizie, soprattutto nell’ambiente diplomatico. Volpicelli, d’altro canto, si interessava a questioni appartenenti non soltanto alla sua sfera di competenza, ma dava suggerimenti anche in altri ambiti, come nel campo militare, consigliando con perizia strategie e nuove mosse, tattiche da esperto giocatore di scacchi e wei ch’i. Fu proprio questa sua curiosità a procurargli degli inconvenienti politici. Se nel 1885 Eugenio Volpicelli era ritenuto degno di una delle più alte onorificenze cinesi e stimato in tutta Europa, trent’anni dopo, nel 1914 per l’esattezza, il suo operato non era più ben visto in Occidente e fu in breve tempo allontanato dalla sfera pubblica. Abbandonati gli incarichi ufficiali, egli si dedica alla lettura e alla scoperta dell’opera di un grande poeta e scrittore, viaggiatore esiliato come lui dai pubblici offici: Dante Alighieri.
Come sottolinea il filosofo Aijaz Ahmad in Orientalismo e dopo (2009), «Dante è la figura centrale attraverso cui si possono gettare dei ponti fra l’Antichità e la modernità», questo perché, secondo la definizione dell’orientalista Edward W. Said, «la forza poetica di Dante contribuisce a intensificare e generalizzare questa prospettiva [Orientalista] dalla quale l’Oriente è contemplato». Volpicelli avrebbe condiviso la passione per il poeta fiorentino con suo cugino Francesco Torraca, celebre commentatore della Divina Commedia, che nei primi anni del Novecento era professore di letteratura comparata all’Università Federico II di Napoli. La passione per il sommo poeta lo accompagnò sin dagli inizi, già a Napoli da studente era solito frequentare salotti rinomati nei quali veniva letto Dante.
Oltre l’attività di «interprete, diplomatico, storico e forse qualcos’altro, [Eugenio] si servì di una penna brillante per raccontare momenti importanti della sua avventu ra in Oriente e per spiegare ad altri diplomatici, ministri, re e principi, e poi alla gente comune, la realtà di quel mondo», di quella stessa penna si servì anche, e soprattutto, per tradurre Dante e farlo conoscere al pubblico cinese. «L’autore della Commedia fu sempre nel cuore e nella mente del nostro console generale» racconta Salerno.
L’amore per Dante era nato in Volpicelli da studi e ricerche, letture appassionate e ancora ricerche, Eugenio si era interessato alla vita del poeta in alcuni anni così simile alla sua, una carriera trascorsa al servizio del potere pubblico oscurata da false accuse di corruzione, l’allontanamento dalla propria patria più o meno forzato, la passione per i viaggi e le infinite peregrinazioni. Dante scrive: «Voi credete forse che siamo esperti d’esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete», e anche Volpicelli, in definitiva, fu un pellegrino. Confrontando l’Alighieri e il Volpicelli, si notano molti punti di contatto tra le due esperienze biografiche: due uomini politici, il letterato e l’interprete, entrambi orfani fin da giovani, ma con una vasta rete di amicizie, i loro anni migliori spesi tra l’otium litterarum e il negotium. Dal 1319 al 1321 anche Dante era stato ambasciatore, a Venezia, al servizio del signore di Ravenna Guido da Polenta. Comune anche l’interesse per le strutture della lingua, italiana per il poeta, cinese per il console, e per i numerosi dialetti coesistenti, alla ricerca di una lingua comune.
Nel 1942, è Anna Silvia Bonsignore, giornalista per L’Ambrosiano milanese di Umberto Notari, che nell’elzeviro Sull’italiano creato mandarino racconta all’Italia della passione dantesca di Volpicelli e segnala anche un suo viaggio in Cina alla ricerca di Dante. Volpicelli riscontra delle «similarità tra la carriera di Dante e quella del grande saggio cinese Confucio», al punto tale da intraprendere una traduzione della Commedia in lingua cinese. Egli aveva ritrovato nei testi filosofici cinesi echi del poema dantesco, che si traducevano in raffigurazioni, simboli e descrizioni strettamente legati alla Commedia. Si legge da un originale autobiografico del diplomatico:
Esattamente un secolo fa, in Cina, Eugenio Volpicelli rivelava al mondo la sua passione per l’opera dantesca, celebrando l’amore di Dante per Beatrice proprio nel ventottesimo anniversario del suo matrimonio, simbolo del duplice legame, affettivo e letterario, che lo univa indissolubilmente al sommo poeta.
Per saperne di più:
Si consiglia la lettura del saggio di Eric Salerno da cui sono tratte le citazioni dell’articolo: Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, Il Saggiatore, Milano, 2018. Per approfondire il processo di divulgazione della Divina Commedia in Oriente si propone la lettura dei contributi di Federico Masini: Una “Divina Commedia” cantonese, in Mondo Cinese, n.73, a. 1991, pp. 27-48 e La Divina Commedia in lingua cinese a Ravenna, in Mondo Cinese, n.98, a. 1994; sui rapporti storico-letterari tra l’Italia e la Cina, si suggerisce il volume di Giuliano Bertuccioli, Federico Masini, Italia e Cina, Laterza, Bari, 1996. Sull’orientalismo si propongono i testi: E. W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; A. Ahmad, Orientalismo e dopo, in M. Mellino (a cura di), Post-orientalismo, Meltemi, Roma, 2009.
RIPRENDERE IL LAVORO DI FREUD. IL MALE, L’AVVENIRE DI UN’ILLUSIONE ....
Nota a margine di "Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
PRIMA DI FARE DICHIARAZIONI STORIOGRAFICHE DI GRANDE IMPEGNO A SOSTEGNO DELLE PROPRIE ARGOMENTAZIONI:
E PARLARE DI “divinizzazione retroattiva del marchese de Sade” è bene ricordare che l’associazione indebita di “Kant e Sade”, fatta da Lacan, nasce sulla base di una interpretazione edipico-hegeliana e di un vera e propria distruzione della kantiana “critica dell’idealismo”.
E, ancora, quando Freud richiama all’inizio del suo lavoro sulla “Interpretazione dei sogni” le parole di Giunone “flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Eneide, VII, 312), sa già (“sibillina-mente”) di che cosa sta parlando e di cosa c’è in gioco e, come Giunone (“Non mi sarà dato, ahimé, di impedirgli di regnare sui Latini e Lavinia, immutabile, resta sua sposa in forza del destino, ma ho il potere di tirare per il lungo, di imporre dei ritardi a eventi così grandi ...”: Eneide, VII, 312- 315 ), va avanti e ricordando-si di Napoli comincia capire cosa c’è dietro la questione “Didone” (Eneide, IV, 625 ) e la sua infatuazione per Annibale, per il vendicatore: la vittoria di Roma, dell’Amore sulla Morte. Fiducioso, continua il suo lavoro!
La “Horrenda Virgo” (Eneide XI, v. 507) , la “ragazza terribilmente bella”, come Giunone (e Freud), lo sa: deve cedere il passo ad un’altra “Virgo”, ad Astrea, alla Giustizia: «Già viene l’ultima era dell’oracolo di Cuma, / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno, /già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo.» (Ecloga IV, 4-7). La “Horrenda SYbilla” (Eneide VI, 11), ispirata da Apollo, il profeta di Delo, ha rivelato ad Enea tutto il futuro (Eneide VI, 11-12).
PERCHE’ HANNAH ARENDT, nella sua “Vita della mente” (alla luce di un inedito dialogo con Kant) richiama ancora e di nuovo Virgilio e Dante, e dal “Libro del malumore” di Goethe cita: “Chi di tremila anni / Non sa darsi conto, / Rimane all’oscuro inesperto, /Vuol vivere così di giorno in giorno”? Boh e bah?!
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Festival di Filosofia
AMORE. Perché quando batte il cuore ci sentiamo veramente più umani
Un romanzo, "L’ imperatore del Portogallo", è un esempio di cosa significa amare. Ma c’è una risposta diversa al modo di diventare umani e l’ha fornita Kojève
di TZVETAN TODOROV *
Uno dei più bei romanzi del ventesimo secolo, L’ empereur du Portugal di Selma Lagerlof, inizia con l’episodio nel quale si descrive la nascita di una bambina così come viene percepita dall’ anima di suo padre Jan. Costui è un povero agricoltore, che non possiede nulla, non ha combinato nulla di rilevante. Si è sposato avanti con gli anni ed ecco che la gravidanza della moglie giunge ora al termine. Jan ha trascorso l’ intera giornata attendendo fuori dalla porta, ha freddo, è stanco, pensa a tutte le piccole seccature che la presenza della neonata comporterà per la sua casa. Tuttavia, alla fine entra nella stanza dove la moglie ha partorito e gli mettono tra le braccia un fagotto, dal quale spuntano un visino un po’ sgualcito e delle esili manine.
All’ improvviso sente il cuore battergli così forte in petto da essere quasi impaurito, e subito chiede aiuto alle altre donne lì presenti. Queste afferrano in un batter d’ occhio la situazione, e scoppiano a ridere. «Non avete mai amato abbastanza qualcuno in precedenza, da provare batticuore soltanto adesso?», gli chiede la levatrice. Jan deve ammettere di no, ma comprende che cosa ha appena vissuto. E Selma Lagerlof commenta: «Colui che non sente il proprio cuore battere, né nella tristezza né nella gioia, non può considerarsi un vero essere umano» (pag. 13).
L’ imperatore del Portogallo è la storia di un amore folle, quello di un padre per sua figlia. Ci si accorge immediatamente che la posta in gioco non è insignificante - né per il protagonista, né per l’ autore: si tratta, né più né meno, di identificare che cosa renda gli uomini davvero umani. L’ interrogativo sull’ identità umana può essere formulato nei contesti più disparati, e ricevere di conseguenza risposte quanto mai diverse. La risposta di Lagerlof si colloca su un piano che potremmo definire antropomorfo, che si estrinseca in una sola parola: l’ amore. Ciò che rende questo essere specificatamente umano è la sua capacità di amare. è facile dire di una simile affermazione che è bella o che è nobile, ma ci si potrebbe spingere ad affermare che è vera? Prima di pronunciarmi a questo proposito, vorrei ricordare un altro tentativo di spiegare la specificità umana, che si situa sul medesimo piano antropologico.
Negli anni Trenta del nostro ventesimo secolo, un giovane filosofo russo emigrato a Parigi, Alexandre Kojève, spiega a qualche attento ascoltatore il senso della celebre «dialettica del padrone e del servitore» nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Dopo la guerra, uno degli ascoltatori presenti nel pubblico, Raymond Queneau, pubblicherà quelle conferenze con il titolo Introduzione alla lettura di Hegel, un’ opera che eserciterà una profonda influenza su numerosi autori contemporanei.
La risposta di Hegel alla specificità umana (così come fu interpretata da Kojève) è molto diversa da quella di Lagerlof. In che cosa consiste la differenza tra l’ animale e l’ uomo? Il primo agisce sempre e soltanto in ragione del proprio istinto di conservazione, e a questo fine si appropria di tutto ciò che gli è necessario (per esempio il cibo), eliminando gli ostacoli (i rivali). Il secondo fa altrettanto, ma non si accontenta di questo, ricerca qualcosa di più della sua semplice soddisfazione fisiologica: aspira a far sì che il suo valore sia apprezzato, e questo non può venirgli se non da altri. Dunque l’umanità ha inizio là dove «il desiderio biologico della conservazione della vita» si asservisce «all’ umano desiderio di approvazione» (pag. 170). Ne consegue che essere umani significa essere pronti a rischiare la propria vita per qualcosa che va al di là di essa. Essere umani significa smettere di considerare la propria vita un valore assoluto. Questa situazione estrema agli occhi di Kojève rivela la verità insita nella ricerca di approvazione: poiché tutti desiderano ottenerla e poiché per ottenere ciò che si auspica di ottenere dagli altri è necessario prima di tutto conquistarli, la vita umana non è altro che una spietata lotta finalizzata ad averla vinta, che sfocia con la comparsa di un padrone - il vincitore - e di un servo - il vinto. La storia dell’ umanità è la storia della loro lotta e delle sue ripercussioni (della lotta di classe, dirà Marx).
Kojève può dunque concludere: «L’ esistenza umana, storica, cosciente di se stessa, non è pertanto possibile se non laddove vi sono - o per lo meno vi sono state - delle guerre sanguinarie, delle guerre per il prestigio». Ciò che è specificatamente umano non è più l’ amore, ma la guerra.
La risposta di Kojève è sicuramente meno attraente di quella di Lagerlof, ma è forse meno vera? Molti contemporanei paiono averla prescelta, temendo senza dubbio che li si possa accusare, in caso contrario, di sdolcinatezza (la verità deve essere sempre amara, questo è uno dei sorprendenti postulati della filosofia occidentale moderna).
Rivolgiamoci allora, per cercare di vederci più chiaro, non tanto alla problematica comparsa della specie umana all’ alba della storia, quanto a quella infinitamente più facile da osservare dell’ individuo umano (che ben descrive il primo capitolo de L’ empereur du Portugal). Alla sua nascita il piccolo d’ uomo non si distingue radicalmente da quelli delle altre specie animali, per esempio le scimmie superiori: il bambino aspira a essere confortato, scaldato e nutrito - ma i piccoli delle scimmie fanno altrettanto. Le differenze tuttavia vi sono, e una tra esse acquisisce un significato del tutto particolare. A un’ età che possiamo collocare approssimativamente intorno alla settima o l’ ottava settimana di vita, il lattante fa un gesto che non ha uguali nel mondo animale: non si accontenta più di guardare la madre (questo lo fa dal momento stesso della sua nascita), ma cerca di catturare il suo sguardo, per esserne guardato. Ricerca e contempla lo sguardo che lo contempla: questo è l’ avvenimento grazie al quale il bambino entra in un mondo inequivocabilmente umano.
Vediamo allora che la tesi di Kojève è accettabile soltanto in parte: in una prospettiva antropologica è corretto affermare che l’ esistenza specificatamente umana inizia con il riconoscimento di noi stessi che riceviamo dall’ esterno, da un altro essere umano. è la stessa cosa che aveva già affermato Rousseau, probabile ispiratore di Hegel a questo proposito: all’ alba dell’ umanità «ciascuno iniziò a guardare gli altri e a volerne essere guardato» (Inégalité, pag. 169).
Ma qualsiasi riconoscimento - e qui occorre voltare le spalle a Kojève - non implica necessariamente una lotta mortale. L’ esistenza dell’ individuo, in quanto specificatamente umana, non inizia su un campo di battaglia, bensì con il neonato che attira su di sé lo sguardo della madre - una situazione, ammettiamolo, che pochi uomini hanno avuto l’ occasione di osservare fino a un passato recente. Grazie a quello sguardo inizia a esistere.
Senza riconoscimento, senza intersoggettività, senza società non vi è umanità. E senza amore? Non sappiamo ciò che la sua assenza determinerebbe a livello di specie, ma sappiamo tutti che alcuni individui arrivano, ahimè, ad attraversare l’ intera vita senza mai conoscere l’ amore. «Signor Hamil, si può vivere senza amore?», domanda il piccolo Momo nel capolavoro di Romain Gary La vie devant soi. «Sì, rispose abbassando la testa, come se provasse vergogna. E si mise a piangere» (pag. 12). Coloro che vivono senza amore sono esseri sfortunati, certo, ma indiscutibilmente sono esseri umani.
L’ amore non è invero necessario né alla conservazione della vita né a quella dell’ esistenza, che nasce dal riconoscimento e non dall’ amore. Selma Lagerlof sarebbe forse in disaccordo con questa conclusione? Non credo, infatti l’ autrice non intendeva suggerire che prima della nascita della sua bambina Jan non fosse, sinceramente parlando, un essere umano. Lei ha inteso dire che grazie all’ amore che Jan prova per la figlia egli ha realizzato la propria potenziale identità, ciò che vi è di più elevato nella condizione umana.
Si deve dunque intendere che un «vero essere umano» non è una constatazione di fatto, bensì un giudizio di valore. La migliore vita umana (non la vita umana in sé e per sé, dunque) è quella che vive nell’ amore, pare dirci Lagerlof. E così dicendo anche lei condividerebbe una delle idee costitutive alla base dell’ amor cortese medievale - «nessun uomo ha virtù senza amore» scriveva Bernard de Ventadour - che avrebbe lasciato delle tracce profonde nel concetto europeo di amore.
Traduzione di Anna Bissanti
LA METAFORA NEL MITO E NELLA RELIGIONE E I PROLEGOMENI AD OGNI FUTURA METAFISICA CHE SI PRESENTERA’ COME SCIENZA.... *
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 marzo 2020).
“Come fuori, così dentro” si potrebbe riassumere così, parafrasando la celebre massima alchemica, la tesi dell’ultimo libro di Joseph Campbell, Le distese interiori del cosmo. La metafora nel mito e nella religione, Nottetempo, 2020. Si tratta di una raccolta di saggi che amplificano delle conferenze tenute tra il 1981 e il 1984 nello sforzo, consueto per Campbell, di illuminare la transculturalità, ossia gli elementi costanti, nonostante le variabili etnico-culturali, dei miti. Al cuore di ogni narrazione mitologica, che Campbell ha il merito indiscusso di mostrare ancora viva negli aspetti più comuni delle nostre culture, ci sono temi che Adolf Bastian (1826-1905) chiamava “idee elementari” e Carl Gustav Jung (1875-1961) “archetipi”; si tratta di cristallizzazioni di risposte millenarie che la fantasia e l’immaginazione delle diverse civiltà umane hanno elaborato per affrontare questioni esistenziali che le hanno profondamente interrogate. Naturalmente queste forme archetipiche variano a seconda delle idee etniche che una determinata cultura esprime, ma esiste tra di loro una dialettica che Campbell riassume così: “l’idea elementare è radicata nella psiche; l’idea etnica attraverso cui si manifesta è radicata nella geografia, nella storia e nella società” (p. 145); si accede al punto di vista del mito quando “nelle forme di un ambiente traspare la trascendenza” (p. 28).
Il suo lavoro più celebre sull’universalità del mito è sicuramente quello relativo a L’eroe dai mille volti (1949, tr. it. Lindau, Torino, 2012) figura che, nelle più disparate e diversificate espressioni culturali, lontanissime tra loro nello spazio e nel tempo, passa comunque sempre attraverso i seguenti snodi esistenziali: una nascita misteriosa, una relazione complicata con il padre, ad un certo momento della sua vita sente l’esigenza di ritirarsi dalla società e, in questa condizione, apprende una lezione, o elabora un sapere, che orienterà diversamente la sua vita, poi ritorna alla società per mettere al suo servizio la lezione che ha appreso, molte volte (ma non necessariamente) grazie ad un’arma che solo lui può usare.
In questo libro, invece, l’attenzione si rivolge alle diverse cosmologie e ai miti soteriologici elaborati nel corso dei millenni dalle differenti culture che si sono susseguite, e affiancate, nel nostro pianeta, comprese le attuali, e si organizza intorno alla felice intuizione kantiana che spazio e tempo siano categorie interiori della psiche che vengono applicate alla realtà esterna. Citando Novalis Campbell scrive: “La sede dell’anima è laddove il mondo esterno e il mondo interno s’incontrano”, e aggiunge, “è questo il paese delle meraviglie del mito” (p. 43).
Non si equivochi: il paese delle meraviglie, non è un mondo fantastico, illusorio, ma lo spazio nel quale apprendere a ridestare la meraviglia, ad attivare l’intero psichismo dell’uomo, a sviluppare una particolare capacità di attenzione che, facilitata dalla forma narrativa del mito, insegna ad aprirsi alla trascendenza, ossia all’eccedenza di senso e significato che incarna ogni simbolo, mai riducibile a una perfetta equazione con quanto rappresenterebbe.
Ed è qui che Campbell ci regala una delle sue pagine più interessanti:
Mi sembra un esempio realmente illuminante per comprendere il senso di ogni comparazione e di ogni ermeneutica simbolica. Lo ha spiegato bene Jung: il simbolo, centrale in ogni mito, non rimanda a una realtà significata, è esso stesso realtà operante, costituisce la specifica capacità umana di “orientare la coscienza verso ulteriori possibilità di senso”, poiché non è mai del tutto riconducibile ad un significato univoco e definitivo; per questo non può essere ridotto alla semiotica perché la sua funzione è piuttosto psicagogica, vale cioè per gli effetti che produce nella psiche, per le energie, le immagini, le interpretazioni, i processi psichici che sa evocare, promuovere, mettere in gioco (C. G. Jung, Tipi psicologici, 1921; tr. it. Bollati Boringhieri, 1977 e sgg, p. 527). Ecco perché il ricorso a Kant, a quell’x che resta inconoscibile e che apre alla metafisica, a ciò che trascende ogni possibilità di possesso e de-finizione del senso ultimo, appare particolarmente pertinente.
I rapporti che vengono suggestivamente indagati da Campbell, dicevamo, sono quelli che comparano lo spazio interiore e quello esteriore, secondo la celebre analogia tra macrocosmo e microcosmo:
Attraverso un nutrito numero di calcoli e dati ricavati dagli studi di astronomia, i calendari ideati dalle diverse culture a partire dagli antichi babilonesi, le fonti bibliche, le arcaiche Upanisad induiste e i più remoti testi taoisti, Campbell giunge ad analizzare suggestivi - per un certo tipo di lettore - consonanze tra i cicli biologici del sistema solare (macrocosmo) e quelli dell’individuo (microcosmo). Ma non mi sembra questo il punto cruciale dei suoi sforzi, che consiste piuttosto nel promuovere una diversa prospettiva sul mondo e sulla vita, non più incentrata sulle nostre idee etniche, sui limiti delle nostre culture, ma aperta al riconoscimento di un’unica realtà “il cui centro è ovunque”, della quale dovremmo finalmente farci carico in maniera universale (si pensi agli assurdi sforzi dei singoli stati, in questi difficili giorni, di arginare il coronavirus secondo strategie nazionali, anziché comprenderne la portata globale che richiederebbe interventi condivisi, in tutti i sensi, su scala mondiale e non, addirittura, regionale - per non parlare delle differenti valutazioni a seconda delle fasce di età).
Dopo aver preso in esame i miti cosmologici e soteriologici delle diverse religioni delle nostre principali culture, Campbell giunge a questa conclusione:
Il pensiero mitologico, quando non viene letteralizzato, promuove dunque un’apertura alla transculturalità, alla trascendenza di ogni appartenenza storico-culturale e si propone, in maniera apparentemente contro intuitiva, come strumento di laicità. Qui incontra l’arte, per la sua capacità di trasformare la coscienza e la visione abitudinarie della realtà in favore di un punto di vista nel quale, “la mente viene fermata e innalzata al di sopra del desiderio e dell’odio”; sono parole di Joyce che Campbell fa sue e che trova affini all’esperienza ascetica che dovette compiere il Buddha prima di raggiungere l’illuminazione: vincere i tre demoni del desiderio (Kāma), della paura della morte (Māra) e l’identificazione con i vincoli sociali (Dharma), per accedere a una condizione che li sappia trascendere (pp. 201-201).
Un percorso e un’opportunità che, in chiave individuativa, sono poste al centro del lavoro di Giovanna Morelli nel suo Poetica dell’incarnazione. Prospettive mitobiografiche nell’analisi filosofica (Mimesis, 2020). In questo libro - uscito per la collana di Mimesis “Philo-pratiche filosofiche” curata da Claudia Baracchi - l’arte appare lo sfondo dal quale può emergere una rappresentazione mitobiografica della vita di ciascuno di noi, ossia, secondo la lezione di Ernst Bernhard, il modo di riconoscere come ogni singola esistenza si apra, o meglio si riconosca, in alcuni mitologemi (singoli aspetti di un mito) che si prestano a leggerne alcune gesta. Lo sguardo mitobiografico con il quale Morelli invita a osservare la vita, a partire dal racconto della propria, permette di “scoprire e amare l’universale attraverso il particolare, preservando entrambe le dimensioni”, di “narrare la propria vita secondo il disegno di senso che la illumina, la magnifica, la collega a figure universali e pertanto la rende epica, emblematica” (p. 127).
L’arte che indaga l’analista filosofo è dunque quella incarnata, ossia, consapevole che la vita di ciascuno di noi accede al simbolico grazie e attraverso quelle che James Hillman chiamava “metafore radicali” offerte dall’inconscio collettivo, ossia le strutture percettive, gli archetipi, che organizzano l’esperienza umana come già da sempre sovrapersonale.
Lo specifico di ogni vicenda biografica non viene meno se riconosce nel suo sviluppo echi, modalità e variazioni di temi ricorrenti nella storia dell’umanità - di cui la psiche mantiene una traccia in forma, appunto, archetipica - ma procede al contrario verso la sua individuazione, la possibilità di autenticare in modo esclusivo la propria esistenza, “se comunica con se stessa alle più diverse latitudini spazio-temporali, attraverso le tante narrazioni-quadro che si sono avvicendate nella storia” (pp. 38-39).
L’arte è qui poiesis, anzi, mitopoiesi e la vita, vista dall’osservatorio privilegiato della stanza d’analisi, ne costituisce il principale teatro (Giovanna Morelli è anche regista d’opera e critica teatrale), lo spazio in cui s’incontrano e si scontrano le nostre maschere sociali e i nostri doppi impresentabili, ma anche dove si facilita una più profonda espressione di sé che, in una vicenda personale, sa scorgere tracce di qualcosa di universale - il che, osserva Jung, è già di per sé terapeutico:
Un’operazione che, in modo diverso, sia Campbell che Morelli, ci invitano a fare per riconoscere nei miti la via maestra alla coltivazione di quella trascendenza che non rimanda a mondi altri e paralleli ma anima l’immanenza, qui ed ora, da sempre.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DAL "CHE COSA" AL "CHI" : NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
UNA "MAPPA CONCETTUALE" DELLA STORIA DELL’EUROPA E DELL’ITALIA ... *
Breviario
#Il muro
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 26 aprile 2020).
«Nel mio ufficio in Treccani, alle spalle della mia scrivania, ho un mattone su cui sono incise queste parole di Italo Calvino»: così confessa Massimo Bray nel suo «diario sospeso della mia esperienza di ministro» dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo nel 2013-14, intitolato Alla voce cultura.
L’immagine del muro divisorio, come è noto, è spesso usata da papa Francesco che l’ha trasformata in un motto: «Non muri ma ponti». Elevare cortine più o meno di ferro, barriere protettive, confini invalicabili ha come effetto il rinchiudersi a guscio nella propria identità, escludendo per paura o per disprezzo le differenze.
E questo è paradossale quando si pensa alla nostra civiltà europea che è un mirabile arazzo linguistico multicolore, un mosaico policromo di storie e culture, un arcipelago di peculiarità diverse.
Lo è ancor più per la nostra patria che ha impronte di popoli, arti e costumi diversi che vanno, ad esempio, dai Fenici di Mozia ai bizantini di Ravenna, dalla Magna Grecia ai monumenti arabi e normanni di Palermo e alla «corona ferrea» della longobarda Teodolinda e così via.
L’apostolo Paolo aveva ben compreso l’anima aperta e universale del cristianesimo quando ai cristiani di Efeso aveva scritto: «Cristo ha abbattuto il muro di separazione che divideva i due popoli», l’ebreo e il pagano, «creando dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace» (2,14-15).
* Nota
L’Europa, l’ Italia, e il grande letargo.
Se si legge con attenzione il "breviario" di oggi di Gianfranco Ravasi non si può non provare sorpresa e al contempo sgomento. Ripartendo dalla fine, e tornando all’inizio, in un baleno si coglie anche e subito il principio e la fine del cattolicesimo dell’apostolo Paolo (e dell’imperatore Costantino) e del Sacro Romano Impero!
Seguendo il filo della "corona ferrea" di Teodolinda, siamo subito sollecitati a calzare gli stivali delle sette leghe, raggiungere Carlo Magno e, con Manzoni, reinterrogarci su Napoleone ... e, possibilmente, "deporre" il "corona virus"!
L’impresa è difficile, ma alla luce delle indicazioni della mappa di Dante, forse, è possibile uscire dall’inferno epistemologico e rinascere - infine!
Per questo, è necessario riaprire la Divina Commedia e anche e soprattutto la Monarchia!
Federico La Sala
LA FIGURA DI PILATO E IL "PELLEGRINAGGIO" CHE PORTA DANTE A DIVENTARE UN ALTRO CRISTO, A RINASCERE E A RITROVARE L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE... *
Il gran rifiuto (Inf. III 59-60)
di Romano Manescalchi (Independent Scholar),
Princeton.edu, 8 April 2014.
L’intervento di Lanza sul «gran rifiuto» riapre con grande determinazione la discussione riguardo il personaggio cui Dante si sarebbe riferito, discussione ultimamente sopita generalmente in favore di Celestino V.[1] In buona sostanza, ma in una sintesi necessariamente riduttiva, il Lanza evidenzia che l’atto di Celestino V non apparve riprovevole, se non a pochi estremisti, gli spirituali, che con Ubertino da Casale non ritennero valida l’abdicazione di Celestino, mentre generalmente apparve un atto di responsabilità, tanto che la Chiesa lo fece santo. Dante dagli spirituali rimarcò sempre le distanze;[2] ed aggiungerei che, per contro, Dante si trovò a lodare chi è capace di rinunciare ad un incarico per non sentirsi all’altezza, favorendo i meritevoli: «Molti rifiutan lo comune incarco» (Purg. vi 133); e a condannare quanti son sempre pronti a dire, irresponsabilmente, senza un minimo esame di coscienza «I’ mi sobarco» (ivi, 135).
Ma non intendo riassumere qui le sostanziose ragioni con le quali viene riproposta dal Lanza la candidatura di Ponzio Pilato e confutate le ragioni in favore di altri (Esaù, Celestino V soprattutto, Vieri de Cerchi, Giano della Bella, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo ecc.), né ci sarebbe qui lo spazio per farlo. Qui vorrei solo aggiungere alcune mie considerazioni che vanno nella stessa direzione.
Innanzitutto una considerazione grammaticale e stilistica: «il gran rifiuto» può intendersi, su base grammaticale, in due modi: «quel gran rifiuto, che tutti conosciamo per averlo direttamente constatato», con «il» semplicemente indicativo; e la mente, in questo caso, va ad avvenimenti e personaggi recenti: Vieri di Cerchi, Giano della Bella, Celestino V ecc. Ma può intendersi anche «quel gran rifiuto di cui nessun altro è maggiore, il “gran rifiuto” per eccellenza, per definizione, per antonomasia»;[3] ed alla mente non può ricorrere se non Ponzio Pilato, con «il» che viene ad avere un valore superlativo, “antonomasico”. Ed ora il procedimento di Dante è questo: egli sostituisce i personaggi astratti del poema classico allegorico, semplici e unidimensionali personificazioni - vedi la Psicomachia di Prudenzio - con personaggi tratti dal mondo reale, indifferentemente della storia passata e del mito, o della cronaca dei suoi tempi. E la regola è questa: si sceglie il personaggio che meglio possa rappresentare quel peccato o vizio o virtù, che quel peccato o vizio o virtù lo rappresenti nel modo più eccellente, ne sia quasi la personificazione.
E da questo punto di vista Ponzio Pilato non ha rivali nell’indicare chi non si vuol compromettere, chi si ritira da un suo specifico dovere per viltà. Appartiene alle viscere del nostro linguaggio, da cui continuamente riemerge, il dire: «Ti comporti come Ponzio Pilato. Sei un Ponzio Pilato», come si dice «Sei un Giuda», frasi quasi altrettanto comuni come l’altra parallela del «lavarsene le mani», che comunque è ancor più ricorrente nel comune quotidiano parlare e rafforza in pari grado, o forse di più, le nostre argomentazioni. Dante avrebbe potuto trarre il personaggio esemplare dell’ignavo anche dalla cronaca quotidiana, come fa in tanti altri casi, riempiendo tra l’altro l’inferno con i suoi concittadini. Poteva quindi benissimo ricorrere a Celestino V, come a Vieri dei Cerchi o altri. Ma nessuno di questi personaggi può insidiare minimamente la candidatura di Ponzio Pilato, senz’altro il personaggio più rispondente, più adatto, ad incarnare il prototipo dell’ignavo, come gli riconosce senza obiezione alcuna tutta la nostra cultura, a cominciare, come detto, dal quotidiano parlare.
Vediamo ora il problema nell’economia della Commedia, nella cattedrale che anche è la Commedia, sintesi della storia universale dell’umanità in versione biblico-cristiana. Questa storia universale ha il suo punto centrale nella Redenzione della Croce, nella Crocifissione di Gesù. Non conosco racconto della storia della Crocifissione tante volte fatto dai pittori nelle cattedrali appunto, in cui manchino, accanto a Gesù, Pilato e Giuda. Ed ora Dante riconosce ed esalta i “meriti” di Giuda, dedicandogli a perpetua memoria - addirittura “eterna memoria” nel suo caso - un settore dell’inferno, la Giudecca, che appunto prende da lui il nome, dove anche grandeggia la sua statua vivente in una delle bocche di Lucifero (Inf. xxxiv vv. 61-63). Né è un settore qualunque quello a lui dedicato, bensì il più importante, dove è la reggia del sovrano infernale: diciamo che la Giudecca è la city della città infernale. Non penso proprio che Giuda si possa lamentare del trattamento che Dante gli ha riservato.
Ma lamentare si dovrebbe Pilato di cui non ci sarebbe nella Commedia, se gli togliamo di essere l’innominato di Inf. iii 59-60, niente altro che un fuggevole richiamo a Purg. xx 91 e solo per designare con il paragone con lui il sovrano di Francia Filippo IV. Davvero troppo poco. E se così fosse, dopo il tanto da lui fatto con il suo non far nulla, avrebbe ben motivo di rivoltarsi nella tomba contro un Dante tanto ingrato, dal momento che anche grazie a lui il poeta può fare questo pellegrinaggio[4] di redenzione che è la Commedia e guadagnarsi lui stesso il paradiso, grazie proprio a lui che in compenso del bene fatto (col non far nulla) come allo stesso poeta così a tutti i cristiani, dovrà subire pene eterne nell’inferno, pene che il poeta fiorentino non gli avrebbe nemmeno voluto determinare! E se non è troppo questo!
Dante darebbe a Pilato maggior rilievo a Mon. II xii 5-6: «Si ergo sub ordinario iudice Christus passus non fuisset, illa pena punitio non fuisset. Et iudex ordinarius esse non poterat nisi supra totum humanum genus iurisdictionem habens, cum totum humanum genus in carne illa Christi “portantis dolores nostros”, ut ait Propheta, puniretur. Et supra totum humanum genus Tiberius Cesar, cuius vicarius erat Pilatus, jurisdictionem non habuisset, nisi Romanum Imperium de iure fuisset. Hinc est quod Herodes, quamvis ignorans quid faceret, sicut et Cayphas cum verum dixit de celesti decreto, Christum Pilato remisit ad iudicandum... », dove il ruolo, comunque ragguardevole, avuto da Pilato è riconosciuto a chiare lettere, come anche a Mon. III xv 5 e ad Ep. V 28.
E dunque tanta importanza, quanto a mio avviso gli spetta, Dante dà a Pilato nella Monarchia, l’opera dantesca più vicina, per tematica e mole, alla Commedia, tanta in una lettera, comunque di molto peso come l’Ep. V indirizzata ai reggenti d’Italia, anche se di dimensioni indiscutibilmente minori; e non nominerebbe mai Pilato, direttamente, nella Commedia? A me pare molto, troppo, strano. Il personaggio è onnipresente nell’iconografia cristiana della Crocifissione e sarebbe assente nella Commedia, che è indiscutibilmente il massimo monumento laico della cristianità! È tanto inaccettabile quanto incomprensibile.
Da qualche parte Pilato deve essere anche nella Commedia e se non qui, a Inf. iii 59-60, dove? Nella storia universale della Chiesa (e dell’umanità) - da intendere in chiave biblico-cristiana - il personaggio di Pilato ha un grande rilievo come gli riconosce tutta l’iconografia e, come anche detto, il linguaggio spicciolo quotidiano. Celestino V e gli altri in questa prospettiva sono irrilevanti. Nel quadro specifico poi della Crocifissione, l’elemento centrale di quella storia universale in versione cristiana ed elemento centrale della Commedia che quella storia universale ha per suo sfondo e, direi, addirittura per suo oggetto, Pilato è un elemento addirittura indispensabile come lo è Giuda. Da qualche parte Dante deve averlo messo e il luogo più giusto è senz’altro tra gli ignavi. E se è tra gli ignavi nessuno gli può togliere - sarebbe una vera usurpazione - il diritto di rappresentare la categoria, che riconosce in lui, per il consenso di tutte le genti (cristiane), il suo massimo rappresentante.
Ci sarebbe anche un parallelismo: l’episodio della Crocifissione inizia con Pilato che, pur riconoscendo Cristo innocente, non fa il suo dovere, piegato dalla pressione della folla. E con Pilato posto nell’Antinferno comincerebbe la “crocifissione” di Dante, che ad una “crocifissione” del proprio ego lo porta il suo “pellegrinaggio” al santuario del Paradiso.[5]
Non mi sfugge che Inf. iii 59 - «vidi e conobbi» - crea delle difficoltà. Osserverei che si deve distinguere tra il “riconoscere” del v. 58, immediatamente precedente ed il “conoscere” del v. 59, volendo certo il poeta distinguere «quelli riconosciuti direttamente e quello che gli fu fatto conoscere da Virgilio» (Lanza, op. cit., p. 85) . Prosegue il Lanza: «Se si vuole un chiaro esempio di conobbi in questo senso, si veda il v. 122 del canto iv (ibidem), ovvero «tra quai conobbi Ettòr ed Enea». Vedi anche «sopra “riconosce”, qui “conosce”, vede in faccia» D. Mattalia, ad locum.
[1] Cfr. A. Lanza, Uno specchietto per allodole non previsto da Dante: Celestino V (Inf. iii 59-60, SD, lxxviii, 2013, pp. 45-100.
[2] Vd.: «ma non fia da Casal né d’Acquasparta» (Par. xii 124).
[3] L’espressione «per antonomasia» viene usata anche dal Lanza, op. cit. p. 93, ma riferita a Pilato e non all’espressione «gran rifiuto».
[4] Uso il termine “pellegrinaggio” soprattutto in onore di Vincenzo Barelli, il quale ha dato l’avvio alla interpretazione moderna delle tre fiere come «le tre disposizion che il ciel non vuole», ed è oggi totalmente dimenticato, indegnamente dimenticato visto che la sua scrittura è di alto spessore; vd. L’allegoria della Divina Commedia di Dante Alighieri / esposta da Vincenzo Barelli, Firenze, Galileiana, 1864, p. 64.
[5] Per questo concetto di “crocifissione” dantesca si tenga presente: «Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam» ( Matth. XVI 24); «Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, cum vitiis et concupiscentiis» (Ad Galatas v 24); «Ego enim per legem, legi mortuus sum, ut Deo vivam; Christo confixus sum cruci. Vivo autem jam non ego; vivit vero in me Christus» (Ibidem ii 19-20). È questo il traguardo che Dante deve raggiungere con la Commedia.
* Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura. della DIVINA COMMEDIA"
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
PIANETA TERRA: L’ILLUMINISMO, OGGI. UNA COSTITUZIONE PER IL MONDO... *
Dibattito.
Una costituzione mondiale: da utopia a realtà?
Ritorna di attualità il tema di un governo mondiale, sorto subito dopo la guerra: il bene comune universale non può essere assicurato da una responsabilità politica frammentata. Un cammino però arduo
di Vittorio Possenti (Avvenire, mercoledì 22 aprile 2020)
Le gravi difficoltà planetarie, che non si riducono a quelle attuali della pandemia, e che sono messe impietosamente allo scoperto dal processo di globalizzazione dominato da tecnica e finanza, fanno affiorare il tema assolutamente primario di un governo politico della famiglia umana, in nome della comune umanità che non tollera discriminazioni, rifiuto della solidarietà e della fratellanza. Riemergono le questioni dell’unità politica mondiale, della pace perpetua, di istituzioni comuni aventi responsabilità a raggio mondiale. Tra innumerevoli ostacoli avanza la consapevolezza di un bene comune planetario dell’umanità e di beni comuni, che devono esseri assicurati allo stesso livello: è l’immensa questione di un’autorità politica mondiale o, come anche si dice, di una costituzione mondiale.
Pochi mesi fa si è formata in Italia l’associazione “Costituente terra” che persegue tale obiettivo. Domenica 5 aprile l’inserto “La lettura” del “Corriere” ha ospitato un articolo di Sabino Cassese dal titolo “Il sogno di una costituzione mondiale”, in cui l’attenzione si rivolge in specie al tragitto politico e intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese, che dall’Italia si trasferì in Usa negli anni ’30.
Borgese fece parte sin dall’inizio del comitato per la redazione di una costituzione mondiale, presieduto dal presidente dell’università di Chicago, Robert Maynard Hutchins, e composto da poco più di dieci membri che lavorò dal novembre 1945 al luglio 1947, preparando il progetto di una costituzione mondiale. Il gruppo tenne rapporti con persone esterne tra cui Jacques Maritain e Luigi Sturzo. Il testo fu pubblicato in varie lingue, e in italiano dalla Mondadori nel 1949, ma non ebbe grande accoglienza: era già cominciata l’epoca della guerra fredda.
Il lavoro non fu però inutile. Nel 1949 Maritain tenne alcune lezioni presso l’università di Chicago che formarono poi L’uomo e lo Stato, uno dei classici del pensiero politico novecentesco. In quest’opera l’autore dedica un capitolo a “Il problema dell’unificazione politica del mondo” che si riassume negli obiettivi di una pace permanente, nel superamento della sovranità degli Stati (severamente criticata) e nella formazione di un’autorità politica mondiale, garante della pace e della giustizia tra i popoli.
Non presento qui l’elaborazione maritainiana, che si differenzia alquanto da quella kantiana sulla pace perpetua. Mi interessa un altro elemento d’immenso rilievo: nel promulgare nell’aprile 1963 l’enciclica Pacem in Terris, Giovanni XXIII dedica profonda attenzione alla messa in opera di Poteri pubblici e Istituzioni a raggio planetario. Nella parte IV del testo il papa scrive: «Il bene comune universale pone ora problemi che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di Poteri pubblici cioè che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali Poteri vengano istituiti».
La prospettiva è stata rilanciata da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate (2009). È impensabile che la soluzione ai problemi globali che sono ulteriormente cresciuti possa essere trovata senza un grande progetto che conduca ad un’autorità politica globale: «Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti». Essa, che oltrepassa ma non cancella il livello dello Stato e/o quello di unioni politiche regionali, è necessaria in quanto esiste un bene comune universale che non può essere assicurato da una responsabilità politica frammentata.
Questo dislivello strutturale è forse la più grave causa del disordine mondiale. Il cammino verso un’autorità politica mondiale, da non intendersi come un Superstato e ancor meno come un impero mondiale, ma ricorrendo ai principi di sussidiarietà e solidarietà, è un itinerario lungo e arduo. Nonostante tutto dovrebbe imporsi se l’umanità globalizzata per il bene e il male, intenderà sopravvivere.
Intanto un certo cammino può essere compiuto, e già lo è stato, mediante la creazione di organismi mondiali in campi fondamentali quali l’economia, la salute, il commercio, il cibo: Fmi, Banca Mondiale, Wto, Oms, Fao ne sono esempi, mentre sull’ambiente bisognerebbe procedere a istituirlo. Non ci si inganni però, in quanto tali organismi spesso sono indirizzati dalle potenze dominanti. Il loro arrancante e precario funzionamento, in specie durante le crisi più gravi, è uno dei motivi della paura e della chiusura che colpiscono popoli e nazioni, conducendoli al nazionalismo e al sovranismo sotto la spinta di capi politici incapaci di guardare oltre.
Su questi nuclei il compito dell’Europa dovrebbe essere primario e l’appello di papa Francesco il giorno di Pasqua è chiaro. L’Europa è risorta dopo il 1945 grazie a un intento di unione per superare le rivalità passate: «È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero».
Da anni le ragioni del multilateralismo e dell’universalismo si sono gravemente indebolite. Alcune frasi del discorso del presidente Trump all’assemblea generale dell’Onu (24 settembre 2019) rappresentano il clima che si diffonde: «Il futuro non appartiene ai globalisti. Il futuro appartiene ai patrioti. Il futuro appartiene alle nazioni sovrane e indipendenti», chiaro invito a far pesare la propria forza sulle ragioni dell’equilibrio, e rilancio del primato dello Stato nazionale. È dunque ancor più necessario riprendere il progetto di un “costituzionalismo globale”, capace di creare istituzioni sovranazionali, e infine mondiali, di garanzia. Esse avrebbero il compito di controllare l’implementazione dei patti internazionali e del relativo diritto in ambiti vitali come l’ambiente, la corsa agli armamenti, l’istruzione, i diritti sociali, la lotta alle diseguaglianze, il contrasto alla tratta di esseri umani e alla criminalità internazionale. Qualcosa di analogo ai compiti svolti dall’Oms e dalla Fao nei loro campi rispettivi.
Jürgen Habermas ha parlato di “politica interna del mondo” e in Italia Luigi Ferrajoli ha sostenuto che il costituzionalismo ha un futuro solo se allargato oltre lo Stato. Le istituzioni di garanzia perseguono infatti fini universali nei modi prestabiliti dalla legge e dal diritto internazionali, e contribuiscono a limitare i poteri assoluti. Ma è proprio in questo campo che il cammino è più arduo, poiché mancano quasi completamente leggi di attuazione e di controllo, e il vecchio dogma della sovranità è lungi dall’essere superato.
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS".
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Una Costituzione per il mondo: l’utopia concreta di Borgese contro i sovranismi (di Valter Vecellio).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
EPIDEMIA, POLITICA, E TEOLOGIA: IL PROBLEMA JEAN-JACQUES ROUSSEAU E L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO...
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO: "[...] Rousseau cerca in tutti i modi di impostare bene il "trattato le cui condizioni siano eque" (Virgilio, Eneide, XI), ma perde il filo e, alla fine, si ritrova a riproporre la religione dei romani - la "religione civile", contro la "religione romana", cattolica ! Senza volerlo, prepara la strada "cattolico-romana" a Fichte, a Hegel, a Marx, a Gentile e a Lenin.
Kant reimposta il problema e riparte, bene : "tutto proviene dall’esperienza, ma non tutto si risolve nell’esperienza" o, diversamente, tutto viene dalla natura ma non tutto si risolve nella natura ; alla fine egli non riesce a sciogliere il nodo e resta in trappola. Al di là del mare di nebbia non può andare e - per non distruggere i risultati della sua esplorazione - si accampa lì dove è riuscito ad arrivare e decide: Io voglio che Dio esista.
Per Kant, Rousseau e Newton, come Locke, non sono stati affatto cattive guide per il suo viaggio. Il suo cammino è stato lungo, fruttuoso e coraggioso : la Legge morale dentro di me, il Cielo stellato sopra di me ! E, onestamente, rilancia di nuovo la domanda antropologica, quella fondamentale: "Che cosa è l’uomo?". Teniamone conto.
Ciò che essi cercavano di capire e quindi di sciogliere era proprio il nodo che lega il problema "religioso", il legame "sociale", il problema di "Dio", il problema della Legge, non quello o quella dei Faraoni e quella di una Terra concepita come un "campo recintato" o assoggettata alla "Moira" di Orfeo e alla Necessità.
Filosoficamente, è il problema dell’inizio ... e, con esso, dell’origine e dei fondamenti della disuguaglianza tra gli esseri umani. Il problema J.J. Rousseau, dunque: No King, no Bishop! Il problema della Legge - e della Lingua: il problema stesso del principio di ogni parola, la Langue, Essai sur l’origine des langues! Da dove il Logos e la Legge?! E, con queste domande, siamo già all’oggi, agli inizi del ’900 : Ferdinand de Saussure ! Ma ritorniamo al problema politico, della Legge della Polis o, come scrive Rousseau, della Citè. La questione è decisiva ed epocale: ed è al contempo questione antropologica, politica, e "teologica". In generale è la questione del rapporto Uno-Molti - una questione lasciata in eredità da Platone, e riproposta da Rousseau, nei termini del rapporto volontà generale - volontà di tutti o del cosiddetto "uno frazionario", e risolta ancor oggi nell’orizzonte moderno (cartesiano) - dopo Cristo, come dopo Dante, Rousseau e Kant - in modo greco, platonico-aristotelico. Una tragedia, e non solo quella di Nietzsche. In tutti i sensi.
Se continuiamo a truccare le carte e confondiamo l’Uno al numeratore con un "uno" degli "uno" o delle "uno" al denominatore finiremo per cadere sempre nella trappola della dittatura, e nel dominio del "grande fratello". E non riusciremo mai a distinguere tra "Dio" Amore [Charitas], e "Dio" Mammona [Caritas] - tra la "volontà generale" dell’Uno e la "volontà generale" di "uno", camuffato da "Uno". Liberare il cielo, pensare l’ "edipo completo" - come da progetto di Freud.
Vedere solo i molti (gli individui, meglio gli uomini e donne in carne ed ossa, le persone) che agiscono, discutono e lottano, e non vedere l’Uno, che è il Rapporto e il Fondamento di tutti e il Rapporto dell’Uno stesso con tutti i vari sotto-rapporti (economici, politici, religiosi, giuridici, pedagogici, familiari, e, persino, di amicizia) dei molti e tra i molti ... non porta da nessuna parte, se non alla guerra e alla morte. In tale orizzonte (relativistico, scettico e nichilistico), chi vuole guidare chi, che cosa può fare, che cosa può insegnare, che cosa può produrre ... se non il suo stesso "uno" - allo specchio ? Un narcisismo personale e istituzionale, imperialistico e ... desertificante !
È elementare, ma è così - come scriveva l’oscuro di Efeso, Eraclito : "bisogna seguire ciò che è comune : e ciò che è comune è il Logos" - la Costituzione, prima di ogni calcolo, per ragionare bene. La Costituzione è il fondamento, il principio, e la bilancia!!! Questo è il problema : la cima dell’iceberg davanti ai nostri occhi, e il punto più profondo sotto i nostri stessi piedi !!! E se non vogliamo permanere nella "preistoria" e, anzi, vogliamo uscirne, dobbiamo stare attenti e attente e ripensare tutto da capo, dalla radice (Kant, Marx), dalle radici: gli uomini e le donne, i molti, e il Rapporto-Fondamento che li collega e li porta - al di là della natura - nella società, e li fa essere ed esseri umani - dopo il lavoro in generale, il rapporto sociale di produzione in generale è la questione all’ordine del giorno nostro, oggi. [....]" . (Cfr.L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana").
Celebrazioni. Nel 2021 cadono i 700 anni della morte del poeta. Oltre 300 i progetti programmati in Italia e nel mondo, con al centro la «Commedia»
L’Alleluja eterno di Dante
di Carlo Ossola (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.04.2020).
Abbiamo appena celebrato i 500 anni dalla scomparsa di Raffaello (6 aprile), e già s’annunciano i 700 anni dalla morte di Dante (1321), preceduti dall’aver posto in calendario l’annuale “giorno di Dante” al 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, e inizio a Firenze, all’epoca di Dante, dell’anno civile.
Il tempo pasquale è propizio a ricordare che l’iter della Divina Commedia si svolge, nella finzione del poema, nella settimana santa del 1300, anno del Giubileo. È dunque, eminentemente, un poema di Resurrezione e Dante stesso, al sommo del Purgatorio, descrive in una luminosa terzina il gaudio a venire dei risorti: «Quali i beati al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando » (XXX, 13-15).
Nel nome del realismo, il secolo XIX, e in particolare Francesco De Sanctis, ha celebrato la cruda materia dell’Inferno, riscattato in amore e dignità dai canti di Paolo e Francesca e di Ulisse. I grandi scrittori del Novecento hanno preferito il Purgatorio, il «dolce color d’orïental zaffiro», così caro a Borges (Sette notti), o il Paradiso dell’esilio dolorosamente rimeditato da Mandel’štam: «Dall’alto di scale inumane / Davanti a palazzi tutti spigoli, / Alighieri poteva cantare / più intensamente la sua Firenze / con la labbra riarse» (Quaderni di Voronej, 1935-1937); o quello tellurico, e cosmico, descritto da Saint-John Perse, il poeta di Anabase e di Exil, nel commentare l’incipit del canto II: «O voi che siete in piccioletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca», così chiosando: «Non si era più intesa una voce siffatta dall’antichità latina. Ed ecco che questo canto non è più reminiscenza, ma creazione reale, e come un canto d’alveare che sciama verso l’Ovest, con il suo popolo di Sibille. [...] Poesia, ora dei grandi, cammino d’esilio e d’alleanza, lievito dei popoli forti, e levarsi degli astri presso gli umili» (Per Dante, 1965). Sì, Dante non è più, o solo, «reminiscenza» (anche se andrebbe sempre studiato a memoria), ma è futuro, per il XXI secolo: «È assurdo leggere i canti di Dante senza attrarli verso l’attualità. Essi sono fatti per questo. Sono dei proiettili lanciati per cogliere l’avvenire. Esigono un commento in futurum » (Mandel’štam, Conversazione su Dante).
Le celebrazioni del prossimo anno hanno suscitato un grande fervore: al Comitato nazionale per le Celebrazioni dantesche, istituito dal ministro Dario Franceschini, sono pervenuti oltre 300 progetti, da tutta Italia, dall’Europa, dall’America latina, dagli Stati Uniti; iniziative che toccano tutte le arti, la musica, il teatro d’opera e di parola, i Musei, gli Archivi, le città di Dante, le Accademie, le Università, le scuole.
Dante è veramente, come voleva Ezra Pound, everyman, ciascuno di noi; nello scorcio del XX secolo la voce di Carmelo Bene, di Vittorio Sermonti, di Vittorio Gassman, e soprattutto di Roberto Benigni, ha portato la Commedia sullo schermo televisivo e nelle piazze; Dante è davvero “popolare”: ci si può compiacere, ove questo non significhi recitarlo per via un giorno all’anno e perderne la lettura - lettura integrale del poema - nelle scuole.
In questo senso Dante è specchio fedele del nostro tempo: la maggior parte dei progetti presentati riportano Dante allo spettacolo, alla scena; o a una miriade di convegni a venire, propri dell’opificio accademico. Dante non è tuttavia un poeta della festa, ma dell’esilio, dei destini ultimi dell’umanità: Dante non si compiace mai dell’indugio (tranne un istante con Casella), corre al “fine ultimo”, con ansia e con sete: «[nel poema] le immagini si separano e si danno addio. È duro ascendere le balze dei suoi versi, colmi di addii» (ancora Mandel’štam).
Dante è un poeta in futurum: attenderà, finita questa pandemia, noi, al chiuso ora, guidandoci con la mansueta dolcezza dei suoi versi: «Come le pecorelle escon del chiuso / a una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette atterrando l’occhio e ’l muso; // e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, / addossandosi a lei, s’ella s’arresta, / semplici e quete, e lo ’mperché non sanno; // sì vid’io muovere a venir la testa / di quella mandra fortunata allotta, / pudica in faccia e ne l’andare onesta» (Purgatorio, III, 79-87).
È un poema infinito, e che tuttavia si chiude: « A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, // l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 142-145; il compito del poeta termina; a colui che ha fatto il cammino di Croazia per vedere il volto di Cristo impresso nel velo della Veronica, la Grazia concede che desiderio e volontà infine si appaghino e si riducano a un solo ordine universale, come splendidamente annota il Tommaseo: «Fantasia: La visione delle cose celesti rende inutile la fantasia, che fa luogo al puro intelletto. Volgeva: Dio volgeva con libero equabile tranquillo moto, soddisfatti, il mio desiderio e l’amore».
Si chiude infine la lunga battaglia della tentazione, del contendere del Bene e del Male, in quel velle redento, che era stato avvolto nei vincoli e nelle insidie del Maligno, secondo le Confessioni di Agostino: «Velle meum tenebat inimicus» (VIII, 10).
Il poema va letto nell’asprezza di questo ruvido certame: due cantiche su tre (Inferno e Purgatorio) parlano di pene: eterne o redimibili; il Paradiso terrestre è vuoto; anche nel Paradiso Dante è costantemente interrogato (sulla fede, speranza, carità), rivelato dall’avo il destino d’esilio, lontanando infine nella gloria anche Beatrice. Ma quel velle placato è pur la fine del trionfo del Dies irae: «Dies irae, dies illa, / Solvet seclum in favilla,/ Teste David cum Sybilla», poiché ora la Sibilla e le sue sentenze si sciolgono per sempre: «Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla» (Paradiso, XXXIII, 64-66).
Solo alcuni grandi scrittori del Novecento hanno inteso questo “petroso” agone del poema; vorrei ricordare su tutti Flannery O’Connor che al culmine del suo Diario di preghiera si affisa su quella soglia, di grazia e di tormento, che è l’ingresso del Purgatorio, descritto da Dante con crudo espressionismo: «Là venimmo: e lo scaglion primaio / bianco marmo era sì pulito e terso, / ch’io mi specchiai in esso qual io paio. // Era il secondo tinto più che perso, / d’una petrina ruvida e arsiccia, / crepata per lo lungo e per lo traverso» (IX, 94-99).
Flannery O’Connor non sceglie il primo gradone, lo specchiarsi di una coscienza lacrimata e detersa; si inginocchia, con Dante, sul secondo, nel triturarsi della contritio smarrita di fronte alla parete, come di sangue, che «sopra s’ammassiccia». Della Commedia soltanto questo la urge, questa carcerazione che scarnifica: «Chiedi / umilmente che ’l serrame scioglia» (ivi, 107-108). Per poi confessare, vera lettrice di Dante e della sua scarna oltranza: «Io vorrei essere una mistica, e anche subito. Nonostante ciò, caro Dio, concedimi un posto, per piccolo che sia, e fa che io lo rispetti. Se fossi quella cui compete di lavare ogni giorno il secondo gradone, fammelo sapere, e fa che io lo lavi con un cuore traboccante d’amore» (Diario di preghiera, nota del 25 settembre [1946]).
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Carlo Ossola presiede il Comitato nazionale per le celebrazioni di Dante, 2021, ed attende (con Luca Fiorentini, Pasquale Porro, Jean-Pierre Ferrini, Stéphanie Vermot) all’edizione bilingue «Pléiade» della Divina Commedia
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LE INIZIATIVE E LA NUOVA EDIZIONE COMMENTATA DEGLI SCRITTI
«Lectura Dantis» a Roma. Per il settimo centenario della morte di Dante (settembre 2021) si stanno progettando iniziative, spettacoli (a Pompei), mostre, convegni (anche online). Prosegue la nuova edizione commentata degli scritti del poeta per l’Editrice Salerno: in autunno uscirà il volume VII/2 con le Opere già attribuite a Dante; in primavera ’21 è previsto il Convivio e l’Inferno per novembre ’21. L’edizione dei Commenti danteschi, sempre da Salerno, vedrà quello alla Commedia di Pietro Alighieri (autunno ’20) e di Bernardino Daniello (primavera ’21). Sul sito casadidanteinro ma.it (in foto, la casa a Roma) ci sono le registrazioni degli incontri avvenuti e i programmi futuri della «Lectura Dantis» romana che, ora fermata dal virus, si svolge la domenica alle 11: mai interrotta dal secondo dopoguerra. Inoltre ricordiamo di Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia (La nave di Teseo, 2019): è un repertorio con tutti i luoghi del poema.
L’impero romano tra cambiamenti climatici e pestilenze
In un libro dello storico statunitense Kyle Harper
di Gabriele Nicolò (L’Osservatore Romano, 15 aprile 2020)
Si racconta che uno storico tedesco abbia addotto duecentodieci motivi per spiegare il crollo dell’impero romano. Molto più parco è lo storico statunitense Kyle Harper che nel libro Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero (Torino, Einaudi, 2019, pagine 520, euro 34) di cause - a parte quelle “istituzionali” legate sia alle farraginose dinamiche della ormai fatiscente struttura governativa che al logorio dell’esercito e delle forze di combattimento in generale - ne individua due: i cambiamenti climatici e le pestilenze. Vale a dire, due cause che rivestono, evidentemente, un valore di attualità sorprendente e disarmante.
È vero che Giulio Cesare si vantava che i suoi soldati erano così vigorosi nel fisico che potevano resistere sia ai rigori dell’inverno che ai torridi raggi del sole d’estate, ma è altrettanto vero - rileva lo storico statunitense in un’intervista al settimanale francese «Nouvelle Observateur» - che i bruschi cambiamenti del clima, attestati tra l’altro da numerosi documenti d’epoca, con graduale e non arginata pressione finirono per incidere profondamente sulla popolazione dell’impero, e in particolare sulla psiche dei soldati, resi più vulnerabili dalle continue privazioni, inevitabile prezzo da pagare in una vita spesa sui campi di battaglia. E a dare il colpo di grazia al già fatiscente impero - sottolinea Harper - furono le pestilenze, la cui propagazione fu alimentata dalla vertiginosa crescita del numero della popolazione, non solo a Roma, ma anche nelle zone limitrofe, ovvero nelle campagne che, col declinare dell’impero, non vennero più adeguatamente bonificate come invece accadeva nei giorni di gloria.
In particolare - sostiene lo storico - a sbaragliare ogni forma di resistenza fu lo Yersinia pestis, che corrisponde alla moderna accezione di peste bubbonica. Un inquietante intreccio di morbi e di germi invase vaste regioni dell’impero mietendo, senza pietà, lutti e devastazione. I romani - ricorda Kyle Harper - avevano saputo come sconfiggere i nemici, anche perché aveva saputo imparare dalle lezioni derivanti dalle sconfitte subite. Ma non avevano le conoscenze e i mezzi adeguati per fronteggiare le ricorrenti pestilenze che certo potevano “approfittare”, per attecchire e poi infuriare, anche della mancanza di social distancing, misura certo non praticabile visto che i romani solevano vivere in ambienti molto ristretti e in accampamenti sovraffollati.
NOTA:
L’Impero romano e la ragione nascosta della sua caduta: una questione "filologica", epocale! L’ "In principio era il logos" (e sulla testa di tutti e di tutte, c’era la corona-virtus) diventa piano-piano l’ "In principio era il Logo" (e sul capo c’era il coronavirus)!!!
Federico La Sala
LA "STORIA" DI IPAZIA, I "DUE SOLI", E L’"ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE" COSTANTINIANA ... *
Ipazia, sedici secoli di bugie
La filosofa di Alessandria d’Egitto fu uccisa nel 415 da un gruppo di fanatici cristiani. E’ passata alla storia come una martire della scienza, versione femminile di Galileo. Ma la sua vicenda nasconde un mistero ancora piu’ inquietante.
di Luisa Muraro ("Giudizio Universale", 11.12.2009)
Ipazia di Alessandria ha un conto aperto con la nostra civilta’ che dobbiamo incominciare a pagare.
Parlo, per chi ancora non conoscesse questo nome, della scienziata e filosofa neoplatonica, maestra nel Museo di Alessandria d’Egitto (non un museo, ma un centro di studi superiori) che, nell’anno 415 dell’era cristiana, venne trucidata da un gruppo organizzato di cristiani fanatici. Il delitto resto’ impunito perche’ l’inviato imperiale non fece il suo dovere.
Da parte di chi ha a cuore la tradizione religiosa cristiana, io mi aspetto un preciso contributo. Posto che le fonti non consentono di attribuire al vescovo di Alessandria, il futuro santo e padre della Chiesa Cirillo, alcuna responsabilita’ diretta nella morte violenta della filosofa, si stabiliscano le innegabili responsabilita’ indirette, nel contesto di una diffusione del cristianesimo che e’ piena di luci e ombre.
Da coloro che hanno a cuore le grandi conquiste della modernita’ (liberta’ di pensiero, pluralismo, liberta’ di ricerca, valore delle scienze sperimentali), mi aspetto che smettano di strumentalizzare la figura della filosofa deformandola in quella di una martire della libera scienza. Le fonti storiche non autorizzano questa rappresentazione che si alimenta da una serie di stereotipi, gia’ confutati, sulla storia delle scienze e la cultura cattolica. Non si faccia di Ipazia un anacronistico pendant femminile di Galileo.
Lei fu indubbiamente una scienziata di prima grandezza e, come Galileo, si dedico’ all’astronomia con avanzate tecniche di osservazione. L’analogia finisce qui. La famosa vicenda del processo di Galileo riguarda il protagonista di una svolta epocale nell’idea di scienza, che non ha nulla a che fare con l’epoca di Ipazia, il cui tempo fu agitato da una somma di problemi che non riguardavano la concezione della scienza, se non molto indirettamente.
Detto in breve, Galileo e’ il campione e il martire del nuovo che avanza. Ipazia e’ l’esponente di una tradizione secolare (millenaria, se contiamo l’Egitto) e venne schiacciata dal nuovo avanzante, il cristianesimo, che fu anche rivoluzione sociale, non dimentichiamo.
Il mio contributo al pagamento del debito che abbiamo verso Ipazia, consistera’ nell’esporre, in forma di racconto basato sulle fonti storiche, le circostanze che portarono alla sua uccisione.
Di Ipazia non abbiamo una data di nascita, possiamo immaginare che fu intorno al 370. Trascorse la sua vita ad Alessandria; non risulta che abbia fatto viaggi fuori dalla sua citta’. Le fonti la ricordano come figlia di Teone, scienziato del Museo; di lui fu allieva, collaboratrice e, in un certo senso, successora. Le fonti dicono che lei lo supero’. Della sua opera non si e’ conservato quasi nulla.
Intorno al 375 nacque ad Alessandria anche Cirillo, che crebbe all’ombra dello zio Teofilo cui succedette sul seggio episcopale nel 412. Come lo zio, era un uomo di grande decisione, al limite della spregiudicatezza.
Per favorire la Chiesa, Cirillo cerco’ l’alleanza del prefetto imperiale Oreste, un battezzato anche lui ma poco propenso a schierarsi con i cristiani.
Scoppiarono incidenti, uno gravissimo nel 415: un gruppo di monaci venuti dal deserto (i cosiddetti parabolani) per servire il vescovo, a che titolo non sappiamo, assaltarono il carro del prefetto e riuscirono a ferirlo con una sassata. Il loro capo fu catturato e duramente punito, Cirillo voleva farne un martire ma i cittadini si opposero, compresi alcuni cristiani. Siamo alla vigilia dell’uccisione di Ipazia.
Bisogna sapere che Oreste era un ammiratore della filosofa e aveva preso l’abitudine di consultarla sui problemi della citta’. All’epoca Alessandria era una citta’ multietnica, abitata da elleni, egizi, ebrei, costellata da vari edifici religiosi: sinagoghe, templi alle divinita’ greche ed egizie, chiese cristiane. Il gruppo dominante e’ costituito dagli elleni (gli abitanti di origine greca), molti dei quali stavano passando al cristianesimo, che era diventato la religione dell’imperatore.
Ipazia, che apparteneva a questo gruppo sociale, non era cristiana. Fra i suoi allievi aveva tuttavia dei cristiani, come Sinesio, il futuro vescovo di Cirene, che la chiamava "madre" e "patrona", e su di lei ha lasciato una preziosa testimonianza scritta.
Le fonti raccontano che un giorno il vescovo Cirillo si trovo’ a passare nei pressi della casa di Ipazia e noto’ un assembramento di carri, lettighe e guardie.
Il vescovo, possiamo immaginare, senti’ una fitta penosa nell’anima. Per certo il nome di quella donna, famosa in citta’, non gli era nuovo. Nuovo fu per lui scoprire che il prefetto si degnasse di farle visita, dopo che aveva rifiutato l’offerta fatta da lui, Cirillo, che era un uomo e un vescovo.
Le fonti ci autorizzano a immaginare anche il pensiero che segui’ a quel penoso, ma cosi’ umano! sentimento: "Ad Alessandria le cose andrebbero meglio se io e il prefetto fossimo amici. Io e il prefetto non siamo amici per colpa di Ipazia che si e’ messa di mezzo e ha attirato Oreste nella sua orbita".
Questo e’ l’antefatto. Il fatto e’ che un giorno del marzo 415 un gruppo di parabolani, guidati da un tale di nome Pietro il lettore, sequestro’ Ipazia, la porto’ in una chiesa e qui, al chiuso, la trucidarono usando strumenti taglienti che non erano coltelli, forse pezzi di vetro o di conchiglia. Poi ne portarono i resti in una localita’, il Cinarone, forse assegnata alla eliminazione di materie di scarto con il fuoco, e qui li bruciarono.
Da questo insieme di fatti risulta che Ipazia, se siamo alla ricerca di un titolo da dare alla sua morte, fu principalmente una martire politica.
Colpita per colpire il prefetto imperiale, e’ la prima supposizione, Ma, se allarghiamo lo scenario storico, le circostanze suggeriscono piuttosto che lei fu eliminata perche’ disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra due poteri, quello imperiale e quello ecclesiastico, che erano anche due uomini, Oreste e Cirillo, e impediva cosi’ che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza.
A cio’ si aggiunga un senso di rivalita’ del capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, aveva l’autorita’ di una sacerdotessa.
La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorita’ della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.
Sicuramente contarono anche altre circostanze, fra cui il conflitto tra la cultura del mondo antico declinante e la nuova religione cristiana, purche’ abbiamo chiaro che il conflitto non si configurava come un antagonismo e che la vittoria del cristianesimo era ormai evidente. Conto’ il fatto che non di un filosofo si trattasse, ma di una filosofa? La domanda va riformulata, considerato che non esistono culture in cui la differenza sessuale sia indifferente. Quanto conto’, nella vicenda di Ipazia? E abbiamo noi modo di stabilirlo? Senza addentrarci, consideriamo che la nascente religione cristiana, a differenza di quella grecoromana e di quella egizia, non rendeva pensabile e accettabile una donna con le prerogative di Ipazia, libera di se’, non subordinata a partiti o fazioni, presente e parlante in luoghi pubblici, sapiente, maestra dotata di una parola autorevole per donne e uomini.
Questa considerazione ci porta ai nostri tempi per costatare che il tipo umano femminile incarnato da una Ipazia non ha corso nella nostra cultura, forse perche’ essa deriva dalla versione cristiana del patriarcato. Il che ci fa capire il perche’ di certi stereotipi laici o laicisti: questi stereotipi resistono e si ripresentano per non poter ammettere che quello che faceva veramente problema ai cristiani di Alessandria, continua a fare problema anche ai nostri giorni, e non solo ai "cristiani"! Voglio dire che gli stereotipi anticlericali con cui si accosta la figura e la vicenda di Ipazia (Chiesa nemica della scienza, della ragione, delle donne) sono fatti per coprire una certa coda di paglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA" !!! IL MAGGIORASCATO : L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, -L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
“VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
DOPO I “VENTICINQUE SECOLI” DI DANTE, I "TREMILA ANNI" DI GOETHE, E I "MILLE ANNI DOPO DAVIDE E GIONATA" .. *
Idee.
Se gli amici fanno le ali della storia
La philia e l’eros dell’antica Grecia acquistano una diversa ricchezza di significato alla luce dell’agape evangelica. Il libro di Pietro Del Soldà
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 9 aprile 2020)
Uno degli effetti collaterali del covid19 è la ri-scoperta (o scoperta) della semantica dell’amicizia. Ci stiamo abituando a lezioni online, riunioni di lavoro via zoom, videochiamate, tesi di laurea online con il vestito buono e applauso dei genitori commossi e nascosti dietro la camera; ma ogni volta che terminiamo queste sessioni telematiche ci nasce, troppo spesso, una forte nostalgia per i nostri studenti, per i colleghi, per genitori e amici, per il bar dove andavamo per “consumare” prima la chiacchierata poi il caffé. Gli incontri che stanno continuando ad accadere in questa lunga quarantena non sono solo semplicemente incontri “virtuali” (parola che morirà con la fine della pandemia), sono comunque incontri ai quali mancano alcune dimensioni fondamentali, e tra queste il corpo. Ci sono voluti migliaia di anni per imparare a stare vicini a meno di un metro di distanza, a dare la mano allo sconosciuto per dirgli che su quella mano non c’era un pugnale, e poi ad abbracciare e baciare gli amici.
Ci sono voluti troppi millenni per apprendere l’arte delle distanze brevi per poter pensare di poterle dimenticare in pochi mesi. L’amicizia è l’arte delle distanze brevi. Distanze affettive, ma anche distanze fisiche, geografiche, spaziali. Perché se i verbi dell’amicizia sono quelli del tempo (fedeltà, durata, resilienza), anche i tempi dello spazio sono importanti: se non si va dall’amico o l’amicizia si è indebolita o c’è un ostacolo all’incontro o c’è solo un grande desiderio, come quello immenso che sta crescendo giorno dopo giorno. E mentre le distanze tra di noi sono cresciute, la lotta col virus si gioca sulla capacità di cura di medici e infermieri, che è anche talento delle mani, che devono toccare senza contaminare e contaminarsi.
L’ambivalenza della vita, la danza di communitas e immunitas, che ogni tanto diventa danza macabra. L’amore è uno, ma gli amori sono molti. Amiamo molte persone e molte cose, siamo amati da molti e in modi diversi. Amiamo i genitori, i figli, le fidanzate, le mogli e i mariti, fratelli e sorelle, maestre, colleghi, nonni e cugini, poeti e artisti. E amiamo, moltissimo, gli amici e le amiche.
Il mondo greco per dire amore aveva due parole principali, eros e philia, due parole che non esaurivano le molte forme dell’amore ma che offrivano un registro semantico più ricco del nostro per declinare questa parola fondamentale della vita. Un lessico che era capace di distinguere il «ti voglio bene» detto alla donna amata dal «ti voglio bene detto» detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che erano anche uguali. Il cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca per dire un’altra tonalità dello stesso amore, un tono già presente nella Bibbia ebraica e, soprattutto, già presente nella vita.
Questa terza, stupenda, parola è agape, l’amore che sa amare chi non è desiderabile e il non-amico. Il cristianesimo non ha inventato l’agape lo ha semplicemente visto ed esaltato. Tre dimensioni dell’amore che, spesso, si trovano insieme nei rapporti veri e importanti. Certamente sono tutti presenti nell’amicizia, che non è solo philia. Non dobbiamo, infatti, commettere l’errore di pensare che l’amicizia sia espressa dalla sola parola philia. No. Perché anche nel mondo greco la philia non è mai sola, è la philia la prima ad avere bisogno di amici.
La philia è sempre accompagnata dal desiderio-passione per l’amico ed è irrorata dall’agape che le consente di poter risorgere da fallimenti e fragilità. La philia poi lega l’eros e l’agape tra di loro e li affratella. In quelle pochissime amicizie che ci accompagnano per lunghi tratti di vita, a volte fino alla fine, la philia racchiude in sé anche i colori e i sapori dell’eros e dell’agape. Sono quegli amici che abbiamo abbracciato, baciato come e diversamente da altri abbracci e da altri baci. Pochi dolori sono più grandi di quello per la morte di un amico - in quel giorno, un pezzo di cuore smette di battere. Non c’è soltanto una lotta radicale tra eros e tanatos; ce n’è un’altra, simile e diversa, tra philia e tanatos.
Il bel libro di Pietro del Soldà, noto conduttore di Radio3 e filosofo, dal titolo suggestivo Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro (Marsilio, pagine 152, euro 16), ci offre una occasione propizia per riflettere, oggi, sull’amicizia. Del Soldà lo fa a partire dalla filosofia e dal mondo greco. Questa mia pagina lo fa prendendo le mosse dalla Bibbia, una seconda radice profonda dell’Umanesimo occidentale. La Bibbia non parla molto di amicizia. Ma ne parla, e in alcuni libri le ha dato un posto centrale.
A partire dall’Adam, l’essere umano, che è anche amico di Dio, prima di essere amico della donna e degli altri uomini. E non certamente a caso in uno degli ultimi episodi dell’ultimo vangelo, quello di Giovanni, troviamo un bellissimo dialogo sull’amicizia: «Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [philia]?» ( Vangelo di Giovanni 21,15-17). Un gioco di parole e di verbi che si perde nelle lingue moderne, ma chiarissimo nell’originale greco.
Il libro di Giobbe, ad esempio, è composto essenzialmente di dialoghi con i suoi amici: «Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Levarono la loro voce e si misero a piangere » (Giobbe 2,11-12).
Dal contesto si capisce che questi uomini che si recano presso il mucchio di letame di Giobbe siano amici veri: vengono a sapere della sua sventura, lo vanno a trovare, siedono e piangono con lui. Ma lo sviluppo dei dialoghi di Giobbe ci mostrerà che quei quattro uomini che lo vanno a trovare non sono, in realtà, amici di Giobbe ma difensori di astratte teologie che si riveleranno nemiche dell’uomo e di quel Dio che volevano difendere. Le grandi prove della vita sono anche test che distinguono il grano degli amici dalla zizzania dei finti amici. Ecco perché tra i canti più belli di Giobbe c’è una un’amara e stupenda riflessione sull’amicizia e sull’esistere: «I miei amici sono incostanti come un torrente, come l’alveo dei torrenti che scompaiono: sono torbidi per il disgelo, si gonfiano allo sciogliersi della neve, ma al tempo della siccità svaniscono e all’arsura scompaiono dai loro letti» (6,14-19).
Molti amici svaniscono nel tempo della sventura, e svanendo ci dicono che non erano amici. Ma è con Gionata, figlio di re Saul, che l’amicizia fa il suo grande ingresso nella Bibbia. Gionata è principe, è guerriero, ma è soprattutto l’amico. Questa amicizia prende le forme di un patto solenne, forse un “patto di sale”, dove la non corruzione del sale diceva simbolicamente il “per sempre”.
La Bibbia sa cos’è un patto- Alleanza, e se ricorre a questa parola per parlarci di un’amicizia, allora sta dicendo qualcosa di importante. Nell’Alleanza con Abramo, Dio passò in mezzo agli animali squarciati. Nei grandi patti d’amicizia, Dio passa “in mezzo” agli amici (Matteo 18,20). È quindi un patto che buca spazio e tempo. Coinvolge le nostre discendenze, i nostri figli che abbiamo e che avremo, genitori e nonni. I patti di amicizia, diversamente dai patti nuziali, non vengono in genere celebrati con la parola. Quasi sempre sono patti muti, non vengono pronunciati in pubblico. Qualche volta, però, in una amicizia che matura ci possono essere anche dei patti espliciti, celebrati anche con la parola. Sono, ad esempio, quei patti di amicizia alla base di nuove comunità e movimenti, civili o religiosi, generati da due o più amici che si dicono parole speciali in un momento speciale. Una grande amicizia biblica è quella tra Davide e Gionata, che prende la forma di un patto sacro, di un’alleanza solenne, di una vera e propria fraternità spirituale: la fraternità è una forma di amicizia. Un giorno Gionata, quando ormai infuriava la guerra civile tra suo padre Saul e Davide, aveva detto al suo amico Davide: «Andiamo ai campi» (20,11).
La Bibbia conosce molto bene questa frase. Era stata quella di Caino (4,8). L’amico è l’anti-Caino, qualcuno che ti invita ad andare nei campi non per ucciderci ma per salvarci. Sulla terra gli inviti di Caino, il fratricida, e quelli di Gionata, l’amico, coesistono, vivono l’uno accanto all’altro, si incrociano. Qualche volta scopriamo che l’altro non è Gionata ma Caino solo quando, arrivati nei campi, vediamo la sua mano diventare diversa. E sono i giorni più tristi. Altre volte scopriamo che chi pensavamo fosse Caino era in realtà Gionata. L’umanità continua la sua storia perché gli inviti di Gionata sono più numerosi degli inviti di Caino, perché le mani degli amici sono di più di quelle degli assassini.
Mille anni dopo Davide e Gionata, un altro amico dell’uomo, fondatore di una comunità di amici («non vi chiamo più servi ma amici»), fu messo su una croce da un’altra mano fratricida. Sotto la croce c’erano le donne, e un amico. Quella volta le donne e l’amico non riuscirono a salvarlo. Ma noi, suoi amici, continuiamo ad attenderlo, in compagnia di Abele e di tutte le vittime della storia. Lo aspettiamo perché ci ha promesso che tornerà, e perché la promessa dell’amico è vera.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO : IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Le lacrime sono il vino del godimento
di Enrico Spadaro (Ondaiblea, 09 aprile 2020)
È con sensazioni di triste gioia che sembra avvicinarsi questa Pasqua, in cui quasi tutti i cristiani non possono fisicamente partecipare ai riti della Settimana Santa. Sembra quasi un paradosso, un ossimoro pronunciare queste parole, “triste gioia”: “gioia” nell’imminente resurrezione di Cristo, “triste” perché forse non totalmente vissuta.
Eppure esiste un termine greco, che racchiude un concetto forse maggiormente conosciuto nel mondo cristiano ortodosso, “charmolypi” (χαρμολύπη), che esprime al tempo stesso sentimenti di gioia (hara) e di tristezza (lypi). Si ritrova tale termine negli scritti di San Giovanni Climaco (525/575-603/650), monaco che visse quasi tutta la vita presso il monastero del Sinai. Nella sua dottrina, e in particolare nel suo scritto più celebre, La Scala della divina ascesa, vengono prevalentemente esaltati coloro che dopo aver peccato si pentono, poiché i dolori patiti permettono loro - attraverso il pentimento - di accedere alla vera “gioia” del Paradiso. Questi peccatori redenti sembrano aver provato la morte per poi essere risorti come Cristo, sono stati abbandonati e infine salvati dal Padre. Le lacrime che hanno versato sono così benedette: “Beati i sofferenti, perché essi saranno consolati”. (Matteo 5,4).
Il concetto espresso da San Giovanni Climaco potrebbe rinviare ad un elemento essenziale delle fiabe secondo lo scrittore britannico J.R.R. Tolkien (1892-1973), vale a dire la consolazione del lieto fine, per cui l’autore, nel suo saggio Sulle Fiabe (1939) conia il termine “eucatastrofe”, l’improvviso capovolgimento felice degli eventi, “ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore”.[1]
Con evangelium, Tolkien, fervente cattolico, non poteva che intendere il Vangelo, considerato come l’unica vera fiaba, e infatti continua il proprio saggio: “la Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia.”
L’immensa opera letteraria di Tolkien e soprattutto i due romanzi principali, Lo Hobbit (1937) e Il Signore degli Anelli (1954-55), sono pieni di momenti in cui si verifica un’eucatastrofe, ma forse uno di quelli più evocativi è rappresentato dagli istanti immediatamente successivi la distruzione dell’Unico Anello tra le fiamme del Monte Fato. Frodo e Sam si credono spacciati e svengono, ma vengono salvati dalle grandi aquile e si risvegliano a Gondor con Gandalf al loro capezzale.
Tolkien descrive il momento attraverso le sensazioni di Sam:
E qualche pagina dopo:
Gioia e dolore sembrano fondersi e le lacrime sono la via che porta alla gioia, secondo la teorizzazione tolkieniana dell’eucatastrofe, ma anche secondo il concetto di “charmolypi” di San Giovanni Climaco. Inoltre, occorre sottolineare la data della distruzione dell’Anello, il 25 marzo, che è sì il giorno dell’Annunciazione a Maria, ma nella tradizione medievale era anche il giorno della crocifissione, il Venerdì Santo, un giorno di dolore che anticipava la gioia della Pasqua.
I momenti d’eucatastrofe in Tolkien non saranno forse l’espressione totale di beautitudine, ma potrebbero essere una rappresentazione di gioia e dolore, che preannuncia la “Gioia” finale del Paradiso.
Enrico Spadaro
Note
[1] Tolkien. Il medioevo e il fantastico. Milano, Bompiani, p. 225.
[2] Tolkien. Il Signore degli Anelli. Milano, Bombiani, p. 1136.
[3] Ibid., p. 1139.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PASQUA: BUONA PASQUA DI RESURREZIONE E DI RISURREZIONE.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
DANTE È IL FARMACO
di Emiliano Antonino Morrone *
Buongiorno per tutto il giorno. Più o meno il tempo del nuovo coronavirus si può al momento riassumere con i seguenti elementi: pubblicità gratuita di pizza e pasta; auspici vari; ironia (non solo su "chillu ’e Castiellu") e satira; curve di contagio e relativi aggiornamenti (intanto del prof. Francesco Aiello); i dati dati da Borrelli e le attese dichiarazioni del professor Brusaferro; le dirette di Conte e il dibattito su "mago" Casalino; previsioni; le acute riflessioni di Andrea Colombo e Alfonso Maurizio Iacono; lo stato di avanzamento dei vaccini; la tensione parlamentare di Ciccio Sapia; i filmati di Scanzi e il travaglio di Travaglio; la scomparsa di Majorana-Bellantoni; il prezioso Overlook di Pablo; Sergio (dei Servizi) che cita Borges; Biagio (Simonetta) su Cina e resto del mondo; Giletti che diventa Gillette; Cacciari adirato e la nuova "Krisis"; le "strofe" piatte di Angela Dorothea Merkel; i moniti di Gratteri; il vangelo secondo Draghi; la bella letteratura social di Alfonso B.; i caffè intercontinentali di Franco Laratta; le bordate fisse di Carchidi e polemiche universali sulla didattica a distanza.
Con mia figlia Emiliana ho rivisto tutto "Harry Potter" e quasi per intero "Il Signore degli Anelli", che non è Gerardo Mario. Mi sono allora chiesto perché non esista un film completo sulla "Divina Commedia" di Dante, di cui l’anno prossimo ricorrerà - non so come - il 700 anniversario dalla morte.
L’unica risposta possibile è che Dante sia ancora incompreso dagli stessi italiani, pure perché a scuola si studia pappagallescamente, come mi ha suggerito mia moglie Giuliana, la quale ne sa molto più di me. Alla "grande stampa" Dante interessa poco, fa più notizia la ministra Azzolina, in linea con la "tradizione" trasversale anti-gentiliana. Eppure Dante è un farmaco potentissimo, capace di sconfiggere il più pericoloso dei virus: la ciotìa. Sul punto converrebbe senz’altro il mio severissimo, amato cugino Luigi Morrone.
Luigi Morrone L’Italia se n’è strasbattuta del 750° anniversario della nascita di Dante (2015). Il 2° millennio dalla morte di Ovidio e di Livio (2017) è stato ricordato solo a Sulmona e a Padova, come se si trattasse di glorie locali. -E ora, in quarantena, vuoi che pensino a Dante? Gli inglesi hanno organizzato 3 anni di continue manifestazioni per "legare" il 450° anniversario della nascita di Shakespeare con il 500° della morte (dal 2014 al 2016). Si vuole estirpare la nostra memoria di popolo.
*Fonte: Facebook, 08.04.2020.
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO...
PER CARITÀ...
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO: RIATTIVARE LA MEMORIA della TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE, della “Wohl-tätigkeit”, della carità! “THE SHAWSHANK REDEMPTION” : LA “MOS-ART” (“arte di Mosé”)! Una breve sequenza dal film “Le Ali della Libertà”.
CONVERSIONE ECOLOGICA (ED EGOLOGICA). SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! *Federico La Sala
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
FLS
UN SONNAMBULISMO DI LUNGA DURATA: VIVERE NELLA CAVERNA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS....
Nota a margine di "Il virus e l’inconscio. Diario di una quarantena" (di Sergio Benvenuto) *
FINALMENTE, E PIANO PIANO, EMERGE LA RADICALE CONSAPEVOLEZZA CHE “NOI” VIVAMO all’interno della “caverna”, dopo la “caduta”, e che uscire dal “letargo” (cf. Dante) è sempre più urgente. L’immaginario platonico-hegeliano ha esaurito ogni sua risorsa. L’orizzonte “andrologico” adamitico (e “ginecologico” eva-itico!) si va a chiudere, definitivamente:
«Attualmente politici, filosofi, moralisti, giornalisti, ripetono in Italia la stessa cosa: “Questa sarà un’occasione per renderci migliori!” Ricorrente idea consolatoria: pensare che se si attraversano catastrofi, tragedie, guerre, flagelli, poi si sarà migliori. Le traversie temperano il carattere, si diceva un tempo. [...] Attribuire agli umani tutti i mali è l’altra faccia di quella divinizzazione dell’Uomo (che risale a Pascal) che la filosofia più moderna ha denunciato: se si pensa che l’essere umano sia nel fondo potente come Dio, si penserà anche che possa avere la malvagia onnipotenza di Satana. Ma gli uomini non sono né Dio né Satana. »(SERGIO BENVENUTO - "Il virus e l’inconscio", cit., sopra)
SE CONSIDERIAMO CHE LA “SCIENTIFICA” TEO-LOGIA CATTOLICA COSTANTINIANA condivide ancora la “verità rivelata” dal cardinale Dario Castrillon Hoyos: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” (dichiarazione alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio , “la Repubblica” del 17 novembre 2000, p. 35), -E CHE LEGGIAMO E INTERPRETIAMO l’ antropologico “Ecce Homo” di Ponzio Pilato ancora in temini “andrologici” e” viro-logici” (cf. il saggio “Ecce” di C. Ginzburg, in “Occhiacci di legno”; e il recente lavoro di S. Natoli su “L’uomo dei dolori”), ALLORA è più evidente che viviamo ancora NEL PASSATO, NELLA PREISTORIA, e che LA RISATA DI KANT ha ancora un carico di energia per svegliarci dal letargo, far crollare le pareti della caverna, e portarci fuori da millenni di labirinto (Nietzsche). Ricordiamo, su questo tema, anche la lezione di Elvio Fachinelli. O no?! Boh e bah?!
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SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini): oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE,OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS *, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa"!) è già "oggi necessaria", ora e subito! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, «suprema fatica e suprema gioia», è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?!
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La civiltà è Enea che porta Anchise sulle spalle
di Laura Marchetti (il manifesto, 24.03.2020)
«L’Italia vede decimata la generazione anziana, punto di riferimento per i giovani e per gli affetti». Le parole dette ieri dal presidente della Repubblica italiana, in maniera solenne e commovente, sembrano così voler far scudo contro quell’aberrante e diffusa convinzione, espressa in maniera più o meno sotterranea, che le morti così numerose non siano state poi così importanti perché riguardavano i vecchi, per di più già malati. Mattarella al contrario ci ricorda quale patrimonio siano i vecchi, come siano indispensabili per i bambini, proprio in quanto “rimbambiti”, ovvero anche loro bambini, disposti a giocare, a divagare, a trasgredire.
E come siano importanti per i giovani, per la possibilità che hanno di trasmettere loro antichi saperi, valori vissuti, comunitarie tradizioni, forme diverse di presa dello spazio e di percezione dei tempi. E come, in definitiva, siano importanti per ognuno di noi, perché nel tempo dell’effimero e dell’oblio, di fronte agli spettacoli e ai consumi, mostrano il valore degli affetti teneri, dei ricordi, della memoria e del compianto.
Le parole del presidente sono dunque dense di significato educativo ed esistenziale ma hanno anche un impatto politico radicale perché, per la prima volta, interrompono la filosofia eugenetica che è la pratica e lo spirito di questi insani tempi. Dal documento degli anestesisti spagnoli alla teorizzazione dell’immunità di gregge degli inglesi, fino alla sottrazione forzata dell’assistenza sanitaria accaduta in certi ospedali italiani, si teorizza la necessità, per la “medicina delle catastrofi”, di scegliere fra i vecchi e i giovani, come fra i deboli e i forti. Una scelta dovuta allo stato di eccezione e alla situazione estrema, tesa a sottrarre responsabilità alla coscienza personale, che porta però con sé la traccia indelebile di un giudizio di qualità dato alla vita, come se una vita - la più forte, la più abile - fosse solo per questo degna di essere mantenuta, mentre un’altra con più facilità dovrebbe essere rottamata.
In tale scelta gerarchica - che, perdurando lo stato di eccezione, potrebbe essere estesa anche a tutti i disabili e a tutti i fragili - si conserva il segreto del potere totalitario e della società “tanatologica”, la società di massa del ‘900 che si fonda su un continuo commercio con la morte.
Lo dice Elia Canetti in un libro magnifico e terribile scritto in anni bui e insani quasi come questi (Masse e Potere). In questa società tanatologica, potente diviene sia il capo, che acquisisce potere di morte, sia chi si distingue dalla morte sopravvivendo. La sopravvivenza è di per se stessa acquisizione di potere.
Chi è morto giace, sta per terra; chi sopravvive sta in piedi. Già solo questa collocazione spaziale rende “l’istante del sopravvivere, l’istante della potenza”, anche perché inconsciamente insorge la convinzione di una vera e propria “elezione”, una emozione comparativa che non risparmia nessun rapporto, nemmeno quello più affettivo, nemmeno quello con i figli o i genitori o i fratelli. Su questo senso di elezione si fonda dunque il totalitarismo, secondo Canetti. Ma, potremmo aggiungere, anche il capitalismo in quanto tale trasforma in Pil la sopravvivenza, poiché miglior produttori sono i vivi, cioè gli abili, i giovani, i forti.
C’è nel potere contemporaneo quindi, il persistere di una barbarie di fondo, una inciviltà. La civiltà si fonda invece al contrario e nasce quando Enea in fuga dall’incendio, porta con se il vecchio padre sulle spalle e, per mano, il giovane figlio. La pietà, che è la sua qualità esistenziale e la sua qualità sociale, lo spinge nell’aiutare, includere tutti, curare tutti, anche a scapito della propria sopravvivenza, del proprio potere.
Quella pietà è anche l’intelligenza della specie, in quanto la specie sopravvive, sottolineano i biologi della complessità, non nella lotta ma perché la madre continua ad allattare il figlio e perché gli uomini, anche quando vivono rintanati, non sono topi che si distruggono ma anzi si prestano soccorso.
Noi, nell’agenda delle cose che dobbiamo mettere in campo quando finirà la guerra e vorremmo fare il mondo nuovo, dovremmo mettere in campo la pietà. Fin da ora, in quanto già ora abbiamo due problemi. Il primo è quello di non morire, ma il secondo è quello di vivere civili.
ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA”
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?! E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
QUESTIONE EPOCALE. Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito....
Nota a margine “Su Agamben e il contagio. Il ruolo della filosofia e la comune umanità” *
E’ DA DIRE che, nonostante “La veglia per Finnegan” (James Joyce), la “Storia notturna” (Carlo Ginzburg) continua: “Ulisse” prosegue il suo “folle volo” ancora nel mare eracliteo (“la stessa cosa sono Ade e Dioniso”)! E, nell’orizzonte cartesiano-heideggeriano, la traccia della “fanciulla straniera” è perduta e, con essa, ogni possibilità di distinguere tra “charitas” e “caritas” (“virus” e “virtus”, “Forza, Italia” e “Forza Italia”, ecc.)!!! Il tempo scorre ... e Dante Alighieri è già oltre!
Non è forse ora di svegliar-si e uscire fuori dall’ inferno epistemologico paolino-hegeliano e dallo “stato di eccezione” schmittico-agambeniano?! Non si è ancora capita la “battuta” di Ponzio Pilato (“Ecce Homo”), di Giuliano l’Apostata e di Keplero (“Vicisti, Galilaee”, 1610)?! Ennio Flaiano , nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia”, così scrive: “L’ Amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galileo”! Che dire?! In tempi di “peste”, non è male ricordare Manzoni, i “Promessi sposi”, e la sua “ardua sentenza” su Napoleone. Credo che sia meglio, ora e subito, uscire dal let-argo! O no?!
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Il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana”...
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Questo doloroso digiuno eucaristico che ci rende ancor più Chiesa
di Andrea Monda (Osservatore Romano, 14 marzo 2020)
Oggi per quasi tutti noi cattolici sarà una domenica senza messa, senza eucaristia. È la prima volta che ci capita nella vita, in precedenza quando è successo era stato in genere a causa delle nostre condizioni di salute ma ora è diverso, sono le messe e le chiese a trovarsi in pessime “condizioni di salute”.
Domenica scorsa siamo andati a messa, giusto in tempo perché poi è arrivata la decisione di sospendere le messe pubbliche. Quindi ora, nel mezzo della Quaresima, dovremo avviare, nostro malgrado, un inedito tipo di digiuno, quello eucaristico.
La cosa provoca sconcerto, dolore e dà a riflettere. E il pensiero si muove dal qui e ora e vola nello spazio e nel tempo. È uno dei vantaggi di essere cattolici secondo Chesterton («La Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo»), quello di appartenere ad una storia più grande di me, che mi precede e mi supera, che si estende nello spazio e nel tempo e quindi mi mantiene in una comunione con tutti i miei fratelli nella fede sparsi nel mondo e in ogni epoca: nella Chiesa è tutto sempre presente e contemporaneo.
Il pensiero dunque vola, ad esempio, in Amazzonia. Negli ultimi mesi questa regione così grande, così cruciale e così fragile, grazie all’iniziativa di Papa Francesco che ha indetto un Sinodo della Chiesa su di essa, è stata come “trasportata” e messa al centro del mondo e ci siamo così trovati noi stessi come trasportati in quelle terre dove, tra le altre cose, il digiuno eucaristico è spesso la regola. E non per una settimana o due, ma per lunghi mesi. C’è un modo per capire gli altri ed è soffrire con loro. Domenica forse capiremo un po’ di più i nostri fratelli abitanti dell’Amazzonia, e si tratta, ripeto, del digiuno di una sola domenica, la prima, speriamo di una serie non molto lunga. La discussione scaturita dal Sinodo sull’Amazzonia è stata per mesi molto accesa all’interno della Chiesa cattolica, ora forse è il momento di “sentire con la Chiesa” che si trova in Amazzonia.
Il pensiero vola anche nel tempo e ci conduce ai primi secoli del cristianesimo. In questi tempi di digiuno eucaristico e di chiese chiuse, i nostri pastori stanno esortando i fedeli a riscoprire la pratica religiosa all’interno delle case, la preghiera in famiglia, soprattutto del rosario. Così, ad esempio, la Chiesa italiana sta promuovendo un momento di preghiera per il Paese, invitando a recitare in casa il Rosario, i Misteri della luce, alla stessa ora: alle 21 del 19 marzo. In quella occasione si propone di esporre alle finestre un drappo bianco o una candela accesa. Quando nasce la Chiesa e per i primi secoli del suo cammino, le comunità non si riuniscono in luoghi pubblici di culto ma tutto si svolge nelle “chiese domestiche”. È con la fine delle persecuzioni sotto l’imperatore Costantino che le cose cambiano e si prende la decisione, tanto inevitabile quanto gravida di conseguenze, di convogliare il culto in edifici dedicati esclusivamente al culto.
Oggi da un certo punto di vista siamo tornati alla condizione dei primi secoli, alla riscoperta del senso della comunità credente all’interno delle mura domestiche dove, a causa della diffusione dell’epidemia, ci troviamo costretti a vivere. Alcuni studiosi e teologi hanno riflettuto, a partire dalla metà del secolo scorso, sul fatto che la Chiesa con la fine del potere temporale e soprattutto con il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana” in cui il percorso della Chiesa si era strettamente intrecciato e a volte confuso con quello dei poteri civili e politici. E molti vedono in Francesco il Papa che, proseguendo nella realizzazione del concilio, sta definitivamente chiudendo quella pagina storica cominciata con la svolta dell’imperatore vincitore a Ponte Milvio nel segno della croce.
Proprio Francesco il 21 dicembre scorso, citando Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha ricordato alla Curia romana che «non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede - specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente - non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Proprio per questo, dice il Papa: «Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti».
Oggi chi scrive si trova nella grande città di Roma, culla del cristianesimo come spesso viene chiamata, e sente che gli è chiesto un sforzo di fede creativa per sviluppare nuove “mappe”, il che vuol dire anche tornare alle sorgenti della fede, della propria storia, perché per il cristiano anzi è sempre così: tornare all’essenziale, alle radici, al Vangelo, perché lì si trova la vita. Da questo punto di vista la Quaresima è il tempo forte, è il kairòs, il momento opportuno per purificare la nostra fede, rianimare la speranza e allora anche l’inedito e doloroso digiuno eucaristico potrà diventare un’occasione per allargare il cuore, farci sentire in comunione con tutta la Chiesa, il popolo che Dio accompagna sin dall’eternità, in ogni luogo e in ogni tempo.
L’ “8 SETTEMBRE”, LA “CORONA-VIRUS”, E UNA “PACE PERPETUA”. Ora il “capro espiatorio” siamo noi, l’intero genere umano ...
ALLA LUCE DEL FATTO che i “vescovi fiorentini hanno vietato di scambiarsi il segno della pace durante il rito della messa”, che a “Lourdes hanno chiuso l’accesso alle acque miracolose”, “per CARITA’, UN LAICO ILLUMINISTA” (cfr. Mario Pezzella, “Sarà un 8 settembre?, "Le parole e le cose”, 11 marzo 2020) può pure compiacersi di “quanto la fede religiosa sia diventata un gadget turistico, che non regge di fronte a uno stato di necessità”, MA NON PUO’ CONTINUARE A “DORMIRE”, A PENSARE COME SE FOSSE TUTTO COME “PRIMA” E RIPROPORRE LA STESSA “MINESTRA”:
SE NON SAPPIAMO ANCORA che cosa significa “pensare dentro l’emergenza”, forse, è bene CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO”, E CERCARE DI CAPIRE COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA SUA LEZIONE.
A DISTANZA DI SECOLI, e dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Lacan e dopo Foucault (il Foucault di “Che cosa è l’Illuminismo?”, 1983/1984), continuiamo a non capire che il “capro espiatorio” non è un caprone (cfr. “La crisi dell’Europa. Note per una riflessione storiografica”), ma un montone, un ariete, venuto a portarci in salvo (cfr.: “Guarire la nostra Terra. Necessità di “pensare un altro Abramo”), non a “sacrificarsi” per noi!!! Al contrario, oggi, l’intero genere umano, “noi stessi” ci apprestiamo a fare da “capro espiatorio” - e, pronti per la “pace perpetua” (cfr. Fine della Storia o della “Preistoria”?), abbiamo già messo sulla “nostra” testa la “corona” del sacrificio! O no?!
Federico La Sala
Il capro espiatorio
di Pier Aldo Rovatti (*)
La nostra storia ha prodotto ininterrottamente capri espiatori. Minoranze, intere popolazioni, gruppi sociali e comportamenti sono stati stigmatizzati. La storia recente e contemporanea conosce vicende quasi impensabili come la persecuzione e l’eliminazione di milioni di ebrei durante il regime nazista, ma poi c’è un intero tessuto che continua a innervare il presente, anche là dove l’evoluzione sociale e il progresso materiale avrebbero dovuto cancellarlo, dallo stigma che ancora pesa sui folli o che non ha cessato di discriminare gli omosessuali e perfino le donne.
Oggi l’esempio più clamoroso è costituito dai migranti, sui quali riversiamo le nostre ansie considerandoli spesso alla stregua di orde barbariche che invadono la civile società in cui crediamo di vivere. Ma gli esempi possono moltiplicarsi, dalla paura che ormai ovunque possa celarsi un terrorista al semplice disagio con cui sperimentiamo la prossimità di chi ci appare diverso da noi e dunque capace di disturbare la nostra presunta identità.
Capri espiatori possono dunque essere intere popolazioni o anche singoli atteggiamenti, drammatici fenomeni sociali che si esprimono con un clamore generale oppure insidiosi fenomeni individuali che possiamo verificare nell’ambito ristretto e quotidiano delle nostre vite. Parlo di “capri espiatori” perché questa espressione, che ci arriva dalla notte dei tempi, non solo mantiene un senso fruibile nella sua esplicita chiarezza, ma anche perché, se ci fermiamo un momento a riflettere sulla sua provenienza e le sue implicazioni, ci può aiutare a orientarci dentro i nostri stessi problemi. La festività pasquale ci ha appena ricordato un indizio collegato al mondo cristiano e precisamente alla figura di Gesù Cristo che si sacrifica perché attraverso di lui i credenti rimettano le loro colpe. Al posto di un ispido caprone abbiamo in questo caso un grazioso ma altrettanto innocente agnellino a esercitare la funzione di animale simbolico.
L’ispido caprone o capro appare molto prima nelle parole della Bibbia intitolate al “Levitico”, cioè nel fondo della cultura ebraica e della sua mitologia. Se andiamo a leggere queste parole, scopriamo che in origine i capri sono due, uno il cui sacrificio ha una funzione espiatoria e un altro che svolge il ruolo di “emissario” e viene mandato a perdersi nel deserto, come se non bastasse la cerimonia dell’espiazione dei peccati o delle colpe degli uomini e occorressero quindi un supplemento e uno sdoppiamento, un prolungamento dell’espiazione affidata appunto a un emissario che porti con sé e disperda nello spazio e nel tempo queste colpe.
Ricordando l’origine dell’espressione, balza agli occhi che il significato che oggi le attribuiamo è molto distante, quasi antitetico. È sparita ogni pratica positiva di espiazione attraverso un tramite simbolico e al suo posto troviamo invece l’attribuzione della colpa a un altro soggetto che automaticamente diventa il colpevole. Costui viene caricato di ogni colpa grazie a un’identificazione abnorme. Il capro non era un soggetto o un insieme di soggetti da degradare, era invece un animale simbolico completamente innocente dotato di un formidabile potere espiatorio: esso era supposto possedere un’efficacia reale sullo sviluppo della presa di coscienza di se stessi. Oggi, il cosiddetto capro espiatorio è la vittima prescelta, il colpevole che sta al posto nostro, il nemico sul quale possiamo proiettare ogni male.
Rimando chi volesse entrare nella complessità della questione a un saggio che è ormai diventato un “classico” in proposito, Il capro espiatorio (titolo originale Le bouc émissaire) di René Girard, pubblicato nel 1982 (e tradotto da Adelphi nel 1999). A questo libro si è anche ispirato lo scrittore Daniel Pennac: “Malaussène”, il personaggio da lui inventato per costruirci attorno una serie di romanzi, comici e al tempo stesso seri, ambientati in un quartiere popolare di Parigi, è un capro espiatorio di professione. Pennac arriva anche a immaginare che in un ipermercato vi sia un ufficio dove la clientela possa liberamente esternare le sue lamentele a un funzionario (appunto Malaussène) che è lì proprio per dar ragione a tutti e assumersi ogni colpa. È un contrappasso letterario e sorridente di quanto accade nella dura realtà dei giorni nostri. Tra l’altro, dopo un lungo silenzio, Pennac riprende la sua saga con Il caso Malaussène, annunciato ora da Feltrinelli.
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AUT AUT - IL SAGGIATORE (uscito su "Il Piccolo", 21 aprile 2017 - ripresa parziale).
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO” (cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU - GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
RIPRENDERE IL FILO DA "MEDEA" (E DA "GIASONE")! CON DANTE.... *
Scheda-Film
di Pier Paolo Pasolini
Medea è un film italiano del 1969, diretto da Pier Paolo Pasolini, basato sull’omonima tragedia di Euripide ed interpretato da Maria Callas. Il film, i cui esterni furono girati in Cappadocia (Turchia), ad Aleppo (Siria), a Pisa e a Grado, ebbe un’accoglienza positiva da parte della critica, ma non riscosse il successo commerciale sperato.
Trama
In Grecia a Iolco il re Esone è stato spodestato dal fratellastro Pelia, il quale governa con crudeltà e spietatezza, cercando in tutti i modi di uccidere l’erede al trono Giasone, mandato presso il suo mentore Chirone. In Scizia è stata raccolta una potente reliquia chiamata Vello d’oro, che in passato era appartenuta a Frisso. La pelle d’oro apparteneva al caprone sacro, inviato dagli dei per salvare il fanciullo e la sorella Elle da morte certa, ed aveva attraversato in volo tutto l’Ellesponto, mare che prenderà questo nome dalla sorella Elle che ci cadrà affondandovi. Giunto nella terra Colchide Frisso verrà sacrificato, la capra sarà scuoiata e la pelle data in dono ad Ares.
Nel prologo il centauro Chirone spiega al giovane Giasone in maniera filosofica l’armonia e l’equilibrio della natura e viene presentata la superba figura di Medea, sovrana della Colchide, una terra dall’altra parte del mondo, brutale e piena di usanze grottesche, che ospita la reliquia del Vello d’oro. Giasone, divenuto grande, ha ora la possibilità di sfidare suo zio e recuperare il suo regno. Quest’ultimo però gli chiede in cambio la preziosa pelliccia di capra, così inizia il viaggio alla ricerca della reliquia. Mentre Medea sta pregando nel tempio, ha una visione in cui vede per la prima volta l’eroe greco e se ne innamora perdutamente, così tanto da chiedere aiuto al fratello per rubare il Vello d’oro e partire con Giasone per la Grecia.
Il re suo padre lo viene a sapere e si getta all’inseguimento della figlia la quale al fine di rallentarlo, uccide il fratello lasciando pezzi del suo corpo lungo il cammino per costringere l’uomo a fermarsi. Dopo aver raccolto tutti i pezzi del corpo di suo figlio, il sovrano torna nel suo villaggio a restituirli alla madre piangente affinché abbiano una degna sepoltura. Intanto, lontana dalla sua terra e dalle sue tradizioni, Medea ha una crisi spirituale in cui le sensazioni di tormento si acuiscono quando capisce che Giasone e i suoi compagni hanno usanze totalmente opposte alle sue.
Consegnato il Vello a Pelia, quest’ultimo vien meno alla parola data negando il trono al nipote, il quale accetta sprezzante la decisione e rifiuta con sdegno di battersi oltre per il regno di suo padre. Prima di lasciare il palazzo, le ancelle preparano Medea per le nozze spogliandola dei suoi abiti barbari per vestirla come donna greca. Giasone congeda i suoi compagni di avventura e, consumata la prima notte d’amore con la sua amata, si avvia verso Corinto. Qui ritrova Chirone, il centauro che lo ha allevato da piccolo. I due hanno un dialogo filosofico nel quale il centauro fa presente a Giasone la situazione di Medea, che continua a vivere un conflitto interiore tra l’attuale realtà e la vita spirituale scandita dai rituali del suo passato nella Colchide. Giasone diviene sempre più distante dalla sua amata, nonostante i figli che questa gli dà, finché non decide di abbandonarla per sposare Glauce, figlia del re Creonte. Costui vorrebbe esiliare Medea, perché costituisce un monito e un fardello troppo grande da sopportare per sua figlia, che non ha colpe del comportamento di Giasone.
Sospinta dalle parole delle sue ancelle, che la vedono come una maga capace di tutto, Medea diventa consapevole della perdita del contatto con gli dei e del suo tragico destino, arrivando a meditare vendetta. Fa chiamare Giasone, con il quale finge perdono ed ha un ultimo slancio d’amore, e chiede ai loro figli di portare il suo dono di nozze a Glauce: gli abiti regali con cui fuggi’ dalla Colchide. Non appena ricevuto il dono la fragile Glauce lo indossa e rivede nello specchio non il suo abito da sposa ma tutto il dolore di Medea. Si uccide buttandosi dalle mura della città, e il padre la segue preso dalla disperazione, ma questo non basta e la furia di Medea è ormai incontrollabile. Dopo aver ucciso i suoi figli, incendia la città e Il film si chiude con l’impossibile tentativo di Giasone di riportarla alla ragione, cui risponde solo una ultima rabbiosa invettiva di Medea ormai perduta tra le fiamme. (Wikipedia - ripresa parziale).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’URLO DI PIER PAOLO PASOLINI (1974). PER L’ITALIA E LA COSTITUZIONE --- "I GIOVANI INFELICI" E IL TEATRO TRAGICO GRECO. UNA PAGINA DALLE "LETTERE LUTERANE" (di Pier Paolo Pasolini).
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
La mostra.
Gli arazzi di Raffaello tornano nella Cappella Sistina
Per una settimana, dal 17 al 23 febbraio, i capolavori intessuti a Bruxelles su cartoni del "divino" tornano sotto gli affreschi di Michelangelo e Perugino, dove li volle Leone X
di Marco Busssagli (Avvenire, venerdì 7 febbraio 2020)
Dopo quasi quarant’anni gli arazzi disegnati dal grande artista per papa Leone X tornano per una settimana nel luogo per cui il pontefice li aveva voluti Raffaello, in questi giorni, inizia a far sentire la sua presenza in maniera sempre più insistente. In realtà, le iniziative hanno preso avvio già nel 2019, quando, proprio su queste pagine, abbiamo recensito la bella mostra (ancora in corso, fino al prossimo 17 marzo) dedicata a Giovanni Santi, il padre del grande artista.
Ora, i Musei Vaticani vogliono (e possono) stupire tutti, come ha annunciato il direttore Barbara Jatta, esibendo dal 17 al 23 febbraio, una delle opere di Raffaello meno note al grande pubblico: gli arazzi realizzati per Leone X Medici. Non basta, però, perché non si tratta di una semplice esposizione.
Gli arazzi saranno ricollocati nella Cappella Sistina, per la quale erano stati pensati. Si tratta di un evento raro che non avveniva dal 1983, quando il mondo celebrò il cinquecentenario della nascita del grande artista.
Quando papa Medici li fece appendere la prima volta, per coprire i finti velari ad affresco che appartengono alla prima decorazione della Cappella, quella voluta da Sisto IV Della Rovere che incaricò il Perugino di coordinare un manipolo di artisti stellari, da Botticelli a Luca Signorelli, passando per il Perugino stesso, non esisteva ancora il Giudizio Universale di Michelangelo che, però, aveva dipinto la volta. Allora, il desiderio di Leone X di lasciare la sua traccia nei Palazzi Pontifici lo spinse, forse già dal 1514, a commissionare i cartoni (oggi conservati al Victoria and Albert Museum di Londra) in modo da poter intervenire nella decorazione di uno dei luoghi che - già allora - era considerato il più prestigioso dei Palazzi Vaticani.
Realizzati, fra il 1515 e il 1519, gli arazzi furono tessuti nella bottega di Pieter van Aelst a Bruxelles e avrebbero pienamente assolto a questo compito. Per questo in occasione di cerimonie importanti, venivano appesi in Sistina, lungo le pareti dell’aula, dove avevano la funzione di completare il programma degli affreschi quattrocenteschi con gli episodi della vita di Mosè e di Cristo. Gli arazzi, infatti, focalizzavano l’attenzione sulle vicende di san Pietro e di san Paolo, cui si affiancava la scena del Martirio di santo Stefano, prima vittima del nuovo credo cristiano.
Divennero una sorta di scuola pittorica del mondo (si pensi a Guido Reni e Carracci) e, come manufatti, furono copiati dalle principali corti europee mentre, nel XVII secolo, furono imitati da Rubens a Poussin e dalla stessa Santa Sede, quando papa Urbano VIII pensò bene di farne realizzare altri con gli episodi della propria vita.
Dalla Pesca miracolosa, fino al bellissimo San Paolo in carcere (che prefigura, per certi versi, le soluzioni della Sala dei Giganti di Giulio Romano al Palazzo Te di Mantova), passando per la Punizione di Elima (Atti degli Apostoli 13) uno stregone che si era opposto alla predicazione di san Paolo, fino alla Predica di san Paolo, tanto per ricordare quelli dal maggior impatto visivo, gli arazzi sono una successione di capolavori di stoffa.
Si tratta di opere che hanno anche un profondo significato religioso e politico, come mostra, quello dedicato all’episodio evangelico della Guarigione dello storpio (Atti degli Apostoli, III, 1 ss.). Ogni giorno, a Gerusalemme, un uomo, storpio fin dalla nascita, chiedeva l’elemosina vicino al Tempio. Quando vide Pietro e Giovanni che si erano recati nella città, non mancò di chiederla anche a loro. Pietro, allora, gli rispose di non avere con sé oro né argento, ma di potergli donare solo la fede in Cristo e aggiunse: «...nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!». Raffaello ambienta la scena fra le colonne tortili del Tempio di Salomone che si riteneva fossero state portate a Roma dopo la distruzione operata dall’imperatore Tito. Esse, poi, avrebbero sorretto la pergola marmorea del San Pietro costantiniano. Non è un caso, però, che sia Pietro l’unico ad ergersi ritto in piedi a mo’ di colonna fra quelle del Tempio di Salomone. Infatti, è lui, la colonna del Tempio nuovo, quello fondato da Cristo. Ai lati (fra le quinte-navate laterali), si accalca la folla dei curiosi e dei fedeli. È il popolo della nuova Chiesa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RAFFELLO: AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO".
UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA: BENI CULTURALI, SCUOLA, E TERRITORIO: CONTURSI TERME.
Federico La Sala
Geografie
Dante, lo Zibaldone di Giulio Ferroni attraversa l’Italia Speciale Dantedì
In «L’Italia di Dante» (La nave di Teseo) lo studioso descrive i luoghi della Divina Commedia alla luce della tradizione e dell’oggi. Tangenziali e grandi ciclisti compresi
di PAOLO DI STEFANO *
«E poi questa luce e questa eco di voci e di luci antiche, di sole e mare d’altri tempi, di magie segrete, di esistenze, popoli, linguaggi che sembrano trasparire dal fondo della terra, dalle stesse minacciose esalazioni vulcaniche». È Napoli la prima tappa scelta da Giulio Ferroni per il suo «viaggio nel Paese della Commedia» (L’Italia di Dante, pubblicato da La nave di Teseo). Ed è un viaggio che contiene diversi viaggi, essendo Ferroni un «pellegrino» del tutto particolare: critico, filologo e da sempre viaggiatore (sedentario) nella letteratura italiana. Dunque, un cammino doppio, o triplo o quadruplo: fisico nella geografia dell’Italia d’oggi (siamo tra il 2014 e il 2016), culturale nella sua storia e nella sua letteratura, sentimentale nella propria vita e, infine, anzi prima di tutto, un cammino appassionato nell’opera dantesca: perché da lì si parte e lì si ritorna, come in un movimento centrifugo e centripeto a spirale.
Cominciando, appunto, da Napoli, dove troviamo la tomba di Virgilio: «Vespero è già colà dov’è sepolto/ lo corpo dentro al quale io facea ombra». La porta d’entrata è sempre un passo di Dante. Ma da Dante e Virgilio si può rimbalzare in avanti a Curtius e Eliot, dal Novecento all’indietro verso Leopardi (i cui resti erano stati depositati a Fuorigrotta dall’amico Ranieri) e dalla tomba di Leopardi si torna ancora alla tomba di Virgilio, finché passando per rapidi accenni all’amico Franco Cordelli e a Raffaele La Capria, e rasentando Boccaccio, si approda a un’altra tomba: quella del poeta umanista Jacopo Sannazzaro, riconnesso a Virgilio dal cardinal Bembo che ne scrisse l’epigrafe. È un esempio dei nodi e dei nessi che va tessendo il viaggiatore Ferroni.
Ferroni, che non sembra amare particolarmente la cultura tecnologica, ci invita a navigare nel suo testo per connessioni imprevedibili: si direbbe che ha una mente in natura digitale, disposta per link, cioè per associazioni di idee o di figure. Dunque, è vero che il suo libro (più di mille pagine) è, oltre che un diario, uno zibaldone, cioè, letteralmente, una vivanda composta di svariati ingredienti: narrazione odeporica, autobiografia, critica letteraria, racconto morale, riflessione civile, reportage, il tutto in uno stile molteplice e mobile che svaria dalla prosa saggistica alla descrizione lirica.
Se aveva ragione Dino Campana (citato da Ferroni) nel sostenere che tutta la poesia di Dante «è poesia di movimento», va sottolineato che al contrario dello Zibaldone leopardiano, un quaderno scritto per lo più da fermo, questo è invece uno zibaldone scritto tutto al presente nell’andare: in coerenza appunto con l’attitudine dell’Alighieri, cronista dell’aldilà quanto Ferroni è cronista di un aldiquà segnato da autostrade, superstrade e tangenziali, code interminabili di camion, autosnodati, autoarticolati, furgoni, furgoncini, Suv... Un paesaggio in cui convivono brutture inenarrabili e miracoli di bellezza e di civiltà, perché questa è l’Italia, come già osservava Giulio Bollati, una disarmonia tra vecchio e nuovo, fra tradizione e modernità. Mentre l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso danteschi avevano spazi e confini propri, il territorio italiano appare come il regno di una promiscuità vertiginosa, e non meraviglia che una mefitica fettuccia autostradale si trovi a due passi dai Colli Euganei o dell’Arquà petrarchesca, ancora quasi perfetta.
Via via, Ferroni si sceglie il suo Virgilio sempre diverso: che può essere Petrarca o Bembo, ma può essere anche un suo contemporaneo, in carne e ossa o in forma di compagno di strada ideale. Trovandosi di passaggio a Trieste, il pellegrino tiene a precisare che ad accompagnarlo è Non luogo a procedere, uno più recenti libri di Claudio Magris, «perplesso indagatore dell’etica di questi luoghi, dell’umanità che li ha coltivati e della violenza che li ha lacerati». E chissà quante volte gli sarà tornata alla mente la forma-Danubio. Fatto sta che procedendo a suo piacimento il lettore si imbatte in figure-guida che non avrebbe mai pensato di incontrare, non di rado spiazzanti: per esempio quando, alle falde dell’Etna, ci si imbatte in uno scrittore che avevamo già incontrato ad Avezzano (nella cui piazza c’è il suo busto), Mario Pomilio, «etichettato come “cattolico”, ma tra i più intensamente problematici del Novecento». A Pomilio si deve un racconto in cui compaiono i versi di Orazio su Empedocle, Eddy Merckx e il cane che gli ha attraversato la strada in una tappa del Giro d’Italia 1967 facendogli perdere qualche secondo prezioso.
Il cortocircuito straniante ci conferma la passione di Ferroni per il Giro d’Italia e il sospetto che questo suo viaggio avrebbe voluto farlo in bicicletta, magari scortato, oltre che da Dante, da un altro «dolcissimo patre» come Gino Bartali, cui dedica un ritratto dopo aver percorso la sponda destra del fiume Ema ed essersi inoltrato nel Parco dell’Albereta-Pioppeta del Galluzzo. Sono tre pagine che si concludono con la canzone eponima di Paolo Conte: partendo dallo strappo dei Buondelmonte (Paradiso XVI) che rifiutarono le nozze con gli Amidei, passando per Eugenio Montale, sepolto da quelle parti accanto alla moglie Drusilla Tanzi («Non è piacevole/ saperti sotto terra anche se il luogo/ può somigliare a un’Isola dei Morti/ con un sospetto di Rinascimento»), si arriva alla casa natale del grande Gino. Ecco, nel volgere di poche righe, la vertigine a cui il nostro Virgilio-Ferroni è capace di condurci.
Diario, zibaldone, ma anche un genere del tutto particolare di atlante storico-geografico-letterario, in cui ciascuno può muoversi liberamente aiutandosi con gli (indispensabili) indici dei nomi e dei luoghi, che aggiungono a questo libro una potenzialità ludica da Gioco del Monopoli: come ha fatto l’autore, ciascuno può partire da dove vuole, perdersi e arrivare dove non avrebbe mai immaginato. Per esempio un avolese può partire da pagina 554, dove incontra il tiranno «Dïoniso fero,/ che fé Cicilia aver dolorosi anni» (Inferno XII), intravede la siracusana santa Lucia, «nimica di ciascun crudele», passa sul tronco di autostrada che da decenni promette, verso Sud, di arrivare a Gela ma si interrompe a Rosolini, risale in direzione di Catania, respira le zaffate mefitiche delle raffinerie di Priolo, manda un pensiero grato a Vincenzo Consolo e al suo L’olivo e l’olivastro, salta indietro a una bella serata palermitana di Giulio con l’amico scrittore, evoca dei più bei versi mai scritti sul tema della nostalgia («Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria», Inferno V), e seguendo quel passo si ritrova catapultato a Pavia, la città di Boezio che vide insegnanti Ugo Foscolo, e in anni più recenti Maria Corti e Cesare Segre...
Anime sante, direbbe il Poeta, che «’l mondo fallace fanno manifesto a chi di loro ben gode».
La proposta nata dalle pagine del «Corriere della Sera» (qui lo speciale), sostenuta dal ministero per i Beni e le attività culturali di cui è titolare Dario Franceschini, e sancita dal Consiglio dei ministri
* Corriere della Sera, 25.01.2020. (ripresa parziale).
Scienza & antropologia.
Sirio e la verità dell’universo secondo Santillana
Raccolti in volume i saggi scritti dallo studioso dei miti assieme a Hertha von Dechend, dove ribaltava i pregiudizi storicistici che liquidavano l’eredità dei “primitivi” come fantasie patologiche
di Simone Paliaga (Avvenire, sabato 1 febbraio 2020)
«Se gli antichi parlano a volte in modi strani, non dovremmo concludere che i loro pensieri siano dopotutto così strani. Il fatto centrale e semplice che abbiamo dimenticato è che gli antichi, come gli uomini del Rinascimento, pensavano in termini di livelli di verità diversi ma convergenti e costantemente regolabili. Questo è il presupposto di un cosmo, l’idea che si sarebbe dissolta con Descartes. Keplero era ancora completamente antico. Persino Galileo incontrò il fallimento cercando di inserire nel suo nuovo metodo l’idea dei cerchi perfetti e di inerzia circolare che riteneva indispensabile per salvaguardare l’ordine del cosmo. Dimorava in lui un irriducibile Pitagorico» scrive Giorgio de Santillana in Sulle fonti dimenticate della storia della scienza.
Si tratta di uno dei tre contributi, insieme a Sirio, centro permanente dell’universo arcaico e Il concetto di simmetria nelle culture arcaiche, alcuni firmati con e dalla sua collaboratrice Hertha von Dechend, ora raccolti dall’editore Adelphi in Sirio. Tre seminari sulla cosmologia arcaica (pagine 172, euro 13,00) e curati da Svevo D’Onofrio e Mauro Sellitto. A lui si deve anche la postfazione che contribuisce a lumeggiare sul lavoro spesso trascurato dei due studiosi, autori dell’immenso viaggio alla scoperta del pensiero arcaico Il mulino di Amleto e di cui i saggi adesso pubblicati permettono di visitare il laboratorio da dove è germogliato.
Giorgio de Santillana, nato a Roma allo scoccare del secolo trascorso, studia fisica all’università della città natale. Dopo alcuni anni di approfondimento filosofico a Parigi, a partire dal 1929 s’adopera a promuovere il progetto del matematico Federigo Enriques di istituire all’Università di Roma una scuola di Storia della scienza.
Poco prima delle leggi razziali, nel 1936, Santillana, di lontane origini sefardite, si trasferisce negli Stati Uniti. Dopo aver lavorato alla New School for Social Research di New York e a Harvard, nel 1941 raggiunge il Massachusetts Institute of Technology, il celebre Mit di Boston. Lì ha modo di frequentare Norbert Wiener, il padre della cibernetica, che gli chiede spesso di leggergli i tarocchi. Il clima al Mit è spumeggiante e affiatato. Al gruppo si unisce presto Walter Pitts che con Warren McCulloch ha da poco pubblicato l’articolo fondatore della teoria delle reti neurali e ora studia greco antico e sanscrito, collabora con Santillana nella ritraduzione dei frammenti di Parmenide e nella risistemazione di testi pitagorici, oltre ad approfondire lo studio di Filolao, Descartes e Leibniz.
Non si può certo dire che la ricerca nell’America della metà del Novecento sia parcellizata. Vi domina invece uno spirito interdisciplinare, a cui contribuisce anche Giorgio de Santillana. La svolta, per lo studioso di origini italiane, arriva nel 1958 durante un congresso di storici della scienza a Francoforte. In quell’occasione incontra Hertha von Dechend, etnologa allieva di Leo Frobenius, che due anni dopo lo raggiunge al Mit dando inizio così al sodalizio da cui nascerà Il mulino d’Amleto. -L’impresa a cui attendono Santillana e Dechend rompe radicalmente con ogni pregiudizio storicistico e ogni atteggiamento che interpreta gli antichi alla stregua di “selvaggi” o “primitivi”. «Il denigrare - polemizza lo storico della scienza - è antico quanto l’Illuminismo stesso».
Dalla loro fatica, che li porta a muoversi con disinvoltura tra le tradizioni arcaiche greche, babilonesi, cinesi, indiane, maya, polinesiane, emerge come gli antichi maneggiassero conoscenze astronomiche tutt’altro che superficiali e banali. Anzi. Il problema è che le esprimevano con un linguaggio a noi completamente incomprensibile anche a causa delle interpretazioni moderne della scienza formulate da quelli che Santillana chiama, riprendendo l’espressione del commediografo John Osborne, gli “Angry young men” della filologia. Questi intellettuali contestatori riducono i miti «ad allusioni politiche o a culti solari, culti terrestri, al grande inconscio e a varie forme di patologie sessuali».
Dagli “Angry young men” ogni mito è riportato all’incesto, al parricidio o alla libido e si vedono sostenuti in questa impresa dalla «filologia ipercritica» che tratta i testi degli antichi e i miti «come se fossero scritti per libera associazione di idee o ragioni fortuite - chiosa Giorgio de Santillana - provocando un fiorire di sciocchezze dall’aspetto persuasivo».
Eppure negli antichi miti non s’adombravano stramberie né assemblaggi casuali di immagini. Quantunque non si avvalessero di un linguaggio matematico ma di un linguaggio intessuto di storie, gli antichi esprimevano conoscenze scientifiche con rigore e precisione tali da non invidiare quelle dei matematici moderni. Esprimono «una comunicazione autentica che non necessita di comprensione e si realizza esclusivamente attraverso la forma». Lo riconoscono già Ateneo e Luciano per cui la danza del celebre mimo dell’antica Roma, Memphis, in pochi passi era in grado di tradurre l’intera dottrina pitagorica.
Il viaggio di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend nel cuore del pensiero arcaico aiuta a comprendere i passi di danza di Memphis alla stregua di un trattato di astronomia. Grazie a loro possiamo intendere l’umanità come l’esito di un lungo cammino di trasmissione, perdita a rinascita di conoscenze scientifiche non sempre sviluppate sotto l’occhiuta osservanza del metodo cartesiano.
L’AMORE ("CHARITAS") NON E’ LO ZIMBELLO NE’ DEL TEMPO NE’ DELLA FILOLOGIA. IL SONNAMBULISMO DI HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER (e dell’intera storiografia filosofica, teologica, e filologica):
Martin Heidegger e Hannah Arendt: la storia della fedeltà all’amore
A cura di bea *
Negli anni in cui Martin Heidegger andava elaborando "Essere e tempo" (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni, ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda. Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nel paragrafo 29 di “Essere e tempo”, l’opera più famosa di Martin Heidegger, troviamo due citazioni: la prima è di Pascal
Donde viene che mentre parlando delle cose umane si dice che occorre conoscerle prima di amarle, ciò che è diventato proverbiale, i santi invece dicono, parlando delle cose divine, che occorre amarle per conoscerle, e che nella verità si penetra soltanto per mezzo della carità, del che hanno fatto una delle loro più utili sentenze...
La seconda, più incisiva, è di Agostino di Ippona
Anche se non sono citazioni dell’autore, queste prove bastano ad annullare quanto sostenne K. Jaspers, ovvero che la filosofia di Heidegger fosse “senza amore”.
Se da un lato possiamo capire la sua posizione, in quanto nell’opera i temi principali ruotano attorno all’essere, il Dasein, il tempo e la morte, dall’altra è fondamentale chiedersi il perchè di quelle due citazioni.
La spiegazione la troviamo nella vita reale del filosofo. Negli anni in cui andava elaborando Essere e tempo (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda.
Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nelle ultime lezioni che Heidegger tenne a Marburgo nel semestre estivo del 1928 si fa riferimento alle due citazioni: egli riprende delle riflessioni che aveva scambiato con Max Scheler, per il quale amore e odio fondano la conoscenza, e sulla scia di una frase dell’Ordo Amoris “L’uomo, prima di essere un ente pensante o volente è un ente amante”, costruisce il motore immobile e invisibile che dà vita al suo Dasein, l’essere-nel-mondo.
Se Heidegger si appella ad Agostino e a Scheler, significa che l’amore è per lui un modo di apertura più originario di ogni conoscenza.
In riposta alla teoria delle passioni, la Arendt scrive nel 1953
Essere-nell’amore significa fare in primis esperienza dell’esistenza più “propria” e poi scoprire, in due, che l’essere nell’esistenza significa anche volere l’esistenza dell’altro. Amo, come dice Agostino, significa volo ut sis, ti amo, voglio che tu sia ciò che sei.
scriveva Heidegger alla sua studentessa.
Amare è anche lasciare libero l’altro, amare è cogliere il “tu” pur lasciandolo essere, senza cercare di possederlo: “... lasciar essere l’essere”
scrive il filosofo circa il concetto di libertà ne Lettere sull’umanismo.
Secondo la Arendt l’amore non consiste propriamente solo nei sentimenti verso l’ altro, ma prende una forma propria, che chiede qualcosa a entrambi gli amanti.
Se è fuori da ogni dubbio che Heidegger la amò, spingendola ad essere libera, resta tuttavia il fatto che rifiutò ostinatamente di cambiare per lei il corso della propria vita: non avrebbe mai lasciato il suo “punto fisso”, Elfride.
La concretizzazione del loro amore non avvenne mai. Avevano sì un mondo loro, ma era pur sempre circoscritto a qualche momento fuggitivo.
Hannah decise di chiudere la clandestina relazione, e lui, nonostante l’avesse ritenuta da sempre “molto più di una stella cadente”, non la trattenne, conservando però la speranza di riconquistarla.
In realtà tra i due ci fu sempre un collegamento, una sintonia che si riflette nelle numerose lettere che i due si spedirono anche dopo il primo matrimonio -poi fallito- della Arendt con G.Stern. Qualcosa cambiò nel 1933, quando Heidegger aderì al partito nazionalsocialista.
Nel frattempo la giovane Hannah si era trasferita a Parigi, dove sposò “il suo grande amore”, il filosofo tedesco H.Blucher, con il quale si imbarcò per gli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle i ricordi del tormentato amore con quella “volpe” di Heidegger. Come un vero Don Giovanni, egli passa di donna in donna alla ricerca della Donna, vale a dire una “verità della Donna”, rifacendosi alle teorie filosofiche di Proust e Sartre:
Alla ricerca di questa verità, passa da graziose dottorande a giovani signore eleganti. Inoltre, si può notare che il suo Amore non si mostra affatto platonico, anzi l’amore si manifesta principalmente nell’effervescenza sessuale.
Non è dunque un caso che dedichi un libro su Platone alla sua “moglie-rifugio” Elfride, né che mandi alla Arendt alcuni versi dell’Antigone di Sofocle in cui il coro evoca il dio Eros.
Il 1950 è un anno di crisi per Hannah: se da una parte il secondo matrimonio sembra crollare a causa di un tradimento da parte del marito, dall’altra è un momento di riflessione feconda su un tema molto delicato, la fedeltà. Tra i due non c’erano più segreti, Blucher era al corrente delle lettere che mandava ancora al suo professore-amante, e addirittura la incoraggiava a riallacciare i rapporti.
Ma è nel suo Diario intellettuale che la filosofa trae le conclusioni dei vari episodi della sua vita.
Rispondere all’infedeltà - come è abitualmente intesa - con la gelosia equivale quindi a una perversione della fedeltà. L’infedeltà più grave e terribile che possa esistere, il peccato più grande è per la Arendt l’oblio, poiché spegne la Verità, la verità che è stata.
È per questo motivo che, pur con tutto l’orrore provato per l’adesione di Heidegger al partito nazista, decise di restare sempre in contatto, mentale e non, con lui. Un’affinità elettiva non priva di tormenti e sofferenze, incomprensioni e oscurità.
Più che di perdono, bisognerebbe parlare di una volontà di non rinnegare ciò che era stato “l’evento dell’amore”.
* A cura di bea - 30 Luglio 2014
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
DANTE 2021: DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Editoriale
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE "OLIMPICA" .... *
Il discorso di Greta Thunberg alle Nazioni unite
di Greta Thunberg (il manifesto, 27.9.2019)
New York. E’ tutto sbagliato. Io non dovrei essere qui di fronte a voi. Dovrei essere a scuola dall’altra parte dell’oceano. Eppure venite tutti da me per avere speranza? Ma come osate! Voi avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre vuote parole. Eppure io sono una persona fortunata.
Le persone soffrono. Le persone stanno morendo. Interi ecosistemi stanno crollando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui riuscite a parlare sono i soldi e le favole della crescita economica infinita. Come osate!
Per più di 30 anni la scienza è stata di una chiarezza cristallina. Con che coraggio osate continuare a girarvi dall’altra parte e venire qui assicurando che state facendo abbastanza, quando la politica e le soluzioni necessarie non sono ancora nemmeno all’orizzonte.
Dite che “ci ascoltate” e che comprendete l’urgenza. Ma non importa quanto io sia triste e arrabbiata, non voglio crederci. Perché se comprendeste davvero la situazione e continuaste a non agire, allora sareste malvagi. E mi rifiuto di crederci.
L’idea più diffusa sul dimezzare le nostre emissioni in 10 anni ci dà solo il 50% di probabilità di rimanere al di sotto di 1,5 ° C e disinnescare così reazioni a catena irreversibili al di fuori del controllo umano.
Forse il 50% di probabilità è accettabile per voi. Ma questi numeri non includono i punti di non ritorno, la maggior parte dei circuiti di feedback, il riscaldamento aggiuntivo nascosto dall’inquinamento atmosferico tossico o gli aspetti di giustizia e di equità. Fanno anche affidamento sull’ipotesi che la mia generazione e quella dei miei figli riuscirà a risucchiare centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 dall’atmosfera con tecnologie che oggi esistono a malapena.
Quindi un rischio del 50% non è semplicemente accettabile per noi - noi che dobbiamo convivere con le conseguenze.
Per avere una probabilità del 67% di rimanere al di sotto di un aumento della temperatura globale di 1,5 ° C - le migliori probabilità stimate dal Pannello intergovernativo sui cambiamenti climatici - il 1 ° gennaio 2018 il mondo aveva solo 420 gigatonnellate di anidride carbonica da poter rilasciare nell’atmosfera.
Oggi questa cifra è già sotto le 350 gigatonnellate. Come osate far finta che questo problema possa essere risolto con le solite soluzioni economiche e tecniche. Con i livelli di emissione odierni, la quantità di CO2 a disposizione sarà completamente sparita in meno di otto anni e mezzo.
Non ci saranno soluzioni o piani presentati secondo i dati di oggi. Perché questi numeri sono troppo scomodi. E voi non siete ancora abbastanza maturi per dire le cose come stanno.
Ci state deludendo e tradendo. Ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi. E se sceglierete di fallire, vi dico che non vi perdoneremo mai.
Non vi lasceremo andare via come se nulla fosse. Proprio qui, proprio adesso, è dove tracciamo la linea. Il mondo si sta svegliando. E il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.
* Testo del discorso all’Assemblea generale delle Nazioni unite di New York del 23 settembre 2019 (traduzione dall’inglese a cura di Matteo Bartocci).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE (LA LEZIONE DI NELSON MANDELA).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
CULTURA, CDM ISTITUISCE 25 MARZO GIORNATA DI DANTE
Franceschini: Dante rappresenta unità nazionale, ogni anno scuole saranno protagoniste del Dantedì
Il consiglio dei ministri, su proposta del ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini ha approvato la direttiva che istituisce per il 25 marzo la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri.
“Ogni anno, il 25 marzo, data che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio nell’ aldilà della Divina Commedia, si celebrerà il Dantedì. Una giornata per ricordare in tutta Italia e nel mondo il genio di Dante con moltissime iniziative che vedranno un forte coinvolgimento delle scuole, degli studenti e delle istituzioni culturali. A un anno dalle celebrazioni dei 700 anni dalla morte di Dante - ha aggiunto Franceschini - sono già tanti i progetti al vaglio del Comitato per le celebrazioni presieduto dal prof. Carlo Ossola. Dante - ha concluso Franceschini - ricorda molte cose che ci tengono insieme: Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia”.
La proposta della giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri oltre ad essere oggetto di diversi atti parlamentari aveva raccolto l’adesione di intellettuali e studiosi e di prestigiose istituzioni culturali dall’ Accademia della Crusca, alla Società Dantesca, alla Società Dante Alighieri, all’ Associazione degli Italianisti alla Società italiana per lo studio del pensiero medievale.
Ufficio Stampa MiBACT
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E I “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO DI DANTE, I "TREMILA ANNI" (1800), DI GOETHE, E I XXXII SECOLI DI "NOI" - OGGI (2021)!!!
STORIA E STORIOGRAFIA: MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! *
UNA BOLLA SPECULATIVA. “[...] Perché parlare di un libro pubblicato nel 1954? [...] Credo che la domanda e la risposta che Lukács scrive all’inizio del lungo volume parli ancora di noi. La domanda era “Perché a un certo punto la gnoseologia, la teoria della conoscenza, diventa la forma filosofica dominante?” La risposta (circa 800 pagine) aveva appunto a che fare con l’intento ideologico della borghesia di soggettivizzare la Storia al fine di immobilizzarla [...] Per Lukács l’irrazionalismo, che ha “come intento principale [...] la radicale soggettivizzazione della storia”, trova piena espressione fra gli ultimi anni dell’800 e i primi del ‘900 attraverso “la riduzione della gnoseologia kantiana alla gnoseologia di Berkeley”, così come prima sviluppata nell’ambito dell’epistemologia scientifica da autori quali Mach e Avenarius. La pretesa inconoscibilità della realtà oggettiva trasferisce l’oggettività medesima all’interno della soggettività, e questa è presentata dalla gnoseologia come soggetta alle oscillazioni della psicologia, le quali necessariamente inficiano (la psicologia di un soggetto è ovviamente mobile) ogni possibile e stabile approdo conoscitivo: “il cancellare i confini fra gnoseologica e psicologia fa parte delle caratteristiche essenziali dell’irrazionalismo moderno” [...] (M. Cangiano, “Il libro insostenibile: breve difesa di La distruzione della ragione”, Le parole e le cose, 14.01.2019).
* NOTE:
A) HEGEL, HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI .
B) KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI. Al di là del "paradosso della ripetizione" ... *
TROVO MOLTO INTERESSANTE l’indicazione di FRANCESCA (vedi - sopra) di mettere i piedi a Terra e guardare la Luna. Al di là dei limiti del percorso di Fachinelli, mia opinione, di ciò che resta fondamentale del suo lavoro è la decisiva messa in evidenza di quanto - antropologicamente - sta al fondamento della rivoluzione (e pratica!) psicoanalitica: "La mente estatica" (1989)! Si possono chiudere porte e finestre all’infinito, ma ora non solo dalla caverna platonica ma anche dall’isola di Creta ("Sulla spiaggia", 1985) si può uscire (cfr. Fachinelli e Freud nella "nave" di Galilei), riprendere la navigazione e guardare dall’Oceano, terrestre e celeste, la Terra ...
IL "GIARDINO" DEVASTATO E LE PIANTE. "Lo sciovinismo antropologico/antropocentrico (e più generalmente zoo-logico/zoo-centrico) che impera su gran parte della filosofia morale e politica dall’antichità ai giorni nostri non ammette un valore delle piante in quanto tali. Per gli esseri umani è molto più facile identificarsi con gli animali che con le piante, la cui fisiologia risulta difficile da comprendere (l’antropomorfismo e lo zoomorfismo vanno facilmente insieme). L’apparente immobilità delle piante, la loro apparente mancanza di differenziazione, il loro essere apparentemente inermi e inette, rendono le piante poco salienti per i sensi degli esseri umani - facilitando così anche la scomparsa della vita vegetale dall’orizzonte dell’etica e della politica.
Quest’oblio è ingiustificato in sé e costituisce anche un problema urgente per l’etica dell’ambiente. Se non si dà valore alle piante, perché le si ritiene prive delle caratteristiche necessarie a generare valore (come l’autocoscienza, l’intelligenza, la capacità di provare sensazioni ed emozioni, di agire, di esercitare la volontà), allora non si potrà dare valore alla natura inanimata, cioè agli ecosistemi e al mondo naturale nel suo complesso, dichiarando così il fallimento di ogni tipo di etica dell’ambiente non fondamentalmente antropo- o zoo-centrica.
Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore. Una buona quota della attuale crisi ecologica, possibilmente la più subdola e insidiosa, potrebbe risultare riconducibile a questa incapacità o rifiuto, e spiegabile attraverso il prisma delle nostre relazioni irrisolte con le piante.
Se si dà valore alle piante si è sulla buona strada per dare valore alla natura tutta, inclusa tutta quella inanimata; e non solo come un insieme indistinto, ma come un ricettacolo di diversità e di specificità e particolarità inesauribile. Una visione del genere terrà conto, per esempio, del fatto che gran parte della natura è roccia, acqua, e piante: la vita animale si attesta, in proporzione, solo al quarto posto - la “nazione delle piante”, come la battezza Stefano Mancuso, è di gran lunga la più popolosa [...]"(dal volume "Etica e politica delle piante", di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, e con contributi di Simone Pollo e Alessandra Viola).
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PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE.... *
Dante, l’appello di Franceschini alle imprese
"Poste finanzia, altri li seguano". La Rai rilanci all’estero
(ANSA) - ROMA, 10 GEN - "Grazie a Poste Italiane, che hanno offerto il loro sostegno per le celebrazioni, nel 2021, dei 700 anni dalla morte di Dante", ma "vorrei che quello di Poste fosse un esempio per le altre imprese italiane che non si possono sottrarre a fare qualcosa per Dante". Il ministro di Cultura e Turismo Dario Franceschini presenta a Roma, insieme con il presidente del Comitato per i 700 anni dalla morte di Dante, Carlo Ossola e con la presidente Maria Bianca Farina e l’ad Matteo Del Fante di Poste Italiane un progetto di valorizzazione che coinvolgerà decine di comuni italiani (70 al momento ma potrebbero diventare di più) e approfitta per lanciare un appello al mondo delle imprese: "Dante è di tutti - dice - tutte le nostre imprese quando vanno all’estero hanno dietro il supporto dell’Italia e Dante per noi italiani è identitario.
Tutti dovrebbero fare qualcosa". E aggiunge: "Vorrei vedere Dante sui treni, sui voli Alitalia, dappertutto". Non solo: "Vorrei che la Rai , so che ci sono ragionamenti aperti in questo senso, producesse cose da far circolare non solo in Italia ma nel mondo". Un appello, quello del ministro Pd, rivolto in ultima analisi al Paese a tutto tondo: "Dante è di tutti, è identitario, coinvolge, è stato anche uno dei primi ad aver parlato di Europa. - sottolinea il capo delegazione Pd al governo - Celebrare i 700 anni dalla sua morte è lavorare per l’unità e il nostro Paese ha molto bisogno di unità. E’ anche orgoglio e il Paese ha bisogno di orgoglio". (ANSA).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE ("charitas"). Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia"
Federico La Sala
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
USCIRE DALLA CAVERNA E DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE COSMO-TE-ANDRICA PLATONICA. Materiali sul tema... *
Veder le stelle con gli occhi di Dante
Fisici, cosmologi, poeti, scrittori, teologi e mistici sono da sempre affascinati dalla “scienza stellare” dantesca: lo ricorda l’inglesista Tracy Daugherty in un nuovo saggio
di Gianni Vacchelli (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
Dante ci sorprende sempre e ci spiazza, anche quando crediamo di averlo incasellato, almeno su un aspetto. Così potremmo pensare che la sua astronomia sia realmente irricevibile e superata. Ad esempio per il grande poeta Thomas Eliot, anche acuto dantista, come tutti sappiamo, «non è essenziale che la quasi inintelligibile astronomia di Dante sia capita ». Eppure non è così. E se forse l’accademia riserva in genere una rispettosa ma un po’ distaccata attenzione alla “scienza stellare” dantesca, fisici, cosmologi, oltre che poeti, scrittori, teologi e mistici ne sono da sempre affascinati. Soprattutto oggi gli uomini di scienza. Ce lo ricorda anche l’americano Tracy Daugherty, professore emerito di Inglese all’Oregon State University, nonché romanziere, nel suo recente e interessante saggio Dante and the Early Astronomer [Dante e la Prima Astronoma] ( Yale University Press).
In verità il libro di Daugherty, come si evince anche dal sottotitolo “Scienza, avventura e una donna vittoriana che aprì i cieli”, è sì dedicato a Dante ma insieme all’astronoma Mary Acworth Evershed (conosciuta pure come M.A. Orr, col cognome da nubile, prima di sposare John Evershed, importante astronomo lui stesso).
Mary è una donna inglese, nata nel 1867. Amava la poesia e il cielo stellato, e un viaggio in Italia all’età di 20 anni, a Firenze e a Ravenna, fu fondativo per la sua ricerca: decise così di studiare attentamente tutti i riferimenti astronomici nella Commedia di Dante, che arriverà a leggere in italiano. E nel 1913 Mary, con il cognome di Orr, pubblicò il suo importante studio Dante and the Early Astronomers, troppo presto dimenticato e che sarebbe utile riscoprire e tradurre in italiano. Nonostante il modello tolemaico di Dante fosse totalmente superato, Mary ammirò «la fedeltà dantesca agli insegnamenti dell’astronomia come l’aveva imparata dai suoi maestri», «la fantastica precisione dentro una struttura chiara» nel descrivere i fenomeni celesti. Per lei «il Poeta possedeva l’istinto e le attitudini di un ricercatore scientifico: una mente irrequieta, un abito di attenta osservazione».
Studiosa dei crateri lunari e delle macchie del sole, che «Dante aveva riconosciuto tre secoli prima che venissero scientificamente rilevate», Mary rimase affascinata anche da come Galileo, che stava aprendo all’umanità una nuova immagine di universo, rimanesse fedele alla retorica, all’immaginazione, ai ritmi danteschi. Le sue descrizioni del sole nelle Lettere sulle macchie solari echeggiavano le discussioni astronomiche di Beatrice in Paradiso II, sulle macchie lunari. Per la Evershed «Galileo considerò sempre Dante un pari, e la sua maestria artistica un modello... per lui la Commedia non era un cimitero di teorie astronomiche scartate, ma un prologo poetico a future scoperte». Allo stesso modo anche lei «seguì le tracce dell’universo di Dante, afferrò l’uso da parte di Galileo dell’arte di Dante per far avanzare le sue nozioni scientifiche e partecipò alla rivoluzione mentale che espanse l’esistenza e la conoscenza nel modo in cui Einstein - e Dante - predissero che sarebbe accaduto».
E in effetti il libro di Daugherty accenna in più parti ad una seconda e in qualche modo diversa linea di ricezione delle idee astronomiche del Poeta. Se la Evershed, con Galileo prima di lei, ha ammirato la coerenza e l’accuratezza “scientifica” del dettato dantesco, pur nel paradigma tolemaico non più accettabile, oggi molti «scrittori come il matematico Mark A. Peterson, lo storico della scienza Edward Grant e lo storico William Egginton hanno sostenuto in modo persuasivo che le concezioni medievali di Dante sulla forma dell’universo sembrano agli astronomi contemporanei sorprendentemente preveggenti». Dante insomma avrebbe «inventato un nuovo spazio topologico, la 3-sfera, o ipersfera», come scrive il citato Peterson in una sua analisi del 1979. In qualunque caso, una cosa è certa: la rappresentazione grafica del cosmo dantesco, ancora largamente accettata e quasi onnipresente su tutte le antologie scolastiche, con la terra al centro, i nove cieli intorno e l’Empireo sopra tutti, per lo più rappresentato come una sorta di “buffo cappellino” all’intero universo dantesco, è inaccettabile, testo di Dante alla mano.
Basta rileggere due complessi ma splendidi passi paradisiaci. In Paradiso XXVII, 106ss., Dante spiega la natura del Primo Mobile, la prima e più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico dell’universo, da cui trarrebbero origine il moto e il tempo. E scrive: «Luce e amor d’un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende» (Pd XVVII, 112-114). Qui il Poeta sembrerebbe descrivere l’Empireo come un’ultima realtà capace di cingere il Primo Mobile e tutti gli altri cieli a seguire. Eppure nel canto successivo, Paradiso XXVIII, 16ss., avviene qualcosa di straordinario: Dante vede al centro dell’universo non la terra bensì un punto luminosissimo, il cui splendore non può essere sostenuto da occhi umani: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Pd XXVIII, 16-18). Il mistero divino è adesso centro dell’universo, «da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv.41-42), ed è come se il Poeta scorgesse «un altro universo», rovesciato e fatto, ugualmente, di nove cerchi concentrici, sede delle gerarchie angeliche ruotanti intorno a Dio.
È a partire da questi passi danteschi che il fisico rumeno Roman Patapievici, nel suo prezioso e oggi introvabile libretto Gli occhi di Beatrice ( Bruno Mondadori 2006), scrive: «L’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un calco rovesciato del mondo visibile: l’Empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica... l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’Empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “Primo Mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale ». Su questa intuizione tornano recentemente anche due fisici italiani, Marco Bersanelli, nel suo Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) e Carlo Rovelli in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza ( Corriere della Sera 2018), che loda la «straordinaria intelligenza, anche matematico-scientifica» di Dante.
Questa ipotesi in verità ha una storia lunga e viene fatta risalire al matematico svizzero Andreas Speiser, che ne scrisse nel 1925, ripreso appunto poi da Mark Peterson, dall’astrofisico svizzero Bruno Binggeli e infine da Patapievici. Per altro già nel 1922 Pavel Florenskji in un breve e densissimo scritto, Gli immaginari in geometria, aveva sostenuto, a partire dalla “piroetta” effettuata dal Dante-personaggio in If XXXIV al centro della terra, che la concezione dello spazio della Commedia è abbordabile solo con il sostegno teorico della relatività einsteiniana e della geometria non-euclidea. Per concludere sorprendentemente: «Squarciando il tempo, dunque, la Divina Commedia finisce inaspettatamente per trovarsi non indietro, ma avanti rispetto alla scienza nostra contemporanea ».
Eppure forse il punto è un altro, anche se le riletture della fisica e della matematica contemporanee sono importanti, e certo da approfondire in uno studio esaustivo. Perché Dante ragiona da un mythos diverso dal nostro e le sue “preveggenze” gli vengono da una visione mistica dell’esistente. Ecco allora che il mistero divino sarà insieme imprendibile sfera e centro concentrico della realtà, contenente e contenuto, trascendente e immanente, come recitava un folgorante aforisma del medievale Libro dei XXIV filosofi: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
La fisica contemporanea vi intravede un’iper-sfera. Sia. Per Dante la posta in gioco però è forse ancora più complessa: non solo ravvisare in tutto ciò il mistero divino, ma comprendere come la trinità Dio(Mistero)-Uomo-Cosmo sia in una relazione costitutiva e rappresenti tutta la realtà: non Dio, l’Uomo o il Cosmo da soli.
Potremmo ricordarci allora l’intuizione cosmoteandrica (cosmo-dio-mondo) del filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, che parlava anche di teofisica, «non tanto come “fisica di Dio”, ma come “del Dio della Fisica”, del Dio creatore del mondo, dove il mondo non è sentito in quanto autonomo, indipendente e diviso da Dio, ma costitutivamente connesso a Lui». L’ardore di Dante è stato quello di provare a tenere insieme queste dimensioni della realtà - misteriosa, umana e materiale - con tutti i saperi che aveva a disposizione, anche fallaci, limitati, scientificamente. È questo che ci attende oggi: mantenere viva e prolungare la tensione dantesca, aggiornandola all’altezza dei tempi. E le potenti preveggenze del Poeta sembrano guidarci, perché «poca favilla gran fiamma seconda».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’INCARNAZIONE AL DI LA’ DELL’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO: DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Natale*
Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Manganelli: basta con il Natale!
di Marco Belpoliti (Doppiozero, 24.12.2015)
Basta con il Natale!, l’esclamazione prorompe dalle pagine de Il presepio (Adelphi 1992) che Giorgio Manganelli sta redigendo alla fine degli anni Settanta nella sua casa romana seduto alla macchina per scrivere. In verità nel dattiloscritto che esce dal rullo della macchina non dice proprio così. Manganelli è più sottile, meno greve, ma non per questo meno diretto o pesante: “La mia memoria dei Natali infantili è estremamente penosa”; e ancora: “I preparativi per il Natale hanno qualcosa di cupo, di tetro, per l’appunto come preparativi per tener testa ad una invasione, o ad una minaccia non precisa che si addensa sulle nostre indifendibili frontiere”. Cosa ha il Natale per sembrargli così pernicioso? Al Natale “non si dà fuga; in nessun modo”. Nessuno può evadere dal Natale.
Per questo Manganelli decide di immergersi nel Natale, lo fa affrontando una delle sue “istituzioni”: il presepe. Il testo che sta scrivendo ha come oggetto proprio questa “scena”, come la chiama Manganelli. Questo è il presepe. Se c’è una felicità natalizia - e chi la nega? - c’è però anche una certa “infelicità natalizia”, scrive chi ha redatto il risvolto di questo libro stampato postumo nel 1992, vent’anni dopo essere uscito dalla macchina del Manga. Come tutti coloro che riescono a vedere l’altra faccia delle cose, il luogo in ombra, oscuro, nascosto, egli coglie l’elemento pericoloso che il Natale reca con sé, quello stesso che lo rende davvero rischioso, difficile, grave.
Il Natale è la festa dei bambini, per i bambini. Anche gli adulti quel giorno diventano bambini. Ma se fa parte della galassia infantile, è anche vero che questo accade perché è uno dei “riti necessari alla produzione dei morituri”. Di più: con il Natale, e non solo con questo, si fa “moneta dell’infanzia per dilazionare il disastro del mondo”. Ritiene che sia un modo per procrastinare il disastro usando l’infanzia. Non c’è rimedio tuttavia a tutto questo, dal momento che se bastasse porre fine al Natale per scongiurare questo stato di cose, staremmo tutti meglio. Ma al Natale non si sfugge, ripete, ragione per cui non lo si può neppure abolire.
Cosa trova di così terribile Manganelli nel Natale? Il fatto che è uno spettacolo: messa in scena di una nascita; chiama tutti ad assistere a questo evento. Ma è proprio un evento? Ne dubita. Il presepe è la negazione della nascita. Nel presepe non nasce nessuno. Le statuine vengono poste lì per rappresentare. Non nasce nessun Bambino. Nel Natale convergono, e in parte si confondono, il Bambino, ovvero Gesù, il-già-nato, e il Vecchio, ovvero Babbo Natale, la vecchiezza come forma del Mondo. Forse si confondono anche le due coppie puer-senex e senex-puer; si tratta in definitiva dell’incontro tra due mitologie e due teologie.
Quello che disturba lo scrittore è che il Natale sia essenzialmente una rappresentazione. Tutto complotta per produrre le innocue lacrime del sentimentalismo che hanno il solo scopo di tenere a bada suicidio e omicidio, tutta la volgarità “contro cui preme la demenza”. Che sono poi i sintomi della condizione umana, profondamente umana. Scrive nelle prime pagine: “Quelle fragili fole natalizie erano terribilmente pertinenti la denuncia della mia, della nostra indecorosità; ero circondato da magie sarcastiche. Investiva le famiglie di una nobiltà sacerdotale che non poteva svelare l’odiosa, repulsiva tristizia dei conflitti coniugali e filiali. Erano, e sono, giorni, notti fitti di fantasie funerarie, anche delittuose; il tutto mescolato a pianti di verace compunzione, a teneri abbandoni, a propositi inani di riscatto, dopo naturalmente, quel delitto che per altro era impossibile”. E ancora: “mai come a Natale la demenza si lascia respirare ai dementi”.
Nel presepe, istituzione natalizia in cui Manganelli stesso si iscrive con un gesto proditorio, e anche felice, nonostante tutto, si manifesta l’infelicità stessa del Natale, “una infelicità esclusiva, viscida, serpentesca, e insieme calamitosa”. Nella sua visione apocalittica che gli fa vedere nel Natale una cigolante macchinazione cosmica, si produce uno spettacolo. Una rappresentazione che occulta ogni altra cosa e ci fa guardare le figurine di cartapesta del presepe. Eccole: la Madre, il Padre, i Pastori, la Vecchietta, il Ruscello, l’Asino e il Bue. E poi: gli Angeli, e persino i pipistrelli. Senza la Madre la rappresentazione stessa non sarebbe neppure pensabile, non prenderebbe avvio la macchina teatrale che include il Bambino. Lui, che ne sembrerebbe il protagonista, non lo è.
Il presepe “non ha fondali; dietro non c’è niente”. Che si tratti di una mangiatoia o di una spelonca, di una grotta o di una caverna, in ogni caso è un luogo di passaggio, un corridoio. Il presepe è collegato con l’Inferno, ne rappresenta, a detta di Manganelli, una delle porte d’ingresso. Da dove viene il presepe, dal Cielo o dal mondo ctonio? Com’è possibile che esca proprio dal basso? Perché è degli inferi la simulazione, si risponde. Dal buio della caverna sono usciti il Padre, la Madre, il Bambino. Altrimenti non si spiegherebbe la sua capacità di essere fonte purissima d’angoscia. Il Natale la suscita, questa angoscia.
Nelle pagine di questo dattiloscritto rinvenuto da Ebe Flamini tra le carte di Manganelli dopo la sua morte, sono due i personaggi che più colpiscono: l’asino e il bue. A sua detta si tratta degli unici esseri viventi dell’intera rappresentazione sacra: non somigliano per nulla alle statue taciturne, ai simulacri senza età. Loro non escono dalla caverna, non appartengono al mondo infero. La loro è una singolare alleanza. “Un errore li ha generati”, scrive. Sono due animali umili, percossi, e uno, il bue, poi, è castrato. Questo è poi un vero enigma. La mitezza del bue ha qualcosa di torvo. La sua natura è di essere appunto un castrato: era un toro poderoso, scrive Manganelli, e generante. La sua mitezza è il rovesciamento della forza. L’asino è la potenza del sesso, la sua forma furente, persino pericolosa. I due animali sono i veri padroni di casa - stalla, mangiatoia, caverna, antro, rifugio -, loro due, il castrato e il priapeo, sono quelli posti più vicini al Bambino. “Sono viventi che amano la noia”, scrive.
Seduto alla sua macchina per scrivere, questo teologo negativo batte furiosamente sui tasti producendo un delirio a-teologico, una sua macchina teologica (sia pure di teologia negativa) da opporre a quella delle figurine di cartapesta che giacciono nel presepe. La sua è una felicità del vanverare, del parlare a vuoto, che tuttavia coglie un elemento fondamentale: la natura infera di questa scena che colleghiamo all’avvento del Regno, alla Nascita del Salvatore, alla venuta di Gesù nel Mondo. Il Bambino c’è già, è lì. Non è nato, c’è.
Il libro si conclude con una scena. E non si sa dove Manganelli l’abbia trovata, in quale presepe l’abbia vista. Forse l’ha sognata? Forse. Eccola. La Vecchia, figura archetipica, cava dalla sua sacca una trottola e la lascia cadere nel buco: nel nulla, nell’antro infernale che si apre dentro il presepe. Dal buco è uscito il Natale stesso con la sua forma infera. “Per quel bel bambino”, dice la Vecchia. Poi getta la trottola policroma, oggetto magico, che “subito discende con un sibilo melodioso, infernale”. È fatta. Nessuno può più fuggire. Il Disastro è accaduto. Si dia inizio alla festa. Il Natale può cominciare. L’angoscia è al culmine, la catastrofe dispiegata. Sediamoci a tavola tranquilli e pranziamo. Viva il Natale!
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il "principle of charity", il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "The Nature of Rationality", 1993) *
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W.
V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia
del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni
fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non
di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si
tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni
o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti
“mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o,
ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente
da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione
nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a
un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con
la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori
sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione
a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object
(1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione
più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali»
del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come
una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al
nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto
il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in
fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word
and Object3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i
nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung)
del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento
sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica
di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio
schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una
necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe
soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche
correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili
traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati
andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni,
quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui
base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di
«catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici
» (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione
del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative
bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili
sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa
a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i
nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare
i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
I "CONFLITTI TRA I RESTI" E UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Profezia è verità /28.
La custodia del primo nome
Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 dicembre 2019)
Non basta essere minoranza per essere minoranza profetica. Non è l’essere parte di un resto di superstiti a fare il resto della Bibbia. Nella conquista babilonese, alcuni ebrei furono deportati e altri restarono in patria. In ciascuna di queste due comunità - quella in esilio e quella in patria - c’era chi si auto-attribuiva lo status di "resto" annunciato da Isaia. Ezechiele e Geremia ci parlano, in pagine bellissime, di questi "conflitti tra resti", delle polemiche tra i figli per l’eredità ideale dei padri. Le crisi, soprattutto quelle grandi e decisive, generano molti "resti", vari gruppi che pretendono di essere i veri custodi del primo patto, i garanti della prima alleanza, gli eredi del primo testamento. In questi conflitti identitari è probabile che ogni gruppo possieda alcuni elementi autentici del vero "resto"; ma non appena una minoranza inizia a rivendicare la primogenitura contro gli altri gruppi, i semi buoni cominciano a guastarsi.
Durante e dopo le crisi, fondamentale è infatti la capacità di non pretendere il monopolio dell’eredità, di saper convivere con altri che si rifanno allo stesso patrimonio. Perché una virtù importante di chi si sente onestamente parte del "resto" fedele sta nel saper convivere con altri che dicono cose molto diverse in nome della stessa eredità - inclusi imbroglioni e falsi profeti, che accompagnano sempre i profeti veri. Perché quando è un solo gruppo a sentirsi il legittimo proprietario della promessa e a essere riconosciuto da tutti come tale, è quasi certo che quel gruppo sia quello sbagliato. Lo spirito ama l’eccedenza e gli sprechi. L’eredità spirituale, come la verità, è sinfonica. Solo il tempo e la storia sanno separare il grano dalla zizzania, e nessun grano può essere sicuro prima dell’ultimo attimo di non essere zizzania. Si vive tra parole dette e parole da dire senza essere i padroni della verità delle une e delle altre. I dubbi sull’autenticità della propria vocazione ed elezione sono, paradossalmente, il primo segno di autenticità. C’è anche questa buona ignoranza nel repertorio umano.
Siamo arrivati al culmine dei Libri dei Re e della storia biblica. Ed ecco un nome che da solo dice moltissime cose, quasi tutto: Nabucodonosor. «Nei suoi giorni, Nabucodonosor, re di Babilonia, salì contro di lui e Ioiakìm gli fu sottomesso per tre anni, poi di nuovo si ribellò contro di lui. YHWH mandò contro di lui bande armate di Caldei, di Aramei, di Moabiti e di Ammoniti; le mandò in Giuda per annientarlo, secondo la parola che YHWH aveva pronunciato per mezzo dei suoi servi, i profeti» (2 Re 24,1-2). Le mandò in Giuda per annientarlo... Abbiamo immediatamente l’interpretazione di quanto il testo sta narrando. L’assedio di Gerusalemme, la distruzione del tempio, l’esilio in Babilonia, la fine del regno di Giuda, sono voluti da Dio, perché sono la conseguenza della violazione dell’Alleanza. Lo aveva detto per mezzo dei profeti, e ora quella parola si compie, per dirci la serietà della parola, il valore assoluto di una promessa, la radicale verità dell’alleanza.
Se un patto è vero, se la parola che lo crea pronunciandolo non è fumo e vanitas, allora deve essere vero tutto ciò che quella reciprocità essenziale implica. Un patto è un bene relazionale, è quindi fatto di reciprocità, che muore quando quella reciprocità viene meno. Allora la distruzione del tempio e la fine del regno sono inerenti alla verità dell’alleanza con Abramo e Mosè. E questa è una cosa davvero importante.
I Libri dei Re ci dicono che la fine era già iniziata nel momento in cui Salomone importò a Gerusalemme gli dèi stranieri. Molto suggestiva e forte è allora la scena della devastazione del tempio: «In quel tempo gli ufficiali di Nabucodonosor, re di Babilonia, salirono a Gerusalemme e la città fu assediata. Nabucodonosor giunse presso la città mentre i suoi ufficiali l’assediavano. Ioiachìn, re di Giuda, uscì incontro al re di Babilonia... Il re di Babilonia lo fece prigioniero nell’anno ottavo del suo regno. Asportò di là tutti i tesori del tempio di YHWH e i tesori della reggia; fece a pezzi tutti gli oggetti d’oro che Salomone, re d’Israele, aveva fatto nel tempio di YHWH, come aveva detto YHWH» (24,10-13). Come aveva detto YHWH: ancora la stessa tesi.
Con il bottino dei tesori del tempio e della reggia (forse un dato anacronistico, poiché questo episodio avvenne probabilmente dieci anni dopo, con la seconda deportazione durante la distruzione di Gerusalemme e del tempio), si chiude un lunghissimo ciclo durato secoli. La corruzione del cuore di Salomone e dei molti re che dopo di lui si sono succeduti, raggiunge ora il suo culmine, con l’asportazione di quel tesoro e "facendo a pezzi" gli oggetti.
La parola che conduce Nabucodonosor a Gerusalemme è la stessa parola della benedizione ingannata e irrevocabile di Isacco per Giacobbe, la stessa parola che creò la luce e l’Adam. Se è vero l’Adam, se sono vere le dieci parole, se è vera Betlemme, allora deve essere vero anche Nabucodonosor. È questa la verità tremenda, drammatica e stupenda della parola biblica, una parola che è vera perché è fedele fino alle conseguenze estreme della parola: «YHWH non volle usare indulgenza» (24,4). Anche questo è la parola biblica, anche qui sta la sua unicità, è anche questo il suo messaggio rivolto alle nostre parole.
Gli scribi che componevano questi capitoli ci volevano allora dire che quella distruzione conteneva la stessa verità dell’Alleanza e del Sinai. Nella Bibbia l’alleanza e i patti sono qualcosa di immenso, dal valore infinito che noi lettori del XXI secolo non capiamo più.
Nell’umanesimo biblico i patti umani hanno il loro fondamento in un meraviglioso e impensabile patto con Dio. Una religione dell’alleanza ha potuto fondare una cultura dell’alleanza che ancora, sebbene soffra, continua a sostenere la cultura occidentale. È stato anche per il valore di quel patto fondativo che abbiamo saputo dar vita ai matrimoni, alle imprese, alle cooperative, alle città e poi agli Stati nazionali e all’Unione Europea.
La religione dell’alleanza è la possibilità che i nostri "per sempre" possano essere veri mentre li pronunciamo nell’ignoranza del futuro; ma questa alleanza è anche la fonte del valore infinito della reciprocità nei patti.
Quando esco per l’ultima volta dalla porta di casa, ti dico che quel patto di reciprocità che avevamo fatto anni prima era vero, che non era fumo e vento.
Mentre vado via dico a me e a te la verità del primo patto e del tempo in cui sono restato. Certo, posso anche perdonarti e restare a casa - tanti, tante lo fanno ogni giorno, e risuscitano molti patti dai loro sepolcri -, ma ciò non toglie verità a quell’andare; anche se poi è la stessa Bibbia a dirci che quell’andare, sebbene vero, non è l’ultima parola perché "un resto tornerà".
L’interpretazione che quella comunità di redattori diede della distruzione di Gerusalemme, è allora qualcosa di straordinario e di essenziale. Di fronte alla tragedia, quegli scribi avrebbero potuto gridare l’abbandono, lamentarsi con YHWH per aver rinnegato l’alleanza. E invece scelsero di leggere quella terribile realtà nella fede, aggrappati alla corda-fides che li teneva legati al cielo, al loro passato, al futuro possibile e al "resto" che avrebbe continuato la storia. Quella lettura fu l’unica capace di salvare la loro fede e il loro popolo diverso, perché la vera alternativa che avevano era affermare che il loro Dio fosse solo un idolo, una vanitas come tutti gli altri. E invece salvarono la fede, salvarono la parola e l’alleanza, salvarono Dio. Come Giobbe.
Ecco perché la distruzione di Gerusalemme è veramente il cuore della Bibbia, il centro gravitazionale della sua fede e del suo umanesimo. Con ogni probabilità non avremmo la Bibbia, o l’avremmo totalmente diversa, se quella comunità di scribi, sacerdoti e profeti, schiantati dall’esilio, avesse scelto di salvare se stessa condannando Dio. Il "resto" potrà tornare e continuare la storia se teniamo viva la verità di quel primo patto assumendocene tutte le conseguenze.
L’esilio babilonese produsse una delle più grandi rivoluzioni religiose e etiche della storia dell’umanità. Lì, in quella terra straniera e idolatra, nacque il culto senza tempio, Dio non fu più prigioniero del suo territorio. E soprattutto terminò l’era dell’identificazione della verità con la vittoria, perché si capì che YHWH poteva restare vero anche se sconfitto, che le nostre verità possono essere vere anche se non vincono, che una vita può essere vera mentre muore.
Una innovazione antropologica e teologica decisiva, possibile perché quella comunità di scrittori-interpreti scelse la propria condanna religiosa per salvare la verità del Dio dell’alleanza e della promessa, per donarcela in eredità.
Insieme agli ori del tempio e della reggia, in questa prima deportazione (del 598-597) i babilonesi portarono via anche le élite militari, tecniche e intellettuali: «Deportò tutta Gerusalemme, cioè tutti i comandanti, tutti i combattenti, in numero di diecimila esuli, tutti i falegnami e i fabbri; non rimase che la gente povera della terra. Deportò a Babilonia il re Ioiachìn» (24,14-15).
Non rimase che la gente povera... Anche in questo racconto tragico riemerge la polemica dei "resti". Quella che scrisse o completò questo verso era una mano che apparteneva a quel gruppo (golà di deportati in Babilonia che si considerava il vero resto fedele. Così definisce "gente povera" i rimasti in patria, che in quanto poveri non potevano quindi pretendere lo status di eredi della promessa - come se l’essere poveri non fosse compatibile con l’abitare il Regno, con l’essere chiamati "beati".
Dentro queste pagine tragiche c’è infine un dettaglio che può passare inosservato: «Il re di Babilonia nominò re, al posto di Ioiachìn, Mattania suo zio, cambiandogli il nome in Sedecìa» (24,17). Il nuovo sovrano cambia nome al re da lui nominato. La stessa operazione l’avevano fatta qualche anno prima gli egiziani con il padre del re Ioiachìn: «Il faraone Necao nominò re Eliakìm, figlio di Giosia, al posto di Giosia, suo padre, cambiandogli il nome in Ioiakìm» (23,34).
È un’antica e sempre attuale abitudine dei padroni cambiare il nome ai loro sudditi. Quando un uomo o una donna ci cambia il nome, quel nuovo nome è sigillo di proprietà privata. Il Dio biblico non ci cambia il nome. Ci lascia il nostro, lo ama, vi legge la nostra vocazione, ed è con quel primo nome che ci sa chiamare: Samuele, Agar, Maria. E le poche volte in cui lo cambia (con Abramo, Sara, Giacobbe, Simone), è per indicarci un orizzonte o una vocazione ancora più liberi e larghi.
È difficile attraversare il mondo e terminare il viaggio con il nome con cui vi siamo giunti. Gli incontri e le ferite, mentre ci in-segnano il nome dell’altro, cercano fino alla fine non solo di ferire il nostro (cosa necessaria e in genere buona), ma di cambiarlo, di metterci il sigillo e da figli trasformarci in schiavi. Che possiamo custodire il nome del primo giorno per sentirlo pronunciare nell’ultimo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano (Fondazione Terra d’Otranto).
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
RIPARTIRE DA GRECCIO, DAL PRESEPE ... *
Papa. Francesco: «Domenica sarò a Greccio, vi invierò una lettera sul Presepe»
Domenica primo dicembre con l’avvio del tempo dell’Avvento il Papa invierà una lettera per far capire il significato del Presepe, da Greccio dove san Francesco diede vita al primo presepe vivente
di I.Sol. (Avvenire, mercoledì 27 novembre 2019)
"Domenica prossima inizierà il tempo liturgico dell’Avvento. Mi recherò a Greccio, per pregare nel posto" dove San Francesco realizzò il primo presepe "per inviare a tutto il popolo credente una lettera per capire il significato del presepio".
È l’annuncio di Papa Francesco al termine dell’udienza generale.
A GRECCIO IL PRIMO PRESEPE VIVENTE DELLA STORIA
Correva l’anno 1223 quando san Francesco d’Assisi scelse l’umile paese montano del alto Lazio di Greccio, affacciato sulla vasta conca reatina, per rievocare la nascita del Salvatore. La tradizione vuole che a far nascere nel mondo la prima idea di presepe vivente fosse sorta su intuizione del Poverello di Assisi con l’aiuto del nobile signore di Greccio Giovanni Velita. Secondo le agiografie, durante la Messa, sarebbe apparso nella culla un bambino in carne ed ossa, che Francesco prese in braccio. Da questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe.
La testimonianza di tutto questo ci arriva da un antica fonte come la "Legenda di san Francesco": «Come il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l’asino; e predicò sulla natività del Re povero». A simboleggiare ancora oggi questo episodio singolare e della vita del Poverello è il dipinto attribuito a Giotto "Il presepe di Greccio" (realizzato tra il 1295 e il 1299) che è la tredicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle "Storie di san Francesco" presenti nella Basilica superiore di Assisi.
Da allora, la tradizione si diffuse nel resto d’Italia e negli altri Paesi cristiani. Oggi, i presepi viventi sono organizzati pressoché in tutto il mondo occidentale cristiano, non solo cattolico, ma anche da parte di fedeli di altre Chiese.
Nella città laziale di Greccio ando a sorpresa anche papa Francesco nel gennaio 2016 proprio per visitare il luogo dove per la prima volta venne realizzato un presepe e per pregare al Santuario che custodisce la memoria di quel Natale 1223, in cui san Francesco volle «vedere con gli occhi del corpo» la povertà del Bambino di Betlemme.
IL VIDEO DELLA VISITA NEL 2016 DEL PAPA A GRECCIO
Video
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"DUE SOLI": COME MARIA, COSI’ GIUSEPPE!!!
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VENTICINQUE SECOLI DI LETARGO ... *
Il libro di tutti i libri di Roberto Calasso
di Emanuele Zoppellari Perale (il Tascabile, 26.11.2019)
Due anni fa Roberto Calasso diagnosticò la condizione che viviamo come “l’innominabile attuale”, predominio del pensiero secolare e dei suoi limiti a scapito del sacro. Il libro di tutti i libri si muove, in direzione contraria, verso le storie che compongono l’Antico Testamento.
Già ne L’innominabile attuale l’autore sembrava voler parlare “a chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione - o, più precisamente, la superstizione - della società”. Ora, in un continente di templi vuoti e storie deboli, Calasso torna a quelle storie forti che per millenni hanno riempito i templi. Muovendosi da questa prospettiva, Il libro di tutti i libri segue con coerenza i fili del discorso che il suo autore è andato intessendo da quasi quarant’anni: il mito ( Le nozze di Cadmo e Armonia ; Ka), il sacrificio (L’ardore), l’elezione (K.), il passaggio dalla dieta frugivora all’imitazione dei carnivori (Il cacciatore celeste).
Ma il suo campo d’indagine, questa volta, è tra i più enigmatici. La Bibbia, ineguagliata per clamorose omissioni e contraddizioni inspiegabili, resta infinita, tuttora ineludibile e sconvolgente. Di fronte alle sue storie, i “secoli contati” che E.M. Cioran attribuiva al cristianesimo e al religioso in generale parrebbero ancora lontani. Non a torto Goethe lo definì, appunto, “il libro di tutti i libri”, da cui qualsiasi altro parte per poi tornarvi, e nella cui lettura, dedalo iniziatico, invitava a perdersi e ritrovarsi di continuo.
Le nozze di Cadmo e Armonia si apre con una frase di Sallustio, “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”, valida anche in questo caso. Lo sguardo di Calasso non è insensibile alla filologia - come altrimenti affrontare un libro composto da una collezione di testi ebraici arrivataci passando tramite il greco dei Settanta al latino della Vulgata fino al volgare in cui la leggiamo? - e ciononostante evita di rimanere invischiato nella pedante miopia di erudizione e accademismo. Tiene conto, altresì, del dato storico: gli Ebrei rientrati a Canaan dall’Egitto non sconfissero davvero Gerico - dicono gli archeologi - ma la trovarono già distrutta, e la vicenda di Mosè non ha riscontro in fonti esterne alla Bibbia, tanto da metterne in dubbio l’esistenza stessa. Importa poco: non si tratta di una ricostruzione storica di fatti accertati. Qui è il racconto a parlare, ed è al sapore massimo di ogni sua parola che si rivolge l’attenzione come metodo critico - persino e soprattutto nei suoi interstizi, nei suoi punti di rottura, nelle pieghe del testo e in ciò che implicano o presuppongono, in ciò che la narrazione omette, o ripete ossessivamente.
La lettura della Bibbia secondo Calasso è a sua volta un invito a rileggere la Bibbia al di là o a prescindere dalle sue innumeri interpretazioni, seguendone il mŷthos e considerandola un intreccio favoloso e unitario (la “fiaba delle fiabe” di Cristina Campo), una biblioteca sterminata ma essenzialmente coesa in cui tutte le storie sono “sinottiche e simultanee” e tutti i versetti collegati a ciascun altro versetto, perché ogni cosa è sullo stesso piano.
Si pensi che di frequente nel testo ebraico i periodi si aprono con la congiunzione vav, spesso tradotta “così”, che meglio corrisponderebbe al nostro “e”. È il potere della paratassi: permette di dire, non di spiegare. E la Bibbia, più che spiegare, capire o consolare, vuole raccontare.
E che cosa racconta questa storia, che secondo una tradizione ebraica il suo autore, il Dio Iahvè, avrebbe avuto come figlia unica e amatissima all’alba di ogni tempo, e che avrebbe dondolato sulle ginocchia, prima di donarla a Mosè e al suo popolo, purché questo non dimenticasse mai di riservargli uno spazio? Ebbene, racconta principalmente di eletti.
L’elezione è un avvenimento innaturale, un sovvertimento dell’ordine delle cose. La storia che Dio vuole scrivere supera, ribalta e nega la legge naturale di necessità con cui si svolgono ordinariamente le cose - legge che, tuttavia, Dio stesso ha creato. È un paradosso che la Bibbia enuncia in più punti, ma a cui saggiamente non intende fornire una spiegazione.
Innanzitutto, coloro che Iahvè sceglie, coloro che riempie di grazia, non sono necessariamente - anzi, non sono pressoché mai - scelti per merito. Il caso del patriarca Abramo è paradigmatico: in 75 anni, scrive Calasso,
non aveva fatto altro che seguire il padre. Nulla lo distingueva, se non aver sposato una donna molto bella, senza averne avuto figli. E ancora viveva al seguito del padre [...] Abramo non era re né sacerdote [né] capofamiglia. E non si faceva notare neppure per devozione. Ma soltanto Abramo fu scelto da Iahvè.
O si prenda suo nipote Giacobbe. Aveva raggirato il fratello Esaù, aveva ingannato il padre Isacco per ottenere la sua benedizione, aveva truffato e mentito per avere ciò che desiderava da chiunque avesse incontrato e se l’era sempre cavata, col sotterfugio o con la fuga. Eppure è l’unico, in tutta la Bibbia, a cui si spalancano le porte dell’invisibile, nella forma di una scala che sale ai cieli.
Né Abele, né Isacco, né Giacobbe, né Giuseppe, né Salomone furono primogeniti, mentre nel loro mondo la primogenitura - fatto naturale e indelebile - garantiva un vantaggio e un onore perpetui. Iahvè stesso volle per Sé i primogeniti, per esempio quando li reclamò con l’ultima piaga d’Egitto, la più letale. E ciononostante, i Suoi protagonisti non sono primogeniti, anzi, scavalcano il diritto naturale stabilito dalla primogenitura. La legge a cui obbediscono, o meglio, la legge che li ha scelti, si beffa della legge di necessità che vincola questo mondo. La loro legge è di quell’altro, ed è la grazia. Gli ultimi saranno i primi, si è detto in seguito.
Non la legge di natura, dunque, ma nemmeno l’ordine stabilito da opere e meriti. Qual è infatti il merito di Abele, che sacrificò gli animali, rispetto al demerito di Caino, che sacrificò i frutti della terra? Quale il merito di Sem, figlio di Noè e progenitore degli Ebrei, rispetto al demerito di suo fratello Iafeth, presumibilmente un giusto, che tuttavia non fu scelto? Regna soltanto il puro arbitrio di Dio, cui Abramo dovette obbedire quando gli venne chiesto di sacrificare il figlio Isacco, benché gli fosse stato promesso che proprio tramite Isacco sarebbe passata la sua infinita stirpe. Qui sta la “differenza irriducibile” della Bibbia: è una storia che, prima di ogni altra cosa, non segue leggi a noi comprensibili.
Per questo essere ‘scelti’ è quanto di più terrificante possa avvenire, poiché l’elezione determina l’esclusione dell’ordine naturale delle cose e l’appartenenza esclusiva all’invisibile. La Bibbia parla di “terrore dell’elezione”. Essere scelti significa che la propria storia non è più soltanto propria: è essenzialmente di Dio, e tramite essa passa una storia più grande, insondabile, i cui limiti si estendono oltre il tempo e lo spazio, oltre qualsiasi nostra capacità di pensare una storia.
“Se la grazia agisse soltanto come favore e non come condanna” - si legge nel libro -, se non persistesse inspiegato “il mistero della fortuna dei malvagi e delle sofferenze dei giusti”, vivremmo un mondo
La Bibbia di Calasso racconta precisamente quest’altra macchina, che ci lascia nello sconcerto come un roveto che arde senza consumarsi, e di fronte alla quale il mondo secolare e scientifico impallidisce.
Saul, per esempio, sapeva bene che essere eletti non significa avere il favore di Iahvè. Un giorno suo padre l’aveva mandato a cercare due asine smarrite. Persosi lungo la strada, aveva incontrato Samuele, un “veggente”. Questi certo poteva mostrargli la via di casa, e invece scelse di rivelargli che era destinato a diventare il primo re d’Israele. “Il caso e il destino stavano per sovrapporsi in lui” commenta Calasso. “Opprimente saldatura. Non avrebbe più respirato senza pensare a niente, come quando camminava per sentieri sconosciuti alla ricerca delle asine del padre, annoiato, distratto. [...] Ormai nulla di simile sarebbe accaduto nella sua vita”. La sua storia non era più la sua. Serviva a una storia più grande, in cui lui doveva addirittura interpretare una parte negativa.
La Bibbia non tace che sia una sensazione tremenda, e afferma inoltre che vivere come eletti sotto lo sguardo perenne di Dio sia la massima oppressione. È la condanna e il privilegio del popolo ebraico, ed è ciò che più di tutto lamenta Giobbe, a cui l’incessante attenzione divina toglie il fiato. Kafka una volta
Anche ciò che è sacro oscilla tra ciò che deve essere preservato e ciò che viene allontanato o, come suggerisce la parola stessa, sacrificato. L’essere sacro è l’essere eletto, auratico e inestimabile (“The temple is holy” dice il Canto XCVII di Ezra Pound “because it is not for sale”). “Comune a tutti i significati della consacrazione è che un essere vivente o un oggetto vengono sottratti all’uso e alla vita comune. L’invisibile li investe [...] non appartengono più a se stessi, perdono ogni pretesa di autosufficienza. È il contrario di ciò che accade nel mondo secolare”. Dopotutto, se non si riconosce l’invisibile, nulla più può essere fatto sacro.
Questa storia di eletti che Iahvè scrive nel mondo si serve di due meccanismi: il divieto e la sua infrazione. E il primo a infrangere i divieti divini è Iahvè stesso. Il più grande nemico di idoli e tentativi di rappresentare il divino creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, come il primo di tutti gli idoli. A Davide non perdonò mai di aver mandato Uria a morire in guerra per prendere sua moglie Betsabea, eppure è da Betsabea che nacque Salomone, ed è da Salomone che passa la genealogia da cui venne, un giorno, Gesù. Dio proibisce e condanna, ma la storia che vuole raccontare necessita del male e della trasgressione, e questo, dalla nostra prospettiva, pare inaccettabile.
Perché Dio dovrebbe operare contro Se stesso e la propria parola? Forse perché, su questa via né regolare né “aequa” (così nella Vulgata), non potevano esserci “una necessità, un calcolo, una misura, che escludessero i suoi interventi fulminei e devastanti - o altrimenti salvifici - sulla terra. Non potevano esserci storie, ma una storia: la storia”, racconto che viola le regole umane e persino le regole divine accessibili all’essere umano.
Sta qui il nesso per comprendere quello che è forse il passaggio più sconvolgente della Bibbia, ossia, tra Antico e Nuovo Testamento, il superamento dell’ordine sacrificale col sacrifico unico di Dio a Dio stesso. In precedenza, nel Tempio di Gerusalemme e prima ancora, il sacrificio riscattava la vita con la vita. “Ciò che faceva [...] di quei quadrupedi l’unico oggetto regolare delle offerte era [il fatto che erano] vivi. Se il debito era la vita, non poteva essere saldato se non con altra vita. Sempre insufficiente, certo. Perciò gli olocausti andavano ripetuti”.
Poi, secondo il racconto, qualcosa avvenne per cui non sarebbe più stato necessario sacrificare, e il sangue di un unico eletto, questa volta un “essere divino”, sarebbe bastato per l’eternità. Ma così facendo la salvezza contraddiceva o quantomeno abrogava le ancestrali leggi della Tōrāh sulla necessità del sacrificio. E ancor più sconvolgente è il fatto, ben compreso da Simone Weil, che l’“Agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?”. Nell’allusione al Nuovo Testamento, che rimane distante, oggetto - forse - di un’opera futura, Il libro di tutti libri si muove all’ombra di questa domanda impervia e scandalosa, la domanda delle domande, incapace di risposta e per questo in grado di far tremare l’innominabile attuale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Antichi Ritorni
Cenis/Ceneo, quando uno stupro cancella l’identità
Oltraggiata dal dio Poseidone la fanciulla chiede di diventare uomo
di Alba Subrizio (il Mattino di Puglia e Basilicata, 10/09/2017)
La prima trasformazione female-to-male ma soprattutto il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita. Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Per cancellare quel dolore, Cenis ha bisogno di ripudiare se stessa, divenendo altro...
Lungi da me l’idea di fare politica, non posso tacere in merito agli stupri perpetrati nelle ultime settimane in tutta Italia e allo scempio mediatico a cui le vittime sono state sottoposte. In una società come la nostra, quasi assuefatta ai crimini della peggior specie (sic!), sembra che il ‘delitto’ commesso passi in secondo piano, il dolore, la vergogna subita, sono cose che non vogliamo vedere o che forse non ci interessano; ciò che invece interessa è sapere chi ha compiuto il misfatto: l’immigrato, l’italiano, il carabiniere finanche...
Soprattutto sui social network - ormai divenuti sempre più luogo di sfogo di personali frustrazioni da parte di individui che diversamente non saprebbero come esistere - leggo commenti insulsi, a dir poco da far accapponare la pelle: dopo i fatti di Firenze c’è chi inneggiava che a commettere l’abominio fossero stati esponenti dell’Arma (inneggiare sì, come se fosse una bella cosa, l’importante è che non fossero ancora una volta accusati cittadini extracomunitari); d’altra parte in seguito ai fatti di Rimini leggo gente “tutta contenta” utilizzare gli avvenimenti a sostegno delle loro teorie xenofobe... e poi numeri e numeri. Come se tutto ciò fosse un gioco: un gioco a calcolare quale ‘parte’ in gara ha compiuto più stupri.
Da questo quadro emerge solo un dato di fatto: il popolo italiano, di qualunque colore politico, ha perso ormai il senno. Ahinoi, non possiamo dire che i nostri antenati latini fossero poi così diversi; basti rileggere i miti antichi per accorgersi da quanti stupri e violenze sono disseminate queste storie: piccoli particolari senza valore all’interno di Storie ben più grandi, ben più importanti.
A convalida di ciò, si pensi solo a Zeus ed Apollo (i campioni dello stupro) per non parlare di altre divinità. Eh già, perché nell’antica Grecia i maggiori artefici di violenze erano gli dèi, proprio quelli che avrebbero dovuto proteggere gli uomini. Tra i tanti miti me ne viene in mente uno che, sebbene sconosciuto ai più, mi ha attratto per la forza delle immagini.
C’era una volta Cenis, una delle donne più belle di tutta la Tessaglia; nonostante decine e decine fossero i suoi pretendenti, lei non voleva concedersi e preferiva godere spensierata della sua fanciullezza. Ma un giorno, mentre passeggiava sulle rive del mare, il dio Poseidone, desiderandola, le usò violenza.
Dopo aver goduto di lei - così narra il poeta latino Ovidio nelle sue “Metamorfosi” - le disse che avrebbe realizzato per Cenis ogni suo desiderio. Così ella rispose: «L’ingiuria che ho patito provoca in me un desiderio grande: quello di non dover subire mai più alcunché di simile. Se farai in modo che io non sia più donna, mi avrai completamente accontentato». Fu così che il dio del mare trasformò Cenis in Ceneo.
Il mito non è una semplice metamorfosi come le altre: innanzitutto è la prima volta nella letteratura mondiale che leggiamo di una donna che diventa uomo (la prima trasformazione female-to-male), ma soprattutto è il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita.
Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Scioccamente (da buon maschione) il dio crede di rimediare offrendo un dono, ma nulla può cancellare ciò che è stato. Lo sa bene Cenis, che pertanto, per cancellare quel dolore, ha bisogno di cancellare e ripudiare se stessa, divenendo altro.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
PIANETA TERRA: LA NAVE D’ARGO, IL LETARGO DI "VENTICINQUE SECOLI" DI DANTE, E NOI, OGGI .... *
La nave dei folli
di Pietro Barbetta *
Una gita a Clusone e una a Pinzolo non guastano. La danza macabra di Borlone de Buschis di Clusone (1485) e quella di Simone Baschenis di Pinzolo (1539) segnano forse l’inizio e la fine di un periodo di comunità inconfessabile (Blanchot, 1983). Inconfessabile perché composta di trapassati, che, in quanto tali, già sono passati in giudicato, ingiudicabili. In molti accomunano questa comunità a un’altra, che potrebbe essere anche la medesima, chissà. Si tratta della Stultifera Navis. -Cos’hanno in comune gli stolti e i morti? Il semplice fatto di non essere confessabili. Gli uni per il regno dei cieli, gli altri per la terra, sono inguaribili. Bosch e le illustrazioni a Brant di Dürer ne danno rappresentazione figurativa. Ecco una figura chiave, il centro del primo capitolo, della prima parte della Storia della follia di Foucault: Sebastian Brant (1458-1521). Vissuto tra l’opera del de Buschis e quella del Baschenis. Nel giugno 1984 Francesco Saba Sardi (1922-2012) ci regalò, in versi endecasillabi, la traduzione di Das Narrenschiff.
Narrenschiff uscì per la prima volta nel 1494, due anni dopo la scoperta dell’America. Prima di Brant abbiamo alcune opere importanti sull’argomento a partire dal 1360. Si immagina una sorta di confraternita delle persone strambe - le sole che possano esservi ammesse. Corporazione non chiusa per via di censo, particolari privilegi o saperi occulti. Bisognava essere, per esempio, un vescovo che aveva ipotecato il reddito per comprare il titolo religioso, un alchimista che aveva sciolto nel crogiolo le sue ricchezze.
La follia è ingiudicabile altrettanto quanto la morte, inguaribile. Questa caratteristica segna una linea di confine comunitaria, la nave è uno dei suoi contenitori. A quel tempo - successivo alla lebbra e alla peste, coevo di una nuova malattia giunta dalle Americhe, la sifilide - i folli venivano allontanati dalle città, imbarcati su navi per essere abbandonati altrove, ma il navigatore spesso le gettava a mare o le sbarcava in qualche landa desolata, dove morivano. Molti annegavano. Non è difficile immaginarlo oggi che abbiamo sotto gli occhi le immagini di uomini e donne morti alla deriva delle coste italiane. Unica differenza: allora giungevano dove nessuno stava, oggi invece si torce il collo altrove.
Gran satira grottesca o poema moralista? L’opera di Sabstian Brant ci lascia ancora nel dubbio. Quando Foucault ci parla della Stultifera Navis, qualunque opera scritta o figurativa ci venga in mente, dà un senso a quell’insieme indistinto di uomini e donne che ci entravano. Foucault distingue questo ammasso indifferenziato dalla follia così come viene identificata a partire dal secolo XVIII. Dal Settecento la follia diventerà regno del dominio medico, verrà diagnosticata e sistematicamente curata.
La nave dei folli non è che l’inizio di un processo che vedrà successive partizioni, da Erasmo fino a Pinel; è un crogiolo umano, un pleroma. Per alcuni Brant si confronta con l’avvento del Nuovo Mondo. La nave dei folli richiama le navi che iniziano a salpare verso le Americhe, fino al Seicento con la Mayflower, carica di puritani. Nave che navigò la luna, secondo i versi di Paul Simon. Anche loro inconfessabili, in quanto protestanti, spirito del capitalismo.
Brant sarebbe il primo progressista dell’epoca moderna, sguardo disincantato verso il futuro imminente e immanente, fiducia nella città come luogo dell’innovazione e, per via dei commerci, luogo d’incontro multiculturale. La città è il centro dove ogni superstizione, credenza, invidia, odio saranno eliminati. Brant progressista. Invero sulla nave - destinata a Narragonia, che si dirige verso Cuccagna - non ci sono solo i folli contemporanei, bensì usurai, giocatori d’azzardo, adulteri, viziosi, prodighi, invidiosi, voluttuosi, ingrati, spergiuri, bestemmiatori. Tutta la follia premoderna raccolta dentro questa nave autorganizzata, autosufficiente, autopoietica. Brant moralista.
A voler ben guardare, la maggioranza del testo elenca, tra l’altro, la cupidigia, le nuove mode, il retto Catechismo, gli istigatori di discordia, le male costumanze, il dispregio delle Scritture, i galanti, la crapula e la gozzoviglia, le ciarle, i desideri superflui, gli studi inutili, le procrastinazioni, l’adulterio, la presunzione, la voluttà, l’ingratitudine, la bestemmia, l’usura.
Come scritto, Albrecht Dürer illustra l’opera di Brant e Bosch crea una sua opera, sempre nel 1494. Nel frattempo altre comunità inconfessabili si muovono per via terrena, gli Ebrei, cacciati da Spagna e Portogallo, i Valdesi perseguitati ed erranti tra le valli montane fino alla Riforma.
Quanto l’opera si adatti all’ultimo ventennio, quanto sia attuale, quanto si stia trasformando nella Nemesi, lo vediamo dal momento in cui l’Europa è essa stessa, oggi, una nave di folli. Ci si aspetta solo un grande evento naturale, il distacco dagli Urali.
* Doppiozero, 27.02.2013 - ripresa parziale, senza immagini.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LETTERATURA, FILOLOGIA, E POESIA DELLA CAVERNA. Ognuno riconosce i suoi...
APPUNTI SUL TEMA. Con "Ulisse" - al di là della "dialettica dell’illuminismo" e della "dialettica della liberazione", per una "seconda rivoluzione copernicana" (T. W. Adorno)! Si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE;
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico;
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica;
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 - E DELL ’89.
Federico La Sala
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Famiglie Reali
Nozze da sogno: l’ultimo dei Bonaparte sposa la sua contessa austriaca
Jean-Christophe Napoleone Bonaparte e la contessa Olympia von und zu Arco-Zinneberg pronunceranno il fatidico “sì” sabato 19 ottobre a Parigi, in un’unione che ricorda quella dell’Empereur Bonaparte e Maria Luisa d’Austria, celebrata due secoli fa. Ecco quello che sappiamo fino ad ora di un matrimonio che si preannuncia principesco
di Emily Stefania Coscione (Corriere della Sera, Io Donna, 18 ottobre 2019)
Duecento anni dopo la storia si ripete: un Bonaparte sposa una nobile austriaca. Ma a differenza di Napoleone che, nel 1810, sposò l’arciduchessa austriaca Maria Luisa per assicurarsi un alleato nella guerra contro russi e inglesi, Jean-Christophe Napoleone Bonaparte, suo discendente, e la contessa Olympia von und zu Arco-Zinneberg, pronipote dell’ultimo imperatore d’Austria e dell’imperatrice Zita, ci tengono ad assicurare: loro si sposano per amore e non per motivazioni politiche.
Un principe dell’era moderna
Nonostante la coppia risieda da anni a Londra, le nozze da fiaba saranno celebrate sabato 19 ottobre nella cattedrale di Les Invalides, a Parigi, dove riposano i resti dello stesso Napoleone. Orgoglioso del suo retaggio e dei suoi doveri nei confronti del paese che gli ha dato i natali, l’affascinante Jean-Christophe - 33 anni, quasi due metri di altezza e una laurea in Economia presso la Harvard Business School - è definito dalla stampa francese un “principe dell’era moderna” e lavora nella City londinese per il gruppo finanziario Blackstone.
Pronipote di Girolamo, fratello di Napoleone, dal lato materno discende invece da Luigi XIV di Francia, il Re Sole, ed è anche pronipote della principessa Clementina di Belgio, figlia di re Leopoldo II. Il nonno Louis Bonaparte aveva espresso nel suo testamento il desiderio di passare direttamente al nipote il titolo di Capo della Casa Imperiale di Francia, in quanto il figlio primogenito Charles, padre di Jean-Christophe, è un repubblicano. E il giovane ci tiene a rappresentare la propria famiglia su una piattaforma globale, partecipando alle commemorazioni annuali per l’anniversario della morte del famoso avo.
Le coincidenze storiche di un vero amore
Olympia, 31, non è da meno. Nata a Monaco e cresciuta a New York, la giovane è figlia dell’arciduchessa austriaca Maria Beatrice d’Asburgo e del conte Riprand von Arco-Zinneberg, e vanta un bisnonno importante, Carlo I, ultimo imperatore austriaco. Ma è anche una discendente di Ferdinando VII, cosa che le concede un remoto diritto di successione al trono di Spagna. Ha conosciuto Jean-Christophe durante gli studi di Scienze Politiche presso l’università di Yale e a unirli è anche una parentela distante: Olympia, infatti, è una pronipote della moglie di Napoleone, Maria Luisa d’Austria, oltre che nipote del principe Lorenzo di Belgio.
Tuttavia, anche se lo scorso maggio, all’annuncio delle nozze su Le Figaro, Jean-Christophe ha definito l’unione «frutto della riconciliazione e ricostruzione europea», il principe e la contessa ridono di quelle che definiscono pure coincidenze storiche: «La nostra è una storia d’amore, non un’allusione alla storia» ha spiegato il principe in una recente intervista. «Quando ho incontrato Olympia, l’ho guardata negli occhi, non ho fatto caso al suo albero genealogico».
Un anello da un milione di euro
Jean-Christophe racconta di aver chiesto alla sua anima gemella di sposarlo durante una vacanza a Prangins, in Svizzera, nella casa dei nonni di lui, complice una romantica passeggiata in una foresta sul lago di Ginevra: «Davvero un bel momento - ha ricordato il principe - con la neve che cadeva sull’acqua». E per l’occasione ha scelto un anello di fidanzamento di particolare prestigio, con un diamante di 40 carati estratto dalla corona dell’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III. La scorsa primavera il gioiello, il cui valore è stimato intorno al milione di euro, ha fatto notizia anche a causa di un furto a Parigi: lasciato in borsa sul sedile della Mercedes della contessa, parcheggiata davanti un albergo del VI arrondissement, e rubato da un ladro che ha poi cercato invano di vederlo, fortunatamente è stato recuperato dalla polizia ed è tornato al dito di Olympia, che ha potuto quindi concentrarsi sull’organizzazione delle nozze.
Un futuro politico per l’erede di Napoleone
Nell’alta società parigina si continua a speculare su un possibile trasferimento della coppia nella capitale francese subito dopo le nozze. L’evento sta, infatti, facendo sognare i bonapartisti, che considerano l’unione un’occasione unicoa in cui far rivivere i fasti dell’era napoleonica. Ai loro occhi Jean-Christophe, vero erede di Napoleone, è un eroe e stanno facendo di tutto per spingerlo a entrare nel mondo della politica francese, convinti che il solo nome possa ispirare le nuove generazioni. Ma Jean-Christophe non si è lasciato tentare, dicendo che ci penserà in futuro. E per ora non ha alcuna intenzione di lasciare Londra.
IL "POLEMOS" DI ERACLITO, "LA SANTA VIOLENZA" DEL CARDINALE RAVASI, E IL "PADRE NOSTRO" ("CHARITAS") DEL MESSAGGIO EVANGELICO....*
Il nuovo libro di Ravasi.
Quando il sacro fa i conti con la violenza
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, sembra essere il basso continuo della storia umana: la Bibbia non ignora questa realtà, fino al radicale rovesciamento operato da Cristo
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, giovedì 17 ottobre 2019)
Sembra una ripresa cinematografica; è, invece, la descrizione di un poeta ebreo, il profeta Nahum, che nel 612 a.C. sta “sceneggiando” quasi in presa diretta la caduta di Ninive, la detestata capitale della superpotenza orientale, l’Assiria, sotto l’irruzione congiunta di Ciassare, re dei Medi, e di Nabopolassar, re della dinastia neobabilonese. Ecco la scena affidata a una sequenza impressionistica di azioni militari, costruita sulla secchezza di un elenco: «Sibilo di frusta, fracasso di ruote, scalpitìo di cavalli, cigolìo di carri, cavalieri incalzanti, lampeggiare di spade, scintillare di lance, feriti in quantità, cumuli di morti, cadaveri senza fine, s’inciampa nei cadaveri». Le pagine dell’Antico Testamento sono spesso striate dal sangue delle battaglie e si affacciano su rovine e devastazioni causate da eventi bellici. Una lingua lessicalmente povera come l’ebraico classico (5.750 vocaboli in tutto) si mostra sorprendentemente ricca quando deve designare la violenza
Tanto per esemplificare, ecco la radice hms «fare violenza» (donde hamas «violenza»), o šddhrm «sterminare » (donde herem, la strage sacra), hrg «uccidere», rsh «assassinare», ‘nh «violentare, opprimere», hrs «distruggere », lhm «combattere » (donde milhamah «guerra»), nqm «vendicare», mhs «abbattere, fracassare», šht «mandare in rovina» e altri ancora.
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, che per altro sembrano essere il basso continuo della storia umana, come pessimisticamente dichiarava Eraclito nel suo frammento 53: «La guerra (pólemos) è madre di tutte le cose e di tutte la regina (basiléus). Gli uni rende dèi, gli altri uomini; gli uni fa schiavi, gli altri liberi».
Anche il Nuovo Testamento, che pure inalbera il vessillo dell’amore ed eredita l’aspirazione messianica biblica allo shalôm «pace», non ignora questa realtà aspra che costella le strade della vita dei popoli.
Lo stesso Gesù, ad esempio, ricorrerà a un modello di strategia militare applicandolo all’esistenza cristiana da vivere con intelligenza e sapienza: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per chiedere pace».
La scelta radicale per il Regno di Dio, vero Leitmotiv della predicazione di Cristo, sarà da lui espressa con una dichiarazione paradossale, anche se evidentemente metaforica per indicare la natura “esplosiva” del suo messaggio: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» [...].
È indubbio che, sia a livello biblico sia nella storia della cristianità, questo intreccio tra guerra e religione è paradossalmente forte. Per stare alla Bibbia, basti solo pensare alle stragi sante - il cosiddetto herem o «sterminio sacro» - che accompagnano la conquista della Terra pro- messa da parte del popolo ebraico, oppure alle centinaia di testi violenti presenti nelle Scritture e alla stessa simbologia bellica usata per rappresentare il «Dio degli eserciti» (che, però, era originariamente un rimando all’armata astrale del Creatore, anche se poi applicata alle battaglie di Israele col palladio dell’Arca santa) [...]. Ci sono alcuni elementi di natura ermeneutica che dovremo costantemente ribadire [...]. Innanzitutto è da sottolineare la qualità storica della Rivelazione ebraico-cristiana, che nella Bibbia si presenta non come un’astratta serie di tesi teologiche speculative ma appunto come una concreta «storia di salvezza». All’interno degli eventi umani, spesso segnati dal peccato, dall’ingiustizia, dalla violenza, dal male, passa la presenza e l’opera di Dio che progressivamente e pazientemente cerca di condurre l’umanità verso un livello più puro, giusto e pacifico di vita. Il vertice è proprio - tenendo conto dell’unità «canonica » (cioè nell’unico Canone cristiano) dei due Testamenti - nella proclamazione: «Beati gli operatori di pace», formulata secondo lo spirito della citata «pace» messianica anticotestamentaria. La stessa tradizione giudaica successiva con rabbì Meir di Gher dichiarerà che «Dio non ha creato nulla di più bello della pace» [...].
Gesù, poi, nella sua proposta procederà fino alla scelta radicale dell’amore per il nemico così da trasformare quasi l’hostis in hospes e da introdurre il principio della non-violenza: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano».
L’apostolo Paolo, in un passo della Lettera agli Efesini, ove elenca una completa attrezzatura militare (cinturone, corazza, calzature, scudo, frecce, elmo, spada), la trasfigura in una simbologia spirituale: «Attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace; afferrando lo scudo della fede col quale si possono spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno, prendendo l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio». Introduce, dunque, nel cuore dell’apparato militare, evocato già in chiave metaforica, il «vangelo della pace» come meta da raggiungere. Egli parla per due volte della panoplía, cioè dell’«armatura » di Dio che non è aggressiva contro gli altri ma solo contro il male diabolico: «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo [...]. Prendete l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Popper Lynkeus. Chi era costui?*
Popper-Lynkeus, la vista lunga di un «ingegnere sociale»
Dai cavi elettrici all’elicottero, dalla psicanalisi a una sorta di comunismo liberale. Idee profetiche del grande austriaco
di Daniele Abbiati (Il Giornale - Ven, 22/12/2017)
Era un intellettuale a tutto tondo, poliedrico e dai mille interessi. E lo era grazie al suo essere quadrato, irreggimentato nella disciplina di uno studio matto e disperatissimo come quello di Giacomo Leopardi che lo portò a laurearsi ventunenne in Ingegneria al Politecnico di Vienna.
Vedeva lontano, tanto da auto-soprannominarsi Lynkeus, come l’argonauta dall’occhio acutissimo che penetrava i muri. Ma era strabico. Si definiva un «realista». Ma ammantava la sua fame di tecnologia e di scienza con scorribande nelle fantasie spesso veicolate dai sogni.
Josef Popper, nato a Kolín, nell’attuale Repubblica Ceca, da una famiglia ebraica di ceto modesto, il 21 febbraio 1838 e morto a Vienna il 22 dicembre 1921 era molto più che lo zio di Karl Popper, anche se pure lui desiderava una «società aperta», anzi spalancata alle libertà individuali, a patto che fossero inserite nel contesto di un welfare che oggi potremmo definire più che scandinavo.
In ordine crescente, ecco il campionario delle sue idee geniali. Nel 1862 invia all’Accademia delle Scienze di Vienna un progetto per trasportare l’elettricità tramite cavi che però finisce in un cestino (sarà il francese Marcel Deprez, vent’anni dopo, a mettere in pratica ciò che il Nostro aveva preconizzato in anticipo); poi, essendo stato assunto come precettore del figlio da un industriale dello zucchero, con suo fratello brevetta un nuovo tipo di caldaia per l’estrazione dello zucchero (ne ricava un corposo gruzzolo da cui attingerà fin quasi alla tomba); quindi fa studi di termodinamica, di aeronautica (nel 1880 ipotizza, primo al mondo, la realizzazione di «ali rotanti» per il volo, da cui discenderà l’elicottero); e nel 1884, un bel pezzo dopo aver frequentato le lezioni universitarie di Ernst Mach, comincia a interrogarsi sulle relazioni fra materia ed energia, potenzialmente anticipando la relatività di Einstein.
Tuttavia, lui si considerava in primo luogo un «ingegnere sociale». E proprio a questo campo, quello della tecnica al servizio della politica (o viceversa) appartiene il suo capolavoro: il comunismo liberale. Il ragionamento è semplice: al posto del servizio militare obbligatorio (che deve divenire invece volontario) lo Stato, che ha l’obbligo di nutrire, vestire e fornire di un’abitazione chiunque viva sotto la sua autorità, deve istituire un «servizio alimentare universale» per cui tutti i cittadini lavorano, in un periodo dell’anno, per assicurare ai meno fortunati i beni di prima necessità. Dopo di che, una volta fornito a tutti un livello minimo di benessere, l’impresa privata sarà non soltanto tollerata, ma addirittura caldeggiata, onde produrre ricchezza.
Naturalmente il saggio Die allgemeine Nährpflicht, datato 1912, rimase lettera morta, e il riformismo del quadrato Popper-Lynkeus che in linea teorica avrebbe potuto essere la quadratura del cerchio in tema di politiche sociali, oltre che l’inizio di una rinascita post-absburgica, divenne un pezzo da museo o da polverosa biblioteca. Insomma, rimase un sogno.
E, a proposito di sogni, ecco l’ultima genialata di Popper-Lynkeus: l’interpretazione dei sogni. Trattandosi di un viennese contemporaneo di Freud (ma i due non si incontrarono mai) la domanda è d’obbligo: ci è arrivato prima il Nostro oppure herr Doktor? Sta di fatto che L’interpretazione dei sogni di Freud uscì nel 1899, come pure la raccolta di racconti di Popper-Lynkeus Fantasie di un realista (tre dei quali pubblicati ora da Via del Vento in Sogno come veglia, prima edizione italiana di scritti di questo autore), dove i sogni e la loro interpretazione in chiave razionalistica che ne smaschera la «censura» sono appunto il tema centrale di una prosa che ha indotto Jean Starobinski a parlare di Popper-Lynkeus come di un «doganiere Rousseau della letteratura».
Ma sta anche di fatto che Freud, non potendo accusare l’altro di plagio, chiuse la questione così, in un saggio del 1923: «Io credo che ciò che mi ha reso capace di scoprire la causa della deformazione onirica sia stato il mio coraggio morale; nel caso di Popper sono stati invece la purezza, l’amore per la verità e la chiarezza morale del suo essere».
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Popper Lynkeus. Chi era costui? (Bruno Morandi - Ecologia Politica CNS, in Liberazione,domenica 28 gennaio 2001)
L’INCONSCIO, OGGI: FREUD, LA ’SFIDA’ DI POPPER-LYNKEUS, E L’INDICAZIONE DI ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
Fili di pensiero e buchi di memoria. Immanuel Kant e l’Alzheimer
Nell’ultimo decennio della sua vita il filosofo fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria: l’intervento di Francesca Rigotti per l’Alzheimer Fest
di FRANCESCA RIGOTTI *
Parleremo di Alzheimer e di filosofia concentrandoci sulla figura di un filosofo che fu presumibilmente colpito da questa sindrome. Un filosofo che alcuni hanno studiato a scuola, altri solo orecchiato: Immanuel Kant, che nell’ultimo decennio della sua vita fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria.
Kant visse tra il 1724 e il 1804, ottant’anni giusti tutti trascorsi a Königsberg, allora nella Prussia orientale, ora Kalinigrad, enclave russa. Alla locale università seguì le lezioni di filosofia, matematica, fisica e dogmatica. È l’autore delle tre critiche (della Ragion Pratica, della Ragion Pura, del Giudizio). Nel campo della morale ha elaborato una dottrina deontologica molto rigorosa basata sul dovere di comportarsi in modo tale che il proprio agire possa diventare massima dell’agire universale (in contrasto con l’utilitarismo e con la dottrina del male minore, capolavoro etico di Tommaso d’Aquino, quella che consiglia di ingoiare tu il rospo piccolo prima che il rospo grande ingoi te). Nel campo teorico-conoscitivo, la dottrina di Kant ha messo al centro della conoscenza il soggetto e le peculiarità del suo apparato conoscitivo categoriale attraverso il quale viene letto e interpretato il mondo.
Un grandissimo filosofo insomma, che proprio perché tale non sfugge allo sport preferito dai piccoli filosofi, che è quello di sparare al grande filosofo. È uno sport di tutti i tempi e di tutte le età, che ai nostri tempi è stato praticato contro Platone (trasformato in fautore dello stato autoritario); Marx (unisono o quasi: «in soffitta, in soffitta!»); Hegel e l’idealismo tedesco (che alcuni professori tedeschi vorrebbero cancellare dal programma di filosofia); Heidegger (ancora quasi un unisono: il bersaglio è facile data l’indulgenza di Martin verso il nazionalsocialismo). Ultimamente ci si è accaniti contro Kant, dapprima attaccando i suoi scritti gnoseologici cui si è voluto dare un bel «good bye», ora rivolgendosi anche alla roccaforte dei suoi scritti etici, troppo rigorosi per la nostra edonista società. Io però sono convinta che lassù, nel cielo dei filosofi, a Platone, Hegel, Marx, Kant, Heidegger e compagni quelle cannonate facciano il solletico.
Anche Kant, dicevo, è oggetto proprio in questi giorni di pesanti bordate che mirano a demolire nientemeno che il suo apparato etico, rigoroso e cogente, non adatto a un’epoca di grandi opportunisti e edonisti di bassa lega pronti a chinarsi a soluzioni di comodo. Ma che cosa c’entra tutto questo con l’Alzheimer? C’entra, c’entra, o almeno vorrei farcelo entrare io mostrando come, se un vero nemico di Kant ci fu, esso fu proprio questa malattia subdola e strisciante che venne a guastare gli ultimi anni di vita del grande pensatore di Königsberg.
Conosciamo bene la biografia di Kant e in particolare gli anni della vecchiaia grazie a ben tre biografie scritte da suoi conoscenti e amici, Borowski, Jachmann e Wasianski, e a un testo letterario del 1827 di Thomas de Quincey, Last days of Immanuel Kant, da cui è stata tratta la suggestiva versione cinematografica, del 1993, del regista francese Philipp Collin, Les derniers jours d’Emmanuel Kant, che purtroppo non posso mostrarvi, neanche un pezzettino. Se siete interessati potete guardarla integralmente su YouTube. Vedrete un anziano signore con parrucca, redingote e scarpini con la fibbia, dagli occhi azzurrissimi (che si possono soltanto immaginare perché il film è in bianco e nero), a volte ancora splendenti di intelligenza, più spesso offuscati dalla malattia che quell’intelligenza si stava portando via. Vedrete un uomo minuto e segaligno, anche se meno magro di come viene descritto nel libro (non portava mai calze nere per non far apparire i polpacci ancora più secchi), vittima del proprio rigore di abitudini di vita, che si autocostringeva a seguire rituali rigidissimi quanto ridicoli per quanto riguarda il dormire (impacchettato strettissimamente tra lenzuola e coperte), il vestirsi, il mangiare, lo scrivere, il fare le passeggiate...
Ma torniamo al Kant filosofo. Oltre che del pensiero critico Kant si interessò, tra l’altro, di estetica, di cosmologia, di antropologia. In relazione a quest’ultimo ambito scrisse nel 1798 una Antropologia dal punto di vista pragmatico, l’ultima opera pubblicata in vita anche se redatta nel corso di anni precedenti . Un’opera senile nella quale Kant tratta, forse non a caso, di memoria e oblio (e qui apro una parentesi per mandare un saluto ossequioso al grande Harald Weinrich, lo studioso autore del più bel libro sull’oblio che sia mai stato scritto e che qui mi ha molto aiutato: Lete. Arte e critica dell’oblio, chiusa parentesi).
Ebbene Kant, che aveva sempre goduto di ottima memoria, trattandone egli stesso teoricamente scriveva che la memoria è importante per prendere parte alle vicende della cultura e della scienza, e per questo la si deve esercitare fin dalla più tenera età. La collega poi ai principi della ragione, soprattutto quella che definisce la terza forma della memoria. La prima infatti, (memoria meccanica), è una specie di facoltà minore, quasi animalesca, con la quale si immagazzina materiale e basta; la seconda (memoria ingegnosa), è un metodo per ricordare attraverso associazioni che non hanno nulla a che fare con il concetto da memorizzare; al gradino più alto sta la memoria giudiziosa, che permette di esercitare scelte opportune e ragionate sui contenuti di memoria, tramite sistemi di classificazione, per es. dei libri delle biblioteche come delle specie naturali; scelte giudiziose perché basate su principi di ragione.
Eppure al teorico della memoria verranno a mancare, paradossalmente, tutte le forme di memoria, condizione che il suo maggior biografo, Wasianski, diacono della chiesa di Tragheim a Königsberg e amico personale e devoto di Kant, tentò di minimizzare e giustificare: «a poco a poco lo colsero le debolezze della vecchiaia, tra cui la mancanza di memoria...». E così continua la descrizione che l’amico diacono effettua delle trasformazioni del filosofo: cominciò a ripetere i suoi racconti più volte nello stesso giorno; vedeva le cose più lontane del suo passato vive e precise davanti a sé, ma il presente, come avviene nei vecchi, gli restava meno impresso; sapeva recitare lunghe poesie tedesche e latine, brani dell’Eneide, senza intoppo, mentre gli sfuggivano le cose apprese un momento prima. Si era accorto anche lui che la memoria gli si affievoliva, sicché annotava le cose su foglietti, buste usate, informi pezzetti di carta. Oltre alla perdita di memoria incominciò a elaborare teorie strampalate, per esempio attribuendo la morìa di gatti a Basilea, Vienna e Copenhagen, a una particolare elettricità dell’aria. Si sentiva debole, astenico. Si addormentava per fiacchezza sulle seggiole, fuori orario; non era in grado di badare al suo denaro, perse la nozione del tempo, talché un minuto gli sembrava esageratamente lungo; l’appetito era sregolato e degenerato (ingollava avidamente bocconi di pane spalmati di burro e premuti su formaggio inglese grattugiato). Si esprimeva in modo sempre meno adeguato e divenne incapace di scrivere il suo nome né riusciva più a figurarsi la forma delle lettere. Il suo linguaggio diventò improprio anche se cercava di spiegarsi con affinità e analogie (parlava di mare e scogli per intendere minestra e bocconi di pane); non riusciva a farsi capire su cose comunissime, poi cominciò a non riconoscere chi gli stava intorno. Non si raccapezzava e allora gridava con voce stridula. Si consumò, e morì il 12 febbraio 1804. La diagnosi di Alzheimer per la «debolezza senile» di Kant venne proposta da Alexander Kurz nel 1992, e poi ripresa e descritta da altri, in particolare Fellin, nel 1997.
Nella sua Antropologia, a proposito della smemoratezza, che Kant chiama obliviositas, il filosofo usa una immagine, per descriverla, con la quale sembra parlare di sè: la smemoratezza è lo stato in cui la testa è come «una botte piena di buchi» (ein durchlöchertes Fass). Per quanto la riempi, rimane sempre vuota, e questo è un grandissimo male (ein größeres Übel). I contenuti versati nella testa scorrono fuori dai buchi come fili d’acqua da un setaccio, e questa perdita rende la mente vuota, sterile.
Come il vaso che nel mito greco delle Danaidi le spose assassine erano condannate a riempire nell’al di là. E ora racconterò un meraviglioso mito che spiega molte cose di ora e di allora perché il mito tratta di ciò che non è mai e fu sempre.
Le Danaidi erano le cinquanta figlie di Danaos, re dell’Argolide, regione a nord del Peloponneso, che il padre aveva destinato spose, contro la loro volontà, ai cinquanta figli di Aigyptos, Egitto. Ma durante la prima notte di nozze le ragazze, tranne una, uccisero i loro sposi prima che il matrimonio venisse consumato. Nell’al di là le Danaidi dovevano riempire continuamente d’acqua un recipiente dal fondo bucherellato.
Io vi leggo un mito di infertilità, desiderata dalle fanciulle ma punita dalla società. Vedo fili d’acqua che escono dai buchi del corpo come vedo, nella metafora kantiana, fili di pensiero che escono dai buchi della mente rendendola sterile e improduttiva come non riproduttivo fu il ventre delle Danaidi.
Nel caso del filosofo sono fili di ragionamento che il vecchio professore (Kant aveva insegnato Logica e metafisica nell’Università di Königsberg), non riesce più a annodare, a intrecciare, nemmeno a districare, come si si esprime Kant in un’altra metafora per parlare dello stesso problema. Scrivendo nel 1794 all’allievo Sigismund Beck, Kant così scriveva: «Neppure io riesco a capire...me stesso, e le farò le mie congratulazioni se sarà in grado di mettere in chiara luce uno a uno questi esili fili della nostra facoltà conoscitiva...Districare fili così sottili non fa più per me».
Con queste parole Kant fornisce almeno due indicazioni; che la sua facoltà di ragionare è carente già nel 1794, e che i pensieri sono fili, nel suo e nel nostro immaginario, che pensa alla mente come a una matassa ingarbugliata (lo «gnommero» del commissario Ingravallo nel Pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda), come a un ciuffo di lana di pecora infilato sulla rocca che attende di essere dipanato e filato dalla mano del pensiero in forma di fili continui, filati, lineari, pronti per essere intrecciati in un tessuto-testo (teXtus).
Che cosa succedeva nella mente bucherellata di Kant, da cui uscivano fili che non potevano più essere razionalmente intrecciati? Che essa continuava a lavorare e a pensare, ma in maniera bizzarra. Lo mostra l’episodio del licenziamento del domestico Lampe, Martin Lampe (Lampe è la lampada in tedesco), che aveva seguito e servito il filosofo per quarant’anni, assistendolo in tutte le occasioni, dalla sveglia al mattino alle 5 con il lume a candela, al servizio del pranzo (preparato da una cuoca), all’accompagnamento nelle sue passeggiate ossessive sulle quali la gente di Königsberg regolava le sue attività. Non che Kant fosse molto interessato alla vita privata di Lampe, tant’è che ignorava che fosse stato sposato per diversi anni, e il giorno che il domestico indossò la marsina gialla invece della livrea bianca (e Kant si arrabbiò moltissimo) era perchè andava a risposarsi.
Ebbene nel 1802 Kant decise di separarsi da questo servo a causa del suo cattivo contegno insorto negli ultimi anni: esigeva supplementi di salario, litigava con la cameriera, e poi commise qualcosa di grave che non ci è dato sapere e su cui Kant così sentenzia: «Lampe ha commesso una tale mancanza che mi vergogno di nominarla». Lampe fu dunque dimesso e al suo posto venne assunto un tale Johann Kaufmann, con il quale il filosofo entrò in
sintonia - dopo un po’ di attrito perché le cose dovevano essere disposte e porte dal domestico sempre nello stesso modo, la teiera/caffettiera, la tazza di caffé/tè, la pipa. A questo punto, decide Kant, «il nome di Lampe va assolutamente dimenticato». E per dimenticarlo meglio che cosa fa? Lo annota su un foglietto di appunti: «dimenticare Lampe». Ma a differenza di quei pensieri che scappavano dai buchi della mente, il nome Lampe non riusciva a uscirgli dalla testa. Weinrich prova a interpretare questo imperativo categorico come un esercizio dell’arte dell’oblio, non dell’arte della memoria, dal momento che proprio le cose che si scrivono (si registrano, si mettono nella memoria, nostra o del computer) possono essere dimenticate. In qualche modo lo scrivere le cose, l’immagazzinarle nella memoria, le consegna all’oblio. Una volta scritte, possiamo anche dimenticarle e di fatto le dimentichiamo. Lo pensava del resto anche Platone, che definisce la vecchiaia l’età della smemoratezza (τό ληθης γηρας, to létes ghêras).
Nel dialogo Fedro infatti, a proposito dell’invenzione della scrittura da parte del dio egiziano Theuth, che presenta la sua invenzione come medicina per la memoria e per la sapienza, così commenta il saggio re Thamus, le cui opinioni riflettono quelle di Platone: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti e chi invece di giudicare quale danno o quale vantaggio comportano per chi se ne servirà. E ora tu, che sei il padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa infatti, (la scoperta della scrittura) produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’avranno imparata, perché fidandosi della scrittura non fanno esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi».
Se consegno la nozione allo scritto, insomma, la tolgo dalla memoria, la dimentico, e in più indebolisco la memoria stessa. Dimentico, faccio cadere fuori dai buchi della testa, dalla mente, de-mente, demente.
Cent’anni dopo la morte di Kant il medico dei pazzi Alois Alzheimer diagnosticò il morbo che da lui prese il nome: un morbo preciso dunque, una malattia da curare. Non di generica debolezza senile soffriva Kant, quanto di una malattia specifica. Probabilmente qualcuno lo sospettò già prima, ma soltanto nel 1992 il sospetto venne scritto e assunse la forma di certezza. Cosa che apre un altro quesito filosofico riguardante l’attacco innescato pochi anni fa dai filosofi newrealisti contro i pensatori postmodernisti. Alcuni di questi (v. Bruno Latour) hanno sostenuto che il faraone Ramsete non potè morire di tubercolosi (come avrebbero provato alcune moderne autopsie) perchè il bacillo di Koch non era ancora stato isolato. Il che filosoficamente corrisponde a sostenere che «sapere che x» equivale a «essere costitutivo dell’essere x», ovvero afferma che Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora individuata e battezzata. Argomento che secondo alcuni discenderebbe direttamente dalla «rivoluzione copernicana» introdotta da Kant, il quale pose il soggetto/sole al centro della conoscenza/sistema solare, affermando che il soggetto comprende la realtà attraverso le proprie categorie e assegnando dunque al nostro intelletto un ruolo fortemente attivo nel metodo conoscitivo; sono i nostri schemi mentali che determinano il modo in cui un oggetto viene percepito. Ma mentre la prima conclusione (Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora inventata/scoperta), è assurda, non lo è per nulla la seconda conclusione (la centralità del soggetto nella comprensione dei fatti e l’idea che le proposizioni scientifiche in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo non si limitano a recepire passivamente dei dati, ma sono di natura critica e deduttiva). Non possiamo però occuparci a fondo della diatriba perchè il discorso ci porterebbe troppo lontano. La lasciamo lì, insieme al marasma senile del povero Kant, e alle sue occupazioni delle ultime settimane di vita, quali togliere e riannodare continuamente la cravatta, abbottonare e sbottonare la veste, in uno stato di continua agitazione, finché, come scrive un altro biografo, Jachmann, «svanì a mano a mano il vigore del più grande filosofo fino alla sua completa impotenza intellettuale».
Celio Secondo Curione...
L’ ELOGIO DEL RAGNO NELLA LETTERATURA RELIGIOSA DEL CINQUECENTO
di Luigi D’Ascia *
Tra il marmo e il legno dorato dei soffitti e le sontuose volte affrescate, che pascono l’occhio dei signori rinascimentali di mitologia e simbolismo, c’è spazio anche per un ospite umile ma necessario, che nasconde infinite virtù dietro un’apparenza insignificante: il ragno. Pur abituati a maestosi animali araldici, i potenti interlocutori laici ed ecclesiastici di Celio Secondo Curione - piccolo nobile della frontiera piemontese che si proietta con il suo brillante talento oratorio sul grande teatro dell’Italia settentrionale eternamente contesa fra le potenze europee - non si sentono infastiditi dalla presenza di quel minuscolo intruso che aspira a diventare il nume tutelare della casa. Partecipano anche loro - non solo Guillaume Pellicier vescovo di Montpellier, ambasciatore francese a Venezia e destinatario dell’Elogio del ragno - gli illustri protettori che a Pavia (dove poté appoggiarsi all’eminente famiglia Sfondrati), a Ferrara e a Venezia assicurarono a Curione quell’impunità di cui aveva vitale bisogno dopo le sue disavventure con l’Inquisizione cisalpina, di quella tensione religiosa, preparata dalla mistica quattrocentesca e in Italia dalla controversa figura di Pico, che invitava a cercare nel piccolo l’infinitamente grande e nell’allegoria l’unico modo appropriato di avvicinarsi al mistero divino.
Sono quindi disposti a tacitare i ‘cani del Signore’, quegli inquisitori domenicani che fanno la guardia ai palazzi dove si nascondono gli eterodossi e che, per arrivare ai soffitti dove il rinnovamento religioso tesse laboriosamente le proprie ragnatele, non esitano a cambiare il loro aspetto di mastini con quello più spregevole di servi armati di scopa, pronti a ripulire gli spazi loro affidati da qualsiasi contaminazione eretica. Il ragno che si cela sotto il soffitto è metafora del non conformista religioso che dissimula la propria presenza ma intanto resta pronto a catturare qualsiasi preda spirituale venga a cadere nella sua sottile ragnatela propagandistica.
Curione insomma nella sua prima opera a stampa, pubblicata a Venezia nel 1540 senza indicazione d’editore e poi ristampata a Basilea nel 1544 con il titolo Araneus sive de providentia Dei, fa del ragno l’emblema di quell’atteggiamento che in anni successivi verrà detto nicodemismo, dal nome dell’evangelico Nicodemo, che per paura dei farisei si recava a visitare Gesù soltanto di notte, e che implicava la diffusione di un messaggio certamente eterodosso in modi ‘coperti’, simbolici e allusivi, evitando di ‘trarre le illazioni’ che avrebbero sconfessato esplicitamente l’autorità ecclesiastica. [...]
Nel caso dell’Elogio del ragnoil messaggio religioso velato dalla ‘dissimu-lazione onesta’ di un linguaggio complesso e allusivo implicava un attacco a fondo alla base filosofica del concetto fondamentale di una mediazione istituzionale fra uomo e Dio, da cui discendevano culto dei santi, purgatorio e altre credenze della religiosità tardo-medioevale. Curione nega infatti l’esistenza di cause seconde, riconducendo ogni effetto fenomenico all’universale causalità divina.
Per arrivare a questa osservazione sviluppa un’argomentazione fortemente originale prendendo le mosse dal problema aperto dell’intelligenza animale, che rappresenta una sfida alla facile contrapposi-zione fra istinto e ragione, e la identifica con una forma oscura e incosciente dell’onnipotenza divina. Dentro il ragno, l’essere minuscolo e disprezzato, c’è Dio. Tale paradosso era già stato anticipato da Erasmo quando nella sua polemica con Lutero sul libero arbitrio aveva menzionato fra i sublimi misteri teologici da non divulgare al popolo la circostanza che da un certo punto di vista le sfere celesti e l’antro dello scarabeo - equivalente funzionale del ragno di Curione - fossero ugualmente partecipi dell’essenza divina.
L’infinità in potenza della materia collosa che il ragno produce da se stesso per tessere i fili della ragnatela presuppone l’infinità in atto dell’essere divino. La sua posizione al centro della ragnatela che si allarga verso l’esterno, aumentando continuamente lo spazio fra un perimetro e quello successivo, allude chiaramente a un universo teocentrico retto dalla provvidenza. Ma ciò che vale per il ragno vale per la natura nel suo complesso: non esistono cause seconde, cioè processi relativamente autonomi dall’intervento divino, e il principio delnatura non facit saltus, con la sua successione ordinata di cause che si accorda così bene con una visione gerarchica della società cristiana, cede alla libertà dello spirito divino che, essendo operoso, si manifesta dove e quando vuole. [...]
In ogni caso Curione dimostra una notevole capacità di attualizzare, nel contesto teologico della Riforma, una tradizione di teologia simbolica che si presentava strettamente intrecciata alla fortuna del genere letterario del detto pitagorico, inaugurata da Leon Battista Alberti e sviluppata da Ficino e da altri. Risulta agevole sintetizzare l’intero componimento di Curione in un ipotetico ma assai verisimile precetto «araneum incolam ne respuito», invito a non rifiutare la presenza del ragno nelle pie e dotte magioni [...] La figura di Pitagora, la cui rappresentazione deve molto al XV libro delle Metamorfosi ovidiane, è centrale nell’Elogio del ragno e non solo per l’evidente influsso di Zwingli, ma anche e soprattutto per la vicinanza di Curione a quelle fonti italiane cui si era abbeverato lo stesso teologo svizzero. [...]
Il pitagorismo ben interpretato è peraltro parte integrante di una theologia poetica che legge nella mitologia la chiave allegorica di una sapienza comune a tutte le religioni rivelate, facendo confluire sincretisticamente ermetismo e cabalismo nel contesto di un cristianesimo ispirato e profetico. Il riferimento ovidiano alla gara di tessitura fra Aracne e Minerva, che si conclude con la disfatta della prima e la sua trasformazione in ragno, diventa dunque parte integrante della ‘lettura’ del fenomeno della realtà naturale. Il concetto greco di hybris viene assimilato in maniera piuttosto prevedibile a quello di peccato originale, ma ciò che realmente interessa allo scaltrito propagandista della Riforma è ‘far passare’ una distinzione di stampo melantoniano fra il valore sociale e civile delle opere buone e la loro inutilità ai fini della salvezza eter-na, accettando in pieno l’idea di una giustizia divina arbitraria perché onni-potente che dal punto di vista umano diventa giustificazione per sola fede. Ribadire questo punto risulta così importante per l’eterodosso piemontese da indurlo ad accettare una certa incoerenza simbolica del protagonista animale dell’operetta: la condizione del ragno cambia completamente di significato e decade da dimostrazione della provvidenza divina a emblema della degenerazione animale dell’essere umano dimentico della propria dignitas originaria.
L’interpretazione biblica del mito di Aracne illustra la tendenza del Curione a conferire speciale rilevanza alla componente ebraica della sua costruzione sincretistica in quanto scaturigine di un linguaggio simbolico poi ripreso dai filosofi e divulgato dai poeti pagani, come illustra fra l’altro la caratteristica designazione di Salomone come «quel celebre Platone degli Ebrei». Del resto l’idea che «tutto è pieno di Cristo», già chiaramente enunciata nell’Elogio del ragno, si tradurrà nella ‘teologia politica’ del De amplitudine beati regni Dei in un’energica riaffermazione della salvezza finale degli Ebrei solo provvisoriamente privati della loro condizione di popolo eletto. Questo motivo ‘filosemita’ risulta decisamente preponderante rispetto al fugace accenno alla conversione finale dei musulmani e degli abitanti delle regioni recentemente scoperte del Nuovo Mondo. Nell’ambiente veneziano del 1540 dove vede la luce l’Elogio del ragno, contrassegnato da una presenza israelita cospicua e socialmente significativa, è lecito supporre un intrecciarsi di tradizioni profetiche ebraiche e cristiane che proiettano la pacificazione religiosa su uno sfondo escatologico. [...]
Nell’ Elogio del ragno si osserva la fermentazione di una dottrina sincretistica e vagamente esoterica non priva di punti di contatto con la speculazione di Bruno, che nella Cena delle ceneri mette in discussione, non diversamente dal Curione, la categoria di «istinto» animale e che pagò un duro scotto in termini processuali per il suo attaccamento alla dottrina della metempsicosi, che l’eretico piemontese aveva ritenuto potesse conciliarsi con i dati della rivelazione cristiana. [...]"
* CFR. CELIO SECONDO CURIONE, ARANEUS SEU DE PROVIDENTIA DEI, Edizione, traduzione e commento a cura di DAMIANO MEVOLI, Avvertenza di ANGELO ROMANO, Prefazione di LUCA D’ASCIA, Postfazione di LOTHAR VOGEL, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2019, pp. IX-XIX - ripresa parziale).
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025) ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Perché il pianeta non vuole essere salvato
di Maurizio Corrado (Doppiozero, 11 settembre 2019)
Uno dei mantra consolatori più ricorrenti di questi anni è: Salviamo il pianeta. Tutto viene fatto per salvare il pianeta, dalla scelta del balsamo per capelli a non stirare i vestiti per non contribuire al riscaldamento globale, un’idea degna del miglior Woody Allen prima maniera. C’è un effetto gratificante notevole nell’idea di salvare un pianeta. Nell’immaginario comune, fino a pochi anni fa, solo i supereroi potevano riuscirci. Ora è in atto una massificazione del supereroe, chiunque, con piccoli gesti quotidiani, può salvare il pianeta e quindi essere supereroe. Basta chiedere un cappuccino alla soia e il gioco è fatto.
Chiunque voglia salvare il pianeta non ha che da andare in rete e avrà in una manciata di secondi intere serie di missioni alla portata di tutti: volare di meno, mangiare meno carne rossa, fare la raccolta differenziata, riciclare, andare in bicicletta, smettere di stirare i vestiti, chiudere il rubinetto mentre ti lavi i denti o ti insaponi sotto la doccia, fare meno la doccia e mai il bagno, bere l’acqua di rubinetto anziché quella in bottiglia, lasciare l’auto a casa due giorni a settimana, al supermercato scegliere il prodotto con il packaging più sostenibile, fare il compost in casa, cambiare le vecchie lampadine, acquistare elettrodomestici a risparmio energetico, fare una spesa intelligente, ridurre i rifiuti, ridurre la plastica, usare borse di tela, usare detersivi alla spina e prodotti sfusi, usare la carta riciclata, non stampare mail o altri documenti, tirare lo sciacquone il meno possibile, acquistare mobili di legno certificato, scegliere cosmetici e detersivi ecologici, stendere il bucato, usare pannolini riciclabili, mangiare frutta e verdura, prediligere gli spazzolini in legno riciclabile, non usare la Vespa.
C’è un problema, però. In questa ansia di salvataggio, che nasconde la vera ansia, il terrore dell’estinzione di massa che si profila in un orizzonte sempre più vicino, a nessuno è venuto in mente di chiedersi se al pianeta importi di essere salvato o se ne ha realmente bisogno, perché anche facendo un paio di banalissime considerazioni, sembrerebbe proprio che lui, che noi ormai consideriamo alla stregua di un moribondo, non sia minimamente interessato ai nostri sforzi e non abbia neanche lontanamente l’idea di essere in pericolo, nonostante fra i potenti della terra ultimamente vada molto la fiaba del piccolo fiammiferaio e si scatenino in Sudamerica, Africa e dalle parti del Polo, dove ormai il gas imprigionato nel permafrost non aspetta altro che liberarsi nell’atmosfera.
Quante volte durante la sua vita, oltre quattro miliardi di anni, il pianeta ha avuto temperature estreme, sconvolgimenti, condizioni proibitive per qualsiasi forma di vita o almeno vita concepibile da noi umani? Quante volte una forma di vita è arrivata, si è sviluppata e quindi estinta? I dinosauri sono stati specie dominante per 160 milioni di anni, in questa scala temporale i trecentomila anni di Homo Sapiens sono un tempo risibile ma sufficiente a gonfiarci d’orgoglio e continuare a considerarci in cima a una scala evolutiva che abbiamo ideato noi stessi. Neanche oggi, a un passo dalla fine, abbiamo perso la vecchia abitudine di vederci al centro dell’universo e ci divertiamo a dare alle ere geologiche il nostro nome, orgogliosi, anche se in negativo, di aver cambiato l’aspetto del luogo in cui siamo comparsi.
Hildegard von Bingen, mistica tedesca del XII secolo, nella sua opera Ordo Virtutum fa dire ad uno dei personaggi: “Dio ha creato il mondo e io voglio goderne, senza recargli offesa.” Qui sta un pensiero che oltrepassa in altezza e profondità ogni ecopalliativo consolatorio e coincide con la posizione di Ivan Illich che, in un libro-intervista del 1992 a cura di David Cayley, ci invita a “essere in grado di celebrare il presente e di celebrarlo usandone il meno possibile, perché è bello e non perché è utile a salvare il mondo.” In entrambi è totalmente assente l’idea di sacrificio e punizione che fa da substrato a tutte le azioni che vengono sistematicamente proposte per il presunto salvataggio del pianeta, anzi, vive l’idea opposta, Hildegard parla chiaramente della volontà di godere del mondo, Illich parla di celebrare, che è un’azione che ha a che fare con la meraviglia e la bellezza. Di bellezza parla anche James Hillman in contrapposizione al sacrificio.
Ovviamente tutti sanno che quello che stiamo distruggendo non è il pianeta, che continuerà serenamente la propria esistenza con o senza di noi, ma solo le condizioni che ci permettono di viverci sopra, ma è molto più soddisfacente pensarci come supereroi impegnati a salvare non noi, ma qualcun altro, ancor meglio se l’intero pianeta. Meglio dimenticare che siamo noi a non poter sopravvivere se la temperatura generale si alza di anche solo di tre gradi. Quello che per noi può rappresentare la fine, per altre forme di vita può essere l’inizio di una nuova fase di prosperità. In altre parole, al pianeta non importa nulla di trasformarsi ulteriormente, siamo solo noi a rischiare grosso.
Questa insistenza su Salviamo il pianeta è una forma di esorcismo, una maschera dell’oblio, una rimozione della paura, il rifiuto della consapevolezza di essere arrivati alla fine della prateria, oltre, ci aspetta la scogliera. Abbiamo un solo modo per proseguire: imparare a volare.
Antropologia.
La modernità? Per Dumont è il primato della proprietà sull’uomo
Esce l’integrale di “Homo aequalis” di Louis Dumont, esame del passaggio dalle società tradizionali, regolate dal rapporto tra gli uomini, a quelle moderne dove vince quello tra uomini e cose
di Simone Paliaga (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Nella maggior parte delle società e in primo luogo nelle civiltà superiori o, come dirò più spesso, nelle società tradizionali, i rapporti fra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose. Questo primato è capovolto nel tipo moderno di società, dove invece i rapporti fra gli uomini sono subordinati a quelli fra gli uomini e le cose». E queste sono le società che «valorizzano innanzitutto l’essere umano individuale» afferma Louis Dumont in quell’immane tentativo di ricostruzione della genealogia delle idee e valori sottesi alle società moderne.
Gli esiti della sua ricerca trovano la definitiva (anche se purtroppo non conclusa) formulazione in Homo aequalis. I Genesi e trionfo dell’ideologia economica - II L’ideologia tedesca (pagine 642, euro 36,00), che raccoglie sia la prima tappa di questo percorso di studi, già tradotta trent’anni fa, sia la seconda, per la prima volta pubblicata in italiano, entrambi nei prossimi giorni in libreria per Adelphi in un unico volume.
A Louis Dumont (1911-1998) non spetta certo l’alloro dei maître à penser con cui si sono agghindati tanti intellettuali del Novecento. Eppure, mentre la perspicuità di questi s’è estinta nel volgere degli eventi che speravano di orientare, il lavoro di Dumont è una bussola ancora oggi indispensabile per comprendere dove vanno le società occidentali.
Nato a Salonicco, Dumont, durante gli studi universitari, ha modo di frequentare non solo le lezioni di etnografia tenute da Marcel Mauss al Collège de France ma anche gli incontri al Collège de sociologie du sacré incrociando figure come Michel Leiris e Roger Caillois. Poi arriva la Seconda guerra mondiale e il campo di prigionia tedesco nei pressi di Amburgo dove però studia il tedesco e il sanscrito. Alla fine del conflitto, deluso dalle esperienze politiche novecentesche, riprende i suoi studi a Parigi.
Nella seconda metà degli anni Quaranta comincia a lavorare al Musée de l’Homme dedicandosi inizialmente alle tradizioni popolari francesi come la Tarasque e aiutando Claude Lévi-Strauss a trascrivere a macchina la bozza delle Strutture elementari della parentela.
La svolta però avviene a partire dal 1949 quando mette a frutto la conoscenza del sanscrito e cominciano i suoi frequenti soggiorni in India per occuparsi del sistema delle caste. Il frutto sarà nel 1955 l’imponente Homo hierarchicus, la prima tappa di quell’immane tentativo di comparazione tra le società tradizionali improntate all’olismo e le società moderne, le sole nel corso della storia a provare a organizzarsi intorno ai valori individualisti. Da qui nasce Homo aequalis, il tentativo di «chiarire il nostro tipo moderno di società, la società egualitaria, partendo dalla società gerarchica».
«La maggior parte delle società valorizza - sostiene Dumont - innanzitutto l’ordine, e dunque la conformità di ogni elemento al suo ruolo nell’insieme, in breve, alla società come un tutto unico; io chiamo questo orientamento generale dei valori olismo». Eppure a partire dal XVIII secolo prende piede un tipo diverso di società che «valorizza innanzitutto l’essere umano individuale: ai nostri occhi ogni uomo è un’incarnazione dell’intera umanità e come tale è eguale a ogni altro uomo, e libero. Questo è ciò che io chiamo individualismo».
Nelle società tradizionali i bisogni dell’uomo sarebbero subordinati al tutto mentre nelle società moderne i bisogni della società si trovano sottomessi alle esigenze dell’individuo. «Nella maggior parte delle società - abbiamo già visto come annoti Dumont - in primo luogo nelle civiltà superiori o, come dirò più spesso, nelle società tradizionali, i rapporti fra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose». Nel Settecento però la situazione si capovolge e si arriva al primato della proprietà sulla relazione con gli altri uomini.
Nella lunga carrellata che da Quesnay e i fisiocrati passa per Adam Smith e John Locke e arriva fino a Marx, l’antropologo francese fa emergere i passaggi intellettuali che consentono la nascita del moderno tipo di società, dove il rapporto con la proprietà prevale sul rapporto con gli altri uomini. Eppure l’ideologia moderna, pur essendo il sostrato culturale diffuso nei paesi europei, si declina in modo diverso a seconda della realtà dove attecchisce.
Ovunque l’individualismo non viene assorbito allo stato puro. Subisce un processo di acculturazione generando un ibrido particolare. In particolare nella ideologia tedesca Dumont riscontra questa ibridazione attraverso «la forte predominanza dell’olismo, la decisiva influenza formatrice della riforma luterana e la sopravvivenza sino ai giorni nostri dell’idea di sovranità universale».
Per quanto presente in tutti i fenomeni culturali tedeschi la contaminazione tra olismo e individualismo diventa dirompente nel 1933 quando «emersero un partito e un capo singolari, i quali avevano trovato una via d’uscita alla crisi, che consisteva nel fondare la rivendicazione al dominio non più sullo Stato, bensì sulla razza, subordinando lo Stato al principio razzista e correlativamente ogni legittimità alla pura forza».
Se il totalitarismo è visto da Dumont come una «malattia moderna» nata da una contaminazione deforme di individualismo e olismo, sarebbe interessante oggi capire come continuerebbe la sua diagnosi e come leggerebbe il frangente di storia che attraversiamo in cui «la diffusa confusione tra diritto e fatto, tra moralità e diritto istituzionalizzato, tra giustizia e tirannia, tra pubblico e privato equivale a un ritorno alla barbarie».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
Teatro
Come Dante salvò Primo Levi dall’inferno: Roberto Herlitzka e il ‘Canto di Ulisse’
In scena il 31 agosto al Festival di Todi, ’Il Canto di Ulisse’ è liberamente ispirato ai testi ’Se Questo è un Uomo’ e ’L’Ultimo Natale di Guerra’ di Primo Levi.
di Giuseppe Cassarà (GdS Globalist, 30 agosto 2019)
L’aggettivo che maggiormente ricorre in riferimento alla scrittura di Primo Levi è ‘lucida’. Lucida è la sua testimonianza del Lager, lucida la sua mente che non si è persa, ma ha lottato per trovare le parole in grado di raccontare un Male tanto cieco. Della sua scrittura, lo stesso Levi parlava in questi termini: “ho sempre teso a un trapasso dall’oscuro al chiaro, come (mi pare che lo abbia detto Pirandello, non ricordo più dove) potrebbe fare una pompa-filtro, che aspira acqua torbida e la espelle decantata: magari sterile”.
Nel Lager, dove la parola è castrata, ridotta a un rantolo, Primo Levi una mattina si dirige verso il refettorio accompagnato da un prigioniero di lingua francese. Per passare il tempo, per rimanere umani, Levi tenta di spiegare al compagno l’amata Divina Commedia. Sceglie un canto, il XXVI, in cui Dante incontra una lingua di fiamma che avvolge e tormenta lo spirito di Ulisse. I versi sfuggono alla mente di Levi, ma la memoria gli restituisce una terzina, la più nota del canto e una delle più citate di tutta la Commedia:
Ulisse canta, Dante ascolta, Levi racconta: la terzina per il prigioniero è “come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”.
Il Canto di Ulisse è il titolo dello spettacolo diretto da Teresa Pedroni, in scena il 31 agosto in occasione del Todi Festival 2019. Un testo liberamente ispirato al capolavoro di Levi Se Questo è un Uomo e alla sua raccolta di racconti postumi L’Ultimo Natale di Guerra, fortemente voluto dal direttore artistico Eugenio Guarducci e interpretato dal Maestro Roberto Herlitzka, nei panni di un Primo Levi che racconta momenti del suo vissuto tragico nel Lager con una grande limpidezza unita a fughe dell’immaginazione, quando la fantasia si libera per lenire il peso della realtà.
Maestro, vorrei partire proprio da quella terzina, una delle poche che Levi ricorda con chiarezza, quella che gli restituisce, anche solo per un attimo, la sua umanità. A chi, oggi, potrebbero essere rivolte quelle parole?
Senza dubbio a chi soffre come Levi e i suoi compagni stavano soffrendo. Penso a quelle anime disperate che attraversano il mare per cercare una vita migliore, per esempio. Anche se, a dire il vero, consigliare loro di ‘seguir virtute e canoscenza’ può sembrare un po’ una beffa: l’unica cosa che conta, tutto ciò a cui ti aggrappi in situazioni del genere, è sopravvivere. Ma è per questo che le parole di Levi sono una sfida. Dante, e Levi, non scelgono Ulisse a caso: quando pronuncia quelle parole, l’eroe dell’Odissea si trova in un momento in cui il pericolo di morte è più reale che mai. Ulisse, come Levi, dice quelle parole ai suoi compagni, li sprona a ricordare la propria umanità, a proiettarsi oltre la paura. Ed è un monito che rivolge anche e soprattutto a sé stesso.
Mi ha sempre colpito che Levi, quando scriveva ‘Se Questo è un Uomo’, parlava delle vittime, non dei carnefici. I ‘bruti’ danteschi sono i prigionieri, i ‘sommersi’ nel Lager. Se queste parole sono un monito per tutta l’umanità, quali sono le nostre prigioni, oggi?
Guardi, non penso che oggi, almeno nel nostro mondo occidentale, si possa parlare di ‘prigioni’: nel mondo accadono cose orribili ma credo che nulla possa essere paragonabile a ciò che è stato il nazismo. Il nazismo non aveva la morte come mezzo, la morte era il fine del Lager. Una morte prima spirituale e solo dopo fisica. Il Lager tendeva all’annullamento della persona come essere umano, mirava a ridurre l’uomo in ‘bruto’. Le motivazioni che stanno dietro al male moderno sono più terrene, sono legate all’avidità, alla brama di potere. Quindi non penso che si possa fare un paragone tra il Lager nazista, tra l’esperienza di Primo Levi, e il tempo moderno. Ma è proprio questo che rende la voce di Levi essenziale: è la voce della memoria, dello sforzo sovrumano di un uomo che è rimasto tale nonostante fosse prigioniero in un luogo che voleva schiacciare la sua umanità. E lo ha fatto, per tornare a Dante, attraverso la sua sensibilità di artista, di scrittore. Nell’inferno, ciò che lo ha salvato è stata la poesia.
In un’intervista del tempo, Primo Levi parlava del Lager come dell’“unico momento in technicolor in una vita altrimenti in bianco e nero”. In che momento della sua vita troviamo il Primo Levi da lei interpretato nello spettacolo?
È un Primo Levi che sta cercando, come fece Ulisse davanti alla montagna del Purgatorio, di riscattare prima di tutto la propria coscienza. Penso sia questo il valore più grande della testimonianza di Levi. Altre voci, come la sua, hanno raccontato il Lager ma Levi con la sua scrittura ha riscattato l’umanità, ha permesso a chi è venuto dopo il nazismo di trarre le conseguenze di ciò che è stato. Ulisse racconta a Dante, e Levi racconta a noi, per trasmettere prima di tutto la memoria, l’esperienza di chi, di fronte alla più grande paura che l’uomo può provare, la paura della morte, dell’annullamento, scopre l’essenza più profonda della propria umanità.
Lo spettacolo, oltre che da ‘Se Questo è un Uomo’, è ispirato anche a una raccolta di racconti postumi, ‘L’Ultimo Natale di Guerra’. Sono racconti piuttosto diversi dal Levi più noto, dove la fantasia, l’immaginazione quasi infantile prendono alle volte il sopravvento sulla lucidità dello scrittore. Potremmo dire, quindi, ‘virtute, canoscenza’ ma anche poesia, immaginazione?
Certo che sì, anche se senza dubbio è una strada che può imboccare solo chi è dotato di grande creatività. Levi era già scrittore prima del Lager, anche se è chiaro che la sua vita di artista è stata irrimediabilmente segnata da ciò che ha vissuto ad Auschwitz. Ma Levi era un uomo capace di vivere di fantasia, di immaginazione. Come Ulisse, in fondo: solo chi può immaginare di espandere l’orizzonte del proprio mondo, di mettere sé stesso oltre le Colonne d’Ercole, può sfuggire alla morte dello spirito attraverso la poesia. Ed è quello che ha fatto Levi.
Il Canto di Ulisse, presentato dalla Compagnia ‘Diritto e Rovescio’, andrà in scena il 31 agosto presso il Teatro Comunale di Todi. Accanto al Maestro Herlitzka, troveremo Stefano Santospago e i musicisti Alessandro Di Carlo al clarinetto e Alberto Caponi al violino.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PRIMO LEVI. Quando Levi morì (11 aprile 1987), Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così: «È morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale».
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
LETTERATURA EUROPEA*, IMMAGINARIO PLATONICO, E IMMAGINAZIONE “EDENICA”. Nella speranza, e con l’augurio, che il dono del Sessantotto non risulti esser stato sprecato ...
Note a margine di "Volevamo la Luna" di Andrea Cortellessa (Alfabeta-2, 21 luglio 2019):
SULLA BASE DELLE INDICAZIONI DEL “TELESCOPIO” (DI LEOPARDI) E DEL “PALOMAR” (DI CALVINO), FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE LA “NAVIGAZIONE” CON GALILEO ...
«Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza. (..)
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma.» (Galileo Galilei, “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”, 1632 - Salviati, giornata II);
.... E CON NOE’ - IL CORVO E LA COLOMBA (“PALOMA”):
“E in capo a quaranta giorni, Noè aprì la finestra che avea fatta nell’arca,
7 e mandò fuori il corvo, il quale uscì, andando e tornando, finché le acque furono asciugate sulla terra.
8 Poi mandò fuori la colomba, per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.
9 Ma la colomba non trovò dove posar la pianta del suo piede, e tornò a lui nell’arca, perché c’eran delle acque sulla superficie di tutta la terra; ed egli stese la mano, la prese, e la portò con sé dentro l’arca.
10 E aspettò altri sette giorni, poi mandò di nuovo la colomba fuori dell’arca.
11 E la colomba tornò a lui, verso sera; ed ecco, essa aveva nel becco una foglia fresca d’ulivo; onde Noè capì che le acque erano scemate sopra la terra” (“Genesi”: 8, 6-11 );
* ... E CON DANTE ( ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica).
P. S. - LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMICOMICHE”! Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino (cfr. LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI “DUE SOLI”).
Federico La Sala
Giampiero Comolli
La malinconia meravigliosa
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 19 luglio 2019)
La malinconia di cui parla Giampiero Comolli - giornalista, scrittore, presidente del Centro Culturale Protestante di Milano - nel saggio La malinconia meravigliosa (ed. Claudiana) è quella che pervade i discepoli di Siddharta Gautama della nobile famiglia dei Sakya, il primo Buddha, e di Gesù di Nazareth al momento del loro commiato in prossimità della morte. L’autore ripercorre i loro ultimi discorsi per cogliere attraverso di essi, i punti in cui le vie indicate dai maestri paiono avvicinarsi e quelli in cui decisamente divergono e lo fa utilizzando Il grande discorso del nirvana definitivo, per quanto riguarda il Buddha (i testi più antichi su cui si fonda la tradizione buddista sono raccolti nel canone Pali scritto attorno al 1° sec. a.C., pubblicati in italiano col titolo La rivelazione del Buddha. I testi antichi, Mondadori 2001) e i capitoli dal 14 al 17 del Vangelo di Giovanni, la cui formulazione definitiva risale alla fine del 1° sec. d.C.
I primi capitoli sono dedicati dall’autore a una breve e necessaria sintesi della vita di Siddharta Gautama e del pensiero buddista - a chi volesse saperne di più suggerirei di leggere Il cuore dell’insegnamento del Buddha (ed. Neri Pozza) di Thich Nhat Hanh, monaco vietnamita di tradizione Zen Rinzai che ne offre una dissertazione approfondita e molto chiara - e poi prosegue con un’attenta disamina degli atteggiamenti dei due maestri e delle rispettive visioni della realtà che, non solo nelle parole, ma appunto anche negli atteggiamenti e nei gesti, si riveleranno radicalmente differenti.
Perché anche laddove sembra esserci una certa sintonia, tra le due vie in realtà c’è una strutturale inconciliabilità, chiaramente sottolineata dal Dalai Lama al quale fu chiesto, racconta Comolli, se in una stessa persona potrebbero convivere cristianesimo e buddismo visto che quest’ultimo è più propriamente una filosofia che una religione. Egli rispose che ciò sarebbe possibile, ma solo a un livello molto superficiale, perché nei loro elementi profondi e sostanziali si tratta di due visioni della realtà incompatibili. Cerchiamo di riassumerne le ragioni.
Per Buddha il risveglio inizia quando si comincia a comprendere che la vera natura del mondo sensibile è l’impermanenza. L’intero universo, materiale e immateriale è impermanente cioè, per così dire, fluido, mobile; le infinite forme assunte dalla materia - animali, vegetali, minerali - sono soltanto apparenza, perché la sostanza è una sola e sempre la stessa. Ciò che noi avvertiamo come cambiamento, compresa la morte, è semplicemente il passaggio da una forma a un’altra dell’unica sostanza. In questo processo continuo di trasformazione da uno stato a un altro, ciò che cambia non viene distrutto, ma appunto trasformato. In ogni elemento della realtà fisica è contenuto tutto ciò che esiste (nel fiore, ad esempio, è contenuta la terra da cui proviene, l’acqua e il sole che l’hanno nutrito, ciò che un animale ha mangiato e poi lasciato sul terreno sotto forma di concime e così via). Di conseguenza, la morte non è l’estinzione di una realtà, ma il suo passaggio da una condizione a un’altra. Da questa consapevolezza nasce il sentimento di equanimità, fondamento dell’etica buddista e da molti accostato, un po’ superficialmente, all’idea cristiana di compassione. L’equanimità informa l’atteggiamento pacifico e amorevole del monaco buddista verso ogni creatura. La via buddista stricto sensu è destinata ai monaci, ma è utile anche ai laici ai quali essi dimostrano, con il loro esempio, «che la via della libertà e della dolcezza esiste e può essere percorsa». Perciò tutti possono aspirare, di reincarnazione in reincarnazione, a percorrerla fino al compimento.
L’amore che il Buddha insegna è molto diverso da quello che vive e predica Gesù. Il cuore del monaco buddista è «amorevole verso tutti, ma vuoto perché mai "perdutamente innamorato" di qualcuno in particolare», sottolinea Comolli. E come potrebbe esserlo visto che, come ogni altra cosa, la persona stessa, l’io individuale è pura illusione? Il cuore è anatta, cioè vuoto, «privo di sostanza propria» «perché non esiste un nucleo, un’essenza stabile, un’identità precisa e definita di quel cuore stesso». Anche il cuore/l’io è maja, apparenza. Per Gesù, al contrario, nulla è più importante del cuore dell’uomo, nulla è più solido e vero dell’amore, e per il Dio in cui egli crede ogni essere è unico, irripetibile, speciale e merita che Dio diventi uomo e muoia proprio per lui. Dio non ama tutti, ama ciascuno, per questo per ogni singolo essere umano vale la pena di donare la vita. Come il Dio in cui credeva e che annunciava, Gesù non amava «in modo equanime e disinteressato, distaccato» ma «in modo appassionato, fino ai singhiozzi», e dall’amore «si lascia prendere fino alle viscere». Gesù piange, prega, si spaventa, si arrabbia. È tutt’altro che impassibile, è appassionato. Comolli sintetizza con una bella immagine la differenza tra i due maestri: «Se il discepolo del Buddha è riconoscibile grazie al suo passo delicato e lieve, capace di traversare un villaggio quasi fosse un’ape che passa di fiore in fiore, per converso, il discepolo di Gesù è riconoscibile grazie al suo passo amoroso e caldo, capace di rispondere con mansuetudine e premura anche a chi offende e maledice».
Se la fede in Dio, dal cristiano inteso come un essere vivente che si rapporta all’uomo come un padre e una madre si rapportano a un figlio, distingue nettamente buddismo e cristianesimo, ne consegue anche un modo del tutto diverso d’intendere e affrontare il dolore. Per Buddha l’individuo ha in se stesso la forza per liberarsene attraverso un costante esercizio di distacco da ogni passione e attaccamento. Per Gesù il liberatore è Dio; egli è sempre accanto all’uomo, soprattutto quando è misero e sofferente, e con la sua risurrezione testimonia che l’uomo non è destinato alla morte e all’estinzione, ma a una vita nuova nella dimensione di Dio. «La via del Buddha - sottolinea Comolli - fa a meno della fede; la via di Gesù, vive nella fede». Per questo egli che, a differenza del Buddha, morì ancora giovane di una morte orrenda e solitaria, accomiatandosi disse ai suoi amici: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1), e ancora: «Voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16, 22). L’esortazione di Buddha ai discepoli è molto diversa: «Prendete rifugio in voi stessi e non in altro», e le sue ultime parole furono: «Continuate ad esercitarvi, instancabilmente».
Riassumendo la diversità delle due concezioni spirituali, Giampiero Comolli le raccoglie in tre assunti. Alla base della ricerca del Buddha vi sono l’inconoscibilità di Dio, l’irrilevanza della questione per giungere alla liberazione dal dolore, la capacità dell’uomo di farlo con le proprie sole forze. Esattamente opposti sono i presupposti su cui si fonda il messaggio di Gesù, ovvero l’esistenza di Dio, l’importanza primaria e assoluta della questione, l’impossibilità per l’uomo di salvarsi da solo. Così si può anche dire che il cuore del buddismo è la pace che nasce dal sapersi liberare dal dolore, mentre al cuore del cristianesimo c’è una serenità diversa e, in un certo senso, più libera che sorge dalla fiducia nell’amore indefettibile di Dio. In un caso la pace è una conquista, nell’altro un dono. E la libertà in cui confida il seguace di Gesù non è nirvana, estinzione, uscita dal ciclo delle reincarnazioni, ma ingresso di ognuno con la sua propria personale storia e identità nella vita piena ed eterna di Dio. Cioè, risurrezione.
La malinconia meravigliosa si chiude su questo tema, che quando Paolo lo affrontò spinse i razionali ateniesi, fino a lì attenti e interessati alle sue parole, a ridergli in faccia e a dirgli che su quello lo avrebbero ascoltato un’altra volta. Anch’io ve ne parlerei volentieri, ma forse anche voi come gli ateniesi vi mettereste a ridere di me... O mi sbaglio?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
Federico La Sala
Intervista a Massimo Cacciari
A un’Europa vecchia e sterile serve il fertilizzante della Chiesa
· La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa ·
di Andrea Monda (L’Osservatore Romano, 18 luglio 2019)
Il cambiamento d’epoca di cui parla Papa Francesco è tale che ha colto impreparato l’Occidente. Da qui parte la riflessione di Massimo Cacciari che riprende la suggestione di Giuseppe De Rita sulle due autorità, civile e spirituale, e si concentra sulla prima, quella «che fa acqua un po’ da tutte le parti». Lo abbiamo incontrato in un caldo pomeriggio di luglio, è arrivato a piedi e se n’è andato a piedi, una sorta di Giovanni Battista inquieto e sempre pronto ad accendersi di una santa ira che non risparmia nessuno.
Qual è l’elemento più preoccupante della crisi attuale?
Il problema è che la parte laica, civile, è proprio quella che fa acqua, per una complessa serie di cause. Le grandi culture che hanno formato l’Europa del dopoguerra e che hanno dato consistenza alla politica italiana si sono mostrate inapte a comprendere e a dar forma alla nuova età. Sono cose che succedono nella storia, quando un mondo finisce. Il mondo del dopoguerra si è chiuso con la caduta del muro, con la fine dell’impero socialista, con le trasformazioni globali negli equilibri economici e politici, la nascita della nuova Cina e il decollo indiano. Siamo di fronte a una nuova età, come quella che segna la fine delle polis greche, come quella che segna la fine dell’età dell’impero romano. Barbari che compaiono, gente di cui non capisci la lingua, e le grandi famiglie culturali e politiche europee, che sono sostanzialmente quella socialdemocratica, quella cristiano-popolare e quella liberale, non comprendono la situazione, rimangono abbarbicate inerzialmente a determinati valori e giudizi, che sono diventati pregiudizi, dato il mutare della situazione. Questo vale in particolare per le culture liberali e socialdemocratiche: i primi diventano dei puri conservatori, mentre la socialdemocrazia rimane aggrappata a un modello di stato sociale e di idea di uguaglianza che non può più reggere rispetto ai fenomeni di globalizzazione. È tutto da reimpostare, da rivedere, in particolare in Italia, dove accanto a questa trasformazione globale c’è anche la catastrofe specifica che passa sotto il nome di tangentopoli, che invece è il crollo anche di tenuta etica e morale dei partiti del patto antifascista.
Qui De Rita direbbe che la mia lettura è tutta politicistica (io credo cultural-politicistica): secondo me non sono mai le trasformazioni semplicemente economiche che possano motivare quello che è successo in questo paese e in Europa. Accade dunque che le componenti fondamentali che hanno dato vita all’Unione europea entrano in un cono d’ombra totalmente subalterno ai modelli neoliberisti; anche l’euro nasce in questo clima: il mercato, la libera concorrenza... non c’è più il pilastro della solidarietà, della sussidiarietà, punti fondamentali per la cultura di uno Sturzo, di un De Gasperi. Tutti questi pilastri vengono meno. Rimane l’affannosa rincorsa a quelle che si presume essere le nuove forme di potere. E quando con la crisi vengono meno le possibilità di promettere ancora ulteriormente «magnifiche sorti e progressive», queste forze si spappolano.
Lo scenario che sta illustrando non è dei migliori...
Lo so, ma nel mio discorso non c’è niente di nostalgico. Il problema non è il venir meno di determinati valori, ma il fatto che questa Europa è vecchia, forse decrepita, e non si può chiedere a un vecchio di non aver paura, di essere audace. La domanda allora è: c’è la stoffa per ritessere un discorso politico, per riformare una élite politica in Italia, in Europa? Perché questi nazionalismi, i sovranismi sono nient’altro che l’effetto del disgregarsi di queste precedenti culture, che non sono state al passo con la trasformazione. Sono il segno che l’Europa è vecchia, che non produce più, che è un terreno sterile; bisogna quindi trovare nuovi fertilizzanti. E penso, da non credente (ma è da qui che nasce la mia attenzione al mondo cattolico) che forse il fertilizzante può venire proprio dalla Chiesa: discutendo, dialogando, dibattendo, polemizzando... È il mondo cattolico che può essere il segno di contraddizione, che può rimettere in movimento qualcosa. Se non da lì, da dove può venire? Certo, frange socialdemocratiche possono anche tentare un discorso sui temi economici, sui temi sociali... ma è da lì che può venire la spinta maggiore.
Eppure oggi quel mondo cattolico sembra silente o, il che forse è peggio, diviso al suo interno...
Ha ragione. Un esempio molto banale, visto da fuori. Io ero convintissimo che l’agitazione del crocifisso, del rosario in un comizio sarebbe costata cara in termini di consenso. Pensavo che era impossibile che passasse inosservata la blasfemia di gesti simili e invece mi dicono i miei amici sondaggisti e analisti che il gesto ha fatto guadagnare consenso, proprio dal mondo cattolico. Qui c’è un problema colossale e mi riferisco al problema educativo, alla formazione della classe dirigente, un ambito che oggi appare sterile. Gli intellettuali non esercitano più alcuna influenza. Le università hanno sempre esercitato in Europa un’egemonia culturale, ma tutto questo oggi sembra finito. E si fa fatica a pensare un’Europa senza cristianità.
Secondo l’espressione del Papa, non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca, che però ha trovato tutti impreparati.
Il modello è proprio quello del libro di Karl Polanyi, La grande trasformazione. Dove la trasformazione economica diventa trasformazione della testa della gente. Dobbiamo diventare consapevoli che abbiamo a che fare con un uomo diverso; il mutamento è culturale e antropologico, basta vedere i giovani, i ragazzi. Questo mutamento ha colto impreparate le culture che sono uscite dalla grande prova della guerra, che hanno avviato l’Unione europea e che hanno fatto le costituzioni, quelle costituzioni che avevano quel carattere tipicamente democratico, progressivo, come ad esempio la costituzione italiana. Il fatto è che sull’Europa ci sono stati e permangono molti equivoci. Ad esempio si cita il modello di Spinelli ma ho la sensazione che i tanti che lo citano non l’hanno mai letto. Quello era un modello totalmente neo-illuministico e sostanzialmente autoritario per cui è l’élite che fa l’Europa in barba alle diverse sovranità nazionali. Quindi quando parliamo di identità nazionale di cosa parliamo? Una identità liberale? Cosmopolita? Illuminista? Per come si sono sviluppate le vicende dell’Europa è evidente che si è perduto di vista l’elemento della sussidiarietà, che era fondamentale nel modello federalista autentico. In quel modello con la creazione dell’unione europea politica si superava, ma al tempo stesso si difendeva, l’identità nazionale, la si garantiva, dando peso politico al singolo stato membro, in un’unione che faceva la forza di ognuno. Non si è riuscito a spiegarlo, a comunicarlo in nessun modo. E ora è facile comunicare il messaggio opposto: Italy first e così via. Non si è riuscito a comunicarlo perché si è trasmessa sempre e costantemente l’impressione che l’obiettivo fosse il mero superamento dell’identità nazionale all’interno di un modello illuministico. Così come non si è compreso che la battaglia sull’Europa è decisiva per la cristianità. Si può certo dire “l’Europa vada come va, tanto noi, la Chiesa, siamo il mondo”. È giusto da una parte, dall’altra è sempre vero che urbs et orbis, la città e il mondo, come a dire che non può esserci un mondo senza centro, e qual è il centro? Washington? Pechino? Buenos Aires? Roma? Gerusalemme? Certo, il Mediterraneo, il centro è quello. Non si è ancora capito in nessun modo che il centro, bene o male, continua a essere questo. E invece assistiamo in Europa all’assenza e al fallimento totale di politiche mediterranee, perché non si ha questa visione storica, e agli errori tattico-politici che dipendono dall’incomprensione della dimensione di lungo periodo. Il Mediterraneo non era cruciale soltanto per evitare che diventasse il fossato, il muro che è diventato, ma lo era in quanto è esso stesso l’Europa che si gioca lì, in quelle acque che uniscono Atene e Gerusalemme con la prima e la seconda Roma.
La crisi assume i contorni di una mutazione antropologica. Penso all’impatto delle tecnologie, al grande innalzamento dell’età della vita e penso all’elemento che oggi sembra giocare un ruolo fondamentale anche a livello politico, quasi elettorale: la paura, che si trasforma in rancore.
Ritengo che la paura sia strettamente collegata all’invecchiamento. Organismi vecchi difficilmente affrontano le sfide con coraggio. Un organismo vecchio tende a difendersi, quando l’ambiente muta si chiude, questa è fisica. Questi fenomeni che avvertiamo ovunque in Europa derivano, secondo me, sostanzialmente da questo. Come nei secoli dell’Impero romano, mutatis mutandi, l’Europa ha bisogno di accogliere. Ma bisognava farlo per tempo. Perché era evidente che l’Europa avesse bisogno di sangue nuovo, e anche di intelligenza nuova, e che dovesse quindi affrontare questo meticciamento, come dice il cardinale Scola che lo aveva capito perfettamente e predicato in modo incessante. Ricordo quando era Patriarca a Venezia: non c’era manifestazione religiosa dove lui non ricordasse questo aspetto del meticciato. Per tempo era necessario che l’integrazione avvenisse attraverso politiche di cittadinanza, politiche economiche rivolte anche ai paesi da cui veniva questa gente, stringendo accordi commerciali, culturali, scambi con più paesi. Avremmo dovuto fare noi europei quello che in termini neocoloniali assoluti sta facendo la Cina. Questo è compito degli europei, come si fa a non capire? È lo stesso discorso del Mediterraneo di cui sopra: l’Europa è Euro-Africa. Qual è il tuo destino, Europa? A chi devi guardare se non ai due miliardi e mezzo che saranno tra un po’ gli africani, a chi altri devi guardare?
Se svolto per tempo e organizzato bene, quel lavoro politico di integrazione avrebbe dato vita a quel positivo meticciamento di cui parlava Scola. È certo che se non lo organizzi in alcun modo e improvvisamente, in base alla spinta delle guerre, dei cambiamenti climatici, della miseria, cominciano a precipitarti addosso enormi masse di rifugiati, esuli, poveretti, è chiaro che quei vecchi di cui sopra, soprattutto durante una crisi economica, diventano inevitabilmente la più facile preda di una propaganda di destra classica.
Hitler, che non c’entra niente con questo discorso, nel 1929, prima della crisi, prende il solo 2,8 per cento dei voti, e Stresemann e Briand, pochi giorni prima del crollo di Wall Street, s’incontrano, dicono ogni problema tra loro è risolto, che si metteranno d’accordo su tutto, fratelli per sempre, e che insieme Germania e Francia lavoreranno da domani per dar vita all’unione europea. Sei mesi dopo c’è la crisi e tre anni dopo c’è l’avvento di Hitler. Crisi non gestite, trasformazioni epocali non governate, possono produrre di tutto, come abbiamo visto quando sono crollati gli stati socialisti e c’è stata la guerra in Bosnia. Questa è la grande responsabilità che devono capire gli eredi di quelle culture, devono capirla, mettersi insieme e dire: cosa facciamo insieme?
Parliamo degli eredi di quella cultura che è quella cattolica, che lei, da laico, non credente, definisce un potenziale fertilizzante di una società vecchia.
La Chiesa è fondamentale, la forma politica della Chiesa ha dimostrato di essere quella forse più valida per affrontare problemi di questo genere. Però la domanda che io mi pongo sempre di più è: si capisce che la battaglia decisiva è qui in Europa?
Sono stato io a suggerire a monsignor Ravasi il motto episcopale quando fu ordinato: Praedica Verbum. Proprio come dovevano fare i professori di religione nelle scuole: evidenziare senza chiacchiere, senza spiegazioni. Semplicemente praedica Verbum, che però si rivela un segno di contraddizione, perché non sarai mai capace di seguire quel Verbo. Però - è questo è il punto - vedi che distanza c’è rispetto alla realtà. Misura la distanza, inquieta l’intelligenza dei tuoi interlocutori facendoli riflettere su questa distanza, senza tante chiacchiere, senza voler fare il maestro di nessuno. Questa parola indubitabilmente ha formato da due millenni l’Europa. Predicare il Verbo può avere, secondo me, effetti politici enormi ancora oggi come li ha avuti in passato.
Che cosa sono i movimenti di riforma se non tornare a quel breviloquio? Quel Verbo ha formato la testa della gente, proprio in momenti di crisi. Si tratta allora pascalianamente di scommettere di nuovo su questa forza.
Intervista a Massimo Cacciari...
di Andrea Monda (L’Osservatore Romano, 18 luglio 2019)
E i laici? Qual è il loro ruolo?
I laici devono riprendere un grande discorso di riforma dell’Unione, delle sue istituzioni con coraggio, con radicalità. Sono trent’anni che si insegue invece la moderazione, ma come vuoi risolvere moderatamente una situazione di grande trasformazione? Puoi essere benissimo un moderato, se si tratta di barcamenarsi, ma se affronti una tempesta devi abbandonare la moderazione. La Tempesta di Shakespeare si apre appunto con una tempesta per cui tutti i personaggi sono come annichiliti, ci sono pure i re, ma non contano niente adesso, il re non serve ora, ci vuole invece il nocchiere, ci vuole uno che governi nella tempesta: tu caro re non sei più sulla terraferma come prima. Questa è la sfida per i laici che devono provarsi per capire se sono in grado di governare nella tempesta. Allora potrebbero combinarsi, accordarsi con la dimensione spirituale. Se c’è una grande forza spirituale questo ha effetti civili, politici, sociali, ma ci vuole radicalità, in entrambi i campi, nel capire che qui in Europa si gioca una battaglia forse decisiva per la stessa cristianità.
Sul versante cattolico: da una parte c’è questo predicare il Verbo, anche in maniera molto essenziale, di Papa Francesco, dall’altra c’è quel dato preoccupante che lei prima citava, c’è qualcuno che sventola i simboli religiosi e accresce il suo consenso, magari incitando la folla a fischiare contro il Papa. Uno scollamento a dir poco inquietante.
Secondo me in questo momento difficile d’invecchiamento europeo, di crisi delle culture politiche di cui ho parlato, è stata coinvolta anche l’immagine della Chiesa, ridotta all’interno di un discorso di astratto cosmopolitismo: la Chiesa che s’interessa del mondo, s’interessa dei migranti, il Papa che va a Lampedusa... è stata data una lettura superficiale, complice anche il modo in cui il Papa è stato letto da laici e non credenti, in una chiave alla partito d’azione, alla Spinelli... Si è data questa immagine: un cosmopolitismo degli intellettuali.
Il che contrasta frontalmente con la realtà, se pensiamo, ad esempio, alla predicazione di Francesco che è il massimo della concretezza, della prossimità.
Sì, ma c’è stata questa lettura. E bisogna fare attenzione, perché appunto uno furbo come Salvini ha capito questo e si è inserito in questa situazione cercando in modo sottile di spaccare, mettendo i Papi uno contro l’altro, venerando per esempio la figura di Giovanni Paolo II, il Papa dell’identità cristiana, della lotta al comunismo....
L’identità è una parola che adesso è rispuntata fuori prepotentemente.
Questa è un’altra battaglia culturale formidabile da fare. Perché l’identità cristiana è l’identità che acquisisci facendoti prossimo, non esiste un’identità a sé. L’identità è pros eteron, per l’altro, la tua identità diviene nella misura in cui ti fai altro, diviene nella misura in cui ti approssimi, ti fai prossimo all’altro. Questo è fondamentale, non si tratta di un’identità astratta. Un’identità “suolo e sangue” semmai è quella del polites greco, l’identità cristiana non ha niente a che vedere con questo. Questa è una battaglia culturale grande, complessa e urgente. Potrebbe aiutare il recupero di un’etica classica di un certo tipo per questa battaglia da condurre insieme laici e cattolici. Sfida difficilissima in una condizione in cui l’Europa è in una situazione di estrema debolezza economica e demografica. Ci vorrebbe davvero una grande iniziativa, credibile sul piano delle riforme da attuare, delle riforme da svolgere, sul piano anche del ceto politico, della classe dirigente che la porta avanti, perché anche quello ha la sua importanza. L’autorevolezza del ceto politico è un elemento importante nell’azione politica e invece oggi è ai minimi storici.
Il suo libro su Maria, «Generare Dio», mi è venuto in mente perché prima parlava dell’Europa decrepita, che ha bisogno di un fertilizzante, che è in crisi di generatività.
In crisi come tutto l’Occidente che ha avuto il suo grande boom dalla metà del Settecento alla prima guerra mondiale, un grande boom demografico, e poi questo boom demografico si è spostato in Asia e Africa. Dipende da vari fattori, ma certo è un segno caratteristico del declino di un paese, di una stirpe. In questo contesto il tema di Maria è importantissimo, se s’intende in questa chiave. C’è stato un modo del tutto sbagliato con cui si sono affrontati in questi anni temi di questo genere come famiglia e procreazione. Con una posizione da parte della Chiesa non di attacco, ma di difesa. Errore devastante.
Penso al tema della dignità della donna: io nel libro dico che quando la donna genera, genera Dio. E invece si è scelta la linea della difesa su vecchie frontiere riguardanti i diritti della donna, il diritto di famiglia... Il risultato è che oggi in regioni cattoliche come il Veneto nessuno più segue quello che gli dice Santa Romana Chiesa. Una forza politica può dare un’immagine di sé conservatrice, ma se la dà la Chiesa è spacciata. Alla riforma devi rispondere con la tua riforma, alla crisi rispondi con i santi, rispondi con San Francesco, con Sant’Ignazio, non puoi rispondere difendendo etiche e basta. L’idea di Maria per me è fondamentale, è l’idea di una donna che consapevolmente, liberamente, accoglie, malgrado il dubbio, malgrado il dolore, malgrado la sofferenza, accoglie e segue fino alla Croce.
Ritorno sul tema del rancore, da dove nasce questo risentimento?
Ci sono dei vizi nella nostra natura. Il realismo cristiano ce lo dice, chiamalo peccato originale, chiamalo come vuoi, ma la nostra natura è prigioniera. Ed ecco allora gli animali danteschi, i vizi capitali che oggi vengono esaltati in un sistema individualistico, penso all’invidia, all’avarizia. L’invidia è l’opposto della prossimità. Il cristiano dice di farsi prossimo, l’individualismo dice “io invidio”, sono due posizioni inconciliabili, drammaticamente contrapposte. L’avarizia, pleonexia dicevano i classici, è volere avere di più, tenere il mio e avere di più. Il risentimento allora può diventare odio, perché se io ho e voglio avere di più, se comincio ad avere di meno, c’è l’invidia, e l’invidia può diventare odio.
Una dinamica opposta alla dinamica che i cristiani indicano nel termine caritas e che Aristotele diceva giustizia, dikaiosyne: il giusto non è soltanto colui che dà a ciascuno il suo, ma che vuole il bene dell’altro. Quindi già per Aristotele la giustizia è un atteggiamento per l’altro, pros eteron. Sono temi che poi la Chiesa eticamente recupera: San Tommaso quando parla di etica recupera questi elementi propri, che poi, nell’itinerario in Deum, vengono tutti valorizzati ancora di più, esaltati ancora di più e trasposti su un piano ancora più alto. Ora di nuovo siamo lì, siamo forse nella fase estrema del sistema individualistico. Sono venuti meno quegli organismi, quelle organizzazioni, quelle forme che metabolizzavano queste dinamiche proprie dell’individualismo. I partiti politici facevano una cosa di questo genere, le assumevano e le trasformavano, le metabolizzavano, le accordavano, e facevano venire fuori una specie di sintesi, ognuno per la sua parte sociale. La crisi dei partiti politici ha provocato anche questo. Nessuno dei partiti, anche l’unico che c’è che è la Lega, compie più questo lavoro, assolutamente. Mette insieme, fa un mucchio di tutte le istanze degli individui e le mette lì ma senza mediazione, senza sintesi. L’attuale governo è esemplare da questo punto di vista: ce n’è per tutti, meno tasse per chi vuole meno tasse, il reddito di cittadinanza per chi vuole il reddito di cittadinanza...
I partiti politici come i corpi intermedi sono entrati in crisi, anche perché, bisogna riconoscerlo, si sono “dimissionati”. Se i corpi intermedi per anni e anni sono andati avanti facendo clienti, non possono più avere credibilità.
La tecnologia come contribuisce a questo cambiamento d’epoca?
È chiaro che è fondamentale. Di per sé non è niente di nuovo, perché dalla rivoluzione industriale e ancora prima, scienza e tecnica sono elementi strettamente connessi. Ma ci sono grandi trasformazioni con dei veri “salti”, come quello dell’Ottocento. E così oggi assistiamo a un grande salto tecnologico, che però oggi può intervenire nella vita, nel determinarne le forme. La vita, questo è il punto. Secondo me, il tratto più spaventoso, più tremendo, più terribile proprio nel senso greco di meraviglioso e tremendo, cioè stupefacente, è che questo individuo è tutto fuorché l’individuo nascosto, è tutto esposto, tutto sulla scena, tutto a disposizione, tutto calcolabile; non è il singolo, è esattamente l’opposto del “singolo” di Kierkegaard. No, questo è proprio l’individuo, è un numero, ma sul palco, sulla scena. Esposto. È l’oscenità di quest’epoca, e sarà sempre peggio; con i big data che ci possono essere adesso tu individuo sei perfettamente quello che risulti in base a quello che acquisti: i libri che acquisti, i vestiti che acquisti, le telefonate che fai, i treni che prendi, quante volte usi il bancomat. Tutto questo è totalmente schedato, il data è la combinazione di tutte queste informazioni dalle quali viene fuori come risultato chi sei tu. E un domani potrebbe accadere benissimo che tu vai a chiedere lavoro a qualcuno: “il nome scusi? Vediamo, ah lei è questo”. Vede dove siamo arrivati? A una inquietante forma di uguaglianza, ciò che alcuni teorici della democrazia temevano, che l’uguaglianza potesse portare a questo, non a caso ci avevano aggiunto la fratellanza.
Che però è stata la grande dimenticata, a favore di libertà e uguaglianza.
Anche perché, come ricordava un vero grande sociologo e filosofo come Georg Simmel, libertà e uguaglianza per conto loro sono in assoluto opposizione e contrasto, sono la contraddizione logica, perché se sono libero non sono uguale a te. Quindi libertà e uguaglianza di per sé fanno l’individuo, ognuno libero contro l’altro. E dunque ci vuole la fratellanza. Come si produce questa fratellanza, questa amicizia? Come si produce? Chi la produce? E allora, di nuovo, organismi, corpi intermedi, partiti, sindacati, da “sin-ducere”, mettere insieme. Ci abbiamo provato in passato e in parte ci siamo riusciti. Ma ora se tutto questo si spappola non c’è niente da fare, ci sono i big data, c’è chi ne dispone, e a sua disposizione sono anche gli individui.
L’intervento
Dante, simbolo dell’Italia molto prima della sua unità
Il presidente della Società Dante Alighieri sostiene l’iniziativa di una Giornata dedicata al poeta della «Commedia». Il Dantedì sarà una festa per gli italiani e chi ama l’Italia
di ANDREA RICCARDI *
La proposta di dedicare a Dante una giornata celebrativa, avanzata da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», incontra l’interesse di tanti. Dante dà nome alla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosue Carducci per difendere l’identità degli emigrati nel mondo. La Società lavora in questo senso da 130 anni e conta oggi circa 400 comitati e tante scuole ovunque. La sua missione resta l’insegnamento dell’italiano non solo agli emigrati e ai loro figli, ma anche a chi è attratto dalla lingua e dal vivere all’italiana.
Abbiamo sempre festeggiato la Giornata di Dante in tutti i nostri comitati il 29 maggio, scegliendo questa tra le possibili date di nascita del poeta, uno degli ultimi giorni del mese indicato nel commentario di Boccaccio. Questi afferma che Dante morì dopo aver passato il cinquantaseiesimo anno «dal preterito maggio». Ma la data non è importante. Quel che conta è l’esperienza positiva di una giornata dedicata al Sommo Poeta da parte della nostra Società lungo gli anni.
Sono quindi d’accordo sul Dantedì. Infatti Dante è un simbolo del «mondo italiano», molto prima dell’unità politica del Paese, che però si proietta verso il futuro e rappresenta un giacimento di poesia, umanità e mondo spirituale, ancora in parte da esplorare. È simbolo, in qualche modo, di «preveggenza», di un rapporto positivo tra passato e futuro: il poeta immagina la redenzione del Purgatorio, dando forma letteraria alla speranza di poter «rimediare» agli errori e ai limiti, in un modo che pochi decenni prima non esisteva. Dante ha fondato la visione di un’umanità più giusta e positiva. È una visione «italiana» in senso profondo. Del resto si celebrano le identità culturali associate alla grande poesia di autori come Cervantes o Shakespeare.
Dante è con Shakespeare nel cosiddetto «canone poetico occidentale». Molti lo conoscono. Tuttavia bisogna conoscerlo sempre meglio, perché la ricchezza letteraria della sua opera non si esaurisce e non si sintetizza. È come una Bibbia, che va letta e riletta: allora si scoprono messaggi e significati nuovi. Insegna una lettura che è un metodo per fare cultura, anche per i non specialisti. Lo si vede nel Paradiso, summa delle conoscenze concluse nel simbolo della rosa candida, che è un raffinato esempio di come insegnamenti alti e complessi possano essere incastonati in un testo poetico e letterario. La rosa, simbolo caro a poeti e mistici, è il fiore del mese di maggio, quando celebriamo la Giornata di Dante.
Qualunque sarà la data prescelta, la proposta di un Dantedì non deve cadere nel vuoto. La giornata sarà significativa non solo per la Dante Alighieri, da cinque generazioni impegnata nella salvaguardia della cultura italiana nel mondo. Sarà soprattutto una «festa» per gli italiani e per quanti guardano con simpatia al «mondo italiano» in tutto il suo spessore. Questo mondo vive anche fuori dalla penisola. Abbiamo dato come titolo al nostro prossimo congresso di Buenos Aires, che raccoglie italiani e amici dell’italiano: Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. La nostra lingua non è egemonica, non s’impone ma attrae: unisce i tanti «pezzi d’Italia», come diceva il manifesto fondatore della nostra Società, guardando agli italiani e ai simpatizzanti per l’Italia nel mondo.
Dante non è solo il simbolo dell’Italia. È voce mondiale e patrimonio dell’umanità. L’Italia (e forse l’Europa) non sarebbero quel che sono nella cultura e nel seguir «virtute e canoscenza», se non ci fosse stato Dante, il quale non è solo, come molti credono, la sintesi del Medioevo, ma è l’anticipatore dell’umanesimo ancora prima di Petrarca, grazie al colloquio fertile con i classici, nonché il profeta del futuro con una visione moderna dell’esistenza e in una simbiosi di vita e arte, mai così intensa prima né dopo di lui. Per questo il Dantedì rappresenta, in questo sconfinato mondo globale dei nostri tempi, una salda radice e un’apertura al futuro.
L’Emilia-Romagna appoggio al progetto e l’evento a Ravenna al festival Dante2021
La regione Emilia-Romagna sostiene la mobilitazione per il Dantedì. In una risoluzione il consigliere Gianni Bessi (Partito Democratico) impegna la giunta «ad attivarsi presso il governo e il parlamento affinché si istituisca, tramite percorsi legislativi e normativi, anche formalmente la giornata del Dantedì». Al progetto di una Giornata mondiale per Dante è dedicato un evento del festival Dante2021 a Ravenna il prossimo 13 settembre. Con lo scrittore e giornalista Paolo Di Stefano, che in un articolo del 24 aprile sul «Corriere» aveva lanciato il Dantedì, intervengono il sindaco della città Michele de Pascale, Carlo Ossola (presidente del Comitato nazionale per i 700 anni dalla morte di Dante), Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca), Wafaa El Beih (direttrice del dipartimento di Italianistica dell’Università di Helwan-Il Cairo), i traduttori René de Ceccatty e José María Micó e il tedesco Harro Stammerjohann, socio straniero della Crusca.
* Corriere della Sera, 15.07.2019 (ripresa parzale - senza immagini).
di Maurizio Corrado (Doppiozero, 11 luglio 2019)
La buona notizia è che non è vero che i combustibili fossili si stanno esaurendo, la cattiva è che non è una fake news, continueremo a riversare tonnellate di veleno nell’aria come non ci fosse un domani. Mentre fra le sabbie arabe e negli altri pozzi che bucherellano la terra si continuava a estrarre l’oro nero alla vecchia maniera, nel 2008 è stata messa a punto una nuova tecnologia chiamata fracking. L’idea è semplice: immaginate di appoggiare uno smisurato martello pneumatico alla crosta terrestre e di accenderlo in modo che, al posto dell’asfalto, frantumi la crosta rocciosa del pianeta sparando “un cocktail di prodotti chimici mescolati a grandi volumi d’acqua ad altissima pressione” riuscendo a raggiungere le sabbie bituminose sottostanti, intrise di petrolio di roccia, tigh oil, e gas naturale. Quando si è visto che il metodo funzionava, il mondo delle multinazionali ha tirato un grosso sospiro di sollievo, già si stavano quasi rassegnando a doversi convertire a metodi di produzione d’energia più puliti e meno remunerativi, visto che ormai era chiaro che mancavano una manciata di anni alla fine delle riserve. Invece no, improvvisamente la nuova tecnologia apre altri orizzonti.
Gli Stati Uniti scoprono, insieme a Regno Unito, Cina e Russia, di avere delle riserve in casa, iniziano a diminuire le importazioni di petrolio e gas, e già dai tempi dell’amministrazione Obama qualcuno inizia a parlare di autosufficienza, con l’immancabile contorno di milioni di nuovi posti di lavoro, costo basso dell’energia e conseguente ripristino della minacciata supremazia statunitense nella politica mondiale, idee ereditate dalla nuova dirigenza americana a cui piacciono tanto anche perché aiutano a ignorare le innumerevoli ricerche scientifiche che danno sempre meno anni di vita alla vita stessa su questo pianeta.
Di questo e altro parla L’alba dell’era solare di Prem Shankar Jha, uscito a maggio 2019 per Neri Pozza. Classe 1938, Prem Shankar Jha è un economista indiano che ha studiato filosofia, con una lunga carriera di consulente per le Nazioni Unite e il governo indiano, di corrispondente per varie testate fra cui il Financial Express e il Times of India e di docente nelle Università della Virginia, alla Haward University e all’Institut d’études politiques di Parigi.
Il libro parte da una domanda semplice: come mai, nonostante fin dai primi anni Settanta la comunità scientifica ripeta che il mondo si trova in una situazione di forte pericolo, chi può fare concretamente qualcosa continua a non fare nulla? Prem Shankar Jha indica nella santificazione del mercato la risposta. Quando i governi seguono esclusivamente le indicazioni del mercato, diventa pressoché impossibile proporre soluzioni che non siano quelle già esistenti. Con analisi precise e piene d’informazioni analizza diversi casi mostrando come alcune delle soluzioni più efficaci siano state affossate, denigrate e infine messe da parte esclusivamente per ragioni di convenienza commerciale di pochi grandi gruppi economici.
Non è la prima volta che si alza una voce di questo genere, la differenza con anche solo qualche anno fa sta nell’inquietante urgenza che assumono i temi sul tappeto ogni ora, ogni minuto, ogni secondo che passa. Proprio mentre state leggendo queste parole, ci stiamo dirigendo verso quello che già alla fine degli anni Settanta lo scienziato inglese James Lovelock chiamava il punto di non ritorno.
Uno dei dati più inquietanti sta nell’ormai innegabile scioglimento dei ghiacci polari. Ma qui non si parla di orsi bianchi denutriti, di foche e trichechi che perdono il loro ambiente naturale, non si parla neppure della distruzione degli Inuit, che hanno subito la medesima sorte di ogni popolo che ha incontrato la nostra cultura addomesticata, cioè l’estinzione, culturale e fisica. C’è un problema sotto il ghiaccio. Agli inizi dell’ultima era glaciale, circa trentamila anni fa, un’immensa massa di resti vegetali si sono congelati formando quello che viene chiamato permafrost, uno strato della crosta terrestre che circonda il polo Nord, si estende sotto il mar Glaciale Artico ed è profondo da alcuni metri a più di tre chilometri. Il problema è che al suo interno sono intrappolati da 1,3 a 1,7 trilioni di tonnellate di carbonio sotto forma di resti vegetali in decomposizione. È una quantità che supera di almeno duemila volte l’annuale emissione prodotta dall’uomo. A questi si aggiungono i cosiddetti clatrati, o idrati di metano, un composto solido in cui una cospicua quantità di metano è come intrappolata in una struttura cristallina simile al ghiaccio. Un chilo di clatrato può contenere fino a 168 litri di gas metano.
Detto in termini semplici, sotto i ghiacci del Polo c’è una quantità di gas intrappolato che se venisse liberato produrrebbe una catastrofe di proporzioni inimmaginabili, qualcosa di simile a quanto succede ne La nube purpurea, un romanzo di Matthew Shiel del 1901, dove una immissione di gas venefico proveniente dal mare provoca lo sterminio completo di tutta l’umanità a parte il protagonista e una ragazza che si salva perché sempre vissuta in una grotta.
E proprio dal mare può arrivare un’altra reazione che ci potrebbe scaraventare oltre il punto di non ritorno. Anche qui, non è tanto ciò su cui è concentrata l’attenzione mediatica, cioè l’inquinamento con la plastica, ma il fatto che gli oceani assorbono due terzi di tutta l’anidride carbonica trattenuta dalla natura attraverso le alghe e il fitoplancton. Quando la temperatura degli oceani supera una certa soglia, l’acqua in superficie smette di scendere e quella più fredda in profondità smette di salire, il fitoplancton non riesce più a vivere, l’equilibrio si spezza, l’anidride carbonica non viene più assorbita e cresce andando a incrementare il riscaldamento globale. Ecco un’altra formula che, reiterata all’infinito, si è scolorita perdendo il vero significato a favore di ciò di cui la riempiono i media quotidianamente, comprese le azioni della bimba svedese che ha trascinato con sé le nuove generazioni verso una ribellione contro il mondo degli adulti, colpevole di aver trascinato il mondo sull’orlo del baratro, ottenendo come effetto secondario che quel mondo relega questo genere di preoccupazioni fra le bagatelle da ragazzi, da bimbi, appunto, mentre gli adulti hanno ben altro a cui pensare.
Qual è la soluzione? Prem Shankar Jha sostiene che siamo ancora in tempo. Dobbiamo non solo smettere di produrre anidride carbonica, ma mettere a punto i sistemi che ci permettono di estrarla dall’atmosfera. Per l’autore indiano uno dei noccioli della questione sta nei trasporti, nel trovare un’alternativa valida alla benzina, alternativa che non solo è già disponibile da tempo, ma che ha avuto anche modo di essere già sapientemente affossata dai grandi gruppi economici. -Produrre energia dai rifiuti generici delle città e dagli scarti delle lavorazioni agricole, le biomasse, attraverso processi non inquinanti e convenienti è già una realtà in molti paesi, si tratta di indirizzare le lavorazioni verso la produzione di metanolo. Nel ’43, in piena Seconda Guerra Mondiale, la Germania aveva iniziato a usarlo come carburante su larga scala, dagli anni Cinquanta in due paesi lontani fra loro geograficamente e politicamente, Sudafrica e California, il metanolo veniva mischiato alla benzina con risultati eccellenti dato che la miscela aumenta le potenzialità del motore. Il problema della diffusione del metanolo non sta solo nella rete di distribuzione che deve attrezzarsi, ma soprattutto nella lobby agricola che ha spinto l’etanolo che, prodotto dall’amido di mais, ne provoca l’aumento di prezzo e mette a rischio larghe fasce di popolazione. Negli Stati Uniti, “secondo un rapporto del dipartimento dell’Energia, il metanolo era stato sconfitto dall’etanolo perché non aveva il sostegno di una lobby organizzata.”
Prem Shankar Jha analizza a fondo eolico, fotovoltaico ed etanolo mostrando come, essendo tutte soluzioni scarsamente efficaci, proprio per questo sono spinte dal sistema che non le teme, mentre le soluzioni che potrebbero rivoluzionare veramente la produzione di energia sono combattute e messe in condizioni di non nuocere. Tra queste, quella che più ritiene valida è l’energia solare termodinamica sviluppata dagli impianti a concentrazione solare, Concentrating Solar Power, CSP. Contrariamente al fotovoltaico, per la loro costruzione non si usano materiali rari ma essenzialmente acciaio e specchi.
Il principio è molto simile a quello usato da Archimede per bruciare le navi romane durante l’assedio di Siracusa, una serie di specchi che dirigono la luce e il calore del sole in un punto centrale.
Il 5 febbraio 2016 si è inaugurato a Ouarzazate in Marocco l’impianto a concentrazione solare più grande del mondo. L’azienda è spagnola, la volontà di costruirlo è del governo marocchino che non vuole più dipendere dalle importazioni per il fabbisogno energetico. Il risultato è che da quando l’impianto è in funzione la dipendenza energetica del Marocco è passata dal 97% al 58%.
Dalle analisi di Prem Shankar Jha emerge con chiarezza la grande resistenza che ha il mondo economico nell’abbandonare i metodi di produzione dell’energia attuali soprattutto perché garantiscono la continuità della concentrazione del potere dov’è ora. Spostare la produzione dell’energia verso i paesi del sud del mondo significherebbe spostare a sud anche l’asse economico e questo, solo questo, evidentemente non è sostenibile.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
J. Chirac, alla conferenza dei «Cittadini della Terra»: «Siamo alla soglia dell’irreversibile» (2007).
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
Giorgio Agamben “Il regno e il giardino”
di Antonio Lucci (Doppiozero, 14 Giugno 2019)
Michel Foucault, nel suo breve saggio (uscito nel 1984) sui “Luoghi altri”, definì il giardino “un’eterotopia felice”: una definizione forse anche troppo positiva, ma comunque indicativa del fatto che il giardino, per il filosofo francese, rappresentava la realizzazione di una serie di caratteristiche utopiche in un luogo reale, assumendo caratteri spaziali e simbolici fortissimi. Del carattere di luogo simbolico, che dà da pensare, proprio del giardino sembra che i filosofi siano da sempre stati ben coscienti: dal giardino in cui si ritiravano (secondo il motto “vivi nascostamente”) gli epicurei, a quello che consigliava - come ricorda nell’epigrafe al suo ultimo libro anche Giorgio Agamben - di coltivare Voltaire alla fine del suo Candide, passando per il giardino di Herrenhausen ad Hannover, in cui non solo Leibniz amava passeggiare e filosofare, ma che egli stesso contribuì a progettare grazie alle sue conoscenze di matematica e di ingegneria, per fare solo qualche esempio.
Si potrebbe addirittura arrivare a dire che, per comprendere come le società antiche hanno immaginato la propria versione ideale - il proprio paradiso - bisogna guardare al modo in cui esse hanno pensato i propri giardini: il giardino ad Atene era un luogo per la discussione e l’agone scientifico, che corrispondeva agli ideali di democrazia e di paideia propri della cultura greca, mentre il giardino cristiano era hortus conclusus, un luogo in cui le mura proteggevano e al contempo separavano l’uomo dall’esterno, dandogli la sua precisa posizione nel mondo (un mondo in cui la percezione delle barriere, sia fisiche che sociali e culturali, era un tassello psicostorico fondamentale). Il giardino barocco era una sorta di “panottico esterno”, in cui le vie rigidamente disegnate, le piante piegate in forme bizzarre dalla mano umana e l’universale visibilità dall’istanza centrale costituita dal palazzo corrispondevano alla società assolutistica di cui era espressione, quello inglese, invece, con il suo avvicinarsi alla naturalità di una selva, rispecchiava in qualche maniera gli ideali di una società che aveva abolito la monarchia assoluta e cominciava a credere che l’uomo non dovesse essere necessariamente, per natura, indirizzato in maniera univoca nei suoi spostamenti nel mondo.
Non a caso, la parola “paradiso” significa, originariamente, “giardino”: è questo il punto di partenza dell’ultimo libro di Giorgio Agamben. Il filosofo romano rinuncia a un’analisi dei rapporti tra le concrete forme storiche del giardino e i diversi regimi immaginari e ideali politici che le hanno prodotte, per concentrarsi invece su uno specifico giardino: quello dell’Eden.
Tutto Il regno e il giardino, infatti, è una serrata analisi di come, in particolare nella letteratura teologica tardoantica e medievale, il giardino dell’Eden - il paradiso terrestre - sia stato un importante operatore teoretico, usato da autori centrali del canone teologico cristiano - come ad esempio Agostino - al fine di descrivere che cos’è, nella sua struttura più profonda, la natura umana. “Giardino” (o meglio, “Paradiso”) - ci dice Agamben - è il nome che tanto affascinanti quanto spesso dimenticati autori del periodo protocristiano (come Efrem Siro e Sant’Ambrogio) hanno dato alla natura umana, in particolare a quella prima del peccato. Come è noto, a causa del peccato siamo stati banditi dall’Eden, dal Paradiso terrestre: secondo Agamben è proprio questo bando il punto centrale, quando si parla dell’Eden.
Non tanto che esso esista, o il fatto che noi vi abbiamo dimorato (pare, secondo la tradizione teologica, non più di sei ore), quanto il nostro esserne stati cacciati: «Non il paradiso, ma la sua perdita costituisce il mitologema originario della cultura occidentale, una sorta di traumatismo originario che ha segnato profondamente la cultura cristiana e moderna, condannando al fallimento ogni ricerca della felicità sulla terra» (p. 19). Agamben vede nella concezione di Sant’Agostino del peccato originale l’origine della tradizione che si affermerà nel cristianesimo successivo, per cui noi tutti erediteremmo la colpa di Adamo per via fisiologica, e quindi indipendentemente dalle nostre azioni: noi tutti siamo da sempre condannati all’esilio dal Giardino, e questo per colpe non nostre, così come per colpe non nostre siamo condannati al peccato e alla morte. Su questa concezione si basa anche l’idea di una natura umana corrotta per sempre, in tutte le generazioni a venire, da un’azione unica, operata da un singolo: «L’uomo è il vivente che può corrompere la sua natura, ma non risanarla, consegnandosi così a una storia e a un’economia della salvezza, in cui la grazia divina dispensata dalla Chiesa attraverso i suoi sacramenti diventa essenziale» (p. 32). (Se anche Agamben non prende in considerazione qui il tema, si potrebbe allargare il discorso ponendo la domanda relativa a quali conseguenze sulla concezione della colpa e del debito quest’idea agostiniana abbia avuto nella storia del pensiero occidentale). Partendo da quest’idea agostiniana (e anselmiana) Agamben analizza l’affascinante ipotesi connessa con l’idea di una natura umana irrimediabilmente corrotta: quella che - fatta eccezione per le sei ore in cui l’uomo vi abitò felicemente - il Paradiso terrestre sia un giardino vuoto, silenzioso ...e fondamentalmente inutile.
Contro quest’idea Agamben analizza il semidimenticato Scoto Eriugena, che - contro Agostino - legge allegoricamente la narrazione della Genesi biblica, interpretando l’Eden come una figurazione della natura umana prima della sua corruzione. La tesi di Eriugena è il doppio specularmente opposto rispetto alla teoria agostiniana del peccato originale ereditario ed eternamente corruttore della natura umana: quest’ultima è stata creata secondo Eriugena da Dio incorrotta e incorruttibile, come lo è il Paradiso terrestre, e solo il peccato è corruzione, ma corruzione legata all’atto e non alla natura dell’agente. L’uomo, col peccato, è uscito dalla propria vera natura, quella assegnatagli da Dio, perché ne ha abusato: in termini metaforici è uscito dal Paradiso, o meglio, non vi è mai stato.
Quindi, non esisterebbe, per Eriugena, una natura corrotta: la natura è da sempre salva, solo che noi ne siamo fin dall’inizio usciti.
Le dispute dei teologi sul Paradiso terrestre, in ultima istanza, ci dice Agamben, sono delle dispute mirate ad articolare il rapporto tra natura e grazia quali dispositivi teorici reciprocamente connessi tramite l’operatore logico del peccato (diversamente interpretato a seconda della direzione che si vuole dare al rapporto tra queste due istanze), e che definiscono la posizione dell’uomo sia nel mondo, che nell’aldilà.
Uno dei capitoli più interessanti del libro è sicuramente quello dedicato alla Divina Commedia di Dante. Agamben decide (non risparmiando alcune righe ferocemente critiche verso la tradizione dantista) di leggere la narrazione dantesca dell’Eden al di fuori e contro il canone interpretativo tomistico e in generale teologico medievale, in quanto vede in esso un «significato immediatamente politico» (p. 68), che fa del Paradiso terrestre una «figura della beatitudine terrena» (p. 71), a cui «Dante - che rappresenta l’umanità - può acceder[e] senza alcun impedimento» (p. 75). Il rapporto tra beatitudine di questo mondo e Giardino viene ripreso anche nell’ultimo capitolo del suo libro da Agamben, che analizza - partendo da Francisco Suárez - la questione di una possibile “politica del Giardino”, ossia l’esperimento mentale per cui - se non avessimo peccato con Adamo - saremmo potuti restare nell’Eden, dovendo poi sviluppare un qualche tipo di organizzazione sociale.
Agamben rileva come le descrizioni di questa possibile “società politica edenica” nei teologi medievali siano assolutamente carenti, derivandone la conclusione che «il paradiso terrestre non costituisce in alcun modo per i teologi un paradigma politico» (p. 106). Da qui ne segue una discussione, tanto teologicamente avvincente quanto complessa da seguire per i non addetti ai lavori, sulle tensioni chiliastiche del cristianesimo, vale a dire sulle interpretazioni date del passo dell’apocalisse per cui Cristo, tornato alla fine dei tempi, regnerà per mille anni con i giusti su questo mondo prima del giudizio finale. La questione è vicina a quella del giardino terrestre, a volte interpretato, nel corso della storia, come allegoria e a volte interpretato come luogo fisico, presente da qualche parte sulla Terra. Ed entrambe le questioni rimandano a quella - per Agamben sempre centrale - della felicità: è possibile, intravedibile, intravista in alcune epoche della storia del pensiero una felicità vissuta, una felicità della vita, di questa vita in questo mondo?
Il libro di Agamben si chiude con questa domanda, quella sulla dantesca «beatitudine di questa vita» (p. 120), una domanda consegnata al lettore di questo bel saggio, da intendere come un ulteriore tassello nel tentativo agambeniano di portare alla luce le categorie centrali del pensiero occidentale, di cui - sicuramente - il giardino è una delle più importanti, e forse sottovalutate.
Teatro.
Ravenna: tutta la città a scuola con Dante
Un’imponente «chiamata pubblica» per riportare alla luce la struttura drammaturgica della «Commedia»: è la formula del Teatro delle Albe che quest’anno porta gli spettatori a esplorare il Purgatorio
di Alessandro Zaccuri, inviato a Ravenna (Avvenire, mercoledì 3 luglio 2019)
Il Purgatorio, scrive Marco Martinelli, è la cantica degli artisti. Di quelli attivi all’epoca di Dante, come il miniaturista Oderisi da Gubbio, e di quelli ancora là da venire, come Joseph Beuys o Vladimir Majakovskij. Separati da qualche secolo di storia terrena, ma meravigliosamente riuniti nella visione oltremondana dalla «chiamata pubblica per la Divina Commedia » che il Teatro delle Albe realizza all’interno del Ravenna Festival.
Un progetto avviato nel 2017 con l’Inferno e destinato a concludersi con il Paradiso nel 2021, settimo centenario della morte di Dante. Il 2019 è invece l’anno del Purgatorio, che non è soltanto la cantica nella quale gli artisti sono più presenti, ma anche quella che gli artisti più amano, come dimostra per esempio la predilezione espressa da T.S. Eliot.
Il Purgatorio è una montagna, lo sappiamo. Nello stesso tempo, però, è una scuola. A sostenerlo è di nuovo Montanari in Nel nome di Dante, il libro che accompagna e integra l’avventura della «chiamata pubblica». Teatro di strada e teatro di popolo, ridefinizione della città come palcoscenico urbano e rivendicazione della natura politica del coro, «un uno che non cancella i molti », secondo la formula che si legge in Acusma, il saggio - edito da Quodlibet - che Enrico Pitozzi ha dedicato al «teatro sonoro» di Ermanna Montanari, moglie di Martinelli e sua compagna di scena dalla metà degli anni Settanta.
Insieme, Ermanna e Marco fanno il Teatro delle Albe, ma non ne rappresentano l’interezza. Per rendersene costo basta venire a Ravenna, dove in queste settimane si svolge la liturgia comunitaria del Purgatorio. È, almeno in parte, lo stesso spettacolo già allestito tra maggio e giugno a Matera, ma nel caso di un oggetto teatrale come questo il cambio di ambientazione implica un ripensamento profondo delle scelte drammaturgiche. Non nell’impianto generale, quanto nell’ambientazione degli episodi e più ancora nella modulazione del paesaggio sonoro, che del Teatro delle Albe rappresenta forse l’elemento più caratteristico. C’è la voce di Ermanna Montanari, che nel tempo è diventata uno strumento a sé, nel quale l’eco della parlata romagnola si sublima nella pronuncia esatta della lingua (Miniature campianesi, il suo libro di memorie pubblicato da Oblomov, è ricco di indizi in questo senso). E c’è il coro, quell’uno-molti che le Albe riescono a suscitare ovunque si spostino, dall’Africa a Neww York, nella periferia di Scampia così come qui, a Ravenna, davanti alla tomba solenne di Dante, che del cimento purgatoriale segna l’inizio.
Alla «chiamata pubblica» hanno risposto un migliaio di ravennati di ogni età e condizione sociale, tra cui moltissimi bambini. Si distribuiscono in gruppi di trecento per animare, sera dopo sera, questa che non è affatto una drammatizzazione della Commedia, ma la rivelazione della natura drammaturgica che segretamente sostiene il «poema sacro». Si comincia con la proclamazione corale del primo canto, con Ermanna Montanari che scandisce «Per correr miglior acqua alza le vele» e il coro che le risponde ripetendo il verso con la medesima intonazione, in un effetto che amplifica e interiorizza ogni parola.
Dante, in apparenza, non si vede, ma solo perché in queste due ore ipnotiche e serrate ciascuno degli spettatori diventa Dante. Non si mette alla sua scuola, per tornare a una delle immagini centrali dell’allestimento, ma va con lui alla scuola del Purgatorio, che è poi una non-scuola : luogo di condivisione e di esperienza, non di trasmissione meccanica del sapere.
Dante siamo noi, in cammino per le strade di Ravenna, e il nostro Virgilio sono Ermanna e Marco. Entrambi vestiti di bianco, sempre pronti a dirigere il coro e a dialogare con le figure che di volta in volta prendono vita dalle pagine della Commedia. Il venerando Catone di Gianni Plazzi e il dolente Manfredi di Roberto Magnani, il penitente Adriano V di Alessandro Argnani e l’immobile Ugo Capeto di Luigi Dadina, il Bonconte di Massimilano Rassu, che non smette di rievocare il miracolo della salvezza dovuta a una «lacrimetta», e la Sapia di Laura Redaelli, anche lei instancabile nel mettere in guardia dalle insidie dell’invidia. Si tratta spesso di apparizioni improvvise e discrete, come quella dello scolaretto che da un balcone di via di Roma impersona l’angelo del silenzio.
Ma non mancano le grandi costruzioni corali. Su una scala di servizio dell’Istituto musicale Verdi si dispongono le donne uccise dalla violenza: a guidare le loro voci è la Pia dei Tolomei di Mirella Mastronardi, che per prima intona lo struggente «Ricordati di me». Una visione di forte resa emotiva, il cui corrispettivo è la massa degli iracondi che lo spettatore incontra nel Purgatorio vero e proprio, insediato per l’occasione nel cortile della Casa di riposo Garibaldi. Questa volta è il Marco Lombardo di Alessandro Renda a prendere la parola con la perorazione sul libero arbitrio che Dante ha voluto incastonare alla metà esatta del poema, come a denunciarne la struttura nascosta.
E la non-scuola? È organizzata in due classi, la cui frequenza è obbligatoria per accedere al Paradiso terrestre nel quale quattro ragazze, con le stesse trecce e la stessa giacca cerata di Greta Thunberg, sanciscono l’avvenuta purificazione di noi penitenti. Prima ci si siede tra i banchi per assistere alla lezione dell’Oderisi di Matteo Gatta, a sua volta abbigliato come Beuys, artista mistico e stravagnate. Poi vengono i «vermi e farfalle», che sui banchi salgono volentieri per proclamare i versi non solo di Dante, ma anche di Walt Whitman, John Donne, Etty Hillesum. E di Majakovskij, certo, che il Purgatorio lo ha descritto benissimo a modo suo: «Dite ai pompieri / che su un cuore in fiamme / ci si arrampica con le carezze».
ITALIA SENZA NAZIONE
di Antonio Montefusco (Le parole e le cose, 24 giugno 2019)
Il libro Italia senza nazione ha l’ambizione di indagare, seppure parzialmente, il «non filosofico» che, secondo la ricostruzione di Roberto Esposito, costituisce il proprium dell’indagine filosofica della tradizione italiana: una «propensione» che è sentita come «singolare», quindi costitutiva di tale tradizione. L’origine di questa pratica di estroflessione del pensiero italiano deriva da due elementi: la connessione tra vita, politica e storia, da una parte e l’esigenza insopprimibile di evocare un’origine in ogni discorso sull’attualità, dall’altra. (Esposito 2010) Si può dire, dunque, che essa abbia una naturale e specifica vocazione alla genealogia; e che in questa genealogia, nei suoi gangli più o meno pieni, più o meno mancanti, essa cerchi naturalmente i caratteri principali, non filosofici appunto, della sua estroflessione. [...] Mario Tronti ha icasticamente riassunto che l’Italian Thought si identifica con “un pensiero che si è radicato in questo Paese, in questa ‘forma-nazione’, ancor prima che diventasse una vera e propria nazione o uno Stato.” (Lisciani-Petrini - Strummiello 2017, p. 41) Questa specificità del pensiero italiano, del suo quadro, diciamo così, debolmente istituzionale, imprime già una direzione precisa alla nostra indagine, perché, a guardare allo specifico della storia italiana, è facile, a tutta prima, sottolineare come, in assenza di istituzioni politiche forti e consolidate, sia stato il discorso linguistico e letterario a costruire, immaginare, depositare elementi di identità ben prima che un processo, più culturale che politico-sociale come il Risorgimento (Banti 1991), portasse alla formazione di quella particolare comunità immaginata (Anderson 1991) che è stata chiamata “nazione italiana”. Se un libro-fondatore questa immaginata nazione può rivendicare, questo è un libro di letteratura: o meglio, di storia della letteratura. Ed è la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1996). Ne consegue, dunque, abbastanza chiaramente che sia il “letterario” a poter rivendicare un primato, un certo tipo di primato, se non come oggetto, certamente come spazio di esercizio della estroflessione dell’Italian Thought. Con delle avvertenze, tuttavia, e più d’una.
«Dante che dovea essere il principio di tutta una letteratura, ne fu la fine». Questa frase di De Sanctis rappresenta il carattere paradossale di un diagramma che si pretende ascendente - dalla fondazione di un canone linguistico-letterario con le “tre corone” alla creazione di uno stato - ma che è intimamente mosso da una decadenza e da un continuo chiaroscuro dovuta a scissioni molteplici. Gli storici della letteratura più acuti ne hanno assunto questo dato in senso letteralmente progressivo, e a ragione. Uno per tutti: Alberto Asor Rosa, che, introducendo l’impresa einaudiana della Letteratura italiana, affermava:
Per non dire di Carlo Dionisotti, che in un articolo d’avanguardia (del 1951!) mise in discussione, di quel diagramma, anche l’unico centro linguistico-culturale, e cioè la Toscana, proponendo prima un paradigma doppio, in cui il primato toscano risultava in conflitto con centri antagonisti (uno alla volta: Dionisotti 1967); optando pochi anni dopo (nel 1971) per un sistema ancora più complesso, che
I due nomi - Carlo Dionisotti e Alberto Asor Rosa - di due critici letterari valgano come particolarmente esemplari anche di una traiettoria critica e di un punto di vista originali: il primo formulato a distanza, dall’estero, perché Dionisotti lasciò l’Italia e sviluppò la sua carriera perlopiù a Londra; il secondo tipicamente operaista, quindi coscientemente estraneo all’eredità gramsciana (passata al vaglio della vulgata togliattiana) e storicista. Vale la pena di ricordare questi elementi di biografia intellettuale e politica perché ci servono anche a misurare l’innovazione che soprattutto Esposito ha dato alla direzione del dibattito. In Dionisotti e Asor Rosa il riconoscimento dell’eccezione italiana giunge nella fase matura di un percorso che tendeva a vedere quei caratteri come fortemente regressivi se comparati alle grandi tradizioni nazionali, soprattutto francese e inglese. Il caso di Scrittori e popolo di Asor Rosa, pubblicato poco più di 50 anni fa, è particolarmente significativo: la letteratura contemporanea italiana era travolta quasi interamente da un vizio d’origine, il “populismo”, la cui ombra si dilungava dai grandi risorgimentali a Gramsci. La provocazione verso un’intera generazione di intellettuali cresciuti all’ombra della “via italiana al socialismo” con il suo corollario gramsciano, più malinteso che reale, del nazional-popolare, era evidente. Esposito sposta evidentemente l’ago della bilancia del ragionamento, quando riassume:
In altri termini, l’Italian thought non contribuisce a definire o irrigidire una identità italiana. E questo non solo perché, come è stato ampiamento chiarito (Esposito 2016) esso non può risolversi in un tutto che neutralizza le differenze al suo interno; per non dire, che, se così fosse, saremmo di fronte a una dogmatica più che a una theory, che invece si deve caratterizzare per una programmatica deterritorializzazione. Il motivo principale sta nel fatto che questa tendenza all’estroflessione e al “fuori” non possono che disfare un discorso di identità (italiana o altra che sia). L’Italian Thought, come theory in lingua italiana, si ritaglia uno spazio differente sia dalla brandizzazione dell’italianità (con il Made in Italy) sia dal ripiegamento identitario: entrambi processi risultanti, evidentemente, dalla globalizzazione, alla quale il pensiero italiano si presenta costitutivamente alternativo.
Ne risulta un sistema simbolico in tensione, in cui confliggono in maniera eclatante l’auto-percezione negativa che deriva dall’immagine del paese «mancato», maggioritario nel discorso più o meno pubblico nonché nella storiografia letteraria, e una costruzione positiva, al limite dell’apologetico, diffusa fuori dei confini nazionali. Di tale contrasto paradossale è “figura” - in senso biblico - il personaggio del «cervello in fuga», dell’intellettuale esiliato ed apolide che trova fuori d’Italia lo spazio per sviluppare il proprio talento, illuminando a ritroso il capitale culturale di partenza, che risulta impossibile da contenere nello spazio del paese, essenzialmente in ragione delle conseguenze di quello «sviluppo senza progresso» mostrato da Pasolini all’alba di quello che, un tempo, si era chiamato «neocapitalismo». [...]
Nel suo andirivieni, tra ricezione fuori d’Italia e sua rielaborazione all’interno dei confini nazionali, l’Italian Thought supera questa dicotomia, assume l’oscillazione continua di questo sistema simbolico tra origine e storia, mettendo continuamente in discussione il presente e assumendo un’ottica di contestazione; Daniele Balicco ha recentemente trascinato questa oscillazione sul lato più scivoloso, se si vuole, ragionando sul Made in Italy con spregiudicatezza, sottraendolo all’univocità della già ricordata brandizzazione neoliberale e infine mostrandone la potenziale narrazione contro-egemonica che si sottrae alla performatività con la godibilità (Balicco 2016). [...]
Nel libro, si è interrogato questo sistema simbolico in tensione rinunciando programmaticamente a dare centralità agli autori “maggiori”, non solo perché essi (in special modo Dante e Leopardi) sono stati già scandagliati in questo senso; si è voluto, piuttosto, verificare e dare spessore a linee convergenti di contestazione che sono la cifra caratteristica sia del momento genetico della tradizione letteraria, nell’età di Dante, sia della sua vicenda specificamente moderna e contemporanea. In tutte queste indagini, emerge il nodo che evocavo all’inizio: quella predisposizione alla genealogia che, nell’Italian Thought, si intreccia in maniera fortissima con quella persistenza del mito nella storia, dell’arcaicità che destruttura l’attualità; questa genealogia qui finalmente si allarga: Machiavelli, che è quasi un problematico “fondatore”, non solo qui è assente, ma la genealogia si confonde forzosamente con la ricerca di un’origine, o meglio di una genesi.
Ci porta a questo la scelta di un fuori letterario, che esige soprattutto il definirsi di uno spazio linguistico autonomo, che i filologi chiamano “volgare”, che sarà l’italiano. In questo senso, sullo sfondo del volume, resta sottinteso, ma fortemente presente, il nesso con la tormentata “questione della lingua”, sempre legata, per richiamare di nuovo Gramsci, alla “formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale” (Gramsci 1975, 2346). Si tratta di un paesaggio esso stesso tipicamente in tensione, di tipo spiccatamente italianistico e che dà conto dello svolgersi delle peculiarità dell’Italian Thought: dallo sforzo di teorizzazione di Dante alla discussione sulla lingua cortigiana in Machiavelli, l’ossessione dello scrittore è meno l’italiano e più chi lo possa misurare, permettere, sviluppare. Più del linguistico, conta il politico. Non sorprenderà, dunque, che lo stesso concetto di italiano in senso moderno si trovi usato, per la prima volta, da Brunetto Latini (nella generazione precedente a Dante) in francese, in particolare per intendere la politica “selonc les usages as Ytaliens” (“secondo gli usi degli italiani”.) Siamo negli anni ’60 del ‘200: a significare anche che, se spazio per l’Italian Thought ci può essere, esso debba essere concepito anzitutto in maniera linguistica all’italiana, cioè in senso ospitale e plurilingue (Montefusco 2016).
Riferimenti bibliografici
Anderson, Benedict
1991, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, Roma-Bari, Laterza.
Asor Rosa, Alberto
1982, Letteratura italiana, I. Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi.
2015 Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015, Torino, Einaudi.
Balicco, Daniele
2016 Made in Italy e cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea, Palumbo, Palermo.
Banti, Aldo Maria
2011 Nel nome dell’Italia, Rome-Bari, Laterza.
De Sanctis, Francesco
1996 Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, intr. di G. Ficara, Torino, Einaudi-Gallimard.
Dionisotti, Carlo
1967 Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi.
2009, Scritti di storia della letteratura italiana. II 1963-1971, éd. par T. Basile, V. Fera, S. Villari, Rome, Edizioni di Storia e Letteratura.
Esposito, Roberto
2010 Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino.
2016 Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Torino, Einaudi.
Foucault, Michel
1977 Microfisica del potere, Einaudi, Torino.
Gentili, Dario
2012 Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, Bologna.
Gentili, Dario - Stimilli, Elettra (a cura di)
2015 Differenze italiane, Roma, DeriveApprodi.
Gramsci, Antonio
1975, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi
Montefusco, Antonio
2016 Dal plurilinguismo all’ospitalità. Appunti sull’italiano (neo-epico e no), in “Nuova Rivista Letteraria”, vol. 4, pp. 43-49.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SPIRITO CRITICO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
IL "DUE" DI SAUSSURE VINCE IL "DUE" DI ROBERTO ESPOSITO.
Federico La Sala
Il caso.
Culianu, Eliade e Noica: le punte di diamante dell’intellighenzia romena
L’enfant prodige degli studi sull’esoterismo rinascimentale, il maestro della storia delle religioni, il filosofo che finì al confino con Ceausescu: l’editoria li riscopre. Uno snodo culturale europeo
di Simone Paliaga (Avvenire, mercoledì 26 giugno 2019)
Quel pomeriggio del 21 maggio del 1991 sono da poco passate le 13 alla Divinity School dell’università di Chicago quando un colpo sordo rimbomba nei bagni dell’edifico. Un corpo esanime, riverso e sanguinante, è la conseguenza di quello sparo, inatteso e misterioso come le sue ragioni. Ma pone fine alla vita poco più che quarantenne di Ioan Petru Culianu. Ancora oggi nulla si sa di quella morte improvvisa se non illazioni che condurrebbero, secondo alcune ricostruzioni, a una spy story al cui centro si troverebbero i servizi segreti romeni. Ma Culianu non era certo una spia. Era solo preoccupato per le sorti del suo paese dopo la caduta del Muro di Berlino come testimoniano alcuni suoi interventi engagé proprio di quei mesi. Al tempo stesso, e soprattutto, Culianu era anche uno dei più promettenti allievi di Mircea Eliade nonché autore di uno dei più straordinari libri del secolo scorso, Eros e magia nel Rinascimento, dove alla parte storico-filologica si accompagna una teorica che meriterebbe approfondita riflessione proprio oggi con lo sviluppo delle neuroscienze e delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione.
La parola allievo, proprio per queste ragioni, non rende certamente giustizia a Culianu come si evince dall’importante monografia di Roberta Moretti, Il sacro, la conoscenza e la morte. Le molte latitudini di Ioan Petru Culianu (Il Cerchio, pagine 174, euro 18) che permette di gettare uno sguardo su un laboratorio di ricerca che avrebbe riservato numerose sorprese, in virtù del suo slancio interdisciplinare, se non fosse stato prematuramente sigillato dalla violenta morte occorsa allo studioso di origini romene. Nato nel gennaio del 1950 a Iasi, il giovane storico si dette, da poco ventiduenne, alla fuga dal regime comunista di Ceausescu.
Dopo aver frequentato dei corsi all’università di Perugia per approfondire i suoi studi sul Rinascimento italiano chiede asilo politico all’Italia e trascorre mesi complicati nei campi profughi di Trieste e Latina. La redenzione dall’affanno avviene quando è accolto, nel 1972, da Ugo Bianchi alla Cattolica di Milano. Lì avrà modo di scandagliare in profondità i mille volti dello gnosticismo e di avviare una riflessione sull’opera di Hans Jonas a cui dedicherà tre anni dopo la tesi. Nel 1975 Culianu migra di nuovo, invitato all’università di Groninga a tenere corsi di letteratura romena, altra passione che lo accosta al più noto maestro. Contemporaneamente lo studioso frequenta Parigi dove incontra più volte Eliade e prosegue il dottorato alla Sorbona sulle esperienze dell’estasi nel mondo greco.
Nel 1986 avviene finalmente la svolta. Riesce a trasferirsi a Chicago per affiancare Eliade nella preparazione dell’Enciclopedia delle religioni, di cui Jaca Book ora sta pubblicando una versione tematica, e proseguire i suoi studi incrociando le pagine di neoplatonici, ermetici, gnostici, con quelle di Borges, Abbott, l’Eliade narratore e gli studi di Einstein, Riemann e autorevoli studiosi di scienze cognitive. Non ne deriva alcun miscuglio confuso ma un progetto di ricerca che oggi, in anni di specialismi autoreferenziali, tornerebbe molto utile.
Nelle indagini condotte nel corso della sua vita, Culianu mette in luce come una caratteristica dell’esperienza religiosa di tutti i tempi e di tutti i luoghi fossero proprio i viaggi dell’anima. Questa scoperta lo conduce a interessarsi non solo delle esperienze dell’estasi e dell’“entasi” condotte nel corso dei millenni dagli uomini nelle diverse culture. Ma anche a quei viaggi ultraterreni anticipati da certa letteratura e suffragati dagli sviluppi delle geometrie non euclidee e dalla teoria della relatività che prospettano l’esistenza di spazi multidimensionali e paralleli.
Dal confronto con queste ipotesi, negli ultimi mesi di lavoro, Culianu comincia a ipotizzare una concezione della storia che nasce dall’interdipendenza tra mondo della mente e mondo esterno per definirla come «uno scenario messo in atto dall’interazione di più menti». Nella stessa direzione muove anche la sua poetica di narratore che ben si intreccia, come era già accaduto a Eliade, con la sua riflessione di storico delle religioni. Persuaso che «l’artista, lo scienziato, il dormiente contribuiscono alla creazione di una storia partecipando a un universo di immagini pre-elaborate, un universo di carattere archetipale, eventualmente astorico», Culianu suggerisce una visione del mondo in cui la storia non batte un cammino predefinito ma è l’intreccio di trama e ordito, tra mondo interno all’uomo e mondo esterno.
[Foto] Il filosofo romeno Constantin Noica
E CONSTANTIN NOICA DISSE: LASCIATE GOETHE E TORNATE ALLA FILOSOFIA
«Non è dunque arrivato il momento di indagare, ben oltre questo autore, le responsabilità e le concezioni di Goethe in nome delle quali una parte dell’umanità odierna, precisamente quella occidentale e prospera, sembra sprofondare nella zoologia?» si chiede Constantin Noica (1909-1987) nel suo Congedo da Goethe appena pubblicato da Rubbettino (pagine 312, euro 24) con ottime introduzione e traduzione di Davide Zaffi.
Nel Belpaese il nome di Noica dice poco anche se alcuni suoi testi sono disponibili in lingua italiana. Dopo una breve fiammata di interesse negli anni Novanta l’attenzione si è subito spenta. Eppure il filosofo romeno è stato compagno di strada per un significativo periodo dei più celebri, e celebrati, Mircea Eliade, Emil Cioran, Eugène Ionesco nel periodo più rutilante per la cultura romena, gli anni Trenta. A differenza dei suoi sodali d’un tempo, però, nel 1945 Noica decide di scegliere la via dell’esilio interno e di non riparare all’estero. All’origine della decisione vibra una sua forte convinzione.
Per Noica, seppure mai davvero impegnato in politica, esiste una inossidabile responsabilità degli intellettuali verso la propria comunità politica. Neppure nei dieci anni di confino nel comune di Câmpulung-Muscel, una piccola località dei Carpazi meridionali, Noica disattese a questo imperativo. Poi le vicende politiche interne, gli attriti tra Bucarest e Mosca e la ricerca di una via rumena al socialismo portano ad alcune aperture nei confronti degli intellettuali non allineati col regime anche allo scopo di lanciare un segnale all’Occidente. Così dopo il domicilio coatto e sei anni in campo di prigionia le sbarre della sua prigione cominciano ad allargasi e alcune sue opere iniziano a circolare in Romania quantunque sotto il controllo occhiuto della Securitate. Fu proprio quanto tocca in sorte a Congedo da Goethe, delle cui ottocento pagine iniziali scritte a Câmpulung-Muscel appena un terzo rientra in possesso del filosofo dopo il sequestro.
Malgrado il titolo, il lavoro non è una sfida filologica col grande poeta tedesco. È invece una disamina della situazione della cultura europea che si sarebbe forgiata proprio intorno ai modelli cantati da Goethe. Il rifiuto della filosofia, l’esaltazione dell’osservazione del reale e non la distanza da esso, la ricerca dell’immediatezza e la ripulsa per ogni intermediazione proposti dal poeta di Francoforte avrebbero informato completamente la cultura europea. È dal congedo da questi tratti che occorre muovere per evitare all’Europa e al mondo occidentale di sprofondare nell’abisso.
«Goethe ha detto una volta - ammonisce Noica -: il mondo ha più genio di me. Se il mondo occidentale non ha più genio di Goethe, allora è morto spiritualmente il 22 marzo del 1832» insieme al poeta. Il grande passo da compiere ora, per Constantin Noica, essendone capaci, permetterà alla cultura europea di «prendere congedo dall’uomo naturale, dopo una sua stagnazione di seimila o ventimila anni, cioè dall’uomo dei cinque sensi con i quali Goethe se lo figurava anche in paradiso».
SUL TEMA DEL "CONGEDO DA GOETHE", NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
“SMONTARE LA GABBIA”! USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”....
CONSIDERATO "[...] lo stato in cui versa attualmente l’antispecismo: se tale movimento sembra infatti aver chiaro quali siano la prima e l’ultima lettera del suo alfabeto - l’organizzazione ingabbiante delle logiche che regolano e perpetuano l’antropocentrismo e una società in cui tutti gli animali, umani e non umani, possano vivere liberi -, è però incapace di articolare le altre - discorsi e prassi che indichino, nella materialità della storia, come smontare le gabbie, simboliche e materiali, in cui, seppure con intensità e rigore variabili, tutti i viventi sono rinchiusi indipendentemente dalla specie di appartenenza [...]” E, ANCORA, CONSIDERATO CHE “In 1905, riferendosi alla discrepanza tra le previsioni del marxismo scientifico e le vicissitudini storiche contingenti che, saltando a piè pari la fase di presa del potere da parte della borghesia, avevano portato alla rivoluzione proletaria in un paese feudale come la Russia zarista, Trotskij scrive: “La prima lettera è presente, e così anche l’ultima, ma tutto il mezzo dell’alfabeto è mancante” [...]”, SPUNTA (non esplicitata) LA CONNESSIONE CON L’INVENZIONE DELLA “TAVOLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI” di Dmitrij Ivanovič Mendeleev,
CREDO CHE SIA NECESSARIO E OPPORTUNO AMPLIARE L’ORIZZONTE e RICONSIDERARE DALLE RADICI la “«piramide dei viventi» che da secoli continuiamo a portarci dietro”, quella contenuta nel «Liber de sapiente» (Libro della sapienza), pubblicato nel 1509 da Charles de Bovelles (1479-1567)” (come sollecita Stefano Mancuso con Alessandra Viola, nel lavoro “Verde brillante”, Giunti 2015, p. 18 - e, non il vecchio “marxista” Lucio Colletti, nel suo famoso “Il marxismo e Hegel”, Laterza 1969)! E, ANCORA E SOPRATTUTTO, “SMONTARE LA GABBIA” DELLA SISTEMATICA DI LINNEO!
E, benché siano passati 160 anni dalla pubblicazione, nel 1859, dell’«Origine delle specie», l’opera fondamentale che Charles Darwin ci ha regalato per comprendere la vita sul nostro Pianeta (Stefano Mancuso, cit.), USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA. CON KANT, E CON MARX, OLTRE ...
Federico La Sala
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA [2008[ "NON CLASSIFICATA"!!! *
Demografia.
L’Europa è unita dalle culle vuote: ecco la vera crisi che non si affronta
I tassi di fecondità sono molto diversi tra Paese e Paese, tuttavia a partire dal 2008 il crollo delle nascite è diventata una tendenza che riguarda tutte le età e tutti i livelli di reddito
di Massimo Calvi (Avvenire, sabato 22 giugno 2019)
La recessione demografica che colpisce l’Italia, e che insieme al debito pubblico rappresenta uno dei maggiori elementi di preoccupazione per gli anni a venire, non è un fenomeno limitato ai confini nazionali. Nel lanciare l’ennesimo allarme, alla presentazione del rapporto annuale Istat, il presidente dell’istituto di statistica Giancarlo Blangiardo ha fatto un paragone con il crollo della popolazione registrato negli anni 1917-1918, quelli segnati dalla Grande Guerra oltre che dagli effetti dell’epidemia di Spagnola. Eppure il male italiano è anche un grande problema europeo. «L’inverno demografico che stiamo vivendo in Europa», di cui ha parlato anche papa Francesco a gennaio nell’Udienza generale per il viaggio a Panama in occasione della Giornata mondiale della gioventù 2019, merita di essere preso più seriamente di quanto la politica e le istituzioni non stiano facendo: l’immagine choc della Guerra non è così lontana dagli effetti che il Continente può dover sperimentare nei prossimi anni.
In Europa, i tassi di fecondità sono molto diversi tra Paese e Paese, tuttavia a partire più o meno dal 2008 il crollo delle nascite è diventata una tendenza strutturale comune, che riguarda un po’ tutte le età e tutti i livelli di reddito. Paesi come la Francia sono passati da tassi superiori ai 2 figli per donna a 1,87 nel 2018, la "mitica" Svezia è scesa a 1,75 (era a 1,91 nel 2008), la Gran Bretagna è arrivata al record negativo da 10 anni a 1,76, la Spagna è crollata a 1,25 figli (da 1,44 nel 2008), persino in Finlandia gli allarmi si ripropongono anno dopo anno perché si ritarda sempre di più la messa al mondo del primo figlio e nascono sempre meno secondi e terzi. L’Italia ha un tasso di fecondità oggi di 1,32, ma aggravato dal fatto che il calo delle nascite dura da molti più anni rispetto ad altri Paesi, e questo ha ormai compromesso le possibilità di compensare con nuove nascite l’emorragia della popolazione.
Il primo problema all’origine dell’inverno demografico ovunque in Europa è proprio il calo del numero di donne in età riproduttiva, fenomeno che ha origine attorno agli anni 90. Meno donne che mettono al mondo meno figli è il "dato grezzo" della questione. In realtà, lo choc del 2008 sembra aver tracciato una linea netta oltre la quale è entrato probabilmente in gioco un cambiamento di mentalità delle nuove generazioni, unita al venire meno di molte certezze su lavoro, abitazione, prospettive e soprattutto sulla possibilità di migliorare la propria situazione rispetto alla generazione precedente. Non è una mancanza di desiderio di famiglia, ma più di condizioni da soddisfare in un contesto di politiche pubbliche che tende a premiare comportamenti individualistici e a scoraggiare la formazione di una famiglia. È vero in Italia, ma lo si incomincia a registrare un po’ ovunque nelle politiche di bilancio.
Il cambio della composizione demografica porta infatti con sé anche decisioni di spesa che rischiano di accentuare il problema della denatalità. In un recente saggio pubblicato sulla rivista Population & Avenir, il demografo francese Gerard-Francois Dumont ha dimostrato come salvo rarissime eccezioni i Paesi che più spendono per sostenere la natalità registrano anche i maggiori tassi di fecondità. Tuttavia, oggi l’aumento della popolazione anziana e il calo di quella in età da lavoro sta spingendo gli Stati ad aumentare le risorse a favore della componente più rilevante anche elettoralmente per mantenere gli standard di welfare, inteso come sanità e pensioni.
Secondo un recente rapporto della Fondazione Leone Moressa l’Italia avrà il 17% in meno di popolazione tra 32 anni, e oltre il 35% dei cittadini con più di 65 anni. Altre previsioni che riguardano invece l’Europa indicano che entro il 2060 le persone tra i 15-64 anni caleranno dal 67% attuale al 56%, gli "anziani" saliranno invece dal 18 al 30%. Da 4 persone in età attiva per ogni over-65 si passerà a sole 2.
Guardando avanti, in un Continente che oggi conta poco più di 510 milioni di persone, e che dovrebbe incominciare a conoscere un calo di popolazione dal 2035, si può immaginare un gruppo di Paesi che continuerà ad avere un saldo naturale positivo della popolazione: Francia, Gran Bretagna, Svezia, Irlanda, Danimarca...; un altro caratterizzato da un deciso declino demografico: Portogallo, Spagna, Grecia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Polonia...; l’Italia e la Germania presentano invece prospettive molto negative nel bilancio nati-morti, ma la possibilità di tenuta dei livelli resta appesa alla capacità di continuare ad attrarre popolazione giovane.
Culle vuote e migrazioni mal gestite sono una bomba a orologeria per il Vecchio Continente. L’Europa ha bisogno disperatamente di più bambini e di più persone al lavoro che possano sostenere gli anziani a riposo o bisognosi di cure. Crudamente, ha bisogno di far venire alla luce nuove risorse e di attrarne di già disponibili. Spendere e investire per favorire le nascite purtroppo è una scelta che non piace ai governi in virtù di un banale calcolo statistico, considerato che proprio la tendenza demografica declinante richiede sempre maggiori risorse a favore della parte elettoralmente più rilevante della popolazione. Ma la tentazione della rendita è di per sé un indicatore evidente di declino e sconfitta.
Il fatto è che la recessione demografica porta con sé anche recessione economica, problemi sul debito e sulla sostenibilità dei servizi, maggiori difficoltà di spesa per sostenere le aree depresse.
Tutti gli studi sull’effetto dello choc demografico indicano che per Paesi del Centro e dell’Est-Europa, per la Germania Orientale, l’Italia del Sud, il Nord della Spagna e la Grecia, la prospettiva è quella di un futuro fatto di poche nascite, invecchiamento, emigrazione. E’ un circolo vizioso, insomma. Esattamente come quello che chiama in causa la questione delle migrazioni. I Paesi che riusciranno a tenere la posizione saranno quelli in grado di garantire due tipi di condizioni: uno sviluppo così elevato in termini di qualità della vita, del lavoro, delle retribuzioni, degli incentivi, della sicurezza e della sostenibilità futura, in grado di sostenere il desiderio di figli e famiglia; la capacità di offrire alle persone che emigrano lavoro, integrazione, educazione e un ambiente favorevole e dignitoso.
Non è una partita semplice perché l’inverno demografico è già qui e le tensioni che comporta questa trasformazione sono in atto e ben visibili. Di certo se la sfida è anche culturale, la soluzione non è più individualismo, ma migliore capacità di interpretare la solidarietà tra le generazioni e tra i popoli.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA - 2008 - "NON CLASSIFICATA"!!!
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Speciale
La voce-corpo / Esercizio di memoria per Edipo
di Daniele Vergni (Alfabeta-2, 23 Giugno 2019)
Sabato 13 aprile, all’interno degli eventi organizzati per la mostra Il corpo della voce, è andato in scena presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma Edipo Re, esercizio di memoria per quattro voci femminili di Chiara Guidi. Nella sala 9 del Palazzo (completamente sold out) quattro attrici donano le loro voci a quartetti di personaggi che hanno come fulcro Edipo. La sintesi dello schema vocale dei personaggi lo troviamo sullo sfondo: l’albero della vita di kabbalistica memoria con le sue dieci Sephiroth rinominate per l’occasione e con Edipo che sostituisce tutti i gradi principali, dal divino all’umano (Edipo sostituisce Kether, Tiferot, Yesod e Malakuth).
Il testo di Sofocle viene ricreato e trattato come partitura vocale. Le quattro attrici, al microfono, cambiano personaggi durante il decorso dello spettacolo. Sono i personaggi vocali qui ad intersecarsi e scambiarsi, sorreggersi ed interrogarsi, proseguendo uno nell’altro. E da queste voci - assieme a quelle del coro di cittadini che nei tre giorni precedenti lo spettacolo hanno studiato con Chiara Guidi - prende forma l’intero spettacolo. L’esercizio di memoria sulle parole di Sofocle diviene scomposizione che mira prima di tutto al portato fonico, alla dischiusura di un nuovo e antico senso, quello che con Giorgio Agamben potremmo chiamare un experimentus vocis, quello in cui «nell’istante dell’enunciazione [...] il linguaggio non si riferisce a nessuna realtà lessicale né al testo dell’enunciato, ma unicamente al proprio aver luogo»1. Così questo flusso sonoro - in cui s’innestano suoni e texture create da Scott Gibbons - cui è mancata un’adeguata amplificazione - ci trascina davanti al mito.
Anni fa, seguendo un laboratorio di Chiara Guidi, appuntai alcune sue parole: “la voce è nascosta e può lavorare un testo per far emergere tutto quello che non dice, poiché la voce è puro voler dire che non spiega, non intrattiene, ma scava nel corpo provenendo da un organismo complesso, corpo e ambiente”. Questo Edipo Re è la messa in pratica di questa idea.
L’esercizio a cui allude il sottotitolo è quello delle memorie vocali dove si agita sempre qualcosa di nascosto, torsioni e slittamenti che contraddistinguono anzitutto un processo che più che compiersi si dipana tra i personaggi vocali e quindi incide direttamente sulla composizione del linguaggio. È qui che trovano senso i fonemi, le singole lettere, le vocali allungate che sorreggono sentenze e difese. Tutta la narrazione si articola in questi movimenti che ci restituiscono l’idea di una drammaturgia vocale.
Non si tratta più allora di rappresentare un testo ma di incrinarlo per portarne alla luce la potenzialità data dall’incontro tra le voci. Proprio da questo incontro Edipo scopre il suo destino e davvero è già tutto compiuto?
Il segreto della voce riecheggia nella Sala 9 del Palazzo delle Esposizioni e ci lascia un dubbio riguardante l’immaginazione. La persistenza del suono è più effimera di qualsiasi lampo d’immagine ed è qui il nodo di una drammaturgia vocale.
L’immaginazione indirizzata da questo sciame di voci ci restituisce il quadro completo ma il colore sulla tela svanisce e ciò di cui abbiamo fatto esperienza ci richiede uno sforzo maggiore, un decisivo ricorso alla memoria acustica che si alimenta dell’immaginazione, come Edipo che «solo con la voce [...] scopre la verità del proprio destino: l’essere figlio immaginario di suo padre»2.
Ad un secondo livello di lettura, questo aver luogo della voce nell’Edipo Re di Chiara Guidi ci mostra la formazione di un soggetto disancorato, appunto “figlio immaginario di suo padre”, slegato da quella legge del padre che crea individualità. Edipo non è individuo ma soggetto a-centrico, e questa de-centratura viene messa in risalto dal trattamento vocale che Chiara Guidi realizza con la sua partitura: «più che opporsi alla scrittura, come avviene nell’ambito degli studi sull’oralità, la voce si oppone perciò [...] al linguaggio, ai suoi canoni disciplinati, al gendarme della grammatica e della sintassi»3.
Sono le esigenze delle voci a riorganizzare il testo mettendo sotto scacco il linguaggio, così le valenze sonore prendono il sopravvento donando quel piacere ritmico4 in cui Edipo si disperde. Questa disindividualizzazione sembra appartenere a quel divenire-donna indicato da Gilles Deleuze, un’alterità continua nei propri confronti: «Donna è un modo d’essere trans-individuale in perenne divenire. E divenire-donna significa concatenare quanto eccede la dimensione individuale»5. Così Edipo si chiede nel finale della partitura“Dove rapida vola via ora la mia voce?” e solo quando il fato si è compiuto Edipo può rispondere, “Amico, seppure nell’ombra, riconosco la tua voce!”6.
EDIPO RE DI SOFOCLE | ESERCIZIO DI MEMORIA PER QUATTRO VOCI FEMMINILI
da un’idea di Chiara Guidi in dialogo con Vito Matera
suoni originali Scott Gibbons
scene luci e costumi Vito Matera
con Angela Burico, Chiara Guidi, Anna Laura Penna, Chiara Savoi
coro poetico composto da settanta cittadini
produzione Societas
1 G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata 2016, p. 45.
2 Dalle note redatte da Chiara Guidi per lo spettacolo.
3 A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Felitrinelli, Milano 2003, p. 146.
4 Ivi, p. 149.
5 G. De Fazio, Etica delle composizioni. Sul divenire-donna e le linee di fuga della corporeità, in «La Delouziana», n. 2/2015, p. 51. Disponibile al link http://www.ladeleuziana.org/wp-content/uploads/2015/12/De-Fazio.pdf
6 Partitura dell’Edipo Re, esercizio di memoria per quattro voci femminili di Chiara Guidi, p. 49.
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Lo scontro in atto tra la Weltdemokratie e il neofascismo
di Stefano Jorio (Alfabeta-2, 16 Giugno 2019)
Al Deutsches Historisches Museum di Berlino è aperta fino al 22 settembre la mostra «Weimar: l’essenza e il valore della democrazia». Con l’intento dichiarato di celebrare valori democratici oggi nuovamente in pericolo, la mostra racconta la storia della Repubblica di Weimar dalla sua nascita al successo elettorale del Partito Nazionalsocialista nel 1930: la storia di una Repubblica parlamentare progressista, democratica e tollerante, insidiata e poi abbattuta dalla destra autoritaria hitleriana. Questo quadro storico, assai semplificato, sembra indicare un doppio obiettivo di politica culturale da parte del museo.
«La democrazia liberale oggi non è più scontata ed è anzi in pericolo,» viene spiegato all’inizio del percorso. «Partiti autoritari vanno rafforzandosi anche in paesi di lunga tradizione democratica. Anche in Germania la fiducia nella democrazia liberale sembra diminuire.» Dopo avere diviso in due metà la storia della Repubblica di Weimar (prima e dopo il 1931, la fase progressista e la fase del collasso) i curatori annunciano che al pubblico verrà raccontata solo la prima parte: «i suoi inizi, le basi che pose nella politica e nella società, le idee e le azioni di chi costruì la prima democrazia tedesca. Con grande passione vennero allora negoziati compromessi, fu elaborato il diritto alla libertà e all’uguaglianza, furono avverate visioni sociali.» Foto e testi raccontano le campagne elettorali, le alleanze tra partiti, la disoccupazione e il riconoscimento sociopolitico delle donne; ricordano che la Repubblica istituì con faticosi compromessi l’assicurazione per i disoccupati ed emanò nel 1922 la Legge per la protezione della Repubblica che proibiva organizzazioni «ostili alla costituzione» e istituiva un tribunale speciale. La mostra spiega che giudici antirepubblicani usarono la legge con clemenza verso la destra eversiva e con severità verso i comunisti; menziona il grande successo nazionalsocialista alle elezioni del 1930 e ricorda Carl Von Ossietzky, caporedattore della «Weltbühne», condannato nel 1931 a diciotto mesi di prigione per aver denunciato il riarmo in corso (verrà arrestato nel 1933 dai nazisti e morirà dopo la detenzione in diversi campi di concentramento). A questo punto, conformemente a quanto annunciato, la cronaca degli eventi politici si interrompe; nelle sale finali viene illustrato il cosiddetto fermento culturale dell’epoca weimariana. La mostra ha evocato l’immagine di una democrazia viva ed entusiasta che soccombe alla violenza nazionalsocialista, ha raccontato la storia di una Repubblica inizialmente progressista, poi conservatrice e infine travolta dal successo della destra mistico-nazionalista e antidemocratica. È quanto potremmo l’obiettivo esplicito di politica culturale: evocare la Repubblica di Weimar per sensibilizzare il pubblico sul pericolo della situazione attuale e sul valore della democrazia.
Si tratta però di un’immagine parziale, perché nella Germania del primo dopoguerra anche i governi socialdemocratici sperimentarono soluzioni autoritarie. Fin dai suoi primi anni la Repubblica di Weimar - pur nell’entusiasmo progressista che diede voce alle donne e varò importanti misure sociali - vide l’antisemitismo rappresentato in parlamento, ebbe ministri antisemiti e si avvalse più volte dell’articolo 48 che sospendendo i diritti civili conferiva poteri eccezionali al Presidente. Nel 1919 il governo socialdemocratico di Scheidemann represse nel sangue la Lega di Spartaco facendosi aiutare dalle formazioni paramilitari dei Freikorps (Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg vennero uccisi dai sicari del ministro Noske).
«È bene non dimenticare,» ha scritto Giorgio Agamben, «che i primi campi di concentramento in Germania non furono opera del regime nazista, bensì dei governi socialdemocratici, che non soltanto nel 1923, dopo la proclamazione dello stato di eccezione, internarono sulla base della Schutzhaft migliaia di militanti comunisti, ma crearono anche a Cottbus-Sielow un Konzentrationslager für Ausländer che ospitava soprattutto profughi ebrei orientali.» La mostra sottace che l’autoritarismo hitleriano attecchì in un’epoca autoritaria, e che la classe dirigente della Repubblica di Weimar esprimeva già, nel suo insieme, un diffuso desiderio di governo forte. Il parlamento era stato sciolto tre anni prima che il presidente Hindenburg - uomo della destra conservatrice non nazionalsocialista - incaricasse Hitler di formare il governo; quella che venne chiamata “dittatura costituzionale”, apparentemente intesa a proteggere la Repubblica, fu in realtà la premessa del suo tramonto («nessuna costituzione della terra come quella di Weimar aveva così facilmente legalizzato un colpo di stato», poté scrivere Carl Schmitt).
Il Deutsches Historisches Museum di Berlino, nato nel 1987 per volere di Helmut Kohl, è il museo di storia nazionale della Germania. Viene attualmente amministrato e sovvenzionato con cinquanta milioni annui dalla Staatsministerin für Kultur und Medien, Monika Grütters, che risponde direttamente alla Cancelliera Merkel.
Le iniziative del museo sono dunque espressione immediata della politica culturale del governo tedesco che nel caso specifico di questa mostra evoca - grazie al parallelo storico - l’idea di una conflittuale ma autentica democrazia odierna che difende i diritti, vive del dibattito tra le parti, tutela i deboli e viene minacciata dalla nuova destra autoritaria come la democrazia liberale di Weimar fu minacciata (e poi distrutta) dal nazionalsocialismo. È l’obiettivo culturale implicito: opporre alla minaccia del neofascismo europeo il sistema aperto, tollerante e democratico della Weltdemokratie sorta a partire dagli anni Ottanta sull’alleanza tra il nuovo blocco industriale e i partiti di centro, i partiti conservatori e la socialdemocrazia. Questa rappresentazione lascia in ombra che anche l’odierna democrazia neoliberale, come la Repubblica di Weimar negli anni Venti, esprime dirette e genuine tendenze autoritarie.
Restiamo alla sola Germania. Nel luglio 2017 la legge bavarese sulla Gewahrsam Haft ha istituito - in una configurazione giuridica simile a quella realizzata dagli Stati Uniti a Guantanamo - una custodia cautelare prorogabile ad infinitum per ragioni di «pericolo incombente»; la riforma della polizia approvata nella stessa Baviera nel maggio 2018 consente di intercettare telefonate e aprire lettere senza autorizzazione della magistratura. Altri Länder tedeschi - tra i quali la Renania Settentrionale, la Bassa Sassonia e la Sassonia - intendono conformarsi alla normativa bavarese; la Sassonia-Anhalt e il Mecklenburg-Vorpommern hanno introdotto l’uso di cavigliere elettroniche per sorvegliare soggetti ritenuti «pericolosi» senza contestazione di reato né condanna. Dall’agosto 2018 sono attivi in Germania nove centri di «Arrivo, Distribuzione, Decisione ed Espulsione» definiti da più parti come campi di concentramento intesi a isolare i profughi dalla popolazione tedesca; alla società civile non è permesso entrare, i giornalisti in visita non possono restare soli con gli internati, tutto - anche le consulenze giuridiche - avviene sotto la regia delle autorità.
Nel luglio 2017 l’Oberlandesgericht di Amburgo ha tenuto in custodia cautelare per oltre quattro mesi un cittadino italiano accusato di «concorso psichico» al reato di disturbo della quiete pubblica (era puramente presente a una manifestazione di protesta durante la quale erano state lanciate pietre contro la polizia); il tribunale ha motivato la custodia cautelare con «lacune nell’educazione che in assenza di un percorso educativo lasciano sussistere il pericolo fondato di ulteriori reati».
Questa lista di cose tedesche rispecchia un processo globale. Al termine della sua fase progressiva, durata dal dopoguerra agli anni Settanta, la democrazia occidentale si è gradualmente evoluta in una forma politico-spettacolare in cui le funzioni storiche dello Stato nazionale, gradualmente dismesse, diventano funzioni di polizia interna e internazionale, e le tendenze autoritarie vengono giustificate con l’appello all’emergenza economica e alla sicurezza. Giorgio Agamben ha osservato e descritto in più libri questa configurazione politica nuova e ambigua, già legiferante, che in una crescente inerenza reciproca tra democrazia e totalitarismo moltiplica i campi di concentramento e sussume in toto la società civile sottoponendola alla sorveglianza economica, poliziesca e militare. All’estero conduce una guerra neo-imperialista globale permanente; all’interno prende le impronte digitali di tutti i cittadini, ha da tempo affidato al governo anche il potere legislativo, fa pattugliare le piazze dall’esercito (in Italia l’operazione «Strade sicure» è stata autorizzata dalla legge 125 del 24 luglio 2008) e si avvale del condizionamento subliminale nel quadro di un neo-consumismo di massa («La pubblicità è una droga, non per metafora, e gli spacciatori sono i media,» ha scritto Walter Siti).
Se da un lato la mostra al Deutsches Historisches Museum palesa lo scontro in atto tra la Weltdemokratie e i movimenti neofascisti, dall’altro indica che la democrazia neoliberale è cieca rispetto alle tendenze autoritarie diffuse ma anche a quelle tradottesi in legge nel corso degli ultimi decenni, tendenze che in Italia hanno reso possibile, ad esempio, il passaggio disinvolto di tanti elettori del Partito Democratico prima al “populismo” antiparlamentare del M5S, apertamente insofferente verso la funzione critica della stampa, e oggi a quello esplicitamente neofascista della Lega. Se i nuovi fascismi dovessero vincere lo scontro, procederanno sulla strada della militarizzazione, della sicurezza, dei campi di concentramento e del controllo totale. Rispetto a questo scontro, rispetto al pericolo di un regime autoritario esplicito, il governo centrista e socialdemocratico tedesco (di nuovo una Große Koalition, come negli anni Venti i due governi Stresemann e il secondo governo Müller) reagisce come reagirono i governi della Repubblica di Weimar e come sta reagendo l’ordine neoliberale europeo: senza la capacità o la volontà di ricondurre la marea montante della ribellione neofascista di massa a un clima politico già autoritario, e a un’attività legislativa che da decenni sospende i diritti fondamentali e smantella lo stato sociale riclassificando autoritariamente da vittima a parassita chi appartiene alle fasce più deboli della popolazione.
L’establishment tedesco guarda spaventato l’ascesa di un autoritarismo nazionalista sostenuto dagli strati più involuti della plebe e del ceto medio, ma non riesce a raccontare per intero la Repubblica di Weimar né il suo trapasso graduale, senza scosse, dalle misure di emergenza alla sospensione dei diritti, dall’autonomia decisionale del presidente al fascismo.
LA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA O LA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA?! Al di là della Trintà edipica....*
La Trinità
di José Tolentino Mendonça (Avvenire, domenica 16 giugno 2019)
Come si rappresenta il mistero? Noi ci accostiamo a esso a tastoni, consapevoli che i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre immagini vacillano e arrivano appena a intravvederne, poveramente, la realtà. Ma questo nostro tentativo di approssimazione costituisce comunque un importante patrimonio di fede.
Pensiamo ad Andrej Rublëv: siamo nella seconda metà del XV secolo quando egli crea quella che sarà la più celebre icona della Trinità. Il testo biblico soggiacente (Gen 18,1-15) è quello dell’ospitalità che Abramo offre ai tre personaggi celesti che lo visitano. Nella contemplazione di questa stupenda icona della Trinità, l’orante viene condotto al centro del mistero di Dio.
In effetti, ciò che vien lì focalizzato è il Dio unico, un solo Dio con la stessa natura divina in tre persone. I tratti fisionomici coincidono esattamente, come se fosse la medesima figura mostrata per tre volte, anche se in tre posizioni differenti.
I personaggi hanno lo stesso volto, lo stesso atteggiamento del corpo, le stesse ali. Inoltre, tutti hanno in mano uno scettro e posseggono un’aureola per indicare eguali dignità e regalità.
Ciascun personaggio, però, occupa una posizione differente nello spazio e sono diversi i gesti, i colori degli abiti e il gioco degli sguardi.
Il Padre, da cui proviene ogni benedizione, guarda all’umanità attraverso il Figlio. E il Figlio guarda a noi attraverso lo Spirito Santo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’EUROPA, LA COSTITUZIONE, E LA BANDIERA: LE RADICI CATTOLICHE DI MARIA ELENA (MADRE DI COSTANTINO) O LE RADICI CRISTIANE DI MARIA BEATRICE (MADRE DI DANTE)?! Al di là della trinità "edipica" e "mammonica" *
Europa.
Le radici cattoliche e mariane della bandiera dell’Unione Europea
Un saggio di Enzo Romeo ricostruisce la complessa genesi e la simbologia legata a Maria del vessillo di colore blu con il cerchio di dodici stelle, adottato dal Consiglio europeo nel 1955
di Edoardo Castagna (Avvenire, venerdì 14 giugno 2019)
Ogni identità ha bisogno di simboli ai quali guardare, per riconoscersi e per ispirarsi. Lo sanno bene i populisti di ieri e di oggi, che usano le identità come sciabole per dividere. In modo diametralmente opposto, tanto politicamente quanto moralmente, lo sapevano bene anche i padri fondatori dell’Unione Europea nella loro ricerca di una nuova identità capace di abbracciare, unire, includere.
L’identità europea si è costruita un poco alla volta negli ultimi sessant’anni e, anche se nell’ultimo periodo sembriamo a un punto di stallo, non possiamo non vedere quanto di grande e buono è stato fin qui costruito. Anche attorno ai simboli. Abbiamo un inno nella musica di Beethoven; e abbiamo una bandiera, ormai presenza famigliare sulle facciate degli edifici pubblici - e non solo, come le ultime elezioni europee hanno dimostrato: non pochi balconi hanno visto esporre il drappo azzurro con le dodici stelle.
Alla storia di questa bandiera ha dedicato il suo ultimo saggio Enzo Romeo (Salvare l’Europa. Il segreto delle dodici stelle; Ave, pagine 190, euro 12,00), nel quale la ricostruzione dei passaggi che portarono le istituzioni europee alla scelta definitiva si accompagna alla riscoperta del retroterra imprevisto che agì sui suoi creatori. Il disegno finale è attribuito a un lavoro collegiale, nel quale tuttavia spiccano i contributi del direttore dell’Ufficio d’informazione e stampa del Consiglio d’Europa, Paul Michel Gabriel Lévy, e soprattutto di Arsène Heitz, impiegato dell’Ufficio e autore di diversi bozzetti per la bandiera comune - tra i quali, con poche modifiche, quello infine adottato.
Cattolico e assai devoto alla Madonna, Heitz lavorò su simboli in apparenza del tutto laici: eppure l’azzurro, le dodici stelle come quelle della “medaglia miracolosa” che commemora le apparizioni mariane di rue du Bac a santa Caterina Labouré nel 1830, e che Heitz portava sempre con sé... una simbologia mariana agì, forse più come “mano invisibile” che come ispirazione cosciente, almeno fino a quando, molto più tardi, lo stesso Heitz non la esplicitò, forse prendendone consapevolezza egli stesso: «Mi sentii ispirato da Dio - avrebbe confidato Heitz a padre Pierre Caillon nel 1987, poco prima di morire - nel concepire un vessillo tutto azzurro su cui si stagliava un cerchio di stelle, come quello della medaglia miracolosa. Cosicché la bandiera europea è quella di Nostra Signora».
Quello di Heitz, d’altra parte, non fu l’unica delle proposte a contenere richiami alla simbologia cristiana, anche più espliciti: per esempio, l’austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, fondatore nel 1922 dell’Unione Paneuropea, suggerì un drappo blu con una croce rossa cerchiata di giallo; lo stesso Heitz propose una croce rossa in campo verde. Il verde fu tra i colori più ricorrenti nelle prime bozze: il francese Robert Bichet lanciò l’idea di quindici stelle verdi su campo bianco, il Movimento federalista europeo chiedeva che fosse adottato direttamente il proprio emblema, una “E” verde su campo bianco. Il blu fu comunque il colore più proposto, così come le stelle ebbero facilmente la meglio su altri simboli come i cerchi (un bozzetto a cerchi intrecciati fu bocciato perché ricordava troppo, a detta della commissione, una catena o la bandiera olimpica, se non addirittura la ghiera di un telefono...).
Le dodici stelle disposte a cerchio su fondo blu furono adottate dal Consiglio d’Europa (la bandiera identifica tanto questa istituzione quanto la successiva Unione Europea) nel 1955, con argomentazioni apparentemente anodine: il blu è quello del cielo dell’Occidente, le dodici stelle rappresentano tutti i popoli d’Europa nella loro diversità, il cerchio la loro unità. -Nessun riferimento, nei documenti ufficiali, a richiami mariani: ma, come nota giustamente Romeo, in questi casi «bisogna procedere su un piano assolutamente aconfessionale, evitando polemiche di sapore religioso o ideologico. Non si tratta di nascondere ipocritamente i segni della propria fede, ma di proporli su un piano universale, perché in questo caso essi trascendono l’appartenenza a una Chiesa e si trasformano nell’allegoria di un quadro valoriale comune». E, in effetti, ormai per mezzo miliardo di persone quelle stelle in campo blu hanno acquisito un po’ il colore di casa.
Anche se di una casa ancora in costruzione.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
Federico La Sala
L’ordine dei discorsi
Il gesto filosofico di Agamben
di Felice Cimatti (fatamorganaweb, 10 Giugno 2019)
Ogni filosofo, e come è sempre più evidente non basta insegnare filosofia in una università per essere un filosofo, incarna un gesto peculiare. Un gesto che è il suo gesto, solo suo, inconfondibile (per converso, un filosofo privo di un simile gesto non è propriamente un filosofo). Un gesto del genere, la cui imperscrutabile origine si colloca al di qua della scelta soggettiva perché ha a che fare più con lo stile e il carattere che con la volontà, rende quell’essere umano un filosofo. Cioè qualcuno che, proprio con quel gesto, ci mostra la possibilità di un’azione che, prima di quello stesso gesto, nessuno immaginava fosse praticabile. In effetti quello che rimane, di un filosofo (ma anche di un artista, e in fondo di ogni essere umano che abbia fatto della sua esistenza un campo di sperimentazione), è proprio quel gesto.
In questo senso la storia della filosofia non è propriamente la storia delle idee di questo o quel filosofo: è piuttosto una scuola in cui si impara a muovere il corpo/pensiero in un modo particolare. Precisiamo questo punto, perché spesso si pensa che la filosofia sia un fatto prevalentemente, se non esclusivamente, cerebrale. Prendiamo, ad esempio, il caso delle tecniche yoga. Si tratta di imparare ad assumere posizioni apparentemente “innaturali”, come quella che si può vedere nell’immagine del celebre maestro indiano Iyengar. Tuttavia, una volta che tendini e muscoli hanno esplorato questa possibilità, è tutto il corpo/mente che acquista una elasticità che prima era semplicemente impensabile. Il gesto filosofico, come una posizione yoga, rende esplorabile un campo d’azione che, prima di quel gesto, non esisteva. O meglio, quel campo era da sempre virtualmente disponibile, tuttavia nessuno l’aveva ancora esplorato né tantomeno credeva che ci fosse ancora qualcosa da esplorare. Quindi di fatto era come se non ci fosse. In questo senso la filosofia rende liberi, perché ci mostra che laddove pensavamo pigramente che non ci fosse niente da fare, ebbene anche in quel caso c’è una azione possibile. Basta cercarla, e se non la troviamo, allora occorre inventarsela.
Il gesto filosofico, pertanto, è gesto in quanto contemporaneamente pensiero e azione; proprio per questo è filosofico. È quindi anche un gesto potenzialmente politico, benché non nel senso che propone una esplicita azione politica, piuttosto perché è un gesto che offre al corpo un’inaspettata opportunità di movimento. Perché pensare significa agire. Wittgenstein, nel § 11 della prima parte delle Ricerche Filosofiche, propone al riguardo un paragone divenuto celebre: «Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili, c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. - Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là)». Ogni parola del linguaggio, cioè ogni operazione concettuale, dischiude un campo d’azione, che senza quella parola non sarebbe possibile. Ogni gesto filosofico è uno di quegli strumenti, cioè una di quelle possibilità di azione.
È importante sottolineare un punto, che una erronea rappresentazione dalla filosofia oggigiorno porta spesso a trascurare. Un falegname usa tutti quegli strumenti, anche se avrà una particolare predilezione per uno in particolare. Questo significa, per essere più espliciti, che un filosofo non smette mai di pensare insieme ad Aristotele e Platone, ad esempio, anche se non è uno specialista della filosofia aristotelica o platonica. Così come per un falegname il martello è sempre attuale, così per un filosofo Aristotele è sempre attuale. Questo significa che il filosofo, cioè chi propone gesti filosofici, non lavora come uno scienziato, per il quale, invece, una teoria scientifica antica è inutilizzabile.
In questo senso quello filosofico ha a che fare più con il gesto di un falegname, o di un pittore, che con quello di un neurologo che studi le connessioni cerebrali all’interno di una particolare area della neocorteccia. Ma solo “in un certo senso”, perché spesso il neurologo, che crede di avere a che fare solo con fatti, non si accorge che i fatti di cui si occupa sono impregnati di impensati gesti filosofici. Si pensi, per fare un solo esempio, a quegli scienziati che cercano nel cervello quella che chiamano la “base materiale” delle attività mentali. Ma siamo così sicuri che le “attività mentali” esistano davvero? La mente è un fatto, o un pregiudizio metafisico? Vale lo stesso per il corpo, ovviamente, che non è che l’altra faccia dello stesso dualismo originario.
Se ora ci chiediamo qual è il gesto filosofico di Giorgio Agamben, il gesto che ha consegnato alla filosofia, e che d’ora in poi nessun filosofo potrà ignorare, potremmo indicarlo nella paziente e tenace operazione con cui torna alle cesure fondamentali del pensiero (quelle che formano la nostra tradizione metafisica), come appunto quella fra mente e corpo, cercando di mostrarne le impensate possibilità di azione che ancora ci offrono. Ogni dualismo costringe il pensiero, e quindi il corpo, a scegliere fra opzioni precostituite, e quindi comunque insoddisfacenti. Perché ogni dualismo costringe a muoversi o così o così. Il dualismo pensa e agisce per noi.
Agamben non cerca di mostrare che il dualismo è sbagliato, o che è superabile scegliendo uno dei due versanti contrapposti, come il materialista che trascura la mente, o l’idealista che privilegia la mente. Cerca piuttosto di trovare in quel dualismo una via di fuga che finora non avevamo scorto. Una via di fuga che non avevamo intravista proprio perché noi siamo il prodotto di quel dualismo. Tuttavia in quello stesso dualismo è implicito un movimento di pensiero che non abbiamo ancora esplorato. Il gesto filosofico di Agamben consiste allora nel disattivare quel dualismo, cioè nell’impedirgli di pensare al posto nostro.
Pensiamo al dualismo che esplora nel suo ultimo libro, Il Regno e il Giardino. Il regno è il Regno di Dio, che ci aspetta alla fine dei tempi. Il giardino è quello del Paradiso terrestre che, come non facciamo che stancamente ripetere, è definitivamente perduto. La nostra condizione, così vuole il dualismo in cui siamo intrappolati, è sospesa fra un passato per sempre passato, ed un futuro per sempre futuro. In mezzo siamo noi, fra rimpianto e speranza, fra memoria e desiderio, fra una inattualità svanita e un’inattualità a venire. Agamben torna a questo dualismo, e attraverso un lavoro come sempre minuzioso e appassionante, ne mostra non solo i vicoli ciechi, ma anche e soprattutto le vie inesplorate che ancora contiene. Che ha sempre contenuto.
In questo senso si può leggere Agamben a partire dalla sesta tesi de Sul concetto di storia di Benjamin, quando scrive che si tratta di «riattizzare nel passato la scintilla della speranza» (Benjamin 1997, p. 27). Perché la speranza, l’unica speranza effettivamente praticabile, è nel passato, non nell’inesistente futuro. Un passato che continua ad essere operativo nel presente, perché determina il nostro modo di agire e di pensare, e che tuttavia non è mai chiuso in modo definitivo. «Il pensatore rivoluzionario», scrive Benjamin, lavora sul «potere delle chiavi che un attimo» presente «possiede su una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa» (ivi, p. 55). Agamben, nei suoi libri, così come un bravo fabbro, tira fuori dalla sua cassetta degli attrezzi delle chiavi di cui ignoravamo l’esistenza (i fabbri più bravi sono anche un po’ scassinatori), chiavi con cui possiamo aprire stanze del passato che non sapevamo di poter aprire.
Vediamo intanto, prima di entrare nel merito della proposta di Agamben, di capire qual sia la posta in gioco discussa ne Il Regno e il Giardino. Nell’alternativa fra regno e paradiso si perde la possibilità di una esistenza “felice” in questo mondo. Se infatti la beatitudine è possibile solo nel Regno di Dio, allora sicuramente non è possibile in questa esistenza. Vale lo stesso per il Paradiso, la cui felicità è perduta per sempre. Quindi, anche in questo caso è esclusa dal presente. Stretto in questo dualismo si pone la questione di come pensare una vita felice che non sia costretta fra un ieri che trapassa senza fine in un domani, e viceversa, senza mai soffermarsi in un oggi. La posta in gioco, allora, è «la scissione fra “natura e grazia”» (Agamben 2019, p. 87); quindi, o natura o grazia, o vita o salvezza, o corpo o spirito.
Agamben articola la sua operazione di disattivazione lavorando sulla nozione di peccato, che - da Agostino in poi - è stato considerato come l’evento che ha determinato la cacciata dell’umano dal paradiso: «In ogni caso, se il fattore decisivo del dispositivo è il peccato, si può dire allora che il vero senso della dottrina del peccato originale è quello di scindere la natura umana e di impedire che in essa natura e grazia possano mai coincidere in questa vita» (ivi, p. 96). A partire da questa scissione si determina un destino, anche politico, come quello alla base del fallimento disastroso dell’utopia comunista nel secolo scorso, che da un lato rinviava indefinitamente la realizzazione della società senza classi, dall’altro condannava ad una esistenza sotto un paranoico controllo poliziesco. Giorgio Agamben
Ma cos’è allora il paradiso? È davvero contemporaneamente perduto e rimandato, oppure è ancora misteriosamente operativo nelle nostre esistenze? «Il paradiso», scrive Agamben, «è ciò a cui l’uomo deve far ritorno senza esservi mai veramente stato. D’altra parte, il ritorno non va inteso in senso temporale, ma ha già sempre avuto luogo, in modo che uscita e ritorno siano compresenti» (ivi, p. 61). Il dualismo vorrebbe che o si è nel paradiso, o se ne è fuori. Si tratta invece di lavorare sulla possibilità di “abitare” entrambe le situazioni nello stesso tempo. Fare della vita un paradiso, ma anche fare del paradiso una vita. Ossia, per usare l’alternativa discussa più sopra, disattivare la distinzione fra grazia e natura. Questo significa, tornando a Benjamin, che in ogni momento c’è «una chance rivoluzionaria», ossia, c’è una via di fuga.
Agamben, contro il coro disfattista del nostro tempo, mostra come c’è sempre qualcosa da inventare, una mossa inattesa, uno scarto che può rovesciare la situazione. Il Regno non è domani, il Regno c’è sempre stato (il Paradiso era già il Regno); bisogna sempre di nuovo offrirgli una occasione per presentarsi. Bisogna stare nel presente come se ci si trovasse alla fine dei tempi, e quindi non si trattasse più di un presente cronologico. Stare nel tempo senza starci, così come stanno nel tempo un animale, una nuvola oppure un angelo. Riuscire a fare della vita un paradiso, cioè un luogo di grazia, senza tuttavia smettere d’essere un luogo vivente, terreno, qui ed ora:
Il paradiso non è altrove, e non è nemmeno in quella natura “incontaminata” che cercano i palati squisiti dell’ambientalismo. L’antropocene è paradisiaco così come la foresta amazzonica prima dell’arrivo dei conquistadores, o quanto l’immensa discarica che ci travolge nell’immagine seguente. Il paradiso - se c’è - c’è sempre stato. La sfida, immensa come quella discarica, è trovare il paradiso anche là dentro, oltre ogni ingenua idea di purezza, di natura e di bellezza. Perché la grazia non illumina il paradiso perché questo è un luogo meraviglioso; al contrario, è la grazia che rende paradisiaco qualunque luogo, anche e soprattutto una discarica. Ma che cos’è la grazia se non la capacità di vivere una discarica come se fosse un paradiso?
Il gesto filosofico di Agamben, in definitiva, non risolve il dualismo, piuttosto lo scioglie al suo stesso interno. Un gesto che, come scrive Wittgenstein nella Conferenza sull’etica (contenuta all’interno del libro Lezioni e conversazioni), ci offre la possibilità di vedere il mondo come un “miracolo”. E che cos’è un miracolo se non appunto il collasso della distinzione fra Giardino (dell’Eden) e Regno? Il “miracolo” appare quando si diventa capaci di abitare nella congiunzione che unisce e separa allo stesso tempo il giardino e il regno. Nel “miracolo”, il Paradiso è ora, ma questo significa che siamo infine nel Regno; ma siccome il Regno è alla fine dei tempi, quello del “miracolo” non è un tempo cronologico, un tempo misurabile. Al contrario, è un tempo, scrive Agamben sulla scorta di Benjamin, “messianico”, cioè appunto quel momento del tempo in cui si disattiva il tempo cronologico, quello della memoria e della speranza. Il tempo “messianico”, quindi, è il tempo della coincidenza di vita e grazia:
Torniamo, infine, alla discarica: se il Giardino è questa discarica, allora il Regno è questa stessa discarica. Ma questo significa che non è più semplicemente una discarica, perché è illuminata dalla grazia. Vederla come miracoloso apparire del Regno vuol dire infatti destituirla dalla condizione di puro evento del mondo. Così la grazia salva la discarica, ma allo stesso tempo la discarica permette alla grazia di mostrarsi: «Solo il regno dà accesso al Giardino, ma solo il Giardino rende pensabile il Regno» (ivi, p. 120).
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Il Regno e il Giardino, Neri Pozza, Milano 2019.
W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.
di Francesco Laurenti (Alfabeta-2, 09.06.2019)
«L’uom che parla, non fa che tradurre le proprie idee, non perché le parole abbiano il potere di trasportare le sue idee nella testa di chi lo ascolta, ma perché idee analoghe alle sue vi si risveglino al suon delle parole ch’egli usa». In questi termini, già agli inizi dell’Ottocento, Giovanni Carmignani nella Dissertazione critica sulle traduzioni (un contributo di stampo traduttologico tanto originale quanto a oggi in pratica dimenticato), avviava la propria riflessione teorica nel tentativo di definire l’atto del tradurre.
Nello stesso illuminante contributo, vincitore del concorso bandito dall’Accademia Napoleone di Lucca nel 1806 (per un’indagine sui «danni e vantaggi arrecati alla letteratura dalle traduzioni» e sulle potenzialità di queste di trasportare in una nuova lingua «le idee e gli affetti» contenuti nell’opera originale), Carmignani auspicava, tra l’altro, una maggiore sistematicità degli studi sulla traduzione, attraverso un dialogo tra studiosi che evitasse il perpetuarsi d’indagini fondate esclusivamente sulla sensibilità personale e non sulle conquiste di una condivisa «scienza dei segni».
Secondo Carmignani dunque, ogni parlante, nell’atto stesso del parlare, agirebbe alla stregua di un traduttore.
Raramente, però, vi è una comunicazione esterna che non prenda le mosse dalla comunicazione interna all’individuo.
In linea con quest’assunto, un fermo sostenitore del legame inscindibile tra il “linguaggio interno” e il “linguaggio esterno” all’essere umano, Lev Vygotskij (la cui opera Pensiero e Linguaggio cadde nelle strette maglie della censura stalinista poco dopo la pubblicazione), nel 1934 sovvertì la tradizionale concezione del processo traduttivo, fondata sulle nozioni di significato statico e di equivalenza tra i significanti, estendendola ad altri atti linguistici.
Secondo le intuizioni dello psicologo sovietico, il linguaggio della mente sarebbe, infatti, il risultato di un processo di traduzione delle parole in pensieri e, viceversa, il linguaggio verbale si configurerebbe come la traduzione dei pensieri in parole. Non solo il parlare, ma anche il leggere e lo scrivere rappresenterebbero allora dei modi di tradurre, diremmo oggi, in maniera intersemiotica.
Ogni lettore infatti, agendo similmente a un traduttore, attuerebbe così in primo luogo una traduzione della lingua del testo letto in materiale mentale. Al pari ma in maniera inversa, nell’atto della scrittura ogni individuo realizzerebbe una traduzione dal proprio linguaggio interno a quello verbale.
Ne deriverebbe come conseguenza che qualsiasi traduzione interlinguistica, dunque tra due lingue diverse, sarebbe allora una “doppia traduzione”, che passa prima per la “traduzione della lettura” e poi attraverso la “traduzione della scrittura”.
Linguaggio e pensiero, secondo le intuizioni di Vygotskij, sono ancora indipendenti nella prima infanzia dell’individuo per integrarsi in seguito fino a stabilire una relazione di reciproca e imprescindibile influenza. Proprio per questo il ricercatore sovietico dedicò molta attenzione, nell’arco della sua troppo breve esistenza terrena, allo studio del linguaggio dei bambini. -Anche Octavio Paz s’interessò al linguaggio dei bambini che, forse, osservò a lungo prima di giungere alla sua nota affermazione che potremmo tradurre così: «imparare a parlare è imparare a tradurre: quando il bambino chiede alla madre il significato di questa o di quella parola, ciò che sta effettivamente chiedendo è che gli venga tradotto nel suo linguaggio il termine a lui sconosciuto». Per il Nobel messicano, convinto che todo es traducción, il tradurre, allora, rappresenterebbe per un essere umano anche l’utile e imprescindibile processo per imparare una lingua, quella propria.
La “squadra” di chi ha inteso la traduzione come un principio allargato, un processo innato all’homo traducens e congenito alla condizione umana, è certamente più ampia. Potrebbe includere, tra gli altri, Martin Heidegger («ogni parlare e ogni dire sono in sé un tradurre») e Peeter Torop (con la sua “traduzione totale”), Franco Volpi («la traduzione è un qualcosa d’inevitabile che ci portiamo addosso, anche quando non siamo traduttori»), Cesare Garboli («che tutto sia tradurre, è una verità fisiologica») e anche, con la “maglia da titolare”, Enrico Terrinoni.
Le riflessioni di Terrinoni sul tradurre inteso come paradigma “all-inclusive” si spingono in qualche modo oltre, in spazi d’ombra sinora poco esplorati, fino a prendere la forma di un libro e permearne quasi ogni sua pagina. In Oltre abita il silenzio. Tradurre la letteratura, appena pubblicato da il Saggiatore nella storica collana La Cultura, l’idea che il genere umano sia «contraddistinto dal gene traduttivo» è fondante e genera un testo di oltre duecento pagine da leggere quasi tutte d’un fiato.
Oltre abita il silenzio è un’ininterrotta “selva” di riflessioni e rimandi teorici affrontati con una gioiosità verbale di matrice joyciana (sembra che Terrinoni, passato per l‘ardua impresa della traduzione dell’Ulisse e la titanica resa del Finnegans Wake in italiano, sia rimasto contagiato da una joycity che quasi non concede pause). Il lettore, dopo un possibile iniziale smarrimento, rimane conquistato dall’incedere rapido delle originali riflessioni traduttive ed è accompagnato attraverso una moltitudine di connessioni spesso inattese («veniamoci incontro, miei simili, ippocratici lettori»...«Ma andiamo per gradi e torniamo sui nostri passi»). E così il lettore viene “tradotto” da Terrinoni, ragionamento dopo ragionamento.
Oltre abita il silenzio è costellato da una miriade di punti interrogativi, da una fitta successione di domande-stimolo le cui risposte generano spesso altre domande e altri dubbi (d’altronde, il primo punto fermo del tradurre non è forse quello interrogativo?). Quella di Terrinoni è una teoria che si dilata e che, com’è stato detto, sembra premere contro le sbarre in cui il genere vorrebbe rinchiuderla. Una teoria rafforzata da una moltitudine di aforismi sul tradurre, di massime figlie dell’esperienza che potrebbero essere assunte come illuminanti norme generali del tradurre. «Non dovremmo fare al testo degli altri quello che non vorremmo fosse fatto al nostro»; «Quando traduciamo non stiamo facendo altro che tradurre l’eterna metafora del nostro essere» e così, passando per «Converto ergo sum», fino a «la traduzione è impossibile, sì, ma ha da farsi, perché il farsi è la sua essenza», e oltre.
«Siamo tutti dei translating beings», ne è sicuro Enrico Terrinoni e si convince di ciò anche il lettore che giunga alla conclusione del libro.
Le posizioni di Terrinoni fanno quasi immaginare una nuova potenziale fase degli studi traduttivi. Una fase che, dopo l’importante svolta che ha privilegiato negli ultimi decenni la riflessione sugli aspetti culturali connessi al tradurre, si apra anche alla dinamica traduttiva intesa come modo di vivere, un agire che permea le nostre esistenze di esseri traducenti, perché forse «la traduzione è tutto quello che facciamo, da quando veniamo al mondo a quando ci dileguiamo nell’ignoto».
“Un punto solo m’è maggior letargo/ che venticinquesecoli a la ‘mpresa,/ che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo [...] Omai sarà più corta mia favella,/ pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/che bagni ancor la lingua a la mammella” (Dante, Par. XXXIII).
Mi sembra che, partendo da Omero, Ulisse, Socrate, Platone, Giambattista Vico, Giordano Bruno, James Joyce, e Samuel Beckett, giungendo là dove “Oltre abita il silenzio”, ri-troviamo finalmente un Dante ri-nato (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908). O no?!
Domenica di Pentecoste, 9 giugno 2019
Federico La Sala
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Mostre - Dal 04/06/2019 al 29/09/2019
Per celebrare i cinquecento anni dalla nascita di Cosimo I de’ Medici
Nella sala Bianca e nella sala delle Nicchie di Palazzo Pitti l’esposizione che ricostruisce l’antico allestimento della Sala di Saturno voluto da Ferdinando II
Nove maestosi arazzi in lana e seta raccontano, tra la sala Bianca e la sala delle Nicchie di Palazzo Pitti, i momenti salienti del governo del primo Granduca Medici. La mostra Una biografia tessuta. Gli arazzi seicenteschi in onore di Cosimo I mette in luce come la realizzazione tra il 1653 e il 1668 degli arazzi rappresenti un doppio omaggio di Ferdinando II de’ Medici al fondatore del granducato di Toscana.
“Per celebrare il quinto centenario della nascita di Cosimo I de’ Medici - spiega il Direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt - una mostra di arazzi è quanto di più adatto: fu lui infatti a fondarne la Manifattura nel 1545. Inoltre, la serie di arazzi ora esposti ci offre un excursus encomiastico sulla figura e sull’opera del sovrano, con una sequenza di episodi che esaltano la centralità del ruolo di Cosimo nella storia della dinastia medicea e del governo della Toscana”.
Gli arazzi, che misurano da cinque metri fino a oltre otto di lunghezza, furono originariamente concepiti per la sala di Saturno in Palazzo Pitti, cuore del potere del sovrano, consacrata alle Udienze Segrete del granduca Ferdinando II, che con questa commissione legittimava e nobilitava il proprio governo, rendendo omaggio al suo predecessore.
Questa preziosa serie narra in successione cronologica la vita pubblica di Cosimo I e le sue gesta più significative: dall’ascesa al potere, al consolidamento del dominio sulla Toscana, alla trasformazione urbanistica e architettonica di Firenze, ai rapporti con il potere pontificio e alla creazione di un ordine cavalleresco. Disegnati da pittori di fama, ed eseguiti nella manifattura creata dal Duca, gli arazzi dovevano essere esposti in un trionfo decorativo tutto barocco, che anticipava i fasti delle più grandi regge europee. Il risultato doveva essere un’apoteosi del potere mediceo, rappresentato da Cosimo, tra le dorature, gli stucchi di Giovan Battista Frisone e gli affreschi di Ciro Ferri raffiguranti Il Principe ideale che si libra tra la Prudenza e il Valore verso la Gloria e l’Eternità.
Alla fine, degli otto arazzi tessuti ne furono appesi soltanto sei, identificati dalle misure. Il settimo e l’ottavo della serie, con episodi dedicati ai rapporti con le monarchie europee, vengono esposti oggi, per completezza, nella sala delle Nicchie. L’allestimento originale, ricreato nelle immagini in catalogo, mostra tutta l’importanza di questa impresa dedicata a Cosimo: un omaggio del nipote Ferdinando II che voleva celebrare l’avo e con lui tutta la stirpe dei Medici, e che oggi ci ricorda la gloriosa stagione della manifattura degli arazzi a Firenze, istituita proprio da Cosimo I.
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Mostra a cura di Lucia Meoni e Alessandra Griffo.
Catalogo edito da Sillabe
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Scarto/Jullien, L’identità culturale non esiste
di Mario Porro (Doppiozero, 27 Agosto 2018)
L’Occidente ha scoperto l’esigenza di dialogare con le altre civiltà da quando non è stato più in grado d’imporre con la forza la propria ragione. Ha giustificato il suo predominio con il possesso di valori assoluti come i diritti umani, che pretende di incarnare e che si sente in obbligo di diffondere. Crede che questi principi universali debbano venire accolti da ogni essere dotato di ragione, ma questa ragione è in realtà lo specifico risultato della sola storia intellettuale europea, come lo è la nozione stessa di universale. Il filosofo e sinologo François Jullien ha mostrato ne L’universale e il comune (Laterza) come allo sguardo genealogico tale nozione riveli una stratigrafia composita ed eterogenea. Il pensiero filosofico greco affida al logos la conquista di una verità stabile; con Socrate si cerca attraverso il dialogo una definizione su cui tutti possano concordare, l’autentico sapere che coglie la realtà “secondo il tutto” (kath’olou). Abbandonando il singolare della sensazione, lo spirito insegue il concetto che restituisca il quid che si ritrova identico in tutti gli esempi di Virtù o di Bellezza, l’essenza invariabile sotto la variazione empirica. Per compensazione, spetterà alla letteratura (o alla filosofia che si modella su di essa, in Kierkegaard o in Nietzsche) recuperare l’individuale che l’universale ha tralasciato, evocando un’emozione e raccontando l’ambiguo che è inerente alla vita e che sfugge all’astrazione del concetto.
Al precetto logico greco si è aggiunta l’istanza giuridica; la cittadinanza della Roma antica non deriva né dal suolo né dal sangue, non dipende dalla patria geografica, naturale, dove cioè si è nati, ma dall’istituzione politica cui si partecipa. Alla religione cristiana dobbiamo il terzo strato su cui si é sedimentata la nozione di universale. “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna”, scrive san Paolo, le differenze si dissolvono nell’abbraccio dell’amore divino, nella fratellanza in Cristo. La modernità ha sviluppato l’istanza dell’universale prendendo come riferimento primario la scienza; alla verità conquistata dalla dimostrazione matematica, ereditata dai Greci, si è aggiunta la conoscenza oggettiva della fisica.
Alla legislazione che governa il mondo naturale Kant fa corrispondere l’universalità e necessità dell’imperativo categorico: considerare ogni uomo come fine e non come mezzo è una massima che ogni soggetto razionale è chiamato ad accogliere e mettere in pratica in qualsiasi circostanza. Delle pretese di universalità dei propri valori l’Occidente ha fatto un’arma ideologica per imporre la propria egemonia: il locale, come la rana dell’apologo, si è gonfiato fino a saturare e cancellare le differenze, ma il frutto avvelenato nel mondo globalizzato (la Cina lo testimonia) non è stata la diffusione dei diritti umani, ma quella perversione dell’universale che è l’uniforme. Quest’ultimo non dipende dalla ragione, ma dai meccanismi della tecnologia applicati alla produzione e al consumo, è soltanto lo standard che si produce a costi minori e conquista il mercato.
In realtà, non esistono concetti che siano immediatamente universali, a priori fondativi sotto i quali si potrebbe disporre tutta la varietà delle culture e del pensiero. Kant, a compimento della Ratio illuministica, poteva ancora classificare nella tavola delle “categorie” le nozioni (sostanza, causalità, ecc.) senza le quali non sarebbe possibile pensare e conoscere. Ma quei concetti non trovano rispondenza nella lingua-pensiero cinese, come Jullien ha mostrato nei suoi scritti, a partire da Processo o creazione (Pratiche, 1991), fino ai più recenti Parlare senza parole. Logos e Tao (Laterza) e Essere o vivere (Feltrinelli). -L’etnocentrismo ci porta a immaginare che tutte le culture siano chiamate ad accogliere la nostra Verità (nozione anche questa che la Cina ha ignorato), come un tempo credevamo - lo illustra l’Agnello mistico dei Van Eyck nella cattedrale di san Bavone a Gand - che i rappresentanti delle altre religioni accorrono per onorare il mistero cristiano. Più che universali, ricorda Jullien, esistono universalizzanti, cioè ideali mai appagati, ribelli, regolatori (nel senso dell’idea kantiana) che inducono a spingere sempre più in là l’orizzonte, a non soddisfarsi di quanto raggiunto.
Proprio questo tipo universale, ideale mai raggiunto, bisogna rivendicare perché si possa promuovere la condivisione di quanto è comune fra le civiltà. È questa la condizione che rende possibile alle culture di rimanere aperte, pronte a rielaborarsi e disponibili a cambiare, cioè a restare vive. In caso contrario, quando si ripiegano sulle proprie “differenze” e si compiacciono di quella che ritengono la propria “essenza”, le civiltà trasformano i propri valori in frontiere, pronte a escludere gli altri.
Forse ispirandosi al principio confuciano per cui prima regola di un pensatore è “rettificare i nomi”, Jullien segnala nel recente L’identità culturale non esiste (Einaudi) che per porre le basi di un possibile dialogo fra le civiltà occorre in primo luogo affrontare la loro varietà in termini di scarto e non di differenza. La sorte della differenza è strettamente legata all’identità all’interno della quale opera una distinzione: è grazie alla differenza, spiega Aristotele, che possiamo definire e identificare; per determinare l’essenza dell’uomo dovrò indicare il genere prossimo cui appartiene (animale), e poi la differenza specifica (razionalità).
Lo scarto, invece, opera nell’ambito della distanza e così ci fa uscire dalle tipologie, dalle consolatorie caselle definitorie. Se nella differenza, una volta fatta la distinzione, ognuno dei due termini dimentica l’altro e resta chiuso nel proprio specifico, nello scarto la distanza mantiene i due termini in tensione lasciando aperta la ricchezza del confronto. Lo scarto è una figura avventurosa, disturba e ridà slancio al pensiero, consente di esplorare e di far emergere squarci su possibilità inattese; questo perché rende visibile il tra che si apre fra termini che, invece di ripiegarsi su se stessi, restano rivolti verso l’altro. L’orrore del pensiero greco e cristiano per l’indeterminato ha impedito di considerare il non-luogo che si stende fra, dove ciascun termine è spossessato del suo in sé e delle sue “proprietà”.
Non sapendo pensare il “tra”, metaxu, l’Occidente ha pensato l’“al di là”, ha inventato l’altro piano della realtà, “il mondo vero” (Nietzsche), il meta della metafisica. Per lo stesso motivo, ha pensato la relazione fra i due termini sotto forma di conflitto e ne ha prospettato, in Hegel, il superamento dialettico solo in vista della conciliazione degli opposti, dove il terzo sintetizza entrambi in una nuova determinazione. Lo scarto ci porta a uscire dalla prospettiva identitaria, non dà luogo alla conoscenza tramite classificazione, ma fa emergere risorse insospettate.
Siamo eredi del mito di un’unità culturale originaria a cui sarebbe seguita la diversificazione: la maledizione divina ha punito la presunzione umana facendo sorgere la proliferazione babelica delle lingue. Ma solo Babele è l’opportunità del pensiero, ricorda Jullien. Se fossimo costretti a parlare tutti un unico idioma, il globish dell’inglese mondializzato, perderemmo gli scarti fecondi che si aprono tra le lingue, diremmo addio alle loro rispettive risorse; finiremmo per pensare con gli stessi concetti standardizzati, scambiando per principi universali sterili stereotipi. Sfuggire alla logica della differenza significa riconoscere che non esiste l’identità di una cultura, un insieme di proprietà che ne fissi per sempre l’essenza; ogni cultura è sempre eterogenea al proprio interno, include dissensi e divergenze, si modifica singolarmente in base alle scelte dei partecipanti.
Abbiamo smarrito l’ideale dell’unione europea sognando di poterne definire l’identità, in cerca di “radici” cristiane o greche: ma ciò che fa l’Europa è proprio il fatto di essere al tempo stesso cristiana e laica, di essersi sviluppata nello scarto tra la ragione e la religione, tra la fede e i Lumi, nella tensione che ha ravvivato entrambi. Le risorse si alimentano vicendevolmente e non si escludono. Non sono da esaltare o predicare, sono a disposizione ma non ci appartengono e l’unico modo per difenderle è attivarle e promuoverle, non proclamarsene sostenitori. Come il guardiano alla porta della Legge nella parabola di Kafka, al massimo si può essere custodi della verità, mai possessori. Conosciamo bene, nell’Europa dell’Est come a casa nostra, i tanti difensori della civiltà cristiana pronti a cancellare il tratto saliente della religione di cui ostentano i simboli, la pietà verso gli ultimi e la misericordia.
Fra le risorse che l’Europa ha attivato, Jullien ricorda in primo luogo la promozione del Soggetto: non dell’individuo ripiegato sull’io, ma del soggetto che introduce la sua iniziativa nel mondo, vi porta un progetto che mira a forzare gli ostacoli che la realtà oppone. In tal modo, l’io si strappa dalla condizione presente, prende distanza dal mondo, comincia propriamente a “esistere” (ex-sistere). La cultura mira a promuovere il soggetto portandolo a debordare dalla chiusura del suo io e nel contempo a evitare l’integrazione in un mondo; a tirarsi, di conseguenza, “fuori” (ex) da un asservimento per sbloccare una libertà. Anche il cristianesimo ha contribuito alla promozione esistenziale dell’umano, per aver imposto il superamento della Legge attraverso l’amore e per aver dispiegato la coscienza come istanza intima del soggetto. È l’Occidente ad aver promosso quella risorsa, etica e politica, che è la libertà del soggetto, da cui la democrazia ha tratto la sua legittimità: la democrazia consiste innanzitutto nel trattare gli altri come soggetti o, meglio, nel promuovere una comunità di soggetti. Analogamente, dobbiamo ai Greci, a Platone in particolare, quell’altra risorsa, ignota alla tradizione cinese, che Jullien ha indicato come “l’invenzione dell’ideale” (L’invenzione dell’ideale e il destino dell’Europa, Medusa, 2011): la mente si pone in scarto rispetto al dato, immagina possibilità nuove, promuove un “ideale” che diventa l’oggetto a cui si aspira. Questa vocazione a modificare il presente, quella che ha promosso l’impulso alla rivoluzione, in arte come in politica, appare oggi una risorsa esaurita, nei tempi che diciamo post-ideologici ma che appaiono semplicemente post-ideali.
All’opposto del “narcisismo delle piccole differenze” che si richiude gelosamente su identità immaginarie, gli scarti fanno uscire le culture dal solco della tradizione, impegnano il pensiero nell’avventura, lo costringono a evitare le strade battute per tracciare possibili accessi all’impensato. Se la differenza isola le culture e le “essenzializza”, rinchiudendoci nel vicolo cieco dell’universalismo o del relativismo, soltanto lo scarto, tenendo in tensione ciò che ha separato, può produrre il comune. Nel tra aperto dallo scarto ognuno dei due elementi smette di bastare a se stesso, oltrepassa il muro che teneva a distanza, senza lasciarsi assorbire: il comune non è il simile, integrazione non significa assimilazione. La ricchezza di una comunità si misura dalla capacità di compiere degli scarti al proprio interno e di mantenere un comune condiviso, non in nome di un’“identità multipla”, né in nome della tolleranza, dove ognuno insiste sui propri valori e sulle proprie convinzioni. Com-munis indica nel suo etimo ciò che viene condiviso, ma rimanda al dono e al munus (obbligo), implica cioè una reciprocità nel dono. Jullien ritrova per altre vie quella corrente del pensiero contemporaneo (in cui possiamo iscrivere Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy, Roberto Esposito) che, dall’originaria reciprocità del dono-debito, intende demolire l’immagine di soggetti compiuti che vivono la comunità in termini di ripiegamento identitario, pronti ad escludere e s-comunicare.
Il comune dell’umanità non è un elemento dato, ma un’operazione mai conclusa; consiste, suggerisce Jullien, nella possibilità di comunicare e condividere, di circolare attraverso intelligibilità diverse per fare emergere una co-erenza (non una verità), cioè letteralmente quel che si tiene insieme nel pensiero. Il comune non dipende da regole o da un fondamento, non procede da vincoli normativi, è una risorsa inesauribile, un capitale da sfruttare, muovendo dal presupposto per cui qualsiasi cultura è intelligibile. Apel e Habermas hanno indicato il comune fra culture nel trascendentale della comunicazione, nelle condizioni che rendono possibile un discorso argomentato fra interlocutori. Ma in realtà questa comunità che si affida alle regole implicite alla discussione sorge sui presupposti tipici dell’Occidente, che la parola abbia senso (dica qualcosa), che si rispettino le modalità logiche ed etiche dell’argomentazione (filosofica). La parola confuciana però non ha pretesa di verità, mira a incitare, fornisce indizi per mettere sulla via; le parole del maestro possono variare, fino alla contraddizione, a seconda del momento e delle opportunità.
Il protocollo dialogico non si ritrova in quelli che impropriamente chiamiamo Dialoghi di Confucio, dove fin dall’inizio è scartata l’idea di una reciprocità fra interlocutori come quella simulata in Platone. L’etica della comunicazione proposta da Habermas mira a generare un consenso, inducendo l’ascoltatore ad accettare l’istanza di verità di quanto è detto. Di nuovo, Confucio e ancor più i testi taoisti ci liberano dalla morsa delle regole dell’argomentazione, mostrando come ci si possa comprendere senza dirsi niente (“parlare senza parole”) e come l’obiettivo non sia con-vincere l’altro, nella speranza di vincere insieme.
Anche il dialogo, ha spiegato Jullien, è una risorsa promossa dall’Occidente. Si modella sullo scontro degli opposti, sulla battaglia campale che vede gli avversari porsi faccia a faccia, duello eroico di parole in vista della decisione, in assemblea o nel tribunale. La Cina, al contrario, privilegia il procedere obliquo, il discorso che non dice in modo esplicito ma suggerisce, così come in battaglia evita lo scontro frontale a favore dell’azione indiretta. Il termine dialogo non è storicamente senza macchia. E non solo perché oggi l’Occidente lo rivendica dopo aver perduto la forza per imporre i suoi valori “universali”, ma anche perché cela l’aspirazione a un (falso) irenismo o l’ipocrisia di un falso egualitarismo.
Dia, in greco, esprime al tempo stesso lo scarto e l’attraversamento, mentre logos indica il comune dell’intelligibile che è, paradossalmente, la condizione e al contempo lo scopo del dialogo stesso. Un dialogo è una lenta avanzata in cui, con tempo e pazienza, le rispettive posizioni si scoprono reciprocamente e lentamente elaborano le condizioni che renderanno possibile un incontro effettivo. Il dia-logo fa emergere progressivamente un ambito di intelligenza condivisa in cui ognuno può cominciare a comprendere l’altro. Ma il dialogo può svolgersi soltanto nella lingua di entrambi, ovvero nel tra aperto dalla traduzione: la traduzione deve essere la lingua del mondo per poter attivare le risorse delle diverse lingue-pensieri. La traduzione lascia infatti emergere la difficoltà, il carattere non definitivo, sempre in fieri e mai compiuto del dialogo, ma permette anche di vedere un comune della comprensione che si elabora tra le civiltà. Solo così il soggetto a venire potrà non essere più assoggettato: prigioniero di una verità particolare, che si enuncia in modo dogmatico e, in quanto tale, esclusivo. Non sarà neppure un soggetto de-territorializzato, cioè tagliato fuori dal locale e dal singolare, di una lingua, di una cultura e di un paesaggio. Sarà un soggetto agile e nomade, pronto, partendo da una lingua e da un determinato ambiente, a circolare tra altre lingue e altri ambienti, attingendo alle risorse delle une e degli altri.
Una versione più breve di questa recensione è apparsa su Alias, l’inserto domenicale de il Manifesto, il 15 luglio 2018
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986)
IN MEMORIA DI MICHEL SERRES *. UNA CONFESSIONE (DA "IL MANCINO ZOPPO"):
PER LA FILOSOFIA DI UN ALTRO SOCRATE. AL DI LA’ DI EDIPO...:
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
a) IL PUNTO DI SVOLTA. L’INDICAZIONE DI FACHINELLI E LA SUA IMPORTANZA.
b) LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
c) CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
d) CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
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Morto Michel Serres, il filosofo della scienza che amava l’Italia
Grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, aveva 88 anni. «I miei miglior amici sono italiani»
di Daniele Zappalà (Avvenire, sabato 1 giugno 2019)
Parigi. Era uno dei pensatori più ammirati a livello internazionale, oltre a rappresentare una figura centrale del mondo intellettuale francese. Il filosofo Michel Serres, grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, si è spento ieri a 88 anni. Accademico di Francia fin dal 1990, aveva insegnato a lungo negli Stati Uniti, all’Università di Stanford, oltre che in vari atenei transalpini. Autore di una cinquantina di volumi e di opere fondamentali sull’origine del pensiero scientifico, come Le origini della geometria (Feltrinelli) o Lucrezio e l’origine della fisica (Sellerio), aveva pure interpretato, nella lontana scia di Leibniz, la pregnanza della comunicazione nel mondo contemporaneo, come nei 5 volumi della serie Hermès (1969-1980).
Figura estremamente originale, aveva scelto come proprio motto «pensare significa anticipare», prevedendo e interpretando nei propri libri diverse rivoluzioni del nostro tempo. Una costante della sua riflessione è stata pure la grande attenzione alla tradizione culturale cristiana, come in La ricerca delle parole. Corpo, scrittura e messaggio evangelico (EDB), o in Darwin, Napoleone e il samaritano. Una filosofia della storia (Bollati Boringhieri).
Fra i volumi di Serres più citati, si può ricordare Il contratto naturale (Feltrinelli), all’origine di una riflessione sull’ambiente approdata poi a volumi più personali, come Biogea. Il racconto della terra (Asterios). Di recente, aveva pubblicato pure dei pamphlet con cui aveva riscosso un notevole successo, come Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, o ancora Contro i bei tempi andati, entrambi tradotti da Bollati Boringhieri.
«Tutti i miei migliori amici sono italiani», ci aveva raccontato nella sua ultima intervista ad Avvenire, da grande innamorato del Belpaese. In proposito, aveva anche dedicato un volume a Carpaccio, edito in Italia da Hopefulmonster. Fra gli altri tratti della tradizione italiana reinterpretati a livello filosofico, spicca la figura di Arlecchino, nel volume Il mantello di Arlecchino (Marsilio). Profondamente segnato dal dramma della guerra, ha lasciato anche importanti riflessioni di stampo pacifista.
DANTE, "L’ALTRA ARGO" (VIRGILIO), E "L’ARCADIA COME PARADIGMA POLITICO" ...*
L’insegnamento politico dell’Arcadia
Per una società felice
di Pietro Pascarelli (Doppiozero, 31.03.2019)
Nell’antichità un popolo di un’impervia regione della Grecia ebbe fama di essere venuto al mondo prima degli astri e della luna, e di aver scoperto le fasi di questa, insieme al calcolo del tempo, rendendo possibile la storia.
Allora gli uomini percepivano nel paesaggio, nelle ombre degli anfratti silvani o nei lucori di improvvise radure, l’aura panica e il fluire irresistibile di eros, la presenza di ninfe e dei.
Paesaggio “ad alta densità mitologica secreta da millenni di convivenza umana” su cui il visitatore, Pausania il Periegeta, gettò nel II secolo d.C. uno sguardo “già archeologico” avvicinandosi alla città di Licosura.
In esso invisibili interstizi fra materia e soffio creatore, fra uomini e cose, accoglievano contrasti e opposizioni entro l’unificazione poetica in un senso superiore e inatteso.
Per intuizione e intelligenza suggerite dal cielo i greci e quel popolo misterioso “in possesso dell’amore del pensiero” riconobbero nel canto degli uccelli, un suono di origine naturale “privo di pensiero e di artificio”, il nomos, il quale corrisponde all’unità di una scansione tipica di note e suoni per ogni specie di uccelli, e a un metro che indica “ogni azione giusta”.
Fu riconosciuta così, come principio teoretico generale, la possibilità di un impulso di conoscenza che dal mondo non umano trapassa come dono impensato in quello umano, a fondarne i principi regolatori che si oppongono alla violenza e alla legge del più forte.
Qualcosa unisce il nomos alla terra, che nutre uomini, piante e animali, e alla musica, sicché con l’aiuto di dike - la Giustizia - venne inaugurato un mondo dispiegato dal mito e dalla poesia.
A dirci qual è questo popolo e a illustrare il suo contributo all’umanità, recuperando fonti storiche e letterarie del mondo antico lungo linee di ricerca ispirate al rigore filologico, è il libro di Monica Ferrando Il regno errante, L’Arcadia come paradigma politico, Neri Pozza 2018, che ci riporta al mito dell’Arcadia e dei suoi abitanti, a quanto si sa di una remota proto-civiltà che dal Peloponneso emerse nel mito e nella storia come modello rilevante di realtà politica, fondato sulla federazione di entità non-statali autoctone “disseminate” di pari rango, accomunate tanto dall’“etnia”, un’etnia “composita” come unità nella reciprocità dei diversi, che da un ideale politico, senza che nessuna dominasse le altre.
Fu Virgilio con le sue Bucoliche, ambientate fra i boschi di quella regione mondana e ultramondana insieme, a tramandare nei secoli con la forza della poesia l’Arcadia come simbolo di una realtà politica ideale, a lungo oggetto di un malinteso che la riduceva a idilliaca e imperturbata oasi di serenità pastorale.
Monica Ferrando si è assunta assai opportunamente il compito, con eleganza e risultati innovatori, di dimostrare che Virgilio adombra, oltre la scena poetica di idilliaci amori agresti, un’eminente organizzazione socio-politica e religiosa, portatrice di principi universali.
L’Arcadia, dove i santuari svolgono una funzione anche politica cruciale, è la terra natale di Ermes, osserva Ferrando, “il dio che mai si farà completamente assimilare dalla religione olimpica ... artefice di ogni singolo dei a possibile varietà di rapporto. ... Affidati a questa figura ... sono i rapporti armonici dei suoni tra loro, espressi dalla lira, e i rapporti psicologici tra parola e azione, i rapporti prodotti dalla parola umana e quelli degli dei tra loro”.
L’Arcadia è anche la terra del regale Pan, dio nomade degli spazi aperti, e simbolo di giustizia cosmica.
Alla concezione di Carl Schmitt di un nomos senza canto e di una dimensione solo letteraria dell’Arcadia virgiliana, Ferrando contrappone, sulla scorta di testi opportunamente vagliati, il nomos cantato e l’Arcadia come idea e nucleo politico germinali rispetto all’organizzazione della vita umana associata, secondo norme derivanti da un principio regolatore che è “uno scarto dalla natura”, cioè il nomos. Esso “riconduce a giustizia la sovranità”, e dunque non legittima ma riconverte la forza, e detta una pratica di vita e una politica dissimile e alternativa rispetto a quella della polis-stato pensata e rappresentata da Atene, potente entità accentrata contrapposta alle disperse poleis arcadiche. Queste erano invece una società modellata come non-polis senza capi, che ricorda un po’ le comunità Guayaki del Paraguay, società “indivise” e “non-Stato” studiate nella seconda metà del Novecento dall’antropologo francese Pierre Clastres, ammiratore di quello stesso Étienne de la Boétie, teorizzatore della pulsione alla servitù volontaria come spiegazione della genesi delle dominazioni, che Ferrando cita in epigrafe alla seconda parte del suo libro.
Mi sembra, alla fine, che l’impostazione di Ferrando inviti a rileggere Virgilio assegnando alla poesia il valore di “unico e autentico compendio dell’umano” e di guida ispirata per convivere in un mondo giusto. E riconoscendo nell’Arcadia la qualità di un nucleo simbolico indistruttibile, destinato a irradiare senza fine il suo insegnamento, in quanto essa “è una realtà topologica” ...paragonabile alle “figure geometriche le cui proprietà non dipendono da quantitativi rapporti di misure, ma dal qualitativo continuum formale che esse consentono”.
In questa realtà si afferma un principio politico materno e di pace, veicolato da Diotima, arcade di Mantinea, che mette al centro l’immagine e il corpo femminile “come simbolo naturale elevato ... scongiurando il sopravvento della logica maschile della forza, ovvero della legge di natura”, e un eros non distorto, non teso al denaro, come ad Atene, che da esso sarà avviata alla decadenza. Un eros invece volto alla sua giusta meta, un bene che coincide con l‘idea stessa del bello, un bello senza immagine, “rifugio di tutte le immagini”, al di là dei corpi concreti, che pone quindi in una regione psichica al di là di ogni seduzione.
Questa nuova interpretazione dell’Arcadia, ben fondata e così necessaria e confortante soprattutto oggi, nelle nostre società in cui il discorso pubblico è sempre più frammentato e povero, ruota intorno al recupero dell’origine poetico-musicale del nomos - poiché era nel canto che si tramandavano le leggi antiche - e del suo rapporto col modo di insediamento umano sulla terra e di distribuzione del nutrimento per uomini e animali, dunque della triplice indissolubile significazione del termine nomos come legge, pascolo, musica.
La legge non si impone con prepotenza né si staglia nel rigore astratto e distante, ma è cantata, e si tramanda con la musica, partecipe di un’armonia cosmica che in tutto si riverbera. Un’armonia in cui si riconosce un ritmo, lo stesso che sta al centro della poesia. Pulsazione che è un battere di piedi sulla terra, o di mani, un risuonare della voce, il respiro, un’intermittenza che segna il passo del cosmo, si ritrova nei metri cantati, nei “piedi” della poesia, e corrisponde all’alternarsi delle stagioni, a momenti dello spostamento nomade, a cicli del raccolto e della riproduzione degli animali.
Perché l’opera di Ferrando, di inesauribile ricchezza di spunti, mi pare importante anche al di là del suo contenuto specifico? Perché essa coglie l’importanza di due cose, la poesia e il mito, capaci di guidare l’umanità, oggi con riferimenti e contenuti diversi, ma sulla scia di metodo e di carisma di quell’antica dottrina, in cui il mito e il canto additano la via per una società non autoritaria, fondata sull’amore (non a caso Diotima, che l’amore illustra nel Simposio platonico, proviene dall’“amorevole” città arcade di Mantinea).
La poesia continua a mantenere una visione unitaria di ciò che i più vedono disgiunto e frammentato: gli uomini separati gli uni dagli altri e dalla natura; l’intelletto disgiunto dalle passioni, il sacro dal profano, l’oblio dalla memoria. Ma è sul tempo che la poesia si dimostra irrinunciabile. Essa dona il futuro quando nell’elaborazione del dolore, che pure ad essa soltanto riesce, sembra incombere assoluto il presente. “Fuori dalla poesia”, suggerisce Ferrando, “il tempo avrebbe totalmente smarrito la sua struttura musicale, cioè la sua forma ritmica, per richiudersi e scadere a quantità numerica senza limite e senza fine. Si sarebbe separato dalla realtà della parola, come scaturigine dei nomi delle cose entro l’accordo fondamentale con physis, che riconosce ad ogni cosa il suo nomos”.
Nella deriva attuale di imbarbarimento, che fa dubitare non di rado che vi possa essere grande udienza per istanze così elevate, anche se preziose adesso più che mai, la nostra società sembra recuperare la natura solo come bene supremo da proteggere (ne va della vita sulla terra) o anche come patrimonio di bellezza, come valore estetico e spirituale. Come qualcosa però di cui fruire, come un bene necessario, più forse che come valore in sé. Come oggetto di scienza, non di contemplazione, e non come sorgente di conoscenza.
Il poeta vede il perdurante rapporto fra uomo e società, natura e mito, senza farsi fuorviare dagli inganni della modernità alienata. Vede senza fumo negli occhi il genuino mito originario come il luogo dove uomo e pensiero tornano per rigenerarsi, e ritrovare e ridire sempre il senso della natura e del sacro, come della propria presenza in essa e fra le cose.
Leonardo Sinisgalli, ispirato dalla sua Arcadia, la Lucania, scrive una poesia, Vidi le Muse, nella raccolta omonima uscita da Mondadori nel 1943:
Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie.
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le Muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia.
C’è una connessione fra mito genuino, non piegato ai fini del potere, poesia e il farsi della realtà e della nostra vita individuale e collettiva in essa, che la poesia strappa all’estraneità raggelante del reale, all’assenza d’etica, al trionfo inumano e violento delle passioni allo stato originario, non rielaborate da nomos e dike e da un più ampio sistema simbolico di saggezza nella regolazione della vita interiore e pubblica.
E la poesia, che crea e riplasma la realtà agli occhi di tutti, quello slancio dello spirito che con esattezza scopre nel canto degli uccelli la misura, il nomos, che orienta nell’universo delle possibilità e detta in musica celeste principi di comportamento, la poesia, dico, non appartiene solo al verso, è inerente invece a ogni forma d’arte. Particolare importanza ad esempio assume la pittura, in cui, ci avverte Ferrando, trova espressione il favoloso, il mitico, respinto dalla storia.
Citerò ancora solo un poeta, William Carlos Williams, figura di spicco della poesia americana del Novecento.
Paterson, il suo capolavoro, è un grande poema in cinque parti composte in decenni, che in italiano comparve nel 1972 per le edizioni Accademia senza essere mai più ristampato, col sottotitolo Un uomo come una città. L’opera è l’epopea di una città (Paterson) e di un giovane Paese (l’America) che non ha un’antica storia mitica alle spalle e perciò ne reclama e ne inventa una, con un simbolismo che la avvicina a The bridge del grande Hart Crane, inno al ponte di Brooklyn metonimico di una New York avveniristica, e all’immensità dell’America.
Paterson parte da un’identificazione del poeta, dell’uomo, con la città, come sua proiezione nel mito e nella storia, come sogno dell’artista che incarna la realizzazione degli ideali suoi e di generazioni di uomini e donne sperduti in un continente sterminato, dove a mano a mano avviene la conoscenza dell’ambiente naturale e in esso dei suoi insediamenti affettivi e civili, e infine di sé.
La città è come il suo “secondo corpo” (come recita l’epigrafe di Saroyan in testa alla terza parte del poema). In essa e attorno ad essa, il ponte, la diga, la biblioteca, la fabbrica, sono altrettanti nuclei di una saga in cui uomo e natura, uomo e donna, forza generativa originaria, e i loro simboli (città, fiume, cascata, colline) si incontrano, amandosi o lottando corpo a corpo, mentre gli uomini si incontrano all’insegna delle emozioni e del diritto, o dei suoi mancati riconoscimenti.
Willams era ugualmente sensibile al fascino delle acque e dei boschi come agli scioperi operai, che seguì con particolare attenzione e coinvolgimento da poeta e pediatra qual era, in posizione di particolare vicinanza ai bisogni e alle sofferenze delle famiglie più povere. Anche Williams, come chi cantò i miti nell’antichità, trovava ispirazione e riscontro nella pittura, che rappresentava quel mondo in divenire nella sua cruda quotidianità e nel suo bisogno di iscriversi in un tempo sacro, da Bruegel, cui dedicò una raccolta (Immagini da Bruegel e altre poesie), ai contemporanei come Georg Luks, Robert Henri e John Sloan, per esempio, che ci indica Alfredo Rizzardi nella sua Introduzione alla traduzione italiana di Paterson.
La città poetica, la Paterson immaginaria di Williams, ha offerto lo spunto del film omonimo di Jim Jarmusch del 2016, che è un grande omaggio alla poesia, all’incrocio fra persona e terreno in cui vive, come rappresentazione trasfigurante del quotidiano e dell’assoluto sulla terra. Non del mondo, come guida per l’uomo, risuona ovviamente anche nelle cosiddette società “tradizionali”. Ad esempio nella narrazione dei prodigiosi eventi delle origini nella notte dei tempi dei Dogon, appartenenti alla civiltà del Verbo vivente e creatore, fatta dal cieco Ogotemmeli, “gran cacciatore di Ogol-basso”, riportata da Marcel Griaule in Dio d’acqua (1966). Ogotemmeli in trentatré giorni dell’anno 1946 narrò al visitatore europeo come in un tempo immemorabile si era costituita la sua civiltà, secondo una scansione di tappe ed eventi che suggerivano il loro senso profondo entro un complesso sistema simbolico. E spiegò come erano comparse quotidiane opere di lavoro e riflessione, dalla filatura alla classificazione delle cose, dall’enumerazione degli antenati e delle discendenze, e dal riconoscimento della natura divina della parola, alla narrazione di ciò che riguarda la “seconda” e la “terza” parola, alla rammemorazione del “sistema del mondo”, alla devozione per la pittura che ospitando acque e stelle aiuta il mondo a perdurare...
Anche il resoconto di Bruce Chatwin, nel libro Le vie dei canti, dicendo del modo di alcune popolazioni aborigene dell’Australia di descrivere col canto aree di territorio da loro abitate, conferma la centralità del canto e della musica nello sviluppo della civiltà. Ad ogni luogo, ad ogni credenza che ad esso è collegata, ad ogni cosa che si trova o si vede lungo una strada di un loro territorio, si associa una particolarità del canto che attraverso il suo ritmo e la sua intonazione, il suo “andamento melodico” al di là delle parole, descrive con frasi musicali e con la loro successione le caratteristiche del luogo, le distanze percorse, i movimenti dei piedi dell’antenato mitico e gli ostacoli che ha superato e quante volte lo ha fatto. La musica fa trovare la via che si cerca.
Metaforicamente, l’indicazione della via va oltre il terreno, mettendo a frutto i doni del contatto creativo ininterrotto fra umano e non umano.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Virgilio, "Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico", e Dante ...*
Il fondamento erotico di “nomos/legge”
Dialogo tra Sarantis Thanopulos e Monica Ferrando
di Sarantis Thanopulos (psychiatry-on-line 2 marzo, 2019)
Sarantis Thanopulos “Monica nel tuo ultimo libro, “Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico” (Neri Pozza), operi un’interpretazione, filologicamente molto accurata, della parola greca “nomos” (nel suo triplice significato di musica, pascolo e legge) che si oppone con decisione a quella di Carl Schmitt. Non più appropriazione di terra con la forza, ma attribuzione secondo il costume, secondo giustizia. Nella tua lettura dei famosi versi di Pindaro, la legge, re dei mortali e degli immortali, non giustifica il più forte ma lo rende, invece, conforme alla giustizia. È interessante che nel capovolgere la tradizionale interpretazione dei versi, tu non disgiungi la legge dalla natura. Piuttosto che affidare il loro legame alla supremazia del più forte, tipica del mondo animale, lo metti in relazione con la musica, il canto degli uccelli. Come scrivi, nell’unità indissolubile di pascolo, legge e musica, il modo naturale e il mondo umano possono toccarsi nel fenomeno comune e originario della voce.
In effetti la musica, il canto degli uccelli, la musicalità del suono umano - a partire dalla voce materna, ovvero dalla sua sensualità erotica e affettiva -, precede e ispira le parole ed è il fondamento originario di ogni dialogo e del discorso politico.”
Monica Ferrando “Reintegrando nel nomos, a differenza di Schmitt, il significato originario di canto, il nomos/pascolo (aperto e libero) non verrà reso appropriabile dal nomos/legge, perché il nomos/canto non lo consente. I tre significati si intrecciano indissolubilmente. Come il canto degli uccelli, il nomos/canto, scrive Alcmane, è alieno da arbitrio. La natura per legge è la comoda via dei sofisti. Il nomos dell’essere umano è diverso dal nomos della natura: la legge del più forte. La prima occorrenza di questa parola dopo Omero, nel primo apologo dell’occidente dove Esiodo avverte i giudici che gli umani non si trattano come lo sparviero l’usignolo, è chiara: stare nel nomos significa abitare la natura umana secondo una giustizia che è la sua “natura”, cioè escludendo l’arbitrio della forza. Scelta ardua, ispirata al canto, di attiva contiguità con la natura anziché, cedendovi mimeticamente, di sopraffazione e quindi di passiva ricaduta in essa. Per questo le leggi più antiche erano cantate, cosa che noi abbiamo dimenticato.
Sarantis Thanopulos “Hai delineato un nomos naturale ispirato al canto piuttosto che alla logica della predazione. Un nomos erotico, legato alla sensualità, musicalità dell’esperienza e non all’“istinto” degli animali - una nostra proiezione legittimante il potere del più forte come potere sovrano che mette ordine, ci protegge dall’anarchia, dal caos”.
Monica Ferrando “Attribuita al nomos, la sovranità è immune - a differenza del sovranismo - da quell’arbitrio antropocentrico che neppure la teologia ha mai messo in questione, e si intona alla realtà cosmico-naturale - il corso del sole, dal quale dipende la vita sulla terra - di cui anche il più violento è tenuto a riconoscere la giustizia. Questo è il senso dei versi pindarici. Citati da Callicle, nel Gorgia, al contrario per dire che viene fatta violenza al più giusto, esibiscono il difetto di memoria del sofista che parla per dominare. Pindaro, autore anche di inni a Pan e alla Grande Madre, testimoniava nel canto la presenza sovrana di un nomos non scritto se non nella psiche rammemorante di ciascuno di noi, nell’eco della prima voce amorosa in cui è custodito il codice genetico dell’umano. Arcaismo? Pensiamo al film di Ermanno Olmi: Durante l’estate; è la latente e inconfessabile esigenza di regalità che anima il protagonista, in cui l’umano tocca insieme profondità e innocenza assolute, a mostrare il possibile accordo della sua gloriosa varietà, oltre ogni differenza di classe, sesso, cultura.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Lo scontro tra potere e poesia
Dialogo con Monica Ferrando
di Sarantis Thanopulos (psychiatry-on-line, 26 maggio 2019)
Sarantis Thanopulos: “La tua critica alla tragedia, nel solco tracciato da Platone, è pungente e concisa. Denunci il suo uso, allora come oggi, da parte del potere come canone estetico del pensiero.Tuttavia nel suo reale configurarsi la tragedia si è collocata in modo destabilizzante, eccentrico rispetto al contesto politico-religioso in cui la polis, nelle sue mire educative, ordinatrici nei confronti dei cittadini, aveva voluto recintarla. Così che ciò a cui gli spettatori assistevano era uno scontro, mai dichiarato, esplicitato, tra la politica di addomesticamento delle tensioni dell’apparato culturale di un imperialismo “democratico” e la sua radicale messa in discussione da chi doveva realizzarla. La concatenazione lineare degli eventi inquietanti sulla scena del teatro, la prevedibilità dell’esito finale (alleata di ogni autoritarismo), veniva narrata, rappresentata in modo che la sua elaborazione da parte degli spettatori fosse del tutto irriducibile a schemi mentali rassicuranti, predefiniti.”
Monica Ferrando: “E’ così, tanto è vero che ancora ne parliamo e certo l’universalizzazione psicologica ad opera di Freud ne ha ulteriormente confermato lo statuto di modello artistico e introspettivo. Perché? Perché la sua sostanza era il problema per eccellenza della convivenza umana così come si era organizzata secondo la polis: l’esclusione/inclusione sacrificale. Invece di vivere il paradosso etico-religioso del sacrificio, come per esempio nell’orfismo o in Arcadia, valendosi di un’immaginazione mitopoietica (pensiamo a Orfeo o a Licaone), presente peraltro anche nella tragedia, lo si trasferisce nella finzione di una liturgia civica, orchestrando un’autorappresentazione della polis funzionale alla sua autoconservazione universalizzante, dove il sacrificio diviene la condizione indispensabile, anche inconscia, dell’imputabilità dell’azione a un soggetto (eroico) che diverrà il soggetto universale dell’occidente.”
Sarantis Thanopulos: “L’agire sulla scena tragica, a cui l’occidente ha associato l’assunzione eroica di un destino sacrificale, è imitazione di un’azione autoreferenziale, irresponsabile che porta il protagonista a distruggere la sua posizione nel mondo. Essa è il prodotto di un grave errore, preterintenzionale, di giudizio (amartia) dettato dalla svalutazione dell’importanza dell’altro. Il sacrificio a cui conduce non libera la polis. Mette la sua costituzione democratica di fronte al limite potenzialmente catastrofico della logica sacrificale: la politica di un’inclusione escludente, chiusa all’alterità e alla migrazione che espelle il desiderio nei confronti dello straniero, considerandolo estraneo al senso di appartenenza. L’imitazione dell’azione autoreferenziale nello spazio tragico, mentre da una parte la riproduce, dall’altra ne spezza l’inesorabilità e apre i cittadini seduti sui gradini del teatro, togliendoli dalla passività, al riconoscimento della perdita e alla sua elaborazione trasformativa. Disattiva il dispositivo dell’inclusione elettiva/esclusiva e rimette in gioco la parità come condizione della convivenza umana.”
Monica Ferrando: “Questo forse nelle intenzioni "politiche" dei poeti. Di fatto, però, alla politica possibile come scaturigine dell’esercizio della poesia non è andata così. E oggi, in cui lo spettacolo ha intaccato tutto, persino la pittura storica, la sua forma è imposta con la forza ‘legittimante’ delle istituzioni. Dinnanzi alla tragedia politica reale (la condanna dell’innocente) è un’incessante e generale dialogo politico a essere necessario, al di là di ogni, ahimé calcolato, effetto artistico. La separazione in attori e spettatori è un’espropriazione sistematica di quella poesia che, in varia misura, da sempre abita gli esseri umani come potenza politica della lingua.
ADAMO ED EVA, IL "FAMILISMO AMORALE", E L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI LABIRINTO... *
Etica pubblica.
Salvatore Natoli e la politica per la città nuova
Nel nuovo libro il filosofo riflette sull’attesa del Regno e su come l’agone sociale renda possibile la sua costruzione con la cura del bene comune
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 24 maggio 2019)
Aveva ragione Baudelaire, quando in uno dei suoi pensieri colse appieno l’essenza della Modernità: «Teoria della vera civiltà. Non consiste nel gas o nel vapore o nei tavolini parlanti, consiste nella dimenticanza del peccato originale». E se non esiste più questa coscienza della colpa, insita nell’uomo sin dall’inizio, sparisce completamente anche l’idea di salvezza, di redenzione. È questo uno dei presupposti del nuovo libro di Salvatore Natoli, Il fine della politica. Dalla teologia del regno al governo della contingenza (Bollati Boringhieri, pagine 130, euro 15) che sarà presentato lunedì prossimo al teatro Franco Parenti di Milano dall’autore con Davide Assael.
Il filosofo noto per i suoi saggi sul dolore e sulla felicità, nonché per le sue numerose interlocuzioni, da non credente, col mondo dei credenti (memorabili alcuni suoi confronti con personalità come il cardinal Martini, il biblista Sergio Quinzio o il monaco Enzo Bianchi), in questo volume si interroga sul destino della politica, ma in realtà la sua esplorazione riguarda tutto il percorso dell’umanità. A partire dall’idea di éschaton o éschata, “le cose future”, sorta nell’ambito del giudaismo ma riadattata dal cristianesimo e il cui influsso ha segnato in maniera decisiva tutta la storia dell’Occidente, dal Medioevo alla Modernità.
In realtà già Omero ne parla e se ne serve per definire «ciò che sta fuori», cioè «il più lontano, l’estremo». Nella Bibbia invece per i profeti designa la fine dei giorni e così nei Vangeli e in Paolo, ove emerge un concetto di tempo come promessa e compimento. I primi cristiani com’è noto attendevano un ritorno se non immediato assai ravvicinato di Gesù e si aspettavano che si compisse la promessa della salvezza e la cancellazione del male dalla faccia della terra. Commenta Natoli: «Il cristianesimo, nella sua essenza, non in altro consiste se non nell’annuncio del regno di Dio. Esso è già venuto con la venuta di Cristo nel mondo, tuttavia non si è ancora manifestato nella sua pienezza, (...) tant’è che il regno è ancora da invocare, anzi è la prima cosa da chiedere: venga il tuo regno».
L’éschaton è allora l’aver fede che nel futuro si adempirà quanto è stato promesso: di qui la felice formula “già e non ancora” che viene applicata alla Chiesa, che vive in sé la dimensione della salvezza ma ne attende la piena realizzazione. Col passare dei decenni e dei secoli, il tempo dell’attesa si è dilatato dato che la storia prosegue il suo corso, ed è esattamente questo il tempo della po-litica: inevitabile, da Paolo in poi, il tentativo di definire il rapporto fra la Chiesa e il potere, assieme alle prime formulazioni di una teologia della storia.
Natoli dedica diverse pagine alla questione del katéchon, quella potenza che trattiene il dilagare del male, ma al contempo impedisce il manifestarsi pieno del progetto di Dio sull’umanità. Già nell’antichità essa fu identificata da alcuni teologi con l’impero romano (c’è chi vide in Nerone l’Anticristo), ma perlopiù esso rimase, e rimane, un’entità misteriosa e indefinibile. Sta di fatto che i cristiani si trovarono sempre più immersi nel loro tempo e costretti a fare i conti con le potenze mondane.
Fu sant’Agostino a elaborare la prima vera e propria teologia della storia nel De civitate Dei. Il vescovo di Ippona vedeva il potere politico come una realtà che ha il compito preminente di contenimento del male, mentre Tommaso d’Aquino nei secoli successivi gli assegnerà una funzione positiva: il perseguimento del bene comune. In un saggio uscito in America nel 1949 e in Italia edito dal Saggiatore, Significato e fine della storia, il pensatore tedesco Karl Löwith scriveva: «L’impossibilità di elaborare un sistema progressivo della storia profana sulla base della fede ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano significativo della storia mediante la ragione. Ciò è confermato dal senso comune: infatti chi oserebbe pronunciare un giudizio definitivo sullo scopo e sul senso degli eventi contemporanei?».
Non molto diversamente sembra pensarla Natoli che però, pur prendendo atto del processo di secolarizzazione e della trasformazione dell’éschaton cristiano nell’utopia razionalistica e illuministica, continua a pensare che pure le società contemporanee abbiano una riserva di futuro, anche se ormai solo terreno. La legge del progresso, grazie alla quale si trasferiva all’operatività umana - alla scienza e alla tecnica in primis - la possibilità di progettare il futuro, già ai tempi di Voltaire si scontrava tuttavia con l’inesorabilità del destino: è noto lo sconcerto dei philosophes dinanzi alla tragedia del terremoto di Lisbona. E se è vero che la dimenticanza dell’éschaton è stata resa possibile in primo luogo per colpa della Chiesa, divenuta nei secoli passati sempre più «una grande macchina organizzativa che ha modellato la vita delle persone» perdendo di vista la dimensione spirituale, è altrettanto vero che l’utopia del cambiamento dell’uomo e della società ha generato mostri come i totalitarismi. Lo sguardo di Natoli si fa più disincantato: «Sono in tanti - scrive - a sostenere che il tempo della politica è, ormai, finito; e certamente lo è, se la politica la si pensa ancora in termini novecenteschi. Il Novecento, in particolare la prima metà, non è stato solo un tempo politico ma un tempo dell’iperpolitica».
Ciò nonostante, egli indica ancora una possibilità: «Se non c’è più alcuna “fine” da attendere, è necessario attendere alle cose del mondo, prendersele in carico». Compito della politica è allora la giustizia, la pace è moderare i conflitti, provvedere al benessere. Se essa ha perduto il senso dell’éschaton, mantiene un telos, vale a dire un fine. E questo può costituire un terreno di azione comune per credenti e non credenti che vogliano ancora impegnarsi nell’azione politica. Così Natoli può concludere: «È in forza della comune umanità, della pietas che lega tra loro uomini e popoli, che la specie mortale può salvarsi. Ora, cosa più della politica deve provvedere a ciò che è comune? Liberaci dal male è un’invocazione che si rivolge a Dio e per chi crede lo è ancora. Ma cos’altro è la realizzazione del regno, se non questo?».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
DANTE, IL LETARGO DI SECOLI, E LA CRISI DELL’EUROPA - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
Papa Francesco, Gesù e i Farisei. Discorso ufficiale di Francesco ai partecipanti al Convegno al Pontificio Istituto Biblico sui Farisei.
Cari fratelli e sorelle, vi accolgo con piacere in occasione del 110° anniversario del Pontificio Istituto Biblico, e ringrazio il Rettore per le sue cortesi parole. Quando nel 1909 San Pio X fondò il “Biblicum”, affidò ad esso la missione di essere «un centro di alti studi della Sacra Scrittura nella città di Roma, per promuovere il più efficacemente possibile la dottrina biblica e gli studi connessi secondo lo spirito della Chiesa cattolica» (Litt. Ap. Vinea electa, 7 maggio 1909: aas 1 [1909], 447-448).
Da allora, questo Istituto ha lavorato per rimanere fedele alla sua missione, anche in tempi difficili, e ha molto contribuito a promuovere la ricerca accademica e l’insegnamento negli studi biblici e nei campi correlati per studenti e futuri professori che provengono da una settantina di Paesi diversi. Il Card. Augustin Bea, per molto tempo Rettore del “Biblico” prima di essere creato cardinale, è stato il principale promotore della Dichiarazione conciliare Nostra aetate, che ha posto su nuove fondamenta le relazioni interreligiose e in particolare quelle ebraico-cattoliche. Negli ultimi anni l’Istituto ha intensificato la sua collaborazione con studiosi ebrei e protestanti.
Do il benvenuto ai partecipanti al Convegno su “Gesù e i Farisei. Un riesame interdisciplinare”, che intende affrontare una domanda specifica e importante per il nostro tempo e si presenta come un risultato diretto della Dichiarazione Nostra aetate. Esso si propone di capire i racconti, a volte polemici, riguardanti i Farisei nel Nuovo Testamento e in altre fonti antiche. Inoltre, affronta la storia delle interpretazioni erudite e popolari tra ebrei e cristiani. Tra i cristiani e nella società secolare, in diverse lingue la parola “fariseo” spesso significa “persona ipocrita” o “presuntuoso”. Per molti ebrei, tuttavia, i Farisei sono i fondatori del giudaismo rabbinico e quindi i loro antenati spirituali.
La storia dell’interpretazione ha favorito immagini negative dei Farisei, anche senza una base concreta nei resoconti evangelici. E spesso, nel corso del tempo, tale visione è stata attribuita dai cristiani agli ebrei in generale. Nel nostro mondo, tali stereotipi negativi sono diventati purtroppo molto comuni. Uno degli stereotipi più antichi e più dannosi è proprio quello di “fariseo”, specialmente se usato per mettere gli ebrei in una luce negativa.
Recenti studi riconoscono che oggi sappiamo meno dei Farisei di quanto pensassero le generazioni precedenti. Siamo meno certi delle loro origini e di molti dei loro insegnamenti e delle loro pratiche. Pertanto, la ricerca interdisciplinare su questioni letterarie e storiche riguardanti i Farisei affrontate da questo convegno aiuterà ad acquisire una visione più veritiera di questo gruppo religioso, contribuendo anche a combattere l’antisemitismo.
Se prendiamo in considerazione il Nuovo Testamento, vediamo che San Paolo annovera tra quelli che una volta, prima di incontrare il Signore Gesù, erano i suoi motivi di vanto anche il fatto di essere «quanto alla Legge, fariseo» (Fil 3, 5).
Gesù ha avuto molte discussioni con i Farisei su preoccupazioni comuni. Ha condiviso con loro la fede nella risurrezione (cfr. Mc 12, 18-27) e ha accettato altri aspetti della loro interpretazione della Torah. Se il libro degli Atti degli Apostoli asserisce che alcuni Farisei si unirono ai seguaci di Gesù a Gerusalemme (cfr. 15, 5), significa che doveva esserci molto in comune tra Gesù e i Farisei. Lo stesso libro presenta Gamaliele, un leader dei Farisei, che difende Pietro e Giovanni (cfr. 5, 34-39).
Tra i momenti più significativi del Vangelo di Giovanni c’è l’incontro di Gesù con un fariseo di nome Nicodemo, uno dei capi dei Giudei (cfr. 3, 1). È a Nicodemo che Gesù spiega: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (3, 16). E Nicodemo difenderà Gesù prima di un’assemblea (cfr. Gv 7, 50-51) e assisterà alla sua sepoltura (cfr. Gv 19, 39). Comunque si consideri Nicodemo, è chiaro che i vari stereotipi sui Farisei non si applicano a lui, né trovano conferma altrove nel Vangelo di Giovanni.
Un altro incontro tra Gesù e i capi religiosi del suo tempo è riportato in modi diversi nei Vangeli sinottici. Ciò riguarda la questione del “grande” o “primo comandamento”. Nel Vangelo di Marco (cfr. 12, 28-34) la domanda viene posta da uno scriba, non diversamente identificato, che instaura un dialogo rispettoso con un insegnante. Secondo Matteo, lo scriba diventa un fariseo che stava cercando di mettere alla prova Gesù (cfr. 22, 34-35). Secondo Marco, Gesù conclude dicendo: «Non sei lontano dal regno di Dio» (12, 34), indicando così l’alta stima che Gesù ha avuto per quei capi religiosi che erano davvero “vicini al regno di Dio”.
Rabbi Aqiba, uno dei rabbini più famosi del secondo secolo, erede dell’insegnamento dei Farisei (S. Eusebii Hieronymi, Commentarii in Isaiam, III, 8: pl 24, 119.), indicava il passo di Lv 19, 18: «amerai il tuo prossimo come te stesso» come un grande principio della Torah (Sifra su Levitico 19, 18; Genesi Rabba 24, 7 su Gen 5, 1). Secondo la tradizione, egli morì come martire con sulle labbra lo Shemà, che include il comandamento di amare il Signore con tutto il cuore, l’anima e la forza (cfr. Dt 6, 4-5. Testo originale e versione italiana in Talmud Babilonese, Trattato Berakhòt, 61 b, Tomo ii, a cura di D. G. Di Segni, Giuntina, Firenze 2017, pp. 326-327). Pertanto, per quanto possiamo sapere, egli sarebbe stato in sostanziale sintonia con Gesù e il suo interlocutore scriba o fariseo. Allo stesso modo, la cosiddetta regola d’oro (cfr. Mt 7, 12), anche se in diverse formulazioni, è attribuita non solo a Gesù, ma anche al suo contemporaneo più anziano Hillel, di solito considerato uno dei principali Farisei del suo tempo. Tale regola è già presente nel libro deuterocanonico di Tobia (cfr. 4, 15).
Quindi, l’amore per il prossimo costituisce un indicatore significativo per riconoscere le affinità tra Gesù e i suoi interlocutori Farisei. Esso costituisce certamente una base importante per qualsiasi dialogo, specialmente tra ebrei e cristiani, anche oggi.
In effetti, per amare meglio i nostri vicini, abbiamo bisogno di conoscerli, e per sapere chi sono spesso dobbiamo trovare il modo di superare antichi pregiudizi. Per questo, il vostro convegno, mettendo in relazione fedi e discipline nel suo intento di giungere a una comprensione più matura e accurata dei Farisei, permetterà di presentarli in modo più appropriato nell’insegnamento e nella predicazione. Sono sicuro che tali studi, e le nuove vie che apriranno, contribuiranno positivamente alle relazioni tra ebrei e cristiani, in vista di un dialogo sempre più profondo e fraterno. Possa trovare un’ampia risonanza dentro e fuori la Chiesa Cattolica, e al vostro lavoro possano essere concesse abbondanti benedizioni dall’Altissimo o, come direbbero molti dei nostri fratelli e sorelle ebrei, da Hashèm. Grazie.
* Fonte: https://www.lapartebuona.it/home/gesu-e-i-farisei-al-pontificio-istituto-biblico-dal-7-al-9-maggio-una-conferenza-internazionale-sui-farisei/ (ripresa parziale).
Ipocriti e venali? Un convegno per superare i pregiudizi sui farisei
E il 9 maggio papa Francesco riceve i partecipanti all’iniziativa organizzata dal Pontificio Istituto Biblico e sponsorizzata anche da Cei e American Jewish Committee
di Iacopo Scaramuzzi (La Stampa, 04/04/2019)
Roma. Spesso raffigurati come «esempi di legalismo, ipocrisia e avidità», presentati nei Vangeli come i rivali maggiori di Gesù, i farisei saranno al centro di un convegno organizzato dal Pontificio Istituto Biblico, a Roma, teso a riesaminare le fonti e superare i pregiudizi che circondano questo antico gruppo giudaico, e possono intrecciarsi con pulsioni antisemite, nelle omelie e nei testi scolastici, nel linguaggio quotidiano così come in libri e film. L’ultimo giorno del convegno su «Gesù e i farisei» («Un riesame interdisciplinare») i partecipanti saranno ricevuti in udienza privata dal Papa.
«Il tema della relazione tra Gesù e i farisei è un altro modo per descrivere la relazione tra i cristiani e gli ebrei attraverso due millenni», ha spiegato nel corso di una conferenza stampa il gesuita Michael Kolarcik, rettore dell’istituto. «Quanto affermiamo su questo rapporto, e come lo diciamo, ha conseguenze significative per la nostra relazione attuale». Padre Etienne Veto, direttore del Centro cardinale Bea per gli Studi Giudaici, ha sottolineato che grazie alle evoluzioni della ricerca biblica e storica è emerso da tempo che «non è corretta» la rappresentazione invalsa dei farisei e che «c’è un collegamento tra l’antisemitismo e la concezione dei farisei».
Il convegno, sostenuto anche dall’American Jewish Committee, dalla Conferenza episcopale italiana e dalla società Verbum di software per gli studi cattolici, vedrà la partecipazione di oltre trecento esperti di varie materie, cattolici protestanti ed ebrei. Numeri superiori alle attese tanto che avrà luogo nell’aula magna della attigua Pontificia Università Gregoriana. Tra gli altri ci saranno i rabbini David Rosen, Riccardo Di Segni e Abrhama Skorka, quest’ultimo amico di lunga data di Jorge Mario Bergoglio, il presidente della commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Cei Ambrogio Spreafico, e ancora esperti di storia, archeologia, studi rabbinici, Nuovo Testamento, educazione, arte popolare da Argentina, Austria, Canada, Colombia, Germania, India, Israele, Italia, Paesi Bassi e Stati Uniti.
Scopo del convegno, si legge in una presentazione, è «un riesame delle fonti, per fornire un quadro più chiaro dei farisei “letterari” e “storici” dell’antichità» e, in secondo luogo, «riconsiderare i fattori responsabili dei pregiudizi che hanno danneggiato la percezione comune dei farisei - e di suggerire modi per superarli»: per questo il convegno «discuterà anche di problemi relativi non solo agli studi biblici, ma anche all’omiletica (cioè come fare un’omelia sui farisei, quando essi compaiono sul lezionario), a testi scolastici e alla cultura popolare, compresi libri e film su Gesù e sulle rappresentazioni della Passione».
Non a caso parteciperà al convegno anche Christian Stueckl, direttore artistico della famosa «Rappresentazione della Passione» di Oberammergau che va in scena ogni anno dal 1634. «Vogliamo individuare le radici di questa rappresentazione inadeguata dei farisei», ha detto in conferenza stampa il professore Joseph Sievers, tra i principali organizzatori dell’evento, «e superare i pregiudizi».
«Non c’è bisogno di presentare male i farisei in particolare e l’ebraismo in generale per presentare bene Gesù: Gesù si presenta bene da solo», ha detto da parte sua la professoressa ebrea Amy Jill Levine, che al Biblico insegna Nuovo Testamento: «Il trattamento negativo dei farisei è parte di un problema più ampio» che affonda le radici nella distorta contrapposizione tra il cattolicesimo, quale religione di amore, e nell’ebraismo, quale religione della legge, ma «siamo entrambe religioni di amore», ha detto padre Veto, «e siamo entrambe religioni che fanno attenzione a ciò che facciamo, all’etica», ha detto Jill Levine, ricordando che Gesù è anzi più rigoroso dei maestri ebrei quando, ad esempio, anziché condannare l’assassinio condanna anche la rabbia o quando condanna non solo il tradimento effettuato ma anche quello pensato.
Amy Jill Levine, che in passato ha consegnato al Papa la versione commentata ebraica del Nuovo Testamento (The Jewish Annotated New Testament), ha ricordato che san Paolo di Tarso era fariseo, che lo storico Tito Flavio Giuseppe parlava bene dei farisei e che i rotoli del Mar Morto non li citano e anzi criticano un gruppo ebraico lassista: «Se avessimo solo Paolo, Flavio Giuseppe e i rotoli del Mar Morto non avremmo bisogno di questo convegno. Ma abbiamo i Vangeli che descrivono i farisei come ipocriti e nemici di Gesù», ha detto, auspicando che «le omelie sui farisei non propaghino l’antisemitismo ma presentino correttamente il Vangelo della pace».
Ai giornalisti che facevano notare come Papa Francesco abbia più volte, coerentemente con i Vangeli, indicato i farisei come esempi negativi di ipocrisia e legalismo, il professor Sievers ha risposto ricordando che non bisogna dimenticare «l’amore di Francesco nei confronti dell’ebraismo e i suoi rapporti cordiali con gli ebrei già quando era a Buenos Aires, ed ha poi detto, più in generale, che «capita a tutti noi di avere un punto cieco: noi non saremo polemici nei confronti di alcunché, ma desideriamo completare una visione che dia spazio ad una concezione più sfaccettata dei farisei, sperando che completare il quadro possa innescare anche qualche cambiamento».
IL LETARGO DI SECOLI E L’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI... *
La riforma del diritto di famiglia
19 maggio 1975
di Raffaella Sarti (Il Mulino, 17 maggio 2019)
“Storica riforma del diritto di famiglia: diventa assoluta la parità tra i coniugi”, titolava un articolo su “La Stampa” del 23 aprile 1975, commentando l’approvazione, il giorno prima, di quella che sarebbe divenuta la Legge 19 maggio 1975, n. 151. Dopo un iter di quasi nove anni, la riforma arrivava in porto. Senza dubbio, per molti versi la legge rappresentava una “rivoluzione in famiglia”, come recitava un altro articolo sullo stesso giornale. “Le famiglie italiane diventeranno più moderne e più libere”. “Ad essere ‘liberati’ saranno le donne e i figli, spiegava il giornalista: “l’‘oppressore’ del quale vengono limitati i diritti e i poteri, è il padre, finora capo famiglia assoluto”. La famiglia “non è più vista come piramide, che ha al vertice il marito, ‘capo’ e monarca assoluto”, gli faceva eco un articolo su “l’Unità”. In effetti, la legge cancellava quasi completamente il ruolo di capofamiglia, erede per tanti versi della figura plurimillenaria del paterfamilias del diritto romano.
La riforma modificava molti articoli del codice civile del 1942, e - a ventisette anni dalla sua entrata in vigore - faceva un deciso passo verso l’attuazione dell’art. 29 della Costituzione, secondo il quale “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. Fino ad allora le leggi, più che tale principio, avevano attuato quanto previsto nella parte finale dell’articolo che subordinava l’uguaglianza alla “garanzia dell’unità familiare”, prevedendo a tali fine limiti di legge. E i limiti, per decenni, erano stati molti e pesanti. Sino alla riforma, infatti, il marito-padre era “il capo della famiglia”: “la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”, recitava l’art. 144 del codice civile.
Con la riforma, l’obbligo di coabitazione tra coniugi non veniva meno. Si stabiliva, tuttavia, che la residenza della famiglia e l’indirizzo della vita familiare fossero decisi insieme da moglie e marito. Non solo: i coniugi avrebbero potuto avere ciascuno un proprio domicilio nella “sede principale dei propri affari o interessi” (nuovo art. 45 del codice civile). Insomma, si passava da una legislazione che aveva mantenuto una forte preminenza del marito a leggi che garantivano maggior parità tra i coniugi. Non era, però, una parità assoluta. Certo la riforma stabiliva che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri” (nuovo art. 143). Ma permanevano delle asimmetrie. Ad esempio, ora la moglie poteva mantenere il suo cognome. Doveva però aggiungervi quello del marito (art. 143-bis) mentre per il marito non era previsto nulla di simile. Né era previsto che i figli nati in seno al matrimonio potessero avere il cognome della madre. Senza dubbio, comunque, la legge rendeva la moglie meno dipendente dal coniuge: ad esempio, la donna che sposava uno straniero ora non perdeva più la cittadinanza italiana (art. 143-ter).
La riforma metteva i coniugi su un piano di maggiore parità anche grazie alle disposizioni economiche. Il codice del 1942 aveva stabilito che il marito avesse il dovere di “proteggere la moglie, di tenerla presso di sé e di somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione delle sue sostanze”. La moglie doveva contribuire al mantenimento del marito solo se questi non aveva “ha mezzi sufficienti” (art. 145). In base alla riforma, invece, entrambi i coniugi erano “tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia” (nuovo art. 143). Un’altra norma che appariva “rivoluzionaria” riguardava il regime patrimoniale. Fino ad allora era stata in vigore la separazione dei beni tra marito e moglie, mentre la nuova legge introduceva la comunione dei beni, a meno di diversa scelta da parte dei coniugi. Coerentemente, aboliva la dote che, seppur in disuso, per secoli aveva condizionato la vita delle ragazze e delle loro famiglie. Per quanto riguarda gli aspetti economici, la riforma riconosceva inoltre i diritti, fino ad allora disconosciuti, di moglie, figli e altri parenti che lavoravano stabilmente in famiglia o nell’impresa familiare: anzitutto il diritto al “mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia” e poi quello a partecipare “agli utili dell’impresa familiare”. Con una virata in senso democratico, prevedeva anche che le decisioni fossero “adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa”. E ridimensionava le gerarchie di genere: “il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”, recitava l’art. 230-bis.
La tendenza a smussare le gerarchie di genere e generazionali riguardava anche il rapporto tra genitori e figli. La potestà esercitata dal padre veniva sostituita da una potestà “esercitata di comune accordo da entrambi i genitori” (nuovo art. 316). E i genitori non avevano più solo l’obbligo “di mantenere, istruire ed educare la prole”, ma dovevano farlo anche “tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” (nuovo art. 147). D’altra parte, se permaneva l’obbligo, per la prole, di rispettare padre e madre, veniva meno quello di onorarli. Era poi previsto che i figli contribuissero “in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia” finché avessero convissuto con essa.
“Finiscono le crudeli discriminazioni tra bambini”, sosteneva uno degli articoli apparsi il 23 aprile 1975 su “l’Unità”. Un aspetto importante della legge riguardava, in effetti, le differenze tra figli legittimi e illegittimi, di cui ora si parlava solo come di figli “naturali”. L’art. 30 della Costituzione aveva stabilito che la legge dovesse assicurare “ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale”, ma aveva circoscritto la portata del principio alla tutela “compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima”, prevedendo anche limiti per la ricerca della paternità.
Di fatto, profonde differenze avevano continuato a caratterizzare la condizione dei figli nati dentro e fuori del matrimonio. La riforma le avrebbe ridotte, non cancellate. Sino ad allora un genitore sposato non poteva riconoscere i figli nati da un rapporto adulterino; ora il riconoscimento era possibile (nuovo art. 252). Prima della riforma, i nati fuori del matrimonio che non potevano essere riconosciuti non avevano il diritto di sapere di chi fossero figli. A parte i casi di incesto, la nuova legge permetteva la ricerca della paternità e della maternità (nuovi artt. 269, 270, 278). Infine, la riforma cancellava molte delle discriminazioni, quanto a diritti successori, dei figli naturali, pur senza equipararli completamente ai figli legittimi.
Il nuovo diritto di famiglia, che interveniva su molti altri aspetti della vita familiare, recepiva l’orientamento favorevole alla democratizzazione dei rapporti di genere e generazionali di una parte crescente della società italiana. Per molti versi rappresentava davvero una discontinuità. Nelle pieghe della legge, tuttavia, si annidavano elementi di continuità. In base al nuovo art. 316, ad esempio, “se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili”. Insomma, “l’ultima parola spetta sempre al padre”, notava Danielle Turone sulla rivista femminista “Effe” già nel 1973, analizzando il progetto della legge in un articolo intitolato, significativamente, Dopo anni di gestazione nasce già vecchio il nuovo diritto di famiglia. Cacciato dalla porta, il capofamiglia rientrava, in alcune occasioni, dalla finestra.
Peraltro restava aperto il rapporto tra leggi e più vaste trasformazioni sociali e culturali. “Non basta togliere dal codice la parola ‘patria-potestà’ lasciando integro concetto, o concedere alla donna di mantenere il proprio cognome ‘aggiungendo quello del marito’, per credere di aver dato alle donne la parità”, continuava Danielle Turone. A suo avviso, la donna avrebbe potuto raggiungere la parità “solo quando, oltre ai rapporti inter-familiari, muterà tutta l’organizzazione sociale, quando le sue possibilità di studio, di lavoro saranno uguali a quelle degli uomini, quando il ‘costo’ di una maternità non verrà addebitato al solo nucleo familiare ma diverrà un costo ‘sociale’, quando alloggi, servizi sociali ed assistenziali organizzati, toglieranno la donna dal ghetto delle quattro mura domestiche”. “La nuova legge sulla famiglia dà alle donne nuovi diritti”, ammetteva. “Ma la parità è ancora lontana”. Era il 1973. Da allora le leggi hanno riconosciuto alle donne italiane numerosi altri diritti, importantissimi. Ma molti dei problemi che Turone elencava restano drammaticamente attuali e la parità resta, anch’essa, ancora lontana.
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
DANTE, IL LETARGO DI SECOLI, E LA CRISI DELL’EUROPA - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
NICODEMO 0 DELLA NASCITA: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3). *
Luca, l’evangelista delle donne (blog di Gianfranco Ravasi, Cardinale arcivescovo e biblista)
Il caso della donna dai sette mariti
di Gianfranco Ravasi (Famiglia Cristiana, 16 maggio 2019)
Siamo in pieno periodo pasquale ed è quindi significativo affrontare un tema connesso con la risurrezione, un argomento che già ai tempi di Gesù era oggetto di dispute con posizioni antitetiche. Noi consideriamo il soggetto secondo un curioso profilo femminile. Si tratta di un caso estremo ipotetico che gli avversari propongono a Gesù per metterlo in difficoltà (l’episodio, citato anche da Matteo e Marco, è da leggere in Luca 20,27-40). Nell’Antico Testamento era codificata una prassi secondo la quale, se un uomo sposato decedeva senza figli, l’eventuale fratello ne doveva sposare la vedova, così da assicurare una discendenza e una memoria al defunto.
Si trattava del cosiddetto “levirato” (dal latino levir, “cognato”), come facilmente si può comprendere da chi era coinvolto in questa normativa (Deuteronomio 25,5-10). Il nostro compito ora è spiegare il caso limite addotto dagli avversari di Gesù appartenenti alla corrente aristocratico-conservatrice dei sadducei a prevalenza sacerdotale. Essi negavano la risurrezione perché tale dottrina, pur presente nella Bibbia (si veda Ezechiele 37), era assente nella Torah (la Legge), ossia nei primi cinque libri della Sacra Scrittura.
Essi puntano a mettere in imbarazzo il rabbì di Nazaret prospettandogli una catena di “levirati” che hanno per protagonista una sola donna: ben sette fratelli subentrano in matrimoni successivi, morendo però tutti prima di aver assicurato una discendenza alla vedova e, quindi, al loro primo fratello defunto. Il paradosso fittizio è introdotto per costringere Gesù a schierarsi con loro contro i farisei - l’altra corrente giudaica avversaria - negando la risurrezione che questi ultimi sostenevano come dottrina di fede. Infatti, sogghignando, alla fine gli domandano: «Alla risurrezione, di quale dei sette la donna sarà moglie?».
Cristo, nella sua risposta, non cade nel tranello e replica volando alto: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Luca 20,34-36). Egli nega, così, una lettura “materialistica” della risurrezione. E aggiunge una motivazione teologica ulteriore, citando un passo dell’incontro di Mosè con il Signore al roveto ardente del Sinai: «Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Luca 20,37-38; cf. Esodo 3,6).
Dio non si lega a cadaveri, ma a esseri viventi ai quali apre un orizzonte di vita oltre la morte secondo categorie differenti rispetto a quelle meramente “carnali”, basate sulla nostra storia che si muove sulla base delle coordinate spazio-temporali. Si tratta di un nuovo ordine di rapporti, di una nuova creazione, di un orizzonte nel quale i vincoli parentali e sociali sono trasfigurati. Queste parole di Gesù avevano conquistato quel grande filosofo e scienziato credente che fu Blaise Pascal. A partire dal 1654 fino alla morte (1662) egli le portò sempre con sé, scritte su un foglio, cucito nella fodera del farsetto, intitolato “Fuoco”, e scoperto alla morte del pensatore da un domestico.
Eccone il testo modulato sulle parole di Gesù, commentate liberamente da Pascal: «Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza, certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. Dio mio e Dio vostro. Il tuo Dio sarà il mio Dio. Oblio del mondo e di tutto fuorché di Dio. Egli non si trova se non per le vie indicate dal Vangelo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA...
Lettera per amore.
Dialogo tra un vescovo e un giornalista: Dio, natura, umanità
di Francesco D’Agostino (Avvenire, sabato 18 maggio 2019)
Ammirevole la lettera che il vescovo Luigi Bettazzi, emerito di Ivrea, scrive a Corrado Augias, provocandolo, con amicizia, sul tema dei temi, quello di Dio e del nostro rapporto con Lui. Augias, diversamente da altri giornalisti e saggisti del suo spessore, non ha mai eluso il tema della religione, anzi lo ha affrontato più di una volta, anche in scritti di ampio respiro, senza però mai volersi compromettere personalmente e fino in fondo con questa tema.
Bettazzi non scrive ad Augias per metterne in discussione la spiritualità, ma per esortarlo a respingere la tentazione dell’ateismo e a considerarsi piuttosto agnostico: infatti, chi (come Augias) dà prova di credere nella libertà, nella bellezza, nella giustizia, crede fondamentalmente nel bene, anche se non vuole o comunque esita a chiamarlo ’Dio’. Agli agnostici, intesi nel senso che si è detto, conclude il vescovo, si può voler bene; mentre voler bene agli atei è davvero difficile.
La risposta di Augias nella rubrica che tiene su ’la Repubblica’ (pubblicata martedì scorso, 14 maggio 2019) è sobria e limpida: grato per l’attenzione che gli viene rivolta, egli ribadisce che il suo atteggiamento fondamentale è quello di prendere le distanze da tutti i dogmi, dai riti, dai catechismi, dai testi sacri e soprattutto da quell’immagine di Dio, come ’super-padre’, occulto e onnipotente governatore del creato, che le religioni inevitabilmente veicolano.
L’immagine di Dio è ormai uscita dagli scenari del nostro tempo, insiste Augias, ma non per questo ci mancano efficaci surrogati di questa immagine, surrogati tra i quali sembra che egli prediliga un’immagine vagamente spinoziana della natura, come epifania di Dio («Deus sive natura»). Il giornalista-scrittore riconosce che l’amore per la terra, per l’acqua, per l’aria non è un perfetto surrogato della religione, ma può comunque essere sufficiente per giustificare una spiritualità «matura e pacifica», rispettosa del prossimo e dell’ambiente e in fondo non molto diversa da quella percepita ed espressa da san Francesco di Assisi.
Il ’naturalismo’ di Augias non ci deve naturalmente meravigliare troppo: è perfettamente in sintonia con l’ecologismo dominante nella cultura contemporanea. Né ci deve meravigliare il riportare il naturalismo allo spirito francescano. Non è la prima volta che questo nesso viene istituito, anche se ha ben poco fondamento: l’amore di san Francesco per la natura è direttamente conseguente al suo amore per il creato e il creato, nello spirito francescano (e ovviamente non solo nello spirito francescano, ma in generale nella spiritualità cristiana), va amato proprio in quanto ’creato’, come portatore dell’immagine di Dio. Se togli Dio, o lo metti tra parentesi, del creato resta solo il paradigma materialistico e meccanicistico che pervade tanta parte della scienza contemporanea. La materia può anche essere ammirata, e una pari ammirazione possiamo nutrire nei confronti degli algoritmi che la strutturano; ma tra l’ammirazione e l’amore c’è una distanza su cui non dovremmo mai smettere di riflettere.
Il cuore della questione è che l’essenza della religione (e penso, in particolare, alla religione cristiana) non consiste nel costruire un’immagine di Dio come Ente supremo o come super-Padre e nel predicare la nostra doverosa sottomissione ai suoi comandi, bensì nel ricevere e nell’accogliere un Vangelo, una buona notizia, tanto semplice quanto sconvolgente: siamo creati e siamo amati da Dio senza alcun merito da parte nostra e questo amore, assolutamente immeritato, chiede di essere ricambiato.
La natura ci nutre, ci tiene in vita, ci affascina, ma non ci ama; dobbiamo rispettarla, prendercene cura, al limite anche venerarla, ma non dobbiamo illuderci: è la stessa natura, nel cui contesto veniamo al mondo, che ci condanna a morte. Solo l’amore è promessa di vita e solo l’amore gratuito di Dio è promessa di vita eterna. Augias ha ragione, quando afferma che oggi la domanda stessa se Dio esista per tanti «è», o sembra, «uscita di scena». Ciò però che non può uscire di scena è il bisogno di amore che ogni persona, anche la più violenta e arrogante, nutre nel segreto del cuore. Ateismo e agnosticismo sono nobili concetti teoretici, l’amore è un’esigenza vitale. Forse è proprio da qui che bisogna dare inizio alla nuova evangelizzazione, della quale da tanto tempo si parla.
SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio ... Francesco D’Agostino (dall’Avvenire) vuole dare lezioni a Rosy Bindi e mostra solo tutto il livore di un cattolicesimo che ha sempre confuso "Erode" con Cesare e Dio con "Mammona"!!!
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Chiesa Francia apre a riconoscimento figli sacerdoti
Le Monde, incontro segreto a febbraio, a giugno vedranno vescovi
di Redazione ANSA *
PARIGI. Apertura senza precedenti della Chiesa cattolica francese verso il riconoscimento dei figli di sacerdoti, secondo quanto annuncia oggi Le Monde. Stando a informazioni del quotidiano, alcuni figli di preti sono stati ricevuti per la prima volta da un responsabile ecclesiastico francese e a giugno testimonieranno davanti ad alcuni vescovi.
Tre figli di sacerdoti, membri dell’associazione francese Les Enfants du silence (in tutto una cinquantina di figli di preti) sono stati ricevuti per la prima volta - su loro domanda - da un responsabile ecclesiastico.
L’incontro, fin qui segreto, si è svolto il 4 febbraio a Parigi, nella sede della Conferenza episcopale di Francia (CEF). Per un’ora e mezzo, ad ascoltare la loro testimonianza, finora un tabù per la Chiesa, è stato il segretario generale, Olivier Ribadeau-Dumas. Una discussione "cordiale e costruttiva" secondo quanto spiegato dall’interessato, che ha ascoltato le "sofferenze" di questi uomini e donne abituati ad essere educati in una sorta di sentimento di vergogna e nel segreto, come "figli del peccato". Sempre secondo il quotidiano, gli esponenti di Les Enfants du Silence, "testimonieranno a giugno davanti ad alcuni vescovi".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Europa ed Evangelo. Una buona-scelta e una buona-notizia ...
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". -SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Federico La Sala
“700 - Viva Dante”. Scelto il logo per celebrare i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri*
“700 Viva Dante - Ravenna 1321-2021” sarà questo il logo delle prossime celebrazioni dantesche, l’anniversario dei 700 anni dalla morte del Sommo Poeta. Un 7 e il simbolo dell’infinito, “Viva Dante” che in molti hanno letto come “Viva Ravenna”. È stata quindi l’agenzia di comunicazione Matilde Studio di Cesena a vincere il concorso pubblico indetto dal Comune di Ravenna per trovare l’immagine che rappresenterà la città nel prossimo anno. Un concorso, a dire il vero, che in questi mesi ha ricevuto diverse critiche, dall’opposizione, ma anche dall’Associazione Italiana Design della Comunicazione. A molti non è piaciuta l’idea di lasciare ai ravennati una scelta così complessa e strategica. Di convinzione opposta, invece, il Comune, che ora ha il proprio logo sotto il quale racchiudere tutte le prossime celebrazioni dantesche, scelto da una decisione popolare
* https://www.ravennawebtv.it/ 30 Aprile 2019
DALLA FIABA, UNA LEZIONE DI PENSIERO COSTITUZIONALE ... *
I seduttori e i maestri: due voci ben diverse
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 9 maggio 2019)
IV Domenica di Pasqua
Anno C
Le mie pecore ascoltano la mia voce. Non i comandi, la voce. Quella che attraversa le distanze, inconfondibile; che racconta una relazione, rivela una intimità, fa emergere una presenza in te. La voce giunge all’orecchio del cuore prima delle cose che dice. È l’esperienza con cui il bambino piccolo, quando sente la voce della madre, la riconosce, si emoziona, tende le braccia e il cuore verso di lei, ed è già felice ben prima di arrivare a comprendere il significato delle parole.
La voce è il canto amoroso dell’essere: «Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline» (Ct 2,8). E prima ancora di giungere, l’amato chiede a sua volta il canto della voce dell’amata: «La tua voce fammi sentire» (Ct 2,14)... Quando Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta, la sua voce fa danzare il grembo: «Ecco appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44). Tra la voce del pastore buono e i suoi agnelli corre questa relazione fidente, amorevole, feconda. Infatti perché le pecore dovrebbero ascoltare la sua voce?
Due generi di persone si disputano il nostro ascolto: i seduttori, quelli che promettono piaceri, e i maestri veri, quelli che danno ali e fecondità alla vita. Gesù risponde offrendo la più grande delle motivazioni: perché io do loro la vita eterna. Ascolterò la sua voce non per ossequio od obbedienza, non per seduzione o paura, ma perché come una madre, lui mi fa vivere. Io do loro la vita.
Il pastore buono mette al centro della religione non quello che io faccio per lui, ma quello che lui fa per me. Al cuore del cristianesimo non è posto il mio comportamento o la mia etica, ma l’azione di Dio. La vita cristiana non si fonda sul dovere, ma sul dono: vita autentica, vita per sempre, vita di Dio riversata dentro di me, prima ancora che io faccia niente. Prima ancora che io dica sì, lui ha seminato germi vitali, semi di luce che possono guidare me, disorientato nella vita, al paese della vita. La mia fede cristiana è incremento, accrescimento, intensificazione d’umano e di cose che meritano di non morire.
Gesù lo dice con una immagine di lotta, di combattiva tenerezza: Nessuno le strapperà dalla mia mano. Una parola assoluta: nessuno. Subito raddoppiata, come se avessimo dei dubbi: nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io sono vita indissolubile dalle mani di Dio. Legame che non si strappa, nodo che non si scioglie. L’eternità è un posto fra le mani di Dio. Siamo passeri che hanno il nido nelle sue mani. E nella sua voce, che scalda il freddo della solitudine.
(Letture: Atti 13,14.43-52; Salmo 99; Apocalisse 7,9.14-17; Giovanni 10,27-30)
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ASTUZIA DEL LUPO E I SETTE CAPRETTI. "APRITE, APRITE": SONO IL VOSTRO "PAPI"!!! LA PAROLA "ITALIA", LA "PASSWORD", CONSEGNATA A UN PARTITO (1994-2011).
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.... *
Ma quale Patria? Si chiama Matria ed è la nostra lingua
Dalla nostalgia di Enea per la terra perduta alle radici dell’Europa la vera appartenenza è nell’idioma. Come sapevano bene Dante, Machiavelli e Leopardi. Una dimora che va difesa da chi oggi la vuole ridurre a chiacchiera
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 07.05.2019)
Dove trovare la Patria? Dove porre sede e finalmente cessare di inseguirla? È questa la domanda di Enea da cui si origina l’Europa - domanda forse ormai totalmente dimenticata. Gli dèi hanno decretato che per l’eroe sarà l’Italia questa patria. Ma l’Italia gli fugge sempre. All’eroe fuggitivo risponde l’Italia che fugge. Come agli eroi avvenire fuggirà l’Europa: Dove essa inizia? Dove finisce? Quante nazioni la abitano? Quali radici la sostengono? O il suo demone consiste proprio nel non averle, nel non potersi su nulla radicare? Aveva, sì, Patria Enea, anzi: la Patria, Troia. Ilio sacra è l’immagine della città perfetta, governata dal Re giusto e buono, abitata da chi ritiene massima virtù morire per la sua salvezza.
Enea avrebbe desiderato rimanere sulle sue rovine piuttosto che affrontare il destino di inseguire l’Italia. Anche le macerie di Troia sarebbero state per lui "più" Patria di qualsiasi altra futura. Ma la Patria è stata distrutta dagli Achei, dal potente connubio di astuzia e violenza che ne caratterizza l’esercito, una massa sradicata dai propri paesi, da anni lontana da ogni domestico affetto. Molti di loro non faranno ritorno, il più grande muore esule sotto le mura di Ilio; chi li ha guidati a costo di sacrificare la figlia viene assassinato appena mette piede in quella che pensava essere la propria dimora. Sciagurati eroi.
Con la fine di Ilio quella idea di Patria tramonta per sempre. Enea, tuttavia, fonda la nuova città mosso dalla nostalgia per essa, che lo domina. Senza la forza di tale nostalgia Roma non sarebbe mai sorta. Ma Roma non sarà Ilio, non ne conserverà la lingua, non sarà mai la città compiuta in sé, armoniosamente contenuta nei propri limiti; sarà invece la città-che-cresce, la città che-si-muove, Civitas augescens, Civitas mobilis, la città insaziabile, l’impero sine fine, la urbs che vuol farsi mondo. Anche Roma crolla - e anche di Roma dura la nostalgia, per la sua lingua, per il suo diritto, per le sue arti. Anche Roma diviene la Patria che manca. Come se vere Patrie apparissero sempre i luoghi che abbiamo perduto.
Nessuno ama la Patria più dell’esule da essa. Lo dice il coro delle donne troiane, che la prepotenza del vincitore trascina via schiave. Lo dice l’Ecuba euripidea, la grande accusatrice della follia dei mortali. Nel modo più tremendo lo mostra la straniera, la barbara, Medea. Sono le donne a soffrire inguaribilmente la distruzione o la perdita della Patria. Come se fossero strappate dal proprio stesso grembo. I maschi, invece, Enea, sono costretti a cercare altre terre e a convincersi che la Patria possa rinnovarsi. Ma anche per loro la nostalgia di Patria è tanto più forte e dolorosa quanto più l’avvertono smarrita. Tremendo è quando la nostalgia per la Patria che il destino ci ha rapito si combina con quella per un’altra impossibile. Fortunato Enea che alla fine la raggiunge, per quanto essa sia tale da non poter mai davvero sostituire l’antica. Vi è chi, invece, deve eternamente inseguire l’Italia che fugge.
Sventura tipica, sembra, delle nostre genti. Dante ha perduto la sua Firenze, che tanto più ama quanto più ne disprezza i nuovi padroni e costumi - e anela a un’Italia che sempre più gli appare irrealizzabile. Penoso è quando la terra che ti ha generato è stata distrutta o, peggio, ti è diventata straniera, e un’altra ne immagini, come anche salvezza della prima, continuamente contraddetta dalla realtà, fino ad apparire impossibile. La sorte di Dante si ripete in Machiavelli. E in quanti altri lungo tutta la nostra storia: il luogo della nostra origine è perduto, è divenuto irriconoscibile, oppure (Leopardi) è stato per noi sempre come un esilio, e la Patria, l’Italia, che abbiamo immaginato, sperato, pensato, resta ancora sempre da fare, un avvenire eterno. Ecco, quante volte la sua idea è sembrata realizzarsi, e subito dopo naufragare di nuovo.
Non resta forse altra vera Patria che la lingua. Lo dicono, in fondo, tutti i poeti esuli (Thomas Mann, ad esempio) nel tempo in cui le più grandi miserie si abbattono sui loro paesi. Abitare la lingua con tutta la cura possibile, questo ci è dato, coltivarla, arricchirla nel dialogo con altre, renderla sempre più capace di tradurle in sé. La lingua tanto più è ricca quanto più accoglie.
Cosi dovrebbe essere anche la Patria. Come la Patria non è un mezzo, uno strumento a nostra disposizione per perseguire i nostri, particolari fini, cosi non è un mezzo la lingua per informarci di questo o di quello. È pensiero, storia, cultura, e noi dobbiamo essere coloro che la trasformano custodendola.
La lingua è Matria, però, assai più che Patria; la lingua è materna. Dire che la nostra autentica Patria è la lingua significa affermare che nessuna Patria dovrà più essere a immagine del Padre Potente, della civiltà dominata dalla figura dell’onnipotenza del Padre Padrone. Sì, nella lingua è possibile dimora anche allorché naufraga la Patria.
Tuttavia anch’essa è dimora fragilissima. E, a differenza della Patria, i barbari che la minacciano stanno sempre all’interno dei suoi confini: sono coloro che la parlano facendone strame, che la riducono a frase e a chiacchiera, a strumento facilmente manipolabile, pronto per l’uso. Se resiste la Matria, la Patria non sarà mai impossibile, per quanto possa sempre apparire fuggitiva. Ma se la Madre lingua è perduta, allora la lingua che parleremo sarà comunque straniera e la vita un esilio.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza"
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PSICOANALISI E FILOSOFIA. DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE.... *
C’è una volta
di Moreno Montanari (Doppiozero, 06.05.2019)
Una sera, camminando con la mia compagna per le strade di Porta ticinese a Milano, mi è capitato d’imbattermi in una battuta che capeggiava sulla lavagnetta di un’osteria: “l’unico passato che non fa male è quello di veldule”. Confesso che ho “liso” di gusto. Eppure non penso affatto che il passato faccia male, credo piuttosto che sia una grande risorsa se adeguatamente analizzata. Su cosa poggia, dunque, la convinzione che il passato faccia male? Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, la riconduce al senso d’impotenza che si prova di fronte a ciò che, essendosi compiuto, ci consegna a uno stato di rassegnata impotenza, come di fronte a quei treni di cui si dice che passino una sola volta nella vita:
Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; “ciò che fu” - così si chiama il macigno che la volontà non può smuovere. (...) Così la volontà anziché liberare, infligge sofferenza: e oggetto della sua vendetta, per non poter volere a ritroso, è tutto quanto sia capace di soffrire. Ma questo, soltanto questo, è la vendetta stessa: l’avversione della volontà contro il tempo e il suo “così fu”». (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1882-84, Adelphi, Milano, p. 169-171).
Non a caso il capitolo dello Zarathustra in cui Nietzsche affronta questo tema s’intitola Della redenzione: una simile concezione del passato, vissuto come ciò che non è più e che è andato irreversibilmente perduto, non può che essere causa di grande frustrazione per chi è roso da rimpianti o da rimorsi. Non affronterò qui la soluzione di Nietzsche - che chiama in causa l’eterno ritorno, passa per l’amor fati, la capacità di dire dionisiacamente di sì alla vita così com’è, e sfocia nella capacità di trasformare ogni «così fu» in un «ma così volli che fosse, (...) ma così io voglio! Così vorrò» (ibid. p. 172) - in queste pagine m’interessa piuttosto soffermarmi sul concetto di redenzione non dal tempo ma, come vedremo, del tempo altrimenti imprigionato in una concezione che ne svilisce la portata e ne misconosce l’essenza. Non è del tutto vero, infatti, che ciò che è passato non è più; Heidegger, in Essere e tempo, ci ricorda che se da una parte si può parlare del passato come di ciò fu, intendendo per l’appunto qualcosa che è accaduto in tempo che ha irrimediabilmente cessato di essere e sul quale, come detto, non possiamo più avere alcuna presa, dall’altra, se ne può parlare anche come di ciò che è stato, o meglio, propone Heidegger, come dell’essente-stato (Gewesen). Questa seconda formulazione, meno luttuosa, indica un passato la cui essenza (Wesen) è quella di perdurare: benché sia accaduto tempo addietro, in qualche modo, esso non cessa d’essere ma persiste, si riverbera nel presente, nel quale è ancora vivo come traccia, psichica o storica. Ripensare in questi termini il passato significa redimerlo, liberarlo dal confino in una terra lontana e irraggiungibile, per avvertirne la presenza, feconda o inquietante, qui e ora.
A questo tema ha dedicato un breve ma intenso libro Paul Ricoeur (Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, il Mulino, Bologna, 2004) nel quale sottolinea come «il passato che non è più, ma che è stato, reclama il dire del racconto dal fondo stesso della propria assenza (...) richiede che lo si ridica, che si riscriva la storia” (p.40), anche personale, concluderebbe idealmente Freud, per il quale è necessario che “il materiale di tracce mnestiche esistente [in ciascuno di noi] venga, di tanto in tanto, sottoposto a risistemazione e riscrittura” (S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess, 1887-1904, Bollati Boringhieri, 2008, p. 236).
Simili punti di vista, osserva Ricoeur, offrono un’alternativa “all’opinione comune secondo la quale il passato non può più venir cambiato e per questo sembra determinato; secondo questa opinione soltanto il futuro può essere ritenuto incerto, aperto e in questo senso indeterminato. Questo però non è che la metà del vero, poiché, se i fatti sono incancellabili, se non si può più disfare ciò che è stato fatto, né fare in modo che ciò che è accaduto non lo sia, in compenso il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte» (ibid., pp. 40-41), anzi richiede continuamente di essere ripensato, com-preso, ossia, preso in carico da un’interpretazione che provi a farne emergere il significato, magari rileggendolo alla luce di nuove esperienze o dell’allargamento dei nostri orizzonti cognitivi, grazie ad un’offerta anamorfica che si riveli capace, si potrebbe dire con Maurice Merleau-Ponty, “di condurre a espressione le cose stesse dal fondo del loro silenzio” (M. Merleau-Ponty 1964, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 1999, p. 32.)
Si possono qui scorgere echi involontari della funzione che Walter Benjamin assegnava alla memoria storica: assumere su di sé, nel presente, la “debole forza messianica che ci è stata data in dote dalla generazione che ci ha preceduto” e che chiede di non essere dispersa, tradita, misconosciuta (W. Benjamin, Tesi di Filosofia della storia, in Angelus Novus, Einaudi, 1962, p. 76.). Contro la “meretrice dello storicismo che recita c’era una volta”, (p. 85) Benjamin invita a concepire la storia come “l’oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, [dei calendari] ma quello pieno di attualità” (p. 83).
Non basta dunque ricordare il passato, occorre riviverlo adesso, con grande partecipazione emotiva ma con rinnovata capacità interpretativa. La psicoanalisi chiama rielaborazione questa operazione, attraverso la quale l’individuo torna a interrogarsi su quanto ha precedentemente sperimentato ma non ha saputo comprendere realmente, ed invita a distingue tra vissuto e esperienza. Il primo non è che la registrazione, soprattutto emotiva, di una situazione che, non essendosi potuta integrare pienamente in un contesto significativo, ha lasciato una traccia psico-emotiva immediata, cioè non mediata dalla capacità di comprenderla, di darle senso; l’esperienza è invece l’esito di un passato significativo dal quale possiamo trarre un insegnamento perché, proprio tornando a interrogarne il valore, scegliendo volontariamente di dargli risonanza e ospitalità, possiamo comprenderne il senso o divenirne coscienti.
Si tratta di un’operazione fondamentale perché, spiega Freud, “ciò che è rimasto capito male ritorna sempre; come un’anima in pena, non ha pace finché non ottiene soluzione e liberazione” (S. Freud, Caso clinico del piccolo Hans, in Opere n. 5, p. 570). Questa convinzione, al cuore del celebre concetto della coazione a ripetere, non fa in fondo che riformulare in chiave psicoanalitica la famosa massima secondo la quale, “chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”, ponendosi attivamente, nel presente, in situazioni penose che altro non sarebbero che la ripetizione di vecchi irrisolti del passato. È infatti proprio ciò che non è stato compreso a tornare sotto forma di agito, ossia di impulso irriflesso, incontrollato, incurante delle conseguenze negative alle quale può andare incontro, perché incapace di fare tesoro di quanto sperimentato nel passato.
Nel saggio del 1914 Ricordare, ripetere e rielaborare, Freud contrappone chiaramente la ripetizione al ricordo consapevole affermando che le dinamiche conflittuali rimosse ritornano «non sotto forma di ricordo, bensì sotto forma di azione» (S. Freud, Opere 1912-1914, Torino Boringhieri, 1975. p. 356). Non si tratta, tuttavia, di una condanna irreversibile perché, come ha splendidamente scritto María Zambrano:
Certo non basta la ricostruzione dei fatti perché il passato sprigioni una parola di verità poiché per noi, come ha definitivamente spiegato Nietzsche, “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”, nel senso che, per dirlo con Lacan, “questo reale non abbiamo nessun altro mezzo di apprenderlo - su tutti i piani e non solo su quello della conoscenza - se non grazie all’intermediario del simbolico” (J. Lacan, Il seminario II, 1954-55, Einaudi, Torino, 2001, p. 111). Nonostante i molti equivoci questa frase significa che i fatti certamente contano e sono spesso indiscutibili - chi potrebbe negare di star leggendo questo articolo? - ma che tuttavia per noi esseri umani è possibile coglierli realmente solo nella misura in cui ci riesce di comprenderli, di scorgervi cioè un significato, un senso e di trarne un insegnamento, che, per l’appunto, li sappia “condurre a espressione dal fondo del loro silenzio”.
In questo senso, se vogliamo redimere il passato, liberarlo dal suo esilio e liberare a nostra volta la vita dall’asservimento a schemi che si ripeterebbero identici, come nel mito di Sisifo, dobbiamo rielaborarlo. Anziché “ripetere il contenuto rimosso nella forma di un’esperienza attuale”, (S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, 1924-1929, Opere. Vol. 10, Bollati Boringhieri, 1985, p. 204) dobbiamo imparare ad attualizzarne il ricordo, a lavorarlo, a ricostruirlo, inserendolo dentro un nuovo orizzonte di senso. Freud parla proprio di “costruzione” - ecco un’altra consonanza con l’idea di Benjamin della storia come “oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di attualità” - e conia il termine di “posteriorità” per indicare la rielaborazione a posteriori di un evento che risulta finalmente comprensibile solo grazie al sopraggiungere di esperienze o condizioni che permettono al soggetto che lo aveva vissuto in precedenza di accedere a un nuovo tipo di significazione, che glielo rende finalmente comprensibile e, dunque, davvero sperimentabile.
Naturalmente la presa di coscienza di contenuti inconsci non viene modificata dal ricordo di un particolare o da una ricostruzione più dettagliata della scena che torna alla memoria, ma piuttosto dallo scuotimento emotivo che un’ipotesi di rilettura o una suggestione comparativa producono nel soggetto che si dispone a ripensarne il senso da nuovi punti di vista. Non si tratta, ribadisco, di ricostruire i fatti ma il significato che essi hanno assunto per noi paragonandolo a quello che possono acquisire ora, alla luce di nuove esperienze e dell’evoluzione della nostra personalità.
In gioco c’è il desiderio, presente in ciascuno di noi, di offrire una nuova chance a quelle opportunità che in passato non siamo stati capaci di cogliere, a quelle esperienze che non ci è riuscito di vivere appieno, nel tentativo, solo apparentemente paradossale, di riviverle e al tempo stesso di trasformarle, per accedere a possibilità d’essere che rompano l’incantesimo della coazione a ripetere e aprano la strada alla opportunità di essere più pienamente noi stessi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
“VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.... *
Plutarco, il maestro ripudiato dallo storicismo
di Maurizio Morini (Ritiri filosofici, 05.05.2019)
Plutarco è uno degli scrittori antichi di cui ci è pervenuto il maggior numero di scritti. Nato a Cheronea nella Grecia centrale, vissuto a cavallo tra il I e il II secolo dopo Cristo, Plutarco ha esercitato un’influenza enorme soprattutto nel periodo umanistico e rinascimentale tanto da essere riconosciuto come vero e proprio maestro da Montaigne ed Erasmo, Shakespeare e Bacone, Montesquieu e Rousseau. La sua opera più famosa, Le Vite parallele, biografie dei personaggi più famosi dell’antichità, è stata per lungo tempo fonte di ispirazione e notizie storiche. Tuttavia, a partire dalla metà del XIX secolo, Plutarco ha visto improvvisamente spegnere la sua fama fino ad essere prima accantonato e poi dimenticato.
Positivismo e storicismo prima, ideologie totalitarie e liberticide poi, hanno messo in secondo piano una filosofia che faceva della vita buona e della saggezza il suo centro. In nome di un auspicato “ritorno a Plutarco”, la Bompiani ha pubblicato nel 2017 la prima traduzione italiana completa dei Moralia, opera che raccoglie un’estesa trattatistica di carattere filosofico, pedagogico, religioso e di scienze naturali in cui non mancano saggi e brevi componimenti che affrontano il rapporto dei filosofi con la politica.
Il governo di se stessi prima condizione per governare
I testi di Plutarco sono un ricettacolo di osservazioni, consigli e massime nate spesso da piccoli episodi tratti dall’esperienza quotidiana di uomini impegnati nella cura degli affari pubblici. Il breve saggio Chi governa deve sapere prima di tutto governare se stesso inizia con l’osservazione secondo cui «nulla in natura è più orgoglioso, scostante e ingovernabile di un uomo che presuma di possedere la felicità». Se il trattato verte sulla necessità di ascoltare la ragione, in modo che il governante si ponga in sintonia con la provvidenza allontanando da sé gli istinti peggiori, è anche vero, riconosce Plutarco, che è difficile che i governanti ascoltino, presi come sono dal governo delle emozioni e dall’idea secondo la quale la ragione possa mettere a repentaglio la loro autorità. Non solo chi non riesce a controllare le proprie passioni, ma anche persone rozze e prive di cultura, nascoste dietro maschere di apparente sapere, giungono spesso al governo dello Stato. Tuttavia, è possibile riconoscere tal genere di individui utilizzando due paragoni. Il primo è quello del vaso vuoto: così come una volta riempiti, se marci o piene di crepe, i vasi cominciano a colare da tutte le parti andando facilmente in malora, così gli uomini privi di spessore culturale non riusciranno a mantenere quanto promesso finendo per rovinarsi da soli. Il secondo paragone è quello delle statue: chi ha più cultura ha peso e riesce a mantenersi, chi non ce l’ha non riesce a reggersi e finisce per rovesciarsi da sé.
I criteri di cui tener conto per entrare in politica
«La politica è come un pozzo: chi vi cade in modo accidentale è preso da angosce e rimorsi; chi vi scende con tranquillità affronta gli impegni con cura e serenità». Con questa metafora contenuta nei Consigli politici, Plutarco indica quattro elementi da considerare per chi vuole entrare in politica. Il primo è la motivazione, la quale non dev’essere fondata né sul capriccio né sulla vanagloria ma su una costante preoccupazione per il bene pubblico. In secondo luogo, bisogna essere consapevoli del carattere dei propri concittadini, in quanto l’ignoranza dei costumi e dei modi di vita porta a fallire il bersaglio e a cadute non meno rovinose di quelle che si hanno nei rapporti di amicizia con un re quando il suo favore viene meno. Importante è poi per il politico lo stile di vita perché, ricorda Plutarco, il popolo è attento ad ogni dettaglio e pronto a giudicare. Tutto ciò non deve far dimenticare infine l’efficacia della parola che si affianca al carattere della persona nella capacità di persuasione: l’arte di guidare gli uomini consiste nel convincere con l’eloquio, mentre addomesticare le masse con espedienti, come banchetti o elargizioni, è come pascolare animali privi di ragione.
Fine dell’educazione politica per Plutarco consiste nel rendere i cittadini ubbidienti per la semplice ragione che in ogni città i governati sono più numerosi dei governanti: di conseguenza, la scienza più bella è quella di saper ubbidire a chi detiene il potere. Le dinamiche del rapporto tra governanti e governati sono un tema particolarmente caro al filosofo: ad esempio, il popolo rinuncia alla propria forza quando cede alle lusinghe del denaro, così come gli stessi politici causano la propria rovina nel momento in cui, diremmo oggi, diventano populisti, solleticando il popolo nei suoi più bassi istinti con il risultato di renderlo soltanto più arrogante.
Nel breve opuscolo I filosofi devono dialogare soprattutto con i potenti, la riflessione di Plutarco si colloca su di un piano, per così dire, di massimizzazione dell’efficienza. La tesi del saggio consiste nell’idea che rivolgersi all’uomo politico, cioè alla persona che più di tutte più influenzare gli altri, costituisce per il filosofo il modo più efficace per diffondere la saggezza che deriva dalla filosofia: in questo modo l’impegno per l’edificazione altrui è più bello del ritrarsi in disparte.
Il declino della filosofia antica e il ritorno a Plutarco
Definito da Federico II di Prussia come l’antimachiavelli, Plutarco e le sue opere rientrano in un certo qual modo nella tradizione degli specula principis, termine con il quale si designa tutta quella trattatistica rivolta a re e governanti finalizzata alla loro educazione morale. Un colpo a questa letteratura fu dato da Machiavelli e dai suoi consigli rivolti al principe per la gestione cinica e spregiudicata del potere politico. Tuttavia, non fu l’acutissimo fiorentino a provocare il declino di Plutarco. Il suo vero affossatore fu Hegel ed il principio secondo cui la filosofia politica deve astenersi dal dare consigli allo Stato e interpretare il momento storico come qualcosa di razionalmente fondato, senza alcun riferimento a ciò che è bene o a ciò che è male. Lo storicismo aggravò il divario tra etica e politica in base all’idea secondo la quale è necessario distinguere tra giudizi di fatto e giudizi di valore, in nome di singole Weltanschauung alle quali riconoscere piena legittimità. Pretendendo di essere il continuatore dello scetticismo, lo storicismo ha demolito qualsiasi posizione che pretenda di rappresentare una dimensione di universalità: così facendo, la filosofia, specialmente quella antica, diventa qualcosa di assurdo.
Lo storicismo diventa la maschera del dogmatismo grazie soprattutto, come osservava Leo Strauss, a quella forma di storicismo radicale costituito dall’ermeneutica: se tutto è interpretazione, viene negata ab origine qualsiasi ricerca di un fondamento e diventa concreta la frase di Foucault secondo cui «un tempo c’erano i maestri di verità, oggi la volontà di verità». Lessing ripeteva che lo storicismo è l’inclinazione ad identificare il traguardo del nostro pensiero con il punto in cui ci siamo stancati di pensare: insieme a dogmatismo e relativismo, esso ha formato una triplice alleanza che ha liquidato Plutarco e la saggezza della filosofia antica. In un tempo, come quello attuale, in cui ci sarebbe bisogno di moderazione e prudenza politica, la lettura di un autore classico come Plutarco costituirebbe il rimedio a molti mali.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
VITA E FILOSOFIA: "NICODEMO O DELLA NASCITA". Sulla strada di Enzo Paci.... *
Idee.
Se il laico Polito, come Nicodemo, vuole risorgere a nuova vita
In un libro il giornalista affronta da non credente l’urgenza personale e sociale di trovare una strada alternativa all’imperante e acritico giovanislimo consumistico trovando una sponda nel Vangelo
di Francesco Ognibene (Avvenire, martedì 30 aprile 2019)
«Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Lo stupore di Nicodemo nel colloquio notturno con Gesù, riferito dal Vangelo di Giovanni, condensa l’eterna incomprensione dell’uomo rispetto alla possibilità di «rinascere dall’alto», di ricominciare a qualunque età come il Signore propone all’inquieto fariseo non più sazio di quel che è e che sa, tanto da interrogarsi su di sé, ma senza darlo a vedere (e infatti va dal Maestro al riparo delle tenebre). Il dialogo sotto la volta stellata propone la ricerca senza fine di chi per esperienza e posizione sociale potrebbe sentirsi a posto e che invece si sente attratto dalla possibilità solo intravista di scoprire, lui già maturo, la possibilità di un nuovo inizio.
La domanda di Nicodemo torna con prepotenza tra le pagine del recente libro del giornalista Antonio Polito Prove tecniche di resurrezione. Come riprendersi la propria vita (Marsilio), che in una premessa e dieci sfide lanciate alla vita quotidiana traccia un laicissimo percorso autobiografico attraverso «il ribaltamento di prospettive che sto vivendo con l’avanzare dell’età», cioè l’inesorabile cernita nel proprio zaino esistenziale quando si veleggia ormai oltre i 60 nella più apparente normalità, ma con una contabilità dell’essenziale e del superfluo in pieno svolgimento nella stiva del cuore. Si tratta di decidere se lasciarla inascoltata fingendosi giovani per sempre oppure cogliere senza patemi quello che Polito definisce «avviso di mortalità», respingendo la pressione dello «spirito del tempo» che con tono suadente «suggerisce che sentirsi invecchiati sia indice di un disagio psichico». Non è «la solita crisi di mezza età», ma una vera e propria «rivelazione» dopo la quale a una coscienza sincera «tutto sembra diverso». E si capisce che serve un gesto forte, una ribellione. O una rinascita.
L’obbligo ingiunto alla fascia più adulta della società (numericamente sempre più rilevante) di vestire abiti di un’altra taglia ha una tale forza cogente che Polito ne parla come di una vera ideologia, il cui assunto centrale è che, «come il sesso nelle teorie del gender, l’età "è quella che uno si sceglie"». Un simile obbligo sociale finisce però col neutralizzare la domanda a occhi sgranati di Nicodemo: davvero posso risorgere in vita? La tensione «insopportabile» tra il sé percepito interiormente e l’immagine sociale a cui adeguarsi è «tra ciò che ormai si sa di essere e ciò che gli altri vorrebbero che si continuasse a fingere di essere». Prendere sul serio il tempo che passa ci pone nelle condizioni di comprendere il segreto di ogni età, le risorse impareggiabili che la connotano, il meglio di sé all’orizzonte e non dietro le spalle. Tattiche autoconsolatorie? Tutt’altro: è la chance di un nuovo inizio, quello che l’ascesi cristiana definisce "cominciare e ricominciare" e che nel libro Polito chiama «possibile resurrezione laica».
Il credente, per mano a Dio, mai dovrebbe pensarsi tramontato, perduto, spacciato, col count down che ticchetta. Ma anche i termini secolari risuonano di questa intuizione cristiana: il problema di chiudersi dietro le spalle la porta della pretesa di eterna giovinezza, annota Polito, «non si risolve provando a tornare ciò che si era prima, da giovane, trasformandosi in un replicante del sé di un tempo. Richiede piuttosto la soluzione opposta: si deve provare a rinascere, a cambiare se stessi, a diventare diversi e possibilmente migliori».
Di educazione cattolica, Polito riconosce che è proprio quell’imprinting a impedirgli oggi di credere nella risurrezione annunciata dai Vangeli: quella dai morti «è competenza dei credenti, e io non lo sono», ma «arrivato a questo punto della mia vita sento ugualmente un impellente e disperato bisogno di risorgere».
Come si fa a volere «una cosa in cui non si crede?». Domanda senza sconti a cui il giornalista risponde riconoscendo che «l’idea di un Dio motore primo dell’universo non è così inconciliabile con la ragione, né con le leggi della natura rivelateci dalla scienza di Darwin e di Einstein». E anche sulla morale di stampo cristiano l’autore afferma che «più mi guardo intorno e meno trovo in giro princìpi etici più moderni e condivisibili di quelli introdotti oltre duemila anni fa dal cristianesimo». Non solo: «L’etica cristiana mi pare oggi l’unica che ci consenta di mantenere un rapporto con la dimensione del "naturale", di fronte alla hybris di un’epoca che crede di potersene far beffe, fino a terminare la vita senza morte o ad affittare uteri per generarla».
Recuperare il senso del limite - sapersi mortali davvero -, con la domanda di Nicodemo nel cuore, libera dalla dittatura dell’efficienza e dello sciocco giovanilismo. Se i cristiani l’hanno perso di vista, è bello farselo ricordare da chi c’è arrivato per un suo diverso e liberissimo percorso. Disponendosi ad accogliere l’intuizione dell’uomo risorto in vita, così espressa poeticamente da papa Francesco: «Sussurratevelo fino a crederci: il vino migliore sta per arrivare».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Filosofi: scomodi e amanti del sapere
Un’attività che nasce dallo stupore, una passione inquieta per la quale nulla è scontato
di DONATELLA DI CESARE *
Che valore ha oggi la filosofia? A quale compito saranno chiamati le filosofe e i filosofi nell’età del tecnocapitalismo e della governance neoliberale? La Regina delle scienze, rimasta sola, dopo il distacco definitivo delle scienze naturali, appare caduta in un grave discredito. E se la senatrice Liliana Segre richiama i politici allo studio della storia, è altrettanto giusto richiamarli allo studio della filosofia.
Il ritmo accelerato sembra bandire ogni riflessione considerata un gioco improduttivo, una fuga irresponsabile in sogni evanescenti. Così il vecchio pregiudizio contro la filosofia si è andato rafforzando. Urgono risposte rapide, soluzioni definitive agli innumerevoli problemi di un’epoca tanto complessa. A che pro la filosofia? A che cosa serve? Che cos’è?
Rispondere implica già accogliere una sfida subdola, accettando i presupposti impliciti nella domanda: cioè che la filosofia sia un mezzo utile a un fine. Eppure la sua inattualità, che la rende così attuale, sta proprio nel sottrarsi all’economia del profitto. In tal senso non servirà forse a nulla. Si potrebbe allora cancellarla con un colpo di spugna - il che poi vorrebbe dire rimuovere il cuore stesso della tradizione occidentale. Tuttavia la filosofia non è solo un patrimonio di testi. È molto di più. Chi non filosofa, senza dubbio vive, ma sminuita è la sua esistenza, compromessa la sua partecipazione alla politica.
Sin dai suoi esordi, nell’antica Grecia, la filosofia è stata chiamata a dimostrare il proprio diritto a esistere. Sennonché anche chi la contesta, chi ne mette in dubbio la legittimità, è già immerso nel movimento del pensiero, già filosofa. Ecco perché il ritornello sulla fine della filosofia è banale e vacuo. Certo nessuno immagina che possano ancora edificarsi quei sistemi che miravano a collegare tutto il sapere in un’immagine unitaria. L’impero hegeliano dello Spirito assoluto si è dissolto. Ma ciò non ha decretato la fine della riflessione. La filosofia non va e non viene, non finisce. Immanuel Kant parla di «attitudine naturale» dell’essere umano. Seppur inconsapevolmente, tutti filosofano. E già i bambini si interrogano sulla morte, sul futuro, sulla felicità. La filosofia non è una disciplina (sebbene sia stata in parte istituzionalizzata), non è un sapere specialistico, né un mestiere, né un’occupazione. Vaga qui e là, anche sulla pubblica piazza, in forme diverse; a volte sembra filosofia, e non lo è, altre volte non sembra, e invece lo è - i filosofi la riconoscono.
Si potrebbe dire con Heidegger che «filosofia è filosofare». Se solo alcuni hanno il particolare destino di risvegliare gli altri al pensiero, la filosofia, lungi dall’essere privilegio di pochi, tocca al fondo l’esistenza di ciascuno. Studiare i classici vuol dire anzitutto imparare a interrogarsi. Ciò che contraddistingue la filosofia è la domanda radicale, quella che va alle radici, che non chiede per sapere, ma che, anzi, mette in questione ogni sapere. Non vengono fornite soluzioni definitive. La filosofia non avrebbe altrimenti una storia dove, in forma sempre diversa, si ripropongono le questioni che la assillano: sulla verità, sul bene, sulla libertà. I problemi fondamentali della filosofia sono piuttosto aporie per cui non si danno soluzioni - né ottimali, né univoche, né definitive. Le risposte sono molteplici, le indicazioni differenti. Ecco perché i filosofi tornano ai testi di più di 2.000 anni fa - quelli di Eraclito, di Platone, di Aristotele - e li leggono come se fossero stati scritti ieri.
Sta qui una differenza decisiva rispetto alla scienza. Circoscritte a un ambito del sapere, le scienze non danno conto dei loro presupposti. Kant esorta a non confondere la filosofia con la matematica che, pure, è una costruzione concettuale. Ma già solo interrogandosi sullo statuto della matematica, la filosofia ne valica i limiti, va oltre l’ovvietà dei principi. Così ciò che per la scienza è fuori questione viene innalzato alla dignità della domanda filosofica.
Non c’è fenomeno che sfugga. Neppure il nulla. «Perché esiste qualcosa e non piuttosto il nulla?». Formulata da Leibniz, questa è la domanda esemplare della filosofia, che scaturisce dallo stupore, una passione inquieta. Ciò che per gli altri è ovvio, lampante, scontato, perde agli occhi del filosofo l’aura di solenne gravità che lo metterebbe al riparo dalla domanda. Tutto è esposto all’interrogare. Persino l’interrogante, il filosofo stesso, che viene così deposto dal suo pulpito.
D’altronde l’inizio aporetico della filosofia è il non-sapere di Socrate, che ha inaugurato la ricerca introspettiva, il «conosci te stesso». Stupore, ma anche struggimento e smania per l’irraggiungibile sophía.
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Ed eccolo quel cittadino, così strambo e fuori-luogo, uno straniero in patria. Chi lo vede da lontano scappa; altri ostentano disprezzo, lo deridono. Socrate mette in dubbio le idee più correnti, non riconosce nessuna autorità, si fa beffe persino del démos sovrano. Soprattutto mostra ai propri concittadini che non sanno quel che pretendono di sapere. Che democrazia potrebbe mai essere la loro? Il risentimento è tale che si traduce nella condanna a morte di quel singolare cittadino che aveva osato, con il dialogo, fare dello stupore una pratica pubblica insinuando il dissenso già nell’anima altrui, prima ancora che nella comunità.
Da allora si è aperto un abisso tra la filosofia e la politica e la tensione non è mai venuta meno. In esilio nella città, quasi stranieri residenti, i filosofi hanno resistito per secoli e millenni, testimoni critici di una pólis altra e migliore. Così questi sublimi migranti del pensiero hanno saputo convertire la perdita irreparabile in una conquista a venire.
* Corriere della Sera, 28 aprile 2019 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
AGONISMO TRAGICO: LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Come nascono i bambini e le bambine... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
LA LEZIONE DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI)*
A) NICODEMO O DELLA NASCITA.. SULLA STRADA DI ENZO PACI (cfr. Federico La Sala, "Della Terra, il brillante colore", Milano 2013)
B) L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
Nel patto biblico tra Dio e l’uomo c’è una clausola fondamentale: “Sia chiaro” dice Dio “che creatore sono soltanto io che ti ho creato e non tu. Io sono, su questo punto, un Dio geloso”. Come può essere nato un pensiero di questo genere?
Per una analisi fenomenologica vedo due vie. La prima è la proiezione, in Dio, del padre. Il figlio, per essere uomo, deve ribellarsi al padre. È la via del complesso edipico, la via di Freud. Ovviamente la proiezione si pone come divieto e come gelosia proprio perché il divieto deve essere superato. L’uomo diventa “virile” per la violazione della proibizione. Se il padre è Dio, raggiunge il massimo della umana virilità e cioè diventa Dio. Questa posizione è immatura. Infatti il padre è sempre divinizzato. La sostituzione al padre è eroica: il figlio diventa o Dio o il Diavolo. La maturità dell’uomo in quanto uomo viene raggiunta proprio quando cade la divinizzazione del padre. Se il padre diventa un uomo, anche il figlio diventa un uomo. Di solito ciò avviene quando il figlio, di fatto, diventa padre. di un nuovo figlio, e così via. Di fronte a suo figlio, il figlio divenuto padre si pacifica col proprio padre: ora lo può. Spetta a lui l’essere divinizzato.
La seconda via. Nell’atto sessuale procreante non mi accoppio per avere un figlio. Nella esperienza in prima persona di me stesso e dell’altro nell’atto sessuale non sento di procreare, non ho l’esperienza in prima persona del “far nascere”. L’evidenza sessuale è l’evidenza dell’altro in me e di me nell’altro. Non può essere l’evidenza del figlio che non c’è ancora.. Se le conseguenze saranno procreative, nota Husserl, lo saprò dopo. Dai fatti. Ma posso pormi la domanda: “come avviene?” Fenomenologicamente questo “come” deve essere sperimentato dal soggetto. Ma il soggetto è il soggetto che inizia la sua nascita in seguito alla fecondazione. Non sono io ma è mio figlio, o sono io, ma nell’atto del mio nascere. C’è qui un distacco. Il distacco che si inizia subito, appena compiuto l’atto sessuale. Anche la donna si estrania da me. Ciò che ha di mio in sé è ancora mio, ma non sono più io.
Nell’amore, all’inizio, ho proiettato me stesso in lei: è diventata la “mia vita”. Proprio per questo devo possederla: per “riavere la mia vita”. Ma la “mia vita”, invece di essermi restituita, diventa concretamente un’altra vita. Così si diventa padre, diventando un altro soggetto. Ma così si è figli: si inizia geneticamente la propria storia, la storia della propria soggettività. Procreare e nascere sono due operazioni mie, di me soggetto, che mi sfuggono.
La prima mi sfugge nel distacco che segue all’atto sessuale dal quale ha inizio, appunto, la procreazione. La seconda operazione, il nascere, mi sfugge perché che sia mia mi viene detto da altri. Non è in prima persona. Non posso ricordare la mia vita intrauterina e la mia nascita. Le due operazioni, che mi sfuggono, sono proiettate in Dio che diventa il solo creatore.
C’è un’implicazione: lo studio scientifico della procreazione e della nascita è, alla fine, la genetica. Come scienza fenomenologica rientra, in qualche modo, nell’antropologia, oltre che nella psicologia e nella somatologia, in quanto il suo problema si pone come studio delle modalità e del significato della genesi, sperimentata soggettivamente, e per ciò fenomenologicamente. Una delle conseguenze dell’implicazione scientifica è la seguente: lo studio scientifico della genesi, lo studio scientifico obiettivo, può porsi come un sostituto dell’atto sessuale.
Uno scienziato si può accorgere, magari tardi, che la conoscenza scientifica si è per lui sostituita alla “conoscenza” in senso biblico e cioè all’atto sessuale. Ciò può accadere al filosofo in quanto ricercatore della genesi del mondo. O allo storico: la genesi è la storia.
La feticizzazione è fascinosa perché sostituisce l’atto sessuale creativo. Le tecniche possono esercitare, da questo punto di vista, un’attrazione magica. Una tecnica può sostituire l’atto sessuale e, in cibernetica, la procreazione mancata.
Il tecnico vorrà costruire il figlio come un homunculus nell’inconsapevole desiderio di sostituire agli uomini le macchine. L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
* Enzo Paci, Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 95-97.
Europa Francia Parigi
"Notre Dame"
La preghiera di san Bernardo alla Vergine
(Dante Alighieri, Paradiso, Canto XXXIII)
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI".... *
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" -Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
Federico La Sala
Il senso dell’Europa secondo Kundera.
Addio al grande scrittore ceco
di Vittorio Giacopini (Left - 12 Luglio 2023) *
La storia è fitta di analogie che ingannano, e giochi di specchi. Tendiamo a guardare il presente con le lenti di passati arbitrari, idee blindate, schemi rigidi e troppo spesso il male di oggi è denunciato, criticato, esecrato, esorcizzato facendo appello ai fantasmi di ieri, e non aiuta. Mentre l’invasione russa in Ucraina è giunta al terzo mese e all’orizzonte non si intravede in realtà nessuna via uscita (e nessuna volontà di voltar pagina), l’impressione è che alla Fog of war - inevitabile - si sia sovrapposta una nebbia più fitta e decisamente più ambigua nelle menti, nella coscienza e nel dibattito pubblico, qui in Occidente. La tendenza a giudicare il presente con quelle categorie bloccate nel passato (le analogie scontate con la questione dei Sudeti, le ombre di Hitler e Stalin, lo slogan vergognoso della “denazificazione”, l’evocazione proprio da pensiero magico della stessa categoria di Resistenza) dà la falsa impressione che la Storia ci abbia insegnato qualcosa, e questo magari rassicura ma trae in inganno. Male contro Bene, carnefici e vittime, un prima e un dopo stabiliti un tanto al chilo: la norma è il pensiero binario, non ce n’è un altro. Qualsiasi accenno a dialettiche più intricate, qualsiasi perplessità (concreta, razionale: nessuno ha dubbi, credo, su chi sia l’aggressore e l’aggredito, questo è un fatto), qualsiasi “narrazione” alternativa sono sospetti.
Strano modo di stare nella Storia, e di criticarla: dovremmo cogliere la “complessità” del momento, per superarlo, ma già solo pronunciarla questa parola - complessità - sembra un atto di complicità con l’aggressore, e va bandita. Dovremmo cercare soluzioni razionali, dar peso alla “verità effettuale”, salvare le vite, salvare i corpi, e invece ci si trincera in tetragone ma spesso molto ipocrite verità e in certezze che consolano ma non aiutano, e restano pietrificate dallo sguardo di Medusa della Storia, e dal suo orrore.
È un clima tossico (il pensiero binario - avrei voglia di aggiungere - è sempre tossico). Immagino che anche le due lucidissime conferenze di Milan Kundera che Adelphi pubblica con il titolo Un Occidente prigioniero (traduzione di Giorgio Pinotti) potranno essere lette dentro questo schema ricattatorio, semplificante. Nella seconda - un testo del 1983, il muro di Berlino, la cortina di ferro erano ancora in piedi - Kundera parte dai fatti del settembre ’56 in Ungheria, quando i carri sovietici entrano a Budapest. Il direttore dell’agenzia di stampa ungherese trasmette il suo ultimo dispaccio: «Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa». Naturalmente - precisa Kundera - il direttore non voleva dire che i carri russi fossero pronti a «varcare le frontiere ungheresi e dirigersi a Ovest». In Ungheria «era l’Europa a essere presa di mira. Perché l’Ungheria restasse Ungheria e restasse Europa, era pronto a morire».
E allora era precisamente così, non c’è alcun dubbio: in gioco era (anche) il destino dell’Europa, il “nostro” Occidente. Ma dovremmo evitare di trasformare la storia in un mantra, e quasi sessanta anni dopo i fatti di Ungheria, quasi cinquanta dopo quelli di Praga, l’attualizzazione immediata di questi episodi epocali per quanto irresistibile è fuorviante. Quando diciamo che in Ucraina è in gioco il destino dell’Europa, quando ripetiamo come una formula magica che Kiev è “il cuore dell’Europa” tendiamo a consegnare il presente al mito per non guardarlo.
Di quale Europa parliamo? Del sogno di Ventotene? Del presente balcanizzato da Brexit già consumate o dietro l’angolo? Della fortezza spaventata e cattiva che si blinda contro i migranti? Del classico vaso di coccio tra le botti di ferro (la Russia, la Cina, gli Usa)? Del “nano strategico” su cui ha scritto un bellissimo “requiem” poco tempo fa Paolo Rumiz, di questa clamorosa irrilevanza politica che può esser data ormai per morta o viva “al massimo come protuberanza dell’America”?
Per Kundera, in Un Occidente prigioniero come nell’altra conferenza (La letteratura e le piccole nazioni, del 1967) la grande questione irrisolta era «la tragedia dell’Europa centrale», la necessità di ripensare il destino di quei Paesi fuori dalla cappa oppressiva del comunismo sovietico e dell’irrilevanza. Era possibile ripensare a un cammino autonomo nella storia della Cecoslovacchia, dell’Ungheria, della Polonia? Dipende da molte cose, diceva Kundera, dipende soprattutto dalla nostra capacità di mettere in prospettiva le cose e ricollegarci senza ottuso orgoglio nazionalistico al passato per decifrarlo.
In qualche modo - osserva in un passo fulminante - la storia ceca è ancora bloccata alla Montagna Bianca, attardata nell’orrore della Guerra dei Trent’anni, ferma al Seicento. Quando alla fine di quel conflitto si definì un nuovo assetto dell’Europa e del mondo con la pace di Westfalia, i cechi, e gli altri Paesi dell’Europa dell’Est, furono esclusi, congelati nel ruolo di “piccole nazioni”, messi ai margini. Se le grandi nazioni europee, dentro una storia “classica”, si sono evolute in un quadro culturale comune «i cechi, che hanno conosciuto in modo alternato periodi di sonno e veglia, si sono invece lasciati sfuggire molte importanti fasi dello sviluppo dello spirito europeo... . Per i cechi nessuna conquista è mai stata incontrovertibile, né la lingua, né l’appartenenza all’Europa». Ma il dramma - aggiungeva Kundera - è che nel frattempo l’Europa è mutata e l’Occidente si è auto-imprigionato in una nuova forma di vita intollerabile: la cultura ha ceduto il suo posto al capitalismo dello svago, e della finanza.
«Nel medioevo, l’unità europea si fondava sulla cristianità, e nei tempi moderni sui lumi. Ma oggi? La rimpiazza una cultura dello svago, legata ai mercati e alle tecnologie dell’informazione. Che senso può avere, allora, il progetto europeo?».
L’ultimo passo della conferenza del 1983 è impressionante: «La vera tragedia (dell’Europa dell’Est) non è la Russia, ma l’Europa, quell’Europa per la quale il direttore dell’agenzia di stampa ungherese era pronto a morire, ed è morto, tanto rappresentava per lui un valore essenziale. Al di là della cortina di ferro non sospettava neppure che i tempi erano cambiati e che in Europa l’Europa non è più sentita come un valore. Non sospettava che la frase inviata per telex oltre i confini del suo Paese privo di rilievi aveva un’aria desueta e non sarebbe mai stata capita».
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