‘Giuseppe’, i suoi ‘fratelli’, e “l’interpretazione dei sogni” e della realtà
A FREUD, GLORIA ETERNA!!!
Una ‘risposta’ a Dario Antiseri e a “tutti i detrattori”*
di Federico La Sala**
"anche se il futuro riplasmerà o modificherà questo o quel risultato delle sue ricerche, mai più potranno essere messi a tacere gli interrogativi che Sigmund Freud ha posto all’umanità; le sue scoperte scientifiche non si possono né negare, né occultare (...) e se mai alcuna impresa della nostra specie umana rimarrà indimenticabile, questa sarà proprio l’impresa di Sigmund Freud" (Thomas Mann)
DEUS CLARITAS EST !!! Freud era ‘zoppo’ e ‘cieco’ e lo sapeva (auto-analisi!) e coraggiosamente ha cercato di risolvere il suo (e nostro - di tutti e di tutte) problema edipico, ma tantissimi (e soprattutto i filosofi e i teologi ‘cattolici’ - fideisti o razionalisti, laici e non) lo sono, ’zoppi’ e ’ciechi’, e insegnano che la loro ‘condizione’ è la condizione ‘normale’ di tutti gli esseri umani, e continuano a fare i detrattori del suo “interminato” e “interminabile” lavoro.
Non sapendo e negando addirittura la loro (e nostra - di tutti e di tutte) ignoranza su “chi siamo noi, in realtà?”(Nietzsche!), come possono riconoscere o capire “l’interpretazione dei sogni” del giovane ‘Giuseppe’, del giovane Freud?! Come possono “essere giusti con Freud” (J. Derrida)?, con i loro ‘fratelli’ e con le loro ‘sorelle’, se non sanno essere giusti innanzitutto con il loro stesso ‘padre’ in carne e ossa - ‘Giuseppe’ (e con la loro stessa ‘madre’ in carne ed ossa - ‘Maria’)?!
Ognuno sputa ‘sentenze’ contro la ‘sua creatura’ - la psicoanalisi, ma nessuno sa quello che fa e quello che dice. Continuano a ripetere il loro ritornello, e non sanno nemmeno ‘ascoltar-si’. Non vogliono né ‘crescere’ né tantomeno abbandonare le loro ‘stampelle’: non solo non hanno letto Kant, ma nemmeno ascoltato Gesù! Anzi, tutti (e tutte) in lotta e, al contempo, tutti (e tutte) uguali tra di loro: ognuno per essere riconosciuto l’unico ‘figlio di Dio’ e prendere il posto del ‘Dio-Padre’, e ognuna per diventare l’unica ‘figlia di Dio’ e prendere il posto della sposa del ‘Dio-Padre’ e madre del ‘Dio-Figlio’ !!!
Come in terra così in cielo (e viceversa): ciò che a e per loro importa è mantenere o prendere il ‘potere’ e difendere la ‘proprietà’, perciò non sanno né vogliono “aprire gli occhi” (Freud), saper amare il ‘padre’ e la ‘madre’ - ‘Maria’ e ’Giuseppe’, e “camminare eretti”(E. Bloch, Karl Marx). Per loro è “naturale” e “divino”: la donna è “simile” all’ uomo, Mosè è uguale al Faraone, Gesù è uguale ad Edipo, e Dio è uguale a Mammona!!! E, così, continuano ostinatamente a vivere “con una sola gamba” (Bonhoeffer) e a “sputare contro il vento” (Nietzsche) - a 150 anni dalla nascita di Freud, e a duemila e più anni dalla diffusione della “buona notizia”!!! (10.02.2006)
Federico La Sala
«Sir: L’ottantesimo compleanno di Sigmund Freud ci dà la gradita opportunità di porgere le nostre congratulazioni e i nostri omaggi al Maestro le cui scoperte hanno aperto la via a una nuova e più profonda conoscenza del genere umano. Ha contribuito in maniera eminente alla medicina, alla psicologia, alla filosofia e all’arte ed è stato per due generazioni il pioniere nell’esplorazione di regioni finora sconosciute della mente. Intellettualmente indipendente, «ein Mann mit erzenem Blick» come Nietzsche disse di Schopenhauer, in grado di stare solo e attrarre a sé allievi, ha seguito il percorso da lui scelto e le sue avanzate verità, le quali, per il solo fatto di aver portato allo scoperto ciò che era nascosto e per aver illuminato ciò che era oscuro, sembravano pericolose e allarmanti. Ovunque egli ha proposto nuovi problemi e cambiato vecchi princìpi. I risultati del suo lavoro hanno ampliato il campo della ricerca, e lo stimolo che ha dato al pensiero creativo ha fatto sì che anche i suoi avversari divenissero suoi debitori. Gli anni a venire potranno ricostruire o limitare questa o quella conclusione, ma le sue domande non saranno mai taciute, né le sue conquiste oscurate in modo permanente. Le idee che formulò e i termini che coniò sono diventati parte della nostra vita quotidiana, e in ogni campo del sapere, in letteratura, arte, ricerca, storia delle religioni, preistoria, mitologia, folklore, pedagogia e, ultimo ma non meno importante, in poesia, siamo in grado di scovare tracce della sua influenza. I successi più memorabili della nostra generazione saranno, senza ombra di dubbio, le conquiste in ambito psicologico raggiunte da Sigmund Freud. Non possiamo immaginare il mondo intellettuale di oggi senza il suo lavoro, e gioire della sua presenza tra noi e della sua ininterrotta attività. Possa la nostra gratitudine accompagnare i suoi giorni.»
Thomas Mann, Romain Rolland, Jules Romains, H.G. Wells, Virginia Woolf, Stefan Zweig (traduzione di Eleonora Piacentini)
London, England
FOTO dal "FREUD Museum London" |
SIGMUND FREUD (Wikipedia - italiano)
SIGMUND FREUD (Wikipedia - inglese)
SIGMUND FREUD (scheda con foto - inglese)
"PREMIO GOETHE" (1930) - MOTIVAZIONE: "Con metodo rigorosamente scientifico, ma allo stesso tempo con ardite interpretazioni delle similitudini coniate dai poeti, Sigmund Freud ha tracciato la via per accedere alle forze pulsionali della psiche, creando in tal modo la possibilità di scoprire come sono nate e come si sono sviluppate alcune istituzioni della nostra civiltà, al fine di poterne curare almeno in parte i malanni. La psicoanalisi ha sconvolto e arricchito non soltanto la scienza medica, ma altresí il mondo concettuale degli artisti, dei curatori d’anime, degli storici e degli educatori. Superato il pericolo di una frammentazione dell’individuo, e al di là di tutte le differenze fra i diversi indirizzi di pensiero, Sigmund Freud ha posto le basi per una rinnovata collaborazione tra le discipline scientifiche e per una migliore comprensione tra i popoli. Come i primissimi esordi dell’inda- gine freudiana della psiche risalgono a una conferenza che egli udí sul saggio di Goethe La natura, cosí alla fin fine anche lo slancio mefistofelico promosso dai metodi di ricerca di Freud, slancio che tende a strappare senza pietà tutti i veli, appare inseparabilmente connesso con l’insaziabilità faustiana e con un timore reverenziale per le forze immagina tive e creative che sonnecchiano nell’inconscio. Al grande studioso, allo scrittore e al combattente Sigmund Freud è stato finora negato ogni riconoscimento onorifico ufficiale, benché l’effetto sovvertitore della sua opera abbia condizionato più di quella di chiunque altro dei viventi lo spirito della nostra epoca. La giuria del premio, dopo aver accuratamente soppesato tutti i pro e tutti i contro, si augura che tale onorificenza indichi la via per valorizzare il mondo concettuale freudiano e per accedere a una sfera di valori che sappia ritrovare la propria stabilità dopo essersi liberata da concezioni ormai superate."
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ANNIVERSARIO
Il prossimo 6 maggio ricorreranno i 150 anni della nascita del fondatore della psicoanalisi. Che trovò sin dall’inizio non pochi critici delle sue teorie
FREUD, ECCO TUTTI I DETRATTORI
Le critiche miravano a mostrare la «non scientificità» del metodo. Tra chi si oppose anche Popper, Kraus e Schnitzler, che era contro il determinismo della teoria Friedrich von Hayek lo definì «il maggior distruttore culturale del ’900», mentre Wittgenstein cercò di «vincere il suo inganno»
di Dario Antiseri (Avvenire, 10.02.2006)
«La psicoanalisi - ha scritto Freud nel volumetto Per la storia del movimento psicoanalitico (1914) - è [...] una mia creazione». E questa scienza nuova creata da Freud (ed osteggiata all’inizio dai più e oggi da non pochi) era destinata ad esercitare nel giro di pochi decenni un influsso enorme e sempre più massiccio sull’immagine dell’uomo e delle sue attività psichiche e dei suoi prodotti culturali. Non c’è "fatto umano" che non sia stato toccato e sconvolto dalla dottrina psicoanalitica: il bambino diventa un perverso polimorfo; il peccaminoso sesso della tradizione viene posto in primo piano per spiegare la vita normale e soprattutto malattie mentali; l’io e il suo sviluppo vengono inquadrati in una nuova teoria; le malattie mentali vengono affrontate con tecniche terapeutiche prima impensate; fatti come i sogni, i lapsus, le dimenticanze, ecc. - generalmente visti come fatti, sì, strani, ma irrilevanti per la comprensione dell’uomo - diventano brecce per guardare nel profondo dell’uomo; fenomeni quali l’arte , la morale, la religione e la stessa educazione vengono illuminati da una luce che molti ancora oggi dichiarano "sconvolgente". Il costume esce mutato dall’incontro con la terapia psicoanalitica e gli stessi termini fondamentali della teoria psicoanalitica (complesso edipico, rimozione, censura, sublimazione, inconscio, super-io, transfert, ecc.) sono ormai pezzi integrati nel linguaggio ordinario e, nel bene o nel male e con più o meno cautela, più o meno a sproposito, costituiscono attrezzi interpretativi del più ampio svolgersi della vita.
In ogni caso, è Bruno Bettelheim a ricordare ne La Vienna di Freud che fu esattamente nella "Grande Vienna" che vennero messe a punto le alternative alla psicoanalisi per la cura dei disturbi mentali. J. Wagner von Jauregg scoprì la terapia della demenza paralitica tramite l’inoculazione della malaria - questa e altre scoperte gli valsero nel 1927 il premio Nobel per la medicina, il pri mo ad essere assegnato per ricerche in campo psichiatrico. E fu un altro medico viennese, Manfred Frafft-Ebing- predecessore di Wagner von Jauregg nella direzione dell’Istituto di psichiatria e che in tale qualità fu diretto superiore di Freud nel periodo in cui costui insegnò all’Università - con la sua Psychopathia sexualis, del 1866, sconvolse le idee correnti sulle perversioni sessuali. Fu lui che «preparò in un certo senso il clima culturale che rese possibile il lavoro di Freud» (Bettelheim).
Alternative alla psicoanalisi da una parte, e severe, per non dire devastanti, critiche dall’altra - critiche tutte mirate a mostrarne la non scientificità. La psicoanalisi non è scientifica perché fattualmente incontrollabile, perché non falsificabile: è questo il noto verdetto di Karl Popper. La psicoanalisi di Freud, come anche la psicologia individuale di Adler, risulterebbero, ad avviso di Popper, «compatibili con i più disparati comportamenti». Non è possibile indicare qualcosa in grado di smentire l’una o l’altra delle due teorie. La prova, nella vita come nella scienza, si ha dove si rischia: dove si rischia di fare fallimento. Ma Freud non corre questi rischi. E «per ciò che concerne l’epica freudiana dell’Ego, del Super-Ego, e dell’Id, non è possibile rivendicare uno stato scientifico più di quanto lo sia per le vicende storiche dell’Olimpo di Omero.»
Con Popper, e prima di Popper, due suoi maestri viennesi: Heinrich Gomperz e Karl Bühler. Per Gomperz il difetto di fondo della psicoanalisi sta nella immotivata pretesa dogmatica di aver individuato la sorgente (la vera e unica sorgente) di tutti i nostri comportamenti. Il "grande mago" vedeva nel fondatore della psicoanalisi Karl Bühler, sotto la cui guida Popper scrisse la sua tesi di laurea sulla psicologia del pensiero. E dinanzi alla imponente quantità di congetture all’inseguimento del carattere simbolico dei fenomeni psichici, Bühler si sente legittimato ad as serire che il principio del simbolo della psicoanalisi è «un principio elastico come la gomma».
Decisamente contrario al determinismo della teoria freudiana è Arthur Schnitzler (1862-1931), il "medico-poeta" viennese. La psicoanalisi trasforma la vita degli uomini in una "ridicola farsa" di pulsioni libere di scatenarsi in un individuo o in un altro. Inoltre, sbaglia Freud a proposito del complesso di Edipo, per la ragione che «proprio la storia di Edipo è totalmente estranea al cosiddetto complesso di Edipo. Edipo ama sua madre ignorando che è tale [...] Edipo ama Giocasta come estranea, non come madre». La psicoanalisi - annota Schnitzler - è seducente sia per il medico come pure per il paziente: «un uomo del tutto insignificante appare a se stesso interessante, il valore che viene attribuito ai suoi sogni lo esalta». Ma il guaio più grosso con la teoria psicoanalitica è che essa naviga nel pantano dell’arbitrario, tanto che «ogni controllo diviene impossibile e ogni spiegazione può essere lecita esattamente quanto il suo opposto». Da qui il verdetto di Schnitzler: «il metodo psicoanalitico è un interpretare sfrenato».
Analogo giudizio negativo lo si ritrova in Egon Friedell, l’autore della monumentale opera dal titolo Kulturgeschichte der Neuzeit, dove egli ricorre a parole di Nietzsche per affermare che la psicoanalisi è «un attentato di parassiti, un vampirismo di pallide sanguisughe sotterranee». La psicoanalisi è un atto di vendetta di malriusciti. E non è scienza. Essa è piuttosto la fede di una setta. Nasce e vive come teoria incontrollabile; e, difatti, «è del tutto impossibile convincere gli psicoanalisti della falsità di una diagnosi». In verità, "«come la balena, quantunque sia un mammifero, si atteggia a pesce, così la psicoanalisi, che è una religione, si atteggia a scienza». La psicoanalisi, per Friedell, ha un difetto catastrofico: sono gli psicoanalisti. E Freud «è un metafisico, ma non lo sa».
Il 12 gennaio del 1910 Fritz Wittels presenta alla Società psicoanalitica di Vienna una relazione dal titolo La nevrosi "Fackel" Karl Kraus - che con la sua rivista "Die Fackel" era diventato «la delizia e il tormento del pubblico viennese»(Th. Szasz) - vide nell\’analisi effettuata da Wittels una specie di dichiarazione di guerra. E guerra fu, come si può scorgere anche dai seguenti pochi aforismi di Kraus. «La differenza fra gli psichiatri e gli altri psicopatici è un po’ come il rapporto tra follia convessa e follia concava». E ancora: «la psicoanalisi è un gusto di vendetta, per mezzo del quale l’inferiorità si dà un contegno, se non addirittura un\’aria superiore, e la disarmonia cerca di livellarsi. Essere medico è più che essere un paziente e perciò oggi non c’è babbeo che non tenti di curare ogni genio. Qui la malattia è ciò che fa difetto al medico». E quanto alla scientificità della psicoanalisi Kraus non ha dubbi: «La psicoanalisi è più una passione che u na scienza: perché le manca la mano ferma nelle sue indagini, anzi perché questo di fatto costituisce già da solo l’unico requisito per fare psicoanalisi». E, infine, uno dei più caustici, e maggiormente noti, aforismi di Kraus: «la psicoanalisi è quella malattia di cui ritiene di essere la terapia».
Se per Friedrich A. von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974 - Freud, «attraverso i suoi profondi effetti sull’istruzione(...) è forse diventato il maggiore distruttore culturale del nostro secolo», per suo cugino Ludwig Wittgenstein «non c’è modo di mostrare che il risultato generale delle analisi non potrebbe essere "inganno"».
___ LE CELEBRAZIONI
L’Austria in festa con mostre e convegni
Al via in Austria le celebrazioni per i 150 anni dalla nascita di Sigmund Freud (1856-1939), il medico austriaco fondatore della psicoanalisi. Luogo centrale delle manifestazioni sarà Vienna, dove la famiglia di Freud si trasferì dal 1860 e in cui lo psicoanalista visse fino al 1938, quanfo l’annessione dell’Austria alla Germania di Hitler lo costrinse ad emigrare a Londra. Uno degli avvenimenti più importanti allestiti a Vienna sarà la grande mostra «Die Couch: Vom Denken im Liegen» (Il divano: il pensiero disteso), che verrà allestita dal 4 maggio al 29 ottobre nella Casa-museo di Sigmund Freud, situata all’indirizzo Berggasse 19, domicilio e studio dello psicoanalista. A partire dal mese di aprile il Filmarchiv di Vienna affronterà nel corso di una vasta restrospettiva dal titolo «Freud und das Kino» (Freud e il cinema). E per il 5 maggio, alla vigilia del compleanno di Freud, è prevista alla Volksoper di Vienna una serata musicale, dal titolo «Stimme und Verstummen» (Voce e silenzio).
Sigmund Freud Speaks: The Only Known Recording of His Voice, 1938 - Sigmund Freud: la sola registrazione conosciuta della sua voce, 1938 *
I started my professional activity as a neurologist trying to bring relief to my neurotic patients. Under the influence of an older friend and by my own efforts, I discovered some important new facts about the unconscious in psychic life, the role of instinctual urges, and so on. Out of these findings grew a new science, psychoanalysis, a part of psychology, and a new method of treatment of the neuroses. I had to pay heavily for this bit of good luck. People did not believe in my facts and thought my theories unsavory. Resistance was strong and unrelenting. In the end I succeeded in acquiring pupils and building up an International Psychoanalytic Association. But the struggle is not yet over. - Sigmund Freud.
Ho iniziato la mia attività professionale come neurologo provando a portare sollievo ai miei pazienti nevrotici. Sotto l’influenza di un vecchio amico e i miei propri sforzi, ho scoperto alcuni nuovi e importanti fatti sull’inconscio nella vita psichica, sul ruolo dei desideri istintuali, e così via. Da queste indagini è cresciuta una nuova scienza, la psicoanalisi, una parte della psicologia, e un nuovo metodo di trattamento delle neurosi. Ho dovuto pagare un prezzo pesante per questo poco di fortuna. La gente non credette nei miei fatti e trovò le mie teorie disgustose. La resistenza fu dura e inesorabile. Alla fine sono riuscito a procurarmi allievi e a costruire una società psicoanalitica internazionale. Ma la lotta non è ancora finita. Sigmund Freud.
Traduzione a cura di Laura Ravaioli
* FONTE: SPIWEB
FLS
GIORNATA MONDIALE DELL’#ANATOMIA ("World Anatomy Day"): NON SOLO VESALIO.
GIOVANNI VALVERDE DE AMUSCO E LA "SCOPERTA" DEI "#TESTICOLI DELLE #DONNE" (cfr. allegato: cap. 15 del Libro III dell’ "Anatomia" di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560).
COME NASCONO I BAMBINI: #RIVOLUZIONE COPERNICANA (IN #TERRA E IN #CIELO) E #MENSCHWERDUNG. #AL TEMPO DI #FILIPPO II e #TERESA D’AVILA, il medico Giovanni Valverde riconosce alla #donna il ruolo attivo nell’atto del #concepimento e pone le premesse per l’#uguaglianza, per la "#ley de #igualdad".
TEATRO E FILOSOFIA: AMORE, O MORTE? "ESSERE, O NON-ESSERE: QUESTA E’ LA DOMANDA" ("THE QUESTION": HAMLET, III.1.56). CHE #RISPONDERE, "QUI E ORA"?!
SE E’ VERO, COME E’ VERO, come scrive lo stesso #Shakespeare, che "conoscere bene un uomo sarebbe conoscere se stessi" ("#Amleto", V. 2. 139), la sollecitazione a riflettere sui "Sette modi in cui Amleto potrebbe vedere uno specchio di se stesso in Laerte" (cit.), a mio parere, è un ottimo consiglio a pensare ancora, di nuovo, e meglio, all’antico "#programma" metastorico, filosofico e antropologico (di ogni #essereumano), del #conoscere sé stesso della tradizione delfica e dell’ #amare il prossimo come sé stesso della tradizione evangelica.
METATEATRO E METAPSICOLOGIA. Inoltre, il contributo è anche un invito a riconsiderare il lavoro fatto da Otto Rank sia sullo stesso #Amleto ("Das «Schauspiel» in «Hamlet»", 1915) sia sul tema del "Doppio" ("Der Doppelgänger", 1914) ) e, infine, sul più generale e comune tentativo di portarsi con #Freud, oltre l’orizzonte della #Tragedia (Dante Alighieri) e del #Tempo "fuori dai cardini" di Amleto (Shakespeare).
ANTROPOLOGIA (KANT), TEATRO (#SHAKESPEARE), E #PSICOANALISI (#FREUD):
IL "MOUSETRAP" DI "AMLETO ED OFELIA" ("HAMLET", III.2) E L’ "ONORA IL PADRE E LA MADRE" ANTROPOLOGICO E "BIBLICO".
QUALE "MODELLO" DI #RELAZIONE IN UNA MODERNA SOCIETA’ DEMOCRATICA? QUALE RAPPORTO TRA LE #GENERAZIONI? CITTADINI SOVRANI E CITTADINE SOVRANE, FIGLI E FIGLIE DI ’MARIA’ E ’GIUSEPPE’, O DI ’GIOCASTA’ E ’LAIO’? O, PER CASO E ANCORA, FIGLI E FIGLIE DELLA LUPA (DI REA SILVIA E MARTE)?
LO "SPETTRO" DI "#GIUSEPPE" SI AGGIRA ANCORA PER LA "#DANIMARCA" ..... MA IN VATICANO NON LO SANNO. Vivono tutti ancora a Tebe, nella città del re Edipo! Con un’antropologia preistorica, la Chiesa Cattolica avanza sicura, verso il tremila prima di Cristo E SI PREPARA A FESTEGGIARE #NICEA (325-2025)!
Fino a quando zoppicheremo con i due piedi?: questa è una domanda - già di molti secoli prima di Cristo - del profeta Elia (1 Re: 18, 21), ma - come si sa - rilanciata da #SigmundFreud, nel XX secolo dopo Cristo! A CHE "GIOCO" SI VUOLE CONTINUARE A GIOCARE?
TEATRO (STORIA) E METATEATRO (METASTORIA).
Psicoanalisi della società contemporanea e "Disagio della civiltà" (1929): un segnavia per oltrepassare "Scilla e Cariddi", le colonne d’Ercole, e non naufragare (Ulisse).
ARCHEOLOGIA E LETTERATURA: UNA "BIBLICA" TRAGEDIA. Edipo (Mosè e Gesù) e il problema dell’#identificazione con il #Padre (#Re). Se esiste un "complesso di Edipo", dovremmo avere anche un "complesso di Laio" (Paul Adrian Fried, cit.) ... certamente! Si cfr. "Il complesso di Laio. I rapporti famigliari nei disegni dei ragazzi" di Tilde Giani Gallino, Einaudi, 1977).
AL DI LA’ DEL "MATRIARCATO" E DEL "PATRIARCATO" (J. #BACHOFEN, 1861): OLTRE LA #COSMOTEANDRIA. Tuttavia, a mio parere, senza la comprensione antropologica della "scena primaria" (#Otto Rank, 1915) della hamletica #Mousetrap (III.2) non è possibile comprendere tutta l’importanza del programma di "Amleto" ed "#Ofelia" (e dello stesso "sogno" di Freud) di portarsi al di là delle #ombre del "padre" (re) e della "madre" (regina) e di divenire ed essere cittadino-sovrano e cittadina-sovrana dello "stato di Danimarca".
QUALE "PRESEPE"?! "THAT IS THE #QUESTION": UNA #QUESTIONEANTROPOLOGICA, E TEOLOGICO-POLITICA, DI ESSERE E NON ESSERE, NON SOLO DI PSICOLOGIA O SOCIOLOGIA, ALL’ORDINE DEL GIORNO DEL #PIANETATERRA.
ANTROPOLOGIA (KANT), STORIOGRAFIA, E LETTERATURA (BAUDELAIRE):
IL CASTIGO DELL’ORGOGLIO ("Châtiment de l’orgueil").
DAI "FIORI DEL MALE", UN #RACCONTO "STORICO" DI ALTA PROFONDITA’: COME UN TEOLOGO EBBE PAURA DEL "TRAUMA DELLA NASCITA" E, SULLA #NEGAZIONE DEL "RIDICOLO FETO", APRI’ LA STRADA ALLA "GLORIA" DELLA #COSMOTEANDRIA DELLA "#CAVERNA" PLATONICO-LUCIFERINA ("MAMMONICA") E FINI’ PER ESSERE "LA GIOIA E LO SCHERNO DEI #FANCIULLI".
In quei tempi meravigliosi in cui la Teologia fiorì con la massima forza ed energia, si narra che un giorno uno dei più grandi dottori, dopo aver forzato i cuori indifferenti ed averli commossi ne le loro nere profondità; dopo aver superato verso le glorie celesti strani sentieri a lui stesso ignoti, dove forse eran giunti solo i puri Spiriti, come un uomo salito troppo in alto, preso da vertigine, gridò in un trasporto di satanico orgoglio:
Immediatamente la sua ragione scomparve. Lo splendore di quel sole si velò; tutto un caos piombò in quell’intelligenza, tempio già vivo, pieno d’ordine e di opulenza, sotto le cui vòlte tanto fasto era stato sfoggiato. Il silenzio e la notte regnarono in lui, come in un sotterraneo di cui si è smarrita la chiave.
Da quel giorno fu simile a le bestie di strada, e, quando andava pei campi senza nulla vedere, incapace di distinguere l’estate da l’inverno, sudicio, inutile e brutto come una cosa logora, formava la gioia e lo scherno dei fanciulli. (Charles Baudelaire, "I fiori del male").
MONDO (ATLANTE), VOLONTA’ (FILOSOFIA), E RAPPRESENTAZIONE (TEATRO): UNA #HAMLETICA TERAPEUTICA "TRAPPOLA DEL TOPO" ("THE MOUSETRAP"), PER SCHOPENHAUER (1788-1860), CHE PENSAVA CHE, "SOGNANDO, CHIUNQUE DIVENTA UNO SHAKESPEARE"!
NEI "Parerga e Paralipomena", Arthur Schopenhauer, sicuro del suo punto di vista, scrive: “La socievolezza appartiene alle inclinazioni più pericolose, persino distruttive, poiché ci mette in contatto con esseri la cui grande maggioranza è moralmente cattiva e intellettualmente ottusi o pervertiti”. Questa "superficiale" riflessione, porta a galla (a mio parere) tutta l’incomprensione, da parte di Schopenhauer e del suo "punto di vista", non solo del problema sociologico, ma anche del problema antropologico, sulla "socievolezza" in generale, e sul tema della #interpretazionedeisogni di "un #visionario" e della "#metafisica", già portata avanti da #Kant (a partire dal 1766), e, infine, sulla intera ricerca antropologico-politica e artistica portata avanti da #Shakespeare (all’epoca di #Elisabetta I d’Inghilterra, da non dimenticare).
ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA-POLITICA E #SOCIETA’: "COME NASCONO I BAMBINI" (S. Freud, Analisi terminabile e interminabile", 1937). Nei "Parerga e paralipomena", ancora, scrivendo che «Sognando, chiunque diventa uno Shakespeare», il grande filosofo mette in evidenza tutta la sua grande approssimazione nell’#analisi dei #sogni e, in particolare, delle opere in cui Shakespeare ha prodotto riflessioni importanti e su cui ancor oggi è bene riflettere (con Freud e oltre #Freud), come nell’#Amleto, sulla figura del "#corpomistico" del Re, sulla figura del #Macroantropo, come in "Antonio e Cleopatra", e, in generale, sulla #piramide androcentrica di tutti i teorici della #produzione della "società" della tradizione teologico-politica dell’#Occidente, compreso lo stesso Schopenhauer.
NOTA:
ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI: DANTE ALIGHIERI, LA #DIVINA COMMEDIA, "LA SACRA #FAMIGLIA" (#MARX-#ENGELS), E L’#ANDROCENTRISMO CONTEMPORANEO.
#STORIA #LETTERATURA E #FILOLOGIA. CONSIDERANDO CHE il #23settembre richiama anche il giorno della morte di #SigmundFreud, e RICORDANDO, ancora , che all’inizio della sua "#Interpretazione dei sogni (1899) c’è il virgiliano #AcherontaMovebo", personalmente, devo dire che resto sempre più che sorpreso dell’accettazione del #fatto che si accolga acriticamente non solo il "giudizio" di #UmbertoEco ma anche dell’intero mondo accademico delle scienze storiche logiche e filologiche (dopo i #maestridelsospetto), e non si aprino gli occhi sugli innumerevoli #segnavia posti dallo stesso #Dante Alighieri sul suo cammino.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! COME E’ (STATO) POSSIBILE (ADDIRITTURA PER SETTE SECOLI) ACCREDITARE la #madre di #Dante, #Bella (che a #Virgilio così parla:
come la giovane Beatrice ... fino a fare del Poeta una persona incapace di essere spiritualmente fedele alla sua sposa #GemmaDonati, di essere un #padre onesto e leale con i propri figli e, infine, di capire persino la ragione del perché sua figlia Antonia, entrata in convento, prenda il nome di suor #Beatrice? Boh e Bah?! Mistero dell’altro mondo? Chi ha paura di Beatrice?
PSICOANALISI E "FAMILY BUSINESS": COME RENDERE VIRTUOSO IL CIRCUITO DELL’AZIENDA FAMILIARE. Una traccia per una #svolta_antropologica. *
ANTROPOLOGIA, FAMIGLIA, E CRITICA DELL’ECONOMIAPOLITICA. Data la competenza multidisciplinare e la lucidità analitica sul tema del "family business", offerta dal prof. Alfredo De Massis, suggerirei di "ripensare" all’impresa di #SigmundFreud, da questo punto di vista, collegando la sua "impresa familiare" di #Psicoanalisi (la sua "creatura") in "continuità" con l’attività e l’impresa del padre #Jacob #Freud, #mercante di #lana.
PENSARE L’#EDIPO #COMPLETO: CON FREUD, OLTRE #FREUD. Un #urlo, quello di #Medea, che attraversa la "preistoria" dell’intera #umanità e, con determinazione assoluta ("Medea" - io sono; "#Nessuna" - io sono), denuncia il #patto sociale-storico del "#compromesso edipico" della #tragedia ("#Madre-Figlio" /"#Giocasta-Edipo"). #Euripide "ricorda" il #nodo di #Ercole da #sciogliere, ma ovviamente non fa altro che #negare e ridurre il tutto a una “mera questione di letto” (Eur. Med., 1323 ss.) e a un comportamento contro "natura". A mio parere, non solo Freud, ma anche #Bachofen, è da rileggere, se si vuole #comprendere bene il #comenasconoibambini.
AMLETO, FREUD E RANK: UN INVITO A RIPRENDERE LA #RICERCA SUL TEMA DELLA #NASCITA E DELL’ ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA E FILOSOFICA.
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1724-2024): "DA DOVE VENGONO I BAMBINI?" (Emma #Eckstein, 1900).
A CHE #GIOCO SI CONTINUA A GIOCARE? ANCORA A UN #BAMBINO, CONCEPITO COME UN #FETO "TOTALMENTE NARCISISTICO"?! Freud comprese l’importanza antropologica del "gioco del #rocchetto" del nipotino, ma Rank riuscì a meglio comprendere «La "Rappresentazione" nell’Amleto» (1916) di Shakespeare, il "gioco" della #Mousetrap (della "scena primaria", della "scena madre").
A BEN VEDERE, l’opera di Freud, "Inibizione, sintomo e angoscia" è del "1926". Data l’importanza dell’argomento, legato al problema della nascita (e alla "angoscia di castrazione"), forse, vale la pena rileggere con attezione quesa "citazione":
Essendo tutto il discorso legato polemicamente al "Trauma della Nascita" di Otto Rank (1924), all’ #enigma della #Sfinge (al tragico "#nodo di#Ercole"), e alla questione antropologica sul #comenasconoibambini (#SigmundFreud, 1937), non è il caso di rianalizzare meglio e di più il contributo di Otto Rank e le stesse riflessioni di Freud che toccano infine, anche e ancora Rank, la discussione di lunga durata sulla "Analisi terminabile e interminabile"?
ANTROPOLOGIA CULTURALE PSICOANALISI STORIA E STORIOGRAFIA. Otto Rank, "#Beyond #Psychology" (1941): "[...] Among the subjects investigated in this searching analysis are kingship and magic participation, the institution of marriage, power and the state, Messianism, the doctrine of rebirth, the two kinds of love (Agape and Eros), the creation of the sexual self, feminine psychology and masculine ideology, and psychology beyond the self.".
USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA, CON DANTE E FREUD: INVERTIRE IL PRESENTE...
DA DOVE VENGONO I BAMBINI?" (Emma Eckstein) E #COMENASCONOIBAMBINI (Sigmund Freud, 1937)?
Sul piano dell’antropologia, delle tradizioni linguistiche e popolari, e della psicologia (e dell’amletico "marcio nello stato di Danimarca"), partendo dal "#gattonare" dei bambini e delle bambine e, passando dal "#gattaro" e dalla "#gattara", c’è da pensare anche al #verbo "gattare" e, infine, alla simulazione giocosa della "#Mousetrap" realizzata da Amleto e Ofelia nell’opera di #Shakespeare, per smascherare chi ha distrutto la "trappola per topi" realizzata dal "Re Amleto" e dalla "Regina Gertrude" nel loro #giardino e ucciso il Re! Non è meglio rileggere l’opera di Shaespeare e celebrare la #memoria di Santa Gertrude di Nivelles?!
CINEMA, TEATRO, E ANTROPOLOGIA CULTURALE E FILOSOFICA:
I “GEROGLIFICI” DI DIO”, “KEDI - LA CITTA’ DEI GATTI”, L’ENIGMA DELLA “TRAPPOLA PER TOPI” DELL’ AMLETO DI SHAKESPEARE, E LA “MADONNA DELLA GATTA” DI FEDERICO BAROCCI... *
SE è vero, come è vero, che “Kedi, la città dei gatti (Turchia/USA 2016), è un film documentario diretto da Ceyda Torun, giovane regista turca trapiantata in USA, centrato sulla meravigliosa convivenza fra uomo e gatto che ha luogo dai tempi dei tempi a Istanbul”, e, ancora, che “Il film, realizzato con delicata sensibilità e forza di pensiero, trasmette serenità, e mostra un modo di fare cinema che è anche una scuola inedita di cultura filosofica, antropologica e psicologica”, forse, è più che opportuno allargare l’orizzonte della riflessione e della coscienza e cercare di capire quando a “salire in cattedra”, a “insegnare sono i gatti”! Il film, definito documentario, “ci mette di fronte a un unicum ambientale, estetico, concettuale, da cui si forma, oltre a un’esperienza che cambia la vita di chi vi partecipa, anche una macchina per pensare” (Pietro Pascarelli, cit.).
RICORDANDO, come fa nella sua recensione Francesca Ferri (“La dichiarazione d’amore della regista turca ai gatti della sua Istanbul”) che, “divinizzati dagli antichi egizi, i gatti sono notoriamente amati dai musulmani da quando il profeta #Maometto fu salvato da una #gatta soriana, che lo protesse da un serpente”, e che, attraverso “lo sguardo dei sacri felini, dunque, Ceyda Torun ci lascia ammirare la città da un’altra prospettiva, mostrandoci gli angoli più nascosti, gli scorci dimenticati, i nascondigli segreti”; e, ancora,
CONSIDERANDO CHE LA CITTA’ DEI GATTI è la città di Istanbul e , a ben pensare, che la stessa Città non risulta essere un città definibile come una “trappola per topi”, forse, è ora e tempo di chiarirsi le idee sulla famosa “Mousetrap” dell’Amleto di Shakespeare, e, con l’aiuto dei gatti, venire a capo del gioco che si fa nello “stato di Danimarca” (ormai planetario).
INFINE, SE ENTRO QUESTO ORIZZONTE DI “GEROGLIFICI DI DIO”, CON SHAKESPEARE (E INSIEME, VOLENDO, FREUD), SI COLLOCA ANCHE IL QUADRO REALIZZATO DA FEDERICO BAROCCI (Urbino 1528/1535 - 30 settembre 1612) , sulla «Visita di Sant’Elisabetta, con San Giovanni Battista e San Zaccaria, alla Madonna col Bambino e San Giuseppe, detta “Madonna della gatta”», ben si comprende quanto importante sia a livello culturale e antropologico la sollecitazione di questo film-documentario di Ceyda Torun, dedicato ai gatti della sua Istanbul, a pensare al “disagio della civiltà” e “nella civiltà” dell’attuale presente storico.
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CINEMA TEATRO, ARTE E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI":
"KEDI - LA CITTA’ DEI GATTI", L’ENIGMA DELLA "TRAPPOLA PER TOPI" ("THE MOUSETRAP") DELL’AMLETO, LA "MADONNA DELLA GATTA" (DI FEDERICO BAROCCI), E IL "CASO" DELL’ "UOMO DEI TOPI" DI SIGMUND FREUD.
Una recensione di Francesca Ferri, del film-documentario di Ceyda Torun:
"[...] "Sono cresciuta a Istanbul fino all’età di undici anni - ha spiegato Ceyda Torun - e credo che la mia infanzia sarebbe stata infinitamente più solitaria se non fosse stato per i gatti e io non sarei la persona che sono oggi. Sono stati i miei amici e confidenti e dopo il trasferimento, ogni volta che mi capitava di tornare a Istanbul, trovavo la città sempre meno riconoscibile ad eccezione di una cosa: i gatti, unico elemento costante e immutato che incarnava l’anima stessa della metropoli. Questo film è, per molti versi, una lettera d’amore a quei gatti e alla città".
Divinizzati dagli antichi egizi, i gatti sono notoriamente amati dai musulmani da quando il profeta #Maometto fu salvato da una #gatta soriana, che lo protesse da un serpente. Maometto così regalò ai felini la facoltà di poter osservare contemporaneamente il mondo terreno e la dimensione ultraterrena.
Attraverso lo sguardo dei sacri felini, dunque, Ceyda Torun ci lascia ammirare la città da un’altra prospettiva, mostrandoci gli angoli più nascosti, gli scorci dimenticati, i nascondigli segreti. Istanbul svela il fascino decadente di una città in continuo cambiamento in cui il nuovo si aggiunge al vecchio senza mai sostituirlo. Da sotto i tavoli dei caffè e dei mercati o dall’alto dei cornicioni dei palazzi, come i gatti, osserviamo la città, il suo magma indistinto, la sua chiassosa umanità. E seguendo le loro impronte scopriamo la città dei gatti. Nella vastità di Istanbul ogni #gatto, "kedi" in turco, ha il suo quartiere, le sue abitudini, i suoi riti. [...]" (MYmovies.it, mercoledì 25 aprile 2018 - ripresa parziale).
a) SHAKESPEARE, "AMLETO". LA "TRAPPOLA PER TOPI" REALIZZATA DAL "#SERPENTE-RE" E LA #PANTOMIMA FATTA RAPPRESENTARE A SUO "ONORE" DAL PRINCIPE AMLETO, CHE CON LA #TESTA SOPRA IL #GREMBO DI OFELIA "RECITANO" INSIEME NEL "LORO" SPETTACOLO DELLO "SPETTACOLO":
b) ARTE E ANTROPOLOGIA: LA "MADONNA DELLA GATTA". Federico #Barocci (Urbino 1528/1535 - 30 settembre 1612), Visita di Sant’Elisabetta, con San Giovanni Battista e San Zaccaria, alla Madonna col Bambino e San Giuseppe, detta "Madonna della gatta" ).
c) PSICOANALISI E STORIA. S. #Freud, "Casi clinici 5: L’uomo dei topi: Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva", 1909, Bollati Boringhieri.
SHAKESPEARE, FREUD, E L’#ANTROPOLOGIA DEI "#DUESOLI": LA FILOSOFIA DELLA "MENTE ACCOGLIENTE".
ALLA RICERCA DEL "TEMPO PERDUTO": IMPARARE A INDOVINARE ("ERRATEN") E AVER IL #CORAGGIO DI #ACCOGLIERE ("SÀPERE AUDE!") E "#SPOSARE" ("HEIRATEN") LA IPOTESI "COSTRUITA".
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#PSICOANALISI #ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA #HAMLETICA: "CHI SONO IO?". Contrariamente a quanto si pensa, la lunga ricerca di Freud, se può apparire (come è apparso per lo più fino ad ora) segnata dalla figura di #Edipo e #Giocasta, dall’altra è molto prossima a quella di #Amleto (#Hamlet), dalla volontà e dal progetto di chiarirsi le idee su di sé, e di suo #Padre - di chi è veramente #Figlio: la sua opera, una vera e propria "trappola per topi" ("The #Mousetrap") e di portarsi oltre il #giogo del "matriarcato" e del "patriarcato".!
"COME NASCONO I BAMBINI" (S. Freud, "Analisi terminabile e interminabile", 4). Egli, in verità, è andato (come si sa) a "scuola" da Shakespeare, e il problema della sua vita è come quello di Shakespeare, contribuire a sciogliere il nodo di #Ercole, il nodo del nascere, del #comenasconoibambini, alla base della "nevrosi ossessiva", non solo del "caso" dell’uomo dei topi" (1909), ma "della civiltà" e "nella civiltà", e contrastare il dilagare alluvionale del "marcio nello stato di Danimarca".
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E ANDROCENTRISMO: "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888).
LA SFINGE CHIESE AD EDIPO, "CHI SEI ?"; EDIPO "PLATONICAMENTE" RISPOSE: "L’UOMO!" [#ANTHROPOS].
STORIA #LETTERATURA E #STORIOGRAFIA. #PILATO INDICO’ #GESU’ ALLA #FOLLA E DISSE: "ECCE HOMO" ( «Ecco l’uomo», «ἰδοὺ ὁ #ἄνθρωπος»).
TEOLOGIA-POLITICA E #COSMOTEANDRIA. LA LEZIONE DI #PAOLODITARSO:
"PERSONA E DEMOCRAZIA. La storia sacrificale" (M. Zambrano, 1958): "María Zambrano non ha venduto l’anima all’Idea" (Emil M. Cioran, "Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti", Adelphi, 1988).
Sul tema, cfr. "Le parole di Antigone nella riscrittura novecentesca di María Zambrano" (di Camilla Tibaldo, Treccani, 13 gennaio 2020).
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA, SOCIOLOGIA, E STORIOGRAFIA DELLA PSICOANALISI:
"DA DOVE VENGONO I BAMBINI?", "COME NASCONO I BAMBINI". "Un’importante questione educativa" di Emma Eckstein.
"Emma Eckstein: Un’importante questione educativa (1900)"
di Michele Lualdi ("Il passo psicoanalitico", 31 agosto 2024)
[666] [2] La questione se dobbiamo informare i nostri bambini sulla riproduzione dell’essere umano o, come solitamente accade, avvolgere tutto questo grande ambito in una misteriosa oscurità, mi sembra una delle più elementari e più importanti nell’educazione. Da parte di uomini e donne che pensano in modo particolarmente privo di pregiudizi, questo tema è stato fatto ripetutamente oggetto di vivaci discussioni e così qualcuno è stato in tal modo spinto a riflettere se non sia poi bene o necessario che su ciò che spesso occupa [667] i nostri pensieri fin dall’infanzia, che sulla cosa più importante nella vita, noi si ottenga, solo per vie traverse, un’oscura visione. Quale mole di penosi ricordi dall’infanzia, quale somma di tormenti interiori dal tempo di una più matura giovinezza sono state ridestate da queste considerazioni! È forse una conquista del nostro tempo il fatto che le persone più avanti negli anni, se pensano alla loro giovinezza, non ricordano solo le loro virtù e gli amici, ma anche i loro patemi e le loro sofferenze e hanno con ciò uno sguardo e un ascolto più acuti per i dolori psichici della gioventù di oggi.
Ci possono essere alcune accezioni, la regola però, quando noi, come i nostri genitori e i nostri nonni, ci siamo addentrati nel mistero “Da dove vengono i bambini?”, è abbastanza uniforme. Molto spesso a questa domanda si risponde con la storia della cicogna che porta i bambini e simili; madri che si vantano di non voler mettere in testa ai loro figli una simile assurdità, si accontentano della risposta: “Non lo puoi ancora capire”. Nel primo caso, la brama di sapere di un bambino molto piccolo solitamente è placata per un qualche tempo, poi però vede, tanto quanto quello respinto, che qui c’è un segreto che si vuole rigorosamente preservare dai bambini, sì che la madre stessa non si ritrae dal ricorrere a una bugia. Questa percezione, però, stimola solo, di molto, la curiosità.
A chiedere ai genitori una seconda volta, un bambino si risolve raramente, sapendo che questa impresa sarebbe inutile, si dà piuttosto a osservare accuratamente l’ambiente, perde, una vota fattosi sospettoso, l’innocenza e acquista un vero fiuto per subodorare dove ci sia qualcosa che egli non dovrebbe vedere o sentire. Il piacere di indagare ciò che è nascosto diviene sempre più grande e induce molti adolescenti a volgersi alle letture. Che sappiano cercare e trovare nei libri ciò che stimola più che pacificare la loro curiosità, è spesso l’assai dubbio merito del personale di servizio. In questi i bambini hanno solitamente molta fiducia, inoltre li ferisce meno l’essere eventualmente respinti da coloro che socialmente si trovano più in basso e così si avvicinano con domande confidenziali, trovando non raramente anche soddisfacente condiscendenza.
In quale condizione, però, già si trova il bambino, quando ottiene qui, in un bisbiglio, le informazioni desiderate, con il suggello della più rigorosa riservatezza, in quale modo viene reso edotto dei processi della natura e, infine, cosa viene a sapere il bambino? Le difficoltà di giungere alla verità hanno occupato in gran misura la curiosità e con essa la fantasia, sì che le idee rozze e stolide, spesso intrise di lascivia, che la giovane creatura ottiene sono in grado di eccitare in gran misura corpo e anima della stessa, ma in questo modo un bambino viene davvero smaliziato raramente. Le comunicazioni veritiere si limitano a un minimo, mentre attraverso considerazioni cariche di significato, con la postilla “Ma tu questo non lo puoi ancora sapere”, viene portata nuova linfa alla fantasia e incrementata l’eccitazione generale.
Vediamo tali bambini spesso molto distratti e inclini al fantasticare, il loro interesse principale rivolto ai rapporti sessuali, costantemente impegnati ad apprendere qualcosa sulla grande questione misteriosa. Questi sono i primi stadi dell’effetto nocivo provocato in parte dalla carenza, in parte dalla sovrabbondanza di istruzione.
Con gli anni, con la maturazione di corpo e spirito, con le esperienze con il proprio corpo, si modifica anche la concezione che l’essere umano immaturo aveva avuto fino a quel momento della vita sessuale. E qui mi sembra trovarsi la spiegazione [668] del perché le giovani fanciulle talvolta hanno un dichiarato disgusto davanti per tutto ciò che è sensualità e sognano un amore puramente spirituale. Sono state rese edotte da bimbe molto piccole della lascivia, che solo più tardi è potuta emergere così tanto alla coscienza perché divenuta comprensibile ai sensi della fanciulla in crescita. In tal modo, però, si stabilisce il nesso tra rapporto sessuale, piacere sessuale e rozza sensualità e tutte le percezioni relative alla vita sessuale vengono giudicate da questo punto di vista malsano e distorto.
Un fatto, la cui menzione mi sembra c’entrare assolutamente qui, poiché mostra chiaramente le brutte conseguenze del non sapere, è il seguente: innumerevoli giovani fanciulle soffrono occasionalmente in modo indicibile della paura di essere rimaste incinte. Sono proprio quelle completamente ignare, le “pure”. Sull’unione sessuale non hanno potuto apprendere nulla più di ciò che loro stesse hanno potuto cogliere. Vedono e sanno: le coppie hanno bambini, le coppie stanno molto insieme e da ciò viene di necessità tratta la conclusione che il frequente contatto con un uomo è in grado di generare nel corpo della donna un bambino. È un’idea cui curiosamente sono accessibili anche fanciulle molto intelligenti. Né qui si tratta di un’“assurdità” che si riesca a liquidare con un sorriso, infatti chi ha potuto stare a guardare senza stupore come la stessa giovane fanciulla che nella sala da ballo irradia voglia di vivere, poche ore più tardi venga assalita da angoscia mortale perché le sovviene di aver ballato molto con u n uomo, essendo così venuta spesso in contatto con lui e ora si crede esposta all’onta di avere un bambino[?]. Che in società sia considerato un’onta se una fanciulla diviene madre, lo sentono e leggono tutte loro molto spesso, anche senza avere idea del perché ciò debba essere una vergogna.
Chi una volta è stato così fortunato da [poter] penetrare un segreto così rigidamente custodito e da salvare con una semplice spiegazione, in un sol colpo, una giovane creatura da tutta la struggente pena, deve certo con impellenza esigere una via d’uscita per eliminare dalla faccia della terra una tale sofferenza, severa e davvero inutile.
Vorrei aggiungere che con nervi p e r f e t t a m e n t e sani, con una visione della vita per il resto sana, la sopra descritta angoscia, come anche il terrore del rapporto sessuale, non può assumere tali dimensioni, ma quanto rare sono queste nature sane nel nostro tempo nervoso e quale madre può valutare in modo attendibile il proprio bambino sotto questo aspetto, sì da avere la garanzia che non si realizzino sotto i suoi occhi i tormenti interiori discussi?
Ma anche se noi ipotizziamo che solo una piccola percentuale di fanciulle soffra per queste assurde idee, dobbiamo però chieder[ci] comunque cosa ne sia, nei fanciulli e nelle fanciulle, della sensualità precocemente risvegliata dalle spiegazioni menzionate all’inizio[:] viene, con la maturazione, ridotta alla sua misura normale o, se no, in che modo si fa valere?
Nella fanciulla sana, questa regolazione si compie a poco a poco, secondo il suo proprio sentire, che insegna al meglio la fusione di amore psichico e fisico. Diverso è però per i ragazzi adolescenti. In loro il bisogno sessuale, che secondo natura insorge più intensamente attraverso un precoce risveglio dall’esterno, si fa valere in un periodo in cui l’inibizione [da parte] dell’intelletto non è ancora abbastanza forte per dominare l’istinto [3] sovreccitante. Si aggiunga che nella nostra società l’incitamento al piacere sessuale per i giovani uomini è incomparabilmente maggiore che per le fanciulle, le opinioni dominanti consentendo all’uomo non sposato la soddisfazione puramente sessuale, [669] ovunque la trovi. Perciò per il ragazzo mi sembra assolutamente necessaria, ancor più che per la fanciulla, una precoce spiegazione, per evitare l’eccitazione dei sensi, per contenere l’influsso nocivo.
Rare madri, all’interpellanza: [“]Da dove vengono i bambini?[”] si trovano pronte a rispondere che il bambino cresce nel grembo materno e credono con ciò di essere giunte fino al limite del possibile. Può però lo stesso essere, cui è stato insegnato che l’albero non cresce là o qua perché così abbiamo desiderato, ma che per questo è stato prima necessario mettere il seme nella terra che lo nutre, può lo stesso bambino, una volta che si sia occupato della questione, accontentarsi a lungo di questa spiegazione? Anche questa riposta non è di solito sufficiente e necessita molto presto di un completamento. Se si è giunti alla convinzione che qui per un bambino la spiegazione è necessaria, allora la si deve dare non appena il bambino la pretende e ci si dovrebbe anche sentire in obbligo di dire t u t t o [4]. Con serietà e oggettivamente, a questo riguardo si può dire tutto a un bambino, nella misura in cui lo sviluppo psichico del bambino [lo] spinge a domandare.
Un bambino conosce poco o niente affatto la vergogna, non conosce alcun tipo di sensazioni sessuali, dunque non può anche soltanto intuire che, per il rapporto sessuale, ci sia forza istintuale [5] altra dal desiderio di avere un bambino. Che chi è sposato desideri bambini, corrisponde solo all’idea infantile e così il bambino apprenderà con lo stesso ammirato stupore di cui è colmo di fronte a molti altri miracoli della natura anche che il padre deve porre il seme nel nutriente grembo materno per poter sperare in un bambino. Se aggiungo ancora questa spiegazione, [ossia] che, come il frutto del melo diviene simile alla mela da cui l’uomo ha prelevato il seme per piantare l’albero, solitamente anche il bambino diviene simile ai genitori; che proprio per questo si accoppiano solo le persone che si vogliono bene, così tanto bene che ognuno di loro desidera che il bambino possa diventare simile all’altro, [allora] ho mostrato al bambino verità e bellezza e l’ho dotato di un parapetto di purezza per la vita.
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NOTA
"DA DOVE VENGONO I BAMBINI?", "COME NASCONO I BAMBINI". "Un’importante questione educativa" di Emma Eckstein (1900):
«Emma Eckstein (1865-1924) [...] fu attiva per un breve periodo come psicoanalista a Vienna [...] Il breve lavoro "Un’importante questione educativa" non è fortunatamente più attuale: oggi l’educazione sessuale dei bambini può dirsi largamente diffusa e accettata nella nostra cultura e società [...]» (M. Lualdi, "Qualche considerazione", op. cit.).
Dall’alto della mia ignoranza trovo che, alla luce del #quadro del presente storico-sociale (e istituzionale) e del suo "sviluppo ineguale" a tutti i livelli, l’opinione di Michele Lualdi sul lavoro pioneristico di Emma #Eckstein (anche rispetto a quello dello stesso #Freud, come egli precisa), sia non del tutto "attuale" e, al contrario, credo che esso sia degno di grande attenzione ancora #oggi.
Sul tema dell’#educazione sessuale (per non "parlare" dei ritardi "biblici" e "tragici"), al contrario, è opportuno tenere presente storiograficamente che lo stesso #SigmundFreud, per tutta la vita, si è portato dietro la "memoria" del "caso [non del tutto risolto] dell’ uomo dei topi" e, al contempo, della non-attenzione e non-comprensione della "trappola per topi" dell’Amleto del suo amato Shakespeare ("Hamlet", III. 2. 247).
Federico La Sala
PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA: I GIGANTI SULLE SPALLE DEI BAMBINI E "LA SOCIETA’ SANA" ("THE SANE SOCIETY", 1955).
UNA NOTA SUL "TEMPO FUORI DAI CARDINI" E L’ANSIA DELLA "DE-GENERAZIONE" DELLO STORICO PRESENTE
SOCIOLOGIA, PEDAGOGIA, E PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE. SE DA MOLTI DECENNI I #PIFFERAI GIGANTI dei "mass-media" e dei "social media" (veri e propri "cavalieri dell’apocalisse"), a cui "abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi" (come denunciava McLuhan), si sono ormai seduti sulle spalle dei "#bambini" e degli stessi "#genitori", non è forse il caso di uscire, con Dante Alighieri, dal #letargo e dall’#inferno, e cercare di ripensare e chiarirsi le idee, con "Amleto" (III.2), sulla "trappola per topi" ("The Mousetrap"), e portare sulla scena il "giogo" del "pifferaio" dello "#stato di Danimarca" planetario"? Se non ora, quando?!
STORIA (TEATRO), METASTORIA (METATEATRO), LETTERATURA, E STORIOGRAFIA:
"AMLETO IN PURGATORIO" E "NEOSTORICISMO" ("NEW HISTORICISM")?
"SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784; MICHEL FOUCAULT, 1984). Con i "maestri del sospetto" (P. #Ricoeur), #Marx e #Freud e #Nietzsche, e #WalterBenjamin, forse, è bene riprendere la lettura dell’opera di Shakespeare e cercare di uscire dal più che millenario "letargo" (Dante Alighieri).
CULTURA E SOCIETÀ: "NEW HISTORICISM". "WWGD?" ("Cosa farebbe Greenblatt?"). "Cum grano salis": le indicazioni di Kermode, come i lavori di Greenblatt, sono importanti sollecitazioni, ma dicono solo dell’immane "ritardo" storiografico (a tutti i livelli) relativo alle conoscenze della nostra stessa storica realtà (composta di storie di storie di storie...). Già solo i titoli: "Amleto in Purgatorio" ("𝘏𝘢𝘮𝘭𝘦𝘵 𝘪𝘯 𝘗𝘶𝘳𝘨𝘢𝘵𝘰𝘳𝘺") e "Arte tra le rovine" ("Art Among the Ruins"), cosa cercano di far capire?
"THE TIME IS OUT OF JOINT"("Hamlet", I.5). SHAKESPEARE, cosa fa con "Amleto"? A partire dal proprio "presente storico" (dallo "stato di Danimarca"), con ben altra radicalità, non riprende dall’immaginario ereditato il filo del "#principio" (antropologico e teologico-politico), non lo riporta in #luce con la sua "trappola di topi" ("The #Mousetrap"), e non sollecita a portarsi oltre il proprio tempo, un "tempo fuori dai cardini"?! A quale "storicismo" si vuole continuare a "#giocare", oggi?
L’HAMLETICA QUESTIONE DELLA INTELLIGENZA, L’ALBA DELLA TERRA ("EARTHRISE"), L’#ALBERO DEL "CERVELLO" (IL NOCE), E LA "NEXOLOGIA" CHIASMATICA DELLE "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (S. FREUD, 1937). *
UNA "NOCE-PESCA", "IL "PESCA-NOCE" E UNA EPISTEMOLOGIA "GENESI-CA": LA MENTE ACCOGLIENTE. Una traccia per una #svolta_antropologica...
ANTROPOLOGIA E #PSICOANALISI. Sulla relazione mente-cervello, sull’#enigma dello #gnommero, dell’ ingarbugliatissimo gomitolo (nascosto all’interno della #testa dell’essere umano, della "noce" - a "drupa aperta"), forse, non è male tenere presente (ancora e) anche il contributo di uno dei suoi grandi "#pescatori", a partire dalle sue ricerche sull’#anguille (non sui "punti di #capitone" di #Lacan: il papà di #SigmundFreud era un #mercante di #lana, ma il figlio non faceva #materassi, per tutta la vita ha cercato la via delle "anguille" per il #mare dei #Sargassi, ed è riuscito a giungere a #Maresfield).
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ANTROPOLOGIA, MITO, STORIA, E LETTERATURA:
"IL FEMMINILE E L’UOMO GRECO" (NICOLE LORAUX). Un omaggio e una nota a margine del lavoro di Nicole Loraux (1943-2003).
"SAPERE AUDE!" (KANT, 1724-2024). MUOVENDO dal lavoro della brillantissima Nicole Loraux ("Il femminile e l’uomo greco", Laterza 1991, e, Mimesis Edizioni 2024) e, in particolare, dalla sua indicazione, legata alla figura di Tiresia, che «l’uomo non è mai tanto uomo come quando ha qualcosa della donna dentro di sé», forse, è possibile orientarsi meglio sia sui temi fondamentali della sua ricerca storico-antropologica sia del problema del "chi siamo noi, in realtà" (Nietzsche).
COME IN CIELO ("URANO") COSI’ IN TERRA ("GAIA"): MITO E TRAGEDIA (EDIPO). Riconsiderando, il legame tragico (edipico) codificato giuridicamente e teologicamente già nel (prei)storico "compromesso celeste", a partire dal salvataggio e dalla messa in sicurezza da parte della #Madre-#Regina - #Rea, di "#Zeus", del #Figlio, dalle fauci dello Sposo, il Padre-Re #Crono e, poi, nel "compromesso olimpico", dal "matrimonio" tra il "Padre -Re" (Zeus) e la "Madre -Regina" (#Era), rileggere #Amleto (Shakespeare) e riprendere a tutti i livelli la sollecitazione di #Freud (con le "parole" di Era, relative all’Acheronta movebo, citate all’inizio della "Interpretazione dei sogni", bene in mente) di pensare "l’edipo completo", rianalizzare il suo lavoro relativo a "L’uomo dei topi" (e fare attenzione alle sue riflessioni sul "#matriarcato" e sul "#patriarcato") e capire cosa significa la "trappola per topi" ("The Mousetrap") di Amleto ed Ofelia per il "Padre-Re" e la "Madre-Regina" (Shakespeare). Forse, solo così, è possibile ricominciare a pensare sul #comenasconoibambini e a un’altra "Storia universale della natura e teoria del cielo" (Immanuel Kant, 1755).
NOTE:
LETTERATURA, PSICOANALISI, E ANTROPOLOGIA:
CON CARDUCCI E WINNICOTT, UNA RIFLESSIONE SUL "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (FREUD). SULL’ALBERO ("THE TREE") DELLA VITA, E SULL’ENIGMA DEL "TRE" ("THE THREE").
L’AMORE, IL "MELOGRANO", E LA MORTE DEL "FIOR DELLA MIA PIANTA":
A). G. CARDUCCI,
L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior della mia pianta
percossa e inaridita,
tu dell’inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.
* "Pianto antico è una poesia di Giosuè Carducci dedicata al figlio Dante. Il testo autografo reca la data giugno 1871. È il quarantaduesimo componimento della raccolta Rime nuove (1887) [...] Dante era stato il primo maschio, dopo Beatrice e Laura, nato dopo il matrimonio di Carducci con Elvira Menicucci. L’ultima figlia, Libertà, nascerà nel 1872 [...]"("Pianto antico").
B). D. W. WINNICOTT,
"L’ALBERO *
Sotto, mamma sta piangendo, piangendo, piangendo.
In questo modo la conoscevo.
Una volta, steso sul suo grembo
Come ora su un albero morto
Imparai a farla sorridere
A fermare le sue lacrime
Ad annullare la sua colpa
A guarire la morte che aveva dentro.
Il rallegrarla era la mia ragione di vita.
* "Ripensando al recente convegno “ Chi cura chi” che la SPI ha organizzato a Genova nel Novembre 2021 sul tema del rovesciamento di ruolo tra bambino e genitore mi è tornata in mente una poesia scritta da Winnicott a 27 anni ed intitolata “L’albero”. In essa Winnicott parla della propria madre piangente e del fatto che allietare questa madre era diventato fin dall’infanzia lo scopo della sua vita. [...]" (cfr. LUCIA FATTORI, "L’ALBERO D.W. WINNICOTT. Ripensando a “Chi cura chi", SPI-Web, 31/01/2022)
L’ALBERO DELLA VITA (IL "MELOGRANO") E LA TRINITÀ "EDIPICA" (E "MAMMONICA") DELLA "PESTE" TEBANA:
ALLA RADICE DEL PROBLEMA DELL’ ALBERO ("THE TREE"), A MIO PARERE, C’E’ UN NODO ANTROPOLOGICO NON SCIOLTO CHE RIMANDA (NELL’ORIZZONTE DELL’ IMMAGINARIO ANTROPOLOGICO DELL’INTERO PIANETA TERRA E, IN PARTICOLARE, DELLA CULTURA DELL’OCCIDENTE), ALLA "TRINITÀ RELAZIONALE DELLA VITA UMANA ("THE THREE") E AL PERMANERE NELLA "FASE" DELLA BIBLICA "CADUTA" E DELLO STADIO "OLIMPICO" (NARCISISTICO-EDIPICO) DELLA TRAGEDIA. SIGMUND FREUD L’AVEVA GIÀ INTUITO ("GIOCO DEL R0CCHETTO", 1920) E NON HA LAVORATO INVANO: GLORIA A LUI.
Cultura e società
LA QUALITÀ DELLA MISERICORDIA IN SHAKESPEARE
La qualità della misericordia nel «Mercante di Venezia»
di Peter Milward *
Poco dopo aver proclamato il 2016 «l’Anno della Misericordia», Papa Francesco fece riferimento alle celebri parole che il più grande drammaturgo del mondo ebbe per la «qualità della misericordia». Sono le parole che Shakespeare mette in bocca a Porzia, l’eroina del Mercante di Venezia. Ella si rivolge all’usuraio ebreo Shylock nella drammatica scena del processo, durante il quale egli cerca di perpetrare legalmente la sua vendetta contro il mercante veneziano Antonio. In cambio di un prestito che il mercante non è riuscito a restituire, l’ebreo vuole ora prelevargli, come pattuito, una libbra di carne dalla zona del cuore. Durante il processo Shylock sottolinea i propri diritti legittimi e arriva a preparare il pugnale per prendersi ciò che gli spetta. Porzia, però, giunta dalla casa di Belmonte sotto le mentite spoglie di un giovane avvocato, ammette, da una parte, le buone ragioni di Shylock e, dall’altra, gli rivolge il famoso elogio della misericordia.
In questo modo Shakespeare prepara il palco per una specie di omelia sulla misericordia. Come sarebbe a dire? Non dovrebbe, un drammaturgo, attenersi a presentare la propria commedia in un teatro, protestano i critici, invece di mettersi a predicare da un pulpito? Certamente. Ma nel caso in cui egli voglia inserire un’omelia all’interno del dramma, chi mai glielo potrà impedire? Comunque sia, Shakespeare ci invita non solo ad ascoltare la sua omelia, ma anche a meditarne il significato.
«La qualità della misericordia non è forzata (strained)», egli esordisce. Ma in che senso interpretare questa strana parola, «forzata»? Qual è il messaggio di Shakespeare? O di Porzia? Quello che l’espressione significa è che nessuno può essere costretto a essere misericordioso: la misericordia deve sgorgare direttamente dal cuore. Deve cadere «come pioggia gentile dal cielo / sulla terra». Eccoci immediatamente proiettati nel mondo della Bibbia: al libro sapienziale del Siracide, che si riferisce proprio alla misericordia (Sir 35,25); al cantico di Mosè nel Deuteronomio, in cui si fa riferimento alla Sapienza (Dt 32,2; cfr anche Is 4,6); e alle parole di Gesù nel Discorso della Montagna, con rinvio all’amore di Dio (Mt 5,45).
Porzia continua così: «È due volte benedetta, / benedice chi la dona e chi la riceve». Sarebbe certo una benedizione per il povero Antonio, se gli fosse rimesso il debito, ma lo sarebbe anche per Shylock per averglielo rimesso. È come dice Gesù, in parole non riportate nei Vangeli, ma citate da san Paolo negli Atti degli Apostoli, dove si dà maggiore importanza al dono: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35).
«È più potente nei più potenti», Porzia aggiunge, apparentemente riferendosi ai governanti, che appaiono potenti secondo la prospettiva del mondo, per quanto il loro vero potere si manifesti invece in questa «qualità della misericordia». In una straordinaria ricchezza di immagini, ella prosegue così: «Si addice / al re seduto sul trono meglio della corona. / Il suo scettro mostra la forza del potere temporale, / attributo di soggezione e di maestà / in cui dimorano il timore e il terrore per il re».
Abbiamo un re seduto sul trono e con la corona in capo e lo scettro in mano, segno del suo potere di punire la disobbedienza. Ma tutto ciò non è che la superficie dell’apparenza esterna. Come ha detto poco prima il fidanzato di Porzia, Bassanio, prima, cioè, di scegliere (giustamente) lo scrigno di piombo: «Così possano le apparenze esterne essere sempre meno se stesse, / il mondo è sempre ingannato dagli ornamenti». Proprio come si legge nei Salmi: «La sua misericordia è al di sopra di tutte le sue opere».
E così, continua Porzia: «Il potere terreno si mostra più vicino a quello di Dio / quando la misericordia tempera la giustizia». Certamente, infatti, come si legge un po’ ovunque nella Bibbia, e soprattutto nell’Antico Testamento, Dio è giusto; il Nuovo Testamento, però, sottolinea in particolare che Dio è misericordioso come un Padre amorevole.
Proseguendo l’omelia rivolta soprattutto a Shylock, Porzia aggiunge: «Dunque, ebreo, / nonostante tu faccia appello alla giustizia, considera questo: / che nel corso della giustizia / nessuno di noi dovrebbe vedere la salvezza». È questo l’insegnamento presente non solo nel Nuovo Testamento - che Shylock potrebbe effettivamente rifiutare, sebbene egli lo conosca bene quanto l’Antico -, ma anche in diversi Salmi. Ma quello di Shylock è un appello a un tipo diverso di giustizia, non tanto personale quanto legale.
In ogni caso Porzia procede facendo riferimento al Padre Nostro, la preghiera che il Signore propone, nel Discorso della Montagna, sia ai cristiani sia agli ebrei: «Preghiamo per ottenere misericordia, / e quella stessa preghiera insegna a tutti noi a rendere / le azioni di misericordia». Qui, nelle parole di Gesù, ella finisce la sua arringa, portando l’omelia alla conclusione più appropriata.
L’appello alla misericordia in «Misura per misura»
Tutti, o quasi, conoscono il Mercante di Venezia, e tutti hanno presente il personaggio di Shylock, noto come ebreo più che come usuraio. Alcuni addirittura lo identificano con il «mercante» del titolo per via della sua maggior vivacità rispetto alla sua vittima, Antonio. In quanto ebreo, specialmente nella nostra epoca del post-Olocausto, molti lo ritengono una povera vittima e si indignano quando Antonio lo critica. Ma nella scena del processo egli appare come un malvagio, assetato del sangue di Antonio, il quale è ridotto al ruolo di vittima. Ma ecco presentarsi ai giudici Porzia, travestita da avvocato, che implora Shylock di mostrare la «qualità della misericordia» verso il povero Antonio; e il pubblico resta giustamente colpito dal suo appello.
Il famoso discorso, tuttavia, non è tutto ciò che Shakespeare ha da dire sull’ideale della misericordia. Egli ci sottopone dunque un’altra eroina, forse meno conosciuta: si tratta della novizia Isabella, in Misura per misura, posteriore al Mercante di qualche anno. Ella implora misericordia per il fratello Claudio, colpevole - secondo la legge draconiana di Vienna contro i reati di natura sessuale - di fornicazione con la fidanzata Giulietta. L’appello della ragazza è rivolto ad Angelo, un giudice «preciso», il quale è forse meno legalista (in senso veterotestamentario) di quanto non fosse Shylock, ma con lui condivide una certa inclinazione puritana. È vero infatti che nell’Inghilterra elisabettiana i puritani erano chiamati sia «ebrei cristiani» (come Shylock) sia «precisi» (come Angelo).
In ogni modo, che cosa dice Isabella, dopo essere stata convinta da Lucio, amico di Claudio, a uscire dal convento? In risposta all’affermazione di Angelo: «Vostro fratello è caduto nelle mani della legge», che equivale a dire che deve morire, Isabella dice: «Ebbene, tutte le anime esistenti erano cadute, un tempo, / e colui che avrebbe potuto approfittarne / trovò il rimedio». In altre parole, come Porzia, ella sposta lo sguardo dall’Antico al Nuovo Testamento. Sotto l’Antica Alleanza, per i motivi più svariati, la maggioranza degli esseri umani era destinata a morire; nella Nuova Alleanza, grazie alla Parola di Dio fattasi carne, la grazia della salvezza è stata estesa a tutti da Gesù Cristo. Così il rimedio è la redenzione, secondo un gioco di parole che troviamo in non pochi Salmi.
Poi, sempre come Porzia, Isabella incalza Angelo con una domanda: «Come sarebbe / se Colui che è padrone del giudizio / vi giudicasse per come siete?». E così, senza attendere risposta, conclude citando apertamente la misericordia: «O, pensateci, / e la misericordia spirerà allora dentro le vostre labbra / come uomo fatto nuovo». Dopotutto, nelle opere di misericordia esiste un potere nascosto di trasformare l’uomo vecchio in uomo nuovo o, in termini paolini, di passare dal vecchio Adamo (come in 1 Cor 15) al nuovo Adamo.
Dopo qualche momento, Isabella riprende il discorso, mettendo in contrapposizione l’ideale di Dio e la realtà umana di quel giudice tanto sicuro di sé. Dopo essersi appellata al «Cielo misericordioso», ella lo implora così: «Tu che preferisci, con il tuo fulmine acuto e solforoso, / fendere l’infendibile nodosa quercia / piuttosto che il debole mirto. Ma l’uomo, l’uomo superbo, / rivestito di breve autorità, / del tutto ignorante proprio in ciò di cui si sente più sicuro, / la sua vitrea essenza, come uno scimmione arrabbiato / gioca trucchi tanto assurdi all’alto cielo, / tali da far piangere gli angeli che per i nostri capricci / riderebbero fino a farsi mortali».
Potremmo stupirci della sua fervida immaginazione, se non sapessimo che dietro di lei si cela, ovviamente, l’immaginazione di Shakespeare. Isabella non si appella semplicemente alla «qualità della misericordia», ma critica aspramente l’uomo che, per la sua eccessiva insistenza sulla giustizia legale, non riesce a riconoscere il valore di tale qualità.
Ma a questo punto è necessario considerare - e il drammaturgo lo sottolinea - il fatto che esistono due tipi di giustizia. Il primo è quella giustizia legale, tribunalesca, su cui Shylock e Angelo insistono, rispettivamente, contro Porzia e Isabella. Il secondo è una giustizia più personale e umana, che Porzia ritrova tra le leggi di Venezia e a cui si appella anche la stessa Isabella, persino quando scopre che, diversamente da quanto aveva promesso, Angelo ha mandato a morte suo fratello Claudio. Poi si rivolge al duca Vincenzo con un’implorazione ripetuta con insistenza: «Giustizia, giustizia, giustizia!».
Questo nuovo appello, da parte di Isabella, per salvare Angelo è ancora più rilevante, in quanto giunge dopo che ella ha implorato misericordia per il fratello. Esso mostra la compatibilità di due valori apparentemente incompatibili, misericordia e giustizia. Ma l’efficacia dell’appello è dovuta alla colpa segreta di Angelo. Una volta che essa è stata esposta al duca e a tutti gli altri, Isabella passa dall’implorare giustizia all’implorare misericordia persino per Angelo, il che, praticamente, rivela in Isabella un’incarnazione della Divina Misericordia.
L’appello parallelo alla giustizia nel «Re Lear»
Abbiamo ora la terza fase della nostra esposizione dell’omelia shakespeariana. Essa ha il suo culmine nel Re Lear, un dramma al tempo stesso commedia, con un finale estremamente lieto nell’atto quarto, e tragedia, con una conclusione tremendamente triste nell’atto quinto. Qui, nella scena «da perforare il fianco», che vede l’incontro dei due anziani protagonisti - Lear, che è impazzito, e Gloucester, che è stato accecato (l’uno per colpa delle figlie ingrate, e l’altro perché ha mal riposto la sua fiducia nel proprio figlio illegittimo, Edmund) -, troviamo che Lear dichiara apertamente la sua intenzione di predicare, e dice a Gloucester: «Attento, ora predicherò per te!». Ed ecco che dice: «Quando nasciamo, piangiamo per esser giunti / su questo gran palco di folli».
Ma non è tutto: il vecchio re si mette anche a fustigare - in parole che, stranamente, ricordano quelle che Isabella ha rivolto ad Angelo - «la grande immagine dell’autorità». È seguendo questa immagine, egli declama, che «attraverso abiti stracciati si vedono vizi piccoli, / vesti e pellicce nascondono ogni cosa. Rivesti il peccato d’oro, / e la forte lancia della giustizia vi si infrange impotente. / Vestilo di stracci, la pagliuzza di un pigmeo è sufficiente a bucarlo». In altre parole, proprio come Isabella, Lear sta reclamando giustizia; come, del resto, ha già fatto durante la tempesta che ha affrontato nella brughiera solitaria.
La conclusione a cui giunge è che «nessuno offende, nessuno. Ho detto nessuno», quasi anticipando un altro re di Britannia shakespeariano, Cymbeline, il quale dirà: «Perdono è la parola per tutto». Che cosa vuol dire Lear quando afferma che nessuno commette delitti? Neppure le sue due figlie ingrate? E allora che ne è stato di quelle «vesti e pellicce» di cui ha parlato poco sopra? E che ne è delle parole di san Paolo, il quale, citando due Salmi, dice: «Non c’è nessun giusto, nemmeno uno» (Rm 3,10)? Inutile dire che ciò che intende Lear, nella sua «metodica» follia, è che chi appare colpevole ed è condannato da un giudice è in realtà relativamente innocente, mentre è chi giudica che dovrebbe subire una condanna.
In altre parole, considerando il mondo del suo tempo, elisabettiano e giacobita, il drammaturgo vede che è un mondo alla rovescia, sottosopra, al contrario. È quanto ha appena affermato Lear: «Magia magia, qual è il giudice, qual è il ladro?». Simili affermazioni potevano venire, da parte di Shakespeare, soltanto se messe in bocca a un folle. Allora, persino coloro contro i quali egli aveva scritto questi versi, e che magari stavano lì a teatro seduti in un posto di onore, avrebbero annuito saggiamente all’udire quel «folle autorizzato a dire qualsiasi cosa».
Epilogo dell’epilogo
Infine, dopo aver considerato la triplice omelia shakespeariana sulla «qualità della misericordia» in tre drammi - Il mercante di Venezia, Misura per Misura e Re Lear - giungiamo ora all’epilogo, che il drammaturgo mette in bocca al protagonista de La Tempesta, Prospero. Egli sembra confessare, per bocca del suo personaggio: «E la mia fine è disperazione, / a meno che non sia consolato dalla preghiera, / che ha un potere tanto perforante da prendere d’assalto / la misericordia stessa, e da liberare tutte le colpe».
Pensiamo all’umiltà di questo grande drammaturgo, il più grande di tutti i tempi, ora, alla fine della carriera teatrale, nel confessare di sentirsi vicino alla disperazione. Cosa che, peraltro, aveva già ammesso nel sonetto 29: «In disgrazia presso la fortuna e gli occhi degli uomini / io, tutto solo, lamento la mia condizione di emarginato». Fu forse una sensazione simile - potremmo chiederci - a indurlo a lasciare inedita più della metà delle proprie opere? Fino a che due colleghi attori, John Heminge e Henry Condell, circa sette anni dopo la sua morte, non misero insieme il First Folio.
Ciò di cui egli ha bisogno, in questa situazione, non è un agente che si dia da fare e gli sbrighi gli affari in modo efficace, ma, semplicemente, la preghiera: sia da parte sua, sia da parte del pubblico, a cui chiede di pregare per lui. A questo punto, come Porzia, egli si volge alla Bibbia, o meglio, al Siracide (libro giudicato apocrifo dalla maggior parte dei protestanti). Lì, proprio dove Shakespeare aveva letto (con Porzia): «Splendida è la misericordia nel momento della tribolazione, / come le nubi apportatrici di pioggia nel tempo della siccità» (Sir 35,26), ora legge (con Prospero): «La preghiera del povero attraversa le nubi, / né si quieta finché non sia arrivata; / non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto / e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità» (Sir 35,21-22a). E allora, nonostante gli encomi che Shakespeare continua a ricevere dal mondo come «Uomo del Millennio», potremmo anche dare ascolto alla sua richiesta e pregare - come fa Orazio con Amleto - per il suo eterno riposo.
* Fonte: "La Civiltà Cattolica", 23 Luglio 2016
NOTA: LA DIAGNOSI SOMIGLIA ALLA GRAZIA.
Una formidabile sintesi sul problema e un brillante segnavia per procedere bene e oltre. Ripartire proprio da quanto "Porzia risponde:
PARZIALMENTE. "La diagnosi somiglia alla grazia": questa è la #questione (#Shakespeare, "#Amleto"). Da secoli Il nodo dei "nodi" (compreso il nodo dei "Borromeo") è proprio questo: PORZIALMENTE.
Federico La Sala
* PORZIA /PORTIA, (IV.I. 182 e ss.):
TEATRO METATEATRO E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD, 1937):
"IL VANGELO DI AMLETO".
AMLETO ("HAMLET") E LA DEMISTIFICAZIONE E LA DEMITIZZAZIONE DEL "#PRESEPE" DELLO "#STATO DI #DANIMARCA". Guardando con gli occhi di #Shakespeare, e di #Elisabetta d’#Inghilterra (dopo il 1588), lo "splendore" delle figure di #TommasoMoro e di #Erasmo da Rotterdam ormai è alquanto oscurato, data la loro "#amicizia" con la visione teologico-politica platonica ("cosmo-te-andrica" e "#golem-antica") della Chiesa cattolico e del Papato dell’epoca, CHIARISSIMO Paul Adrian Fried, a mio parere, il filo del suo lavoro di ricerca, nel rendere sempre più esplicita l’#analogia tra #Amleto e #Gesù, sollecita a guardare a #Ofelia... come a Maria Maddalena, la #donna della tradizione evangelica, legata strettamente alla #vita stessa di Gesù (uno scrittore nato nel mio paese di origine, nel 1564, di nome Paolo Silvio, scrive nel 1599, in coincidenza con un miracolo avvenuto a #Fabriano, un’opera di grandissimo successo dal titola "La Maddalena penitente"). RICORDANDO IL #MATRIMONIO DEL "PAPA DI WITTENBERG", #LUTERO CON #KATHARINAVONBORA, E, DEL RE-PAPA D’INGHILTERRA E DELLA SUA "CHIESA", #ENRICOVIII E ANNA BOLENA, C’E’ DA PENSARE CHE CIO’ A CUI GUARDA SHAKESPEARE E’ LA #CRITICA (#KANT, 1724-2024) "COSTRUZIONE" DI UNA #IDEA TEOLOGICO-POLITICA DI "#CORPOMISTICO" AL DI LA’ DELLA TRAGEDIA (#DANTEALIGHIERI), ANTROPOLOGICAMENTE (E NON EDIPICAMENTE) FONDATA, E, PER UNA ALTRA "DANIMARCA", RESTITUIRE LA SOVRANITA’ A "FORTEBRACCIO"!
COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (FREUD), "DIVINA COMMEDIA" (DANTE ALIGHIERI), E "VIOLENZA" DELLA "INTERPRETAZIONE".
SULLA "LA FINZIONE DELLA MADRE". Una #questione di #differenza logica e ontologica: c’è "Madre" e #Madre, "Padre" e #Padre, e "Dio" e #Dio.
"LA FINZIONE DELLA MADRE. [...] se la madre, ad esempio, come è giusto che faccia, non coglie più il carattere comunicativo di segno del pianto del suo bambino, ma lo interpreta in qualche modo ("piange perché gli fa male il pancino"), ne snatura il carattere di segno per farne un significante, ritrovandosi di conseguenza a costruire, in tal modo, una #verità con la struttura della #finzione, vale a dire una verità stabilita solo dalla sua parola. [...] Una verità che conserva tuttavia una struttura logica di credibilità, in effetti un #sofisma. [...]"." (cit.).
CRITICA DELLA METAFISICA DELLA TRAGEDIA: "IN #PRINCIPIO ERA IL #LOGOS" (NON UN #LOGO). Forse, per capirsi, su un tema tanto importante, e non restare impigliati in ciò che appare "in effetti un sofisma" del sofisma di #Edipo, vale a dire del figlio della "giocastolaia (la madre del "giocastolaio"), è opportuno rimeditare la lezione antropologica e teologica di #Dante (nient’affatto platonica, paolina, costantiniana, e lacaniana):
NOTA:
CON AMLETO (ED EDIPO), A SCUOLA DA MACHIAVELLI: TEATRO (FILOSOFIA) E METATEATRO (METAFILOSOFIA).
QUANDO IL "TOPO" DIVENTA UN "#GATTO" (UNA "GATTA") E SVELA IL "GOLPE" (DEL "LIONE"). Una traccia per una ri-lettura dell’opera di Shakespeare ...
SHAKESPEARE E COLLODI. Se è vero, come è stato detto da qualcuno, che "L’ Amleto è antiamletico come Pinocchio è antipinocchiesco; totalmente e quindi ambiguamente", c’è da chiarire e precisare che Amleto non diventa un "ragazzino per bene" (un "Pinocchio"), ma vince la sua battaglia (personale e politica), resta fedele a se stesso, alla Legge, e al ricordo del Padre-Re, e restituisce onorevolmente a "Fortebraccio" la #corona della "Danimarca".
UNA QUESTIONE DI #STATO: "IL PRINCIPE". Se la "sconfitta" di Pinocchio passa per la morte e l’impiccagione (cap. XV) prima e poi per la falsa "rinascita" finale (Geppetto: "quando i ragazzi cattivi diventano buoni", cap. XXXVI), al contrario, la "storia" di Amleto passa per il ribaltamento della posizione e la vittoria: "Stasera si recita in presenza del re:/ una scena del dramma s’avvicina ai fatti/che t’ho detto sulla morte di mio padre. /Ti prego, quando vedi cominciare quell’episodio /con tutto l’acume della tua anima osserva mio zio." (III. 2.85-90).
LA VOLPE E IL LEONE. "Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi." (N. Machiavelli, "Il Principe", cap. XVIII).
EDUCAZIONE CIVICA E CITTADINANZA ATTIVA E CRITICA: UN GATTO ("THE MOUSETRAP") E UN ("SERPENTE" CAMUFFATO DA) "TOPO". Amleto, ben consapevole (come chiarisce a Orazio) del fatto che, «se la sua [del Re Claudio] colpa occulta non si stana a un certo discorso, è uno spettro dannato quello che noi abbiam visto» (III.2. 90-92), per chiarire a sé stesso e a tutti e a tutte i dubbi, da "cacciato" si fa "#cacciatore" e aziona la "trappola per topi" ("The Mousetrap"), per mostrare come chiarire gli "amletici" dubbi: "Questo dramma è la rappresentazione di un assassinio compiuto a Vienna. Gonzago è il nome del Duca, quello di sua moglie Battista. [...] l’assassino è un certo Luciano, #nipote del Re [...]. Lo avvelena nel #giardino per prendergli il #regno. Il suo nome è Gonzago. La storia è dei nostri giorni, e scritta in italiano scelto. Ora vedrete come l’assassino ottiene l’#amore della moglie di Gonzago" (III.2.247).
NOTE:
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA, PSICOANALISI, E CIVILTA’ (KANT 2024): CRITICA DELLA COSMOTEANDRIA OCCIDENTALE.
RIATTIVARE IL "CIRCUITO DELLA PAROLE". Oltre il lacanismo (e il paolinismo), l’omaggio di Sigmund Freud a Marie Bonaparte:
"La grande domanda, alla quale nemmeno io ho saputo rispondere, è questa: che cosa vuole la donna?” (Freud 1933). *
PIANETATERRA: ALLA LUCE DEL "CANTICO DEI CANTICI" (è "l’amor che move il sole e le altre stelle"), DOPO MILLENNI DI COLONIZZAZIONE DEL " LOGOS" (DIVENTATO UN "#LOGO"), e, dopo aver gettato in pasto all’algoritmo la "lingua" ("#langue" ) del "Corso di linguistica generale" di Ferdinand de #Saussure, forse, è ora di ri-attivare antropologicamente il "circuito della #parole", e, al contempo, fare chiarezza sulle #ideologie falloforiche nelle loro tragiche pretese androcentriche e platonizzanti e passare alla "commedia" (#DanteAlighieri): almeno dai lavori di #Michelangelo Buonarroti, per riflettere teologicamente sul tema, le Sibille camminano insieme ai #Profeti nella Volta della #CappellaSistina e l’ amore di ogni "Maria" e ogni "Giuseppe" cerca di illuminare non solo il cammino di ogni loro bambino e di ogni loro bambina ("Gesù"), ma anche le loro stesse comunicazioni e le loro stesse relazioni tra di loro e con tutti gli esseri umani (e non solo).
Note:
Marie Bonaparte (Saint-Cloud, 2 luglio 1882 - Gassin, 21 settembre 1962):
"Was will ein Weib? Cosa vuole una donna?" (Freud)
Oggi festeggiamo il genetliaco di una donna senza la quale la psicoanalisi avrebbe avuto ben altri destini e a cui dovremmo essere tutti molto grati: questa donna si chiamava MARIE BONAPARTE. (Centro Veneto di Psicoanalisi)
Fu principessa di Grecia e di Danimarca, scrittrice, psicoanalista, abile diplomatica, donna di cultura e di grande coraggio.
Rimasta orfana poco dopo la nascita, fu una bimba intelligente e piena di intense fantasie che trascrisse in piccoli diari che intitolò "le bestialitá". Questi quaderni, esplorati in analisi, divennero poi fonti sulla sua sessualità infantile.
In tutta una prima parte della sua vita fu una giovane che si innamorava, incurante delle "imprudenze" (parola che amava) che avrebbero potuto metterla in imbarazzo in società.
Ebbe relazioni durature con Gustave Le Bon ("Psicologia delle folle", 1895) e Aristide Brian. Erano gli anni ’20 del 900 e Marie, donna colta e vivace, si interessò allo studio della sessualità femminile. Scrisse, usando uno pseudonimo, un saggio sulla frigidità in relazione alla anatomia del clitoride. Per lei, che parlava liberamente della sua anorgasmia, era molto importante che le donne provassero l’intenso piacere che il corpo poteva dare loro. Se solo fosse nata 50 anni dopo sarebbe stata considerata una attivista della liberazione sessuale delle donne e invece fu spesso derisa e chiacchierata per questo tema e per la sua vita privata. Non per questo, Marie si fermò.
Era una donna molto impegnata nel sociale e fu mecenate lungimirante di discipline nascenti come l’antropologia, l’etnologia e la sociologia.
Nel 1923, cominciò a frequentare lo psichiatra Laforgue, e incappó in un libro di un tal Sigmund Freud. Marie ne fu molto colpita e decise che voleva conoscere meglio questa nuova scienza: la Psicoanalisi.
Chiese a Laforgue di intercedere presso Freud per poter fare una analisi personale con lui. Freud non era propenso a prendere in terapia individui di così alto lignaggio e mise subito in chiaro che la principessa sarebbe trattata come ogni altro paziente: tempi, modi e lingua (tedesco o inglese) erano quel di tutti.
A 43 anni, la pronipote di Napoleone arrivó a Vienna per iniziare la seconda parte della sua vita. Restó molto impressionata dal rigore di Freud e dalla sua gentilezza. Scrive: "Sembra che sia in simpatia con tutta l’umanità che è stato capace di comprendere."
La sua analisi si comporrá di vari segmenti nel corso di alcuni anni e la principessa si appassionó al punto che sviluppó l’interesse a diventare a sua volta analista.
Marie Bonaparte si mise a tradurre in francese le opere di Freud e nel 1926 fondò, assieme ad altri 9, la Società Psicoanalitica di Parigi. Nell’ International Psychoanalytical Association (IPA) sostenne l’analisi didattica laica, aperta ai non medici. Scrisse più di 40 contributi scientifici tra cui un importante saggio sulla sessualità femminile. Il contributo della Bonaparte alla teoria psicoanalitica risiede proprio in questo testo d’avanguardia. Freud scrivendo alla Bonaparte ammetterà: "La grande domanda, alla quale nemmeno io ho saputo rispondere, è questa: che cosa vuole la donna?” (Freud 1933)
Nel tempo, Marie divenne una cara amica della famiglia Freud e seppe usare con intelligenza la propria posizione per aiutarli senza invadenze.
Durante l’inverno del 1929 la Bonaparte salvò dal fallimento economico la casa editrice fondata da Freud e intervenne altre volte affinché i testi psicoanalitici non venissero dispersi. Aveva una visione lucida della storia e fu la prima, al convegno di Weisbaden del ’32, ad esprimere pubblicamente la preoccupazione per le posizioni naziste contro la "scienza ebraica".
Di lì a breve molti analisti fuggirono in America e Marie cercò a lungo di persuadere Freud dal lasciare Vienna.
Il 30 dicembre 1936 intercetta la corrispondenza tra Freud e Fliess che la vedova Fliess, in difficoltà economica, aveva venduto ad un libraio. La Bonaparte lo acquista prima che venga spedito negli Stati Uniti. Freud chiederà all’amica di distruggere le lettere e quella fu l’unica volta che lei gli disobbedì. È grazie a lei che, a partire dal 1956, viene poi dato alle stampe.
Dobbiamo a Marie di essersi spesa con prontezza e intelligenza per salvare la vita stessa di Freud. Per anni aveva cercato di convincerlo del rischio nazista e di lasciare Vienna per riparare a Parigi. Freud però, già molto anziano e ammalato, non voleva abbandonare la sua amatissima città.
Quando il 12 marzo 1938 l’Austria venne annessa alla Germania nazista, Marie non esitò ad agire.
Il 17 marzo arrivò a Vienna per difendere, con la sua posizione diplomatica di principessa di Grecia e Danimarca, Freud e Famiglia. Dopo che l’incarcerazione di Anna da parte della Gestapo, Freud finalmente si convinse che era necessario partire. Marie, troverà il modo di organizzare tutto e in breve tempo fece ottenere i visti alla famiglia, pagò ai nazisti un ingente riscatto perché i Freud potessero partire,
con l’aiuto di Jones trovò una casa a Londra e fece anche arrivare in Inghilterra i beni di Freud. I fatti di quel salvataggio sono noti ma spesso non si nota con quanta abilità la Bonaparte seppe organizzare questa impresa in tempi così terribili.
Il 5 giugno 1938 fu lei lei ad attenderlo alla Gare de l’Est a Parigi e a ospitarlo prima della ripartenza verso l’Inghilterra. Marie era considerata di famiglia e visitò spesso Freud sia a Vienna che a Londra. Sempre a Marie dobbiamo alcune famose foto di Freud nei suoi anni più avanzati.
Dopo la morte di Sigmund e con l’avanzare della guerra, Marie dovette fuggire dall’Europa, giungendo nel ’41 in Sudafrica dove insegnò psicoanalisi all’università.
Nel dopoguerra tornò in Francia ed ebbe un ruolo fondamentale nella storia della psicoanalisi francese. In particolare si oppose strenuamente a Lacan, di cui non condivideva le scelte tecnico-teoriche e di cui aveva una pessima opinione. La Bonaparte dava molto valore allo studio dei testi di Freud e veniva soprannominata "Freud-ha-detto".
In realtà fu sempre una personalità forte all’interno della società psicoanalitica, fu capace di avere in mente sia i destino dell’istituzione sia la progressione della teoria. Fu la prima ad accostare psicoanalisi e letteratura (col suo saggio su Edgar Allan Poe), Si interessò del rapporto tra umani e animali (il suo saggio sui cani anticipa vari studi antropo-etologici e mostra una modernissima modalità di relazione con gli animali), si occupò di temi spinosi comeilungimirante e interessata a temi come la masturbazione, l’antisemitismo e la pena di morte.
Marie Bonaparte concluse il suo transito terreno nel 1962, per leucemia, lucida e ancora curiosa della vita.
Fu una donna libera e straordinaria anche se spesso sottovalutata. Dobbiamo soprattutto esserle molto grati perché seppe essere una amica, generosa e ammirevole, di Freud e della Psicoanalisi. (Centro Veneto di Psicoanalisi).
Donne nella storia: Marie Bonaparte, la principessa psicanalista
Ultima discendente di Napoleone, poi sposa infelice del figlio di un re, è stata allieva e amica di Freud. E così devota allo studio dell’inconscio, da ospitare i pazienti nella sua casa di vacanza
di MARIA TATSOS (Corriere della Sera - IO DONNA, 14 GENNAIO 2024)
Parigi, 1928. Nella sua casa di Saint-Cloud, una gentildonna siede in giardino su una sedia a sdraio dietro a un divano, sul quale è stesa un’altra donna. Parlano, ma non sono chiacchiere qualsiasi. Sono una paziente e la sua analista, che la ascolta mentre è intenta a lavorare all’uncinetto.
La psicoanalisi era ancora una scienza giovane in quegli anni, ma questa immagine basta a farci capire che l’analista doveva essere un tipo originale. Più che per denaro, lavorava per amore della disciplina. Al punto di farsi portare i pazienti dal suo autista. E quando lasciava la casa di Parigi per trasferirsi nella sua dimora di vacanza di Saint Tropez, ospitava alcuni di loro per proseguire l’analisi.
Questa bizzarra tricoteuse è in realtà una delle figure chiave della storia della psicoanalisi. Marie Bonaparte è stata allieva prediletta di Sigmund Freud. L’ultima Bonaparte, come lei stessa si è definita in un suo scritto, è stata anche altezza reale grazie alle nozze con il principe Giorgio di Grecia e di Danimarca, e attraverso di lui imparentata con le monarchie più in vista d’Europa. Una ragazza ricca, con una volontà di ferro e il desiderio di svolgere una professione all’epoca poco opportuna per una signora del suo rango. La sua vita, ricostruita dalla sua biografa Célia Bertin in Marie Bonaparte. La principessa della psicoanalisi (edito da Odoya), è avvincente come un romanzo. Un’anima irrequieta del Novecento, con una vita costellata di momenti gioiosi da privilegiata ma anche da sprazzi di infelicità.
Il padre distante, la nonna vera matrigna
Marie nasce il 2 luglio 1882. Nelle sue vene scorre il sangue del grande condottiero corso: il bisnonno Luciano era fratello di Napoleone. Pietro Napoleone, il suo rampollo dalla vita turbolenta, aveva sposato la figlia di un operaio, Nina, che l’aveva sopportato pur di godere di un’ascesa sociale, finendo per proiettare tutte le sue ambizioni sull’unico figlio, Roland. È lei che decide le nozze di Roland con una ricca ereditiera, Marie Félix Blanc, figlia del proprietario del Casinò di Montecarlo. La giovane rimane incinta ma muore a soli 22 anni un mese dopo aver messo al mondo una bambina. La piccola orfana è l’erede universale delle ricchezze della madre.
«Alla mia vecchia nonna non interessavano i bambini» scriverà Marie, che è affidata a balie e bambinaie. Il padre è preso dai suoi studi, mentre la nonna, autentica manipolatrice, è interessata solo a esercitare il suo potere sul figlio. L’infanzia di Marie è una lotta costante per ottenere invano l’attenzione del genitore. «Sembra che per la maggior parte del tempo sia stato a disagio con la figlia», scrive Bertin. «Ineluttabilmente, gli ricordava sua moglie, da lui così poco amata». La nonna, che poteva essere un rifugio affettivo, è invece una vera matrigna: nella sua testa di popolana, per diventare un’aristocratica la nipote deve saper stare da sola. Così la condanna a un’infanzia e poi a un’adolescenza priva di contatti con coetanei e gestita da ferree istitutrici. Crescendo, Marie incolpa il suo essere donna se nessuno apprezza la sua intelligenza. Si vede brutta e come tutte le adolescenti è innamorata dell’amore.
La trappola scatta proprio fra le mura domestiche e ha la fisionomia di Antoine Leandri, 38 anni, segretario corso del padre. Insieme alla moglie Angela, la plagia e chiede 100mila franchi per non divulgare le lettere d’amore che la ragazzina gli ha scritto. La vicenda si risolve quando Marie ha ormai 21 anni con il pagamento del riscatto, la restituzione delle epistole e una delusione cocente che la giovane si porterà dietro per tutta la vita.
Intanto il brutto anatroccolo si è tramutato in una graziosa ereditiera, il cui cruccio è non avere il diploma che le consentirebbe di realizzare il suo sogno: studiare medicina. Anche senza l’appoggio della madre nel frattempo scomparsa, Roland Bonaparte rimane convinto che gli studi non servano a nulla per una donna. Per una principessa come sua figlia occorre il marito giusto. Niente di meglio che il figlio di un re e di una granduchessa Romanov: Giorgio di Grecia e di Danimarca, ufficiale dagli occhi chiari, un po’ calvo ma di bella presenza. Lui la corteggia con discrezione e Marie accetta di sposarlo. Il 12 dicembre 1907 ad Atene le nozze si svolgono con il rito greco-ortodosso.
Può essere l’inizio di una fiaba, con una giovane donna che finalmente riceve dal marito quell’amore che suo padre le ha negato. Invece si apre una nuova pagina esistenziale, non meno complicata. «Eravamo di razze diverse. Non solo per il colore dei capelli, ma anche per le risonanze della mente e del cuore», scriverà in seguito.
Un matrimonio di facciata
Giorgio non si sottrae ai doveri coniugali, tant’è che già un anno dopo le nozze nasce Pietro (1908-1980), seguito da Eugenia (1910-1989), ma la principessa - per quanto inesperta - capisce che c’è qualcosa che non va, in quel marito così algido e restio a ogni gesto affettuoso. La soluzione del mistero è davanti ai suoi occhi. Si chiama Valdemar, è lo zio di suo marito, maggiore di lui di soli dieci anni, e suo migliore amico. Giorgio passa tutte le estati nel suo castello di Bernstorff, in Danimarca, e poco alla volta Marie coglie la verità: Giorgio è innamorato dello zio da quando aveva 14 anni. Ovviamente anche Valdemar ha una moglie, rassegnata alla loro relazione, e dei figli.
Marie, che nel frattempo si è adattata al suo nuovo ruolo di madre e di principessa reale, con infiniti viaggi e impegni ufficiali, archivia per sempre il suo desiderio di amore nei confronti del marito: vivranno vite parallele, incontrandosi solo in alcuni momenti, e Giorgio accetterà di conoscere e frequentare occasionalmente alcuni degli amanti di Marie. Per mezzo secolo, fino alla morte di lui, resteranno ufficialmente una coppia e insieme affronteranno momenti critici, dai dissidi di Giorgio con il figlio Pietro per il suo matrimonio con Irene, una russa divorziata, all’esilio in Sudafrica nel 1941, quando in Europa dilagano i nazisti. Ma l’amore Marie lo andrà a cercare altrove. «Nel periodo fra i miei 30 e i miei 50 anni, ho avuto due compagni. Il primo (...) avrebbe potuto essermi padre; nessuno mi ha mai amata quanto lui. Il secondo era come un fratello maggiore, ed è quello che ho amato di più e più a lungo» scrive Bonaparte.
Mentre sull’Europa si addensano le nubi che porteranno al primo conflitto mondiale, la principessa conosce il politico francese Aristide Briand, undici volte presidente del Consiglio, che per cinque anni le offre il suo amore. E quando la storia con lui finisce, nella vita di Marie entra X, sposato e medico celebre, di cui non rivelerà mai il nome.
L’intesa tra l’anziano maestro e la “prinzessin”
La libertà di cui gode consente alla Bonaparte di dedicarsi alla scrittura e di avvicinarsi alla psicoanalisi. «La prima volta che lesse Freud ebbe una specie di rivelazione» dice Bertin. Il suo status economico le consentiva di soddisfare ogni suo desiderio. Incluso quello di farsi ricevere da Sigmund Freud a Vienna e iniziare con lui l’analisi. L’intesa fra l’anziano maestro e la “prinzessin” è immediata: lei ricambia la sua stima con una devozione assoluta che farà di lei la vestale dell’ortodossia freudiana durante gli anni in cui la nuova disciplina si sedimenta, si discute della pratica e della preparazione degli analisti, si creano gli istituti di psicoanalisi.
Marie scrive, traduce, frequenta la famiglia Freud. È una madre spesso assente in questa fase della sua vita, ma sta finalmente ottenendo ciò che desiderava: diventare un’analista. Per quanto ligia alle idee del maestro, fa di testa sua quando decide di farsi operare per guarire la frigidità che l’affligge: l’obiettivo è avvicinare la clitoride alla vagina. Non si accontenterà di un unico intervento, ma ritenterà più volte, senza successo però. In seguito, gli studi di Masters e Johnson proveranno l’errore della chirurgia della frigidità caldeggiata da Marie. Alla Bonaparte, però, resta il merito di aver portato alla ribalta un tema ancora tabù in un suo articolo del 1924: il pari diritto delle donne al piacere.
La principessa ha 57 anni quando diventa nonna di Tatiana, figlia di Eugenia, che avrà in seguito altri due bimbi, Porgie e Carlo Alessandro. È ancora una forza della natura, e lo sarà fino alla fine, senza risparmiarsi battaglie appassionate, come la difesa del criminale americano Caryl Chessman, che la vedrà in prima linea all’età di 78 anni contro la pena di morte. O la guerra con lo psicoanalista Jacques Lacan, suo acerrimo nemico. Marie ha girato il globo in anni in cui viaggiare era più complicato e ha nutrito una costante e profonda curiosità per il sapere, che l’ha spinta a incontrare menti eccelse, come il filosofo Jean-Paul Sartre o la scrittrice svedese Selma Lagerlöf.
La principessa di Grecia e di Danimarca, zia di Filippo d’Inghilterra, soccomberà a una leucemia all’età di 80 anni il 21 settembre 1962, restando convinta fino alla fine di essere stata dotata da madre natura di una mente quasi maschile. Era una donna del suo tempo, condizionata dagli stereotipi degli anni della sua giovinezza. E anche la sua visione del piacere femminile resta ancorata a quella del suo maestro. A 60 anni dalla sua morte, le neuroscienze hanno dischiuso nuovi orizzonti, in cui il cervello e la sessualità delle donne non hanno più nulla da invidiare agli uomini.
CAVOLI E BAMBINI: IL MATERIALE (AGRICOLTURA) E L’IMMAGINARIO (STORIA).
UNA QUESTIONE DI #EDUCAZIONECIVICA ED #EDUCAZIONE #ALIMENTARE: APPUNTI DI #ANTROPOLOGIACULTURALE (#COMENASCONOIBAMBINI), #PSICOANALISI (#EDUCAZIONESESSUALE), #PEDAGOGIA #COSTITUZIONALE, ED #ECONOMIA-#POLITICA...*
"[...] Nel passato, quando i bambini domandavano della loro nascita spesso si narrava della cicogna oppure che i neonati nascono sotto le foglie di questi ortaggi. Nell’Europa centrale, il cavolo (verze, cappucci, cavolfiori, cavolini di Bruxelles) ha rappresentato la principale fonte di vitamine e minerali durante l’inverno. [...]
Considerato simbolo di fecondità e vita (sono ricchissimi di acido folico che favorisce la fertilità), il cavolo veniva raccolto approssimativamente nove mesi dopo la semina, corrispondendo al periodo di gestazione umana. In quell’epoca, i concepimenti erano prevalentemente legati alla primavera, e le nascite avvenivano nell’autunno successivo.
La spiegazione è chiara: i matrimoni venivano celebrati nei mesi invernali, quando non c’era lavoro nei campi, e la decisione di avere un figlio veniva presa in primavera, poiché solo in quel periodo il contadino poteva valutare se i raccolti dell’anno avrebbero garantito un reddito sufficiente per sostenere la famiglia.
Il compito della piantagione, con l’aiuto di un punteruolo di legno, e della raccolta dei cavoli ricadeva sulle spalle delle donne, chiamate levatrici, un termine associato alle figure che assistevano le donne durante il parto. Le contadine avevano l’incarico di tagliare il “cordone ombelicale” che collegava il cavolo alla terra, da cui nacque la leggenda che i bambini potessero trovarsi sotto ai cavoli."
(cfr. SARA GRISSINO, "I BAMBINI NASCONO SOTTO I CAVOLI? PERCHÉ SI RACCONTA...", Giallo Zafferano).
NOTE:
STORIA DELL’ARTE, DELLA RELIGIONE, DELLA FILOSOFIA:
FEDE E PROPAGANDA DELL’ANDROCENTRISMO RINASCIMENTALE (PLATONICO-PAOLINO).
"DE HOMINIS DIGNITATE" (PICO DELLA MIRANDOLA, 1496). Se la cultura europea (laica e religiosa) continua, ieri come oggi, a orientarsi nel pensiero e nella realtà, secondo l’instaurazione teologico-politica "olimpica" (al seguito di #Apollo e di #Atena), «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (Eschilo, "Eumenidi"), e a celebrare acriticamente la tradizione filosofica della "Scuola di Atene" (Raffaello Sanzio, 1509-1511) e la "mappa mentale" del "De Sapiente" (1510) di Charles de Bovelles - Bovillus, come è possibile uscire dall’orizzonte "edipico" della tragedia e, con la sollecitazione e la guida dell’eretico #DanteAlighieri, uscire dallo storico inferno (antropologico ed epistemologico, teologico e politico) "dell’autunno del medioevo" e dell’ uomo del rinascimento?!
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI, E DIRITTO (COSTITUZIONE). Se è vero, come riconosce Sigmund Freud nel 1909 (nell’affrontare il caso dell’«uomo dei topi»), che "un gran progresso della civiltà si compì il giorno in cui l’uomo decise di avvalersi, accanto alla testimonianza dei sensi, della deduzione logica e di passare dal #matriarcato al #patriarcato", è altrettanto vero, come aveva già pensato e anticipato Bachofen nel 1861 (nell’anno stesso della Proclamazione del Regno d’Italia e del primo anniversario dell’Unità d’Italia, come da sottolineatura di Eva Cantarella), che, "[...] svincolandosi da ogni zavorra o mistura materiale, il diritto diventa #amore. Proprio l’amore è il diritto supremo, la legge più alta" (J. J. Bachofen, "Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici").
Note:
"Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo [...]: così inizia il cap. 15 del Libro III dell’ Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli della Donna” (p. 91).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (E CRISTOLOGICA) ED ENIGMA DELLA SFINGE (EGITTO E GRECIA): CON SHAKESPEARE E FREUD, OLTRE LO "SCILLA E CARIDDI" DEL "MATRIARCATO" E DEL "PATRIARCATO".
La #question di #Amleto (#Hamlet) è "BIBLICA" E "COSMICA". Si tratta di uscire dalla "preistoria" (#Marx), e di andare oltre la grande instaurazione di Zeus/Apollo/Atena, accettata e sopportata per compromesso "storico-olimpico" da Era/Giunone (#Freud pone #Giunone nella "testa" della sua "#Interpretazione dei #sogni" (1899). The #Mousetrap, teatro nel teatro del mondo planetario terrestre, è per fare affiorare alla coscienza (quanto ha già capito Francesco d’Assisi e Dante Alighieri) e andare oltre "#Adamo ed #Eva": #Amleto ("Gesù") è Figlio del Re #Amleto ("#Giuseppe") e della Regina #Gertrude ("#Maria"). Ciò che dice Freud, in una nota del testo di "L’uomo dei #topi" richiama un problema all’ordine del giorno dell’umanità: comporre in spirito di giustizia e amore la guerra tra #matriacato e #patriarcato, e, riprendere il cammino con tutte le "#sibille" e con tutti i "#profeti" (come da indicazione già di Michelangelo Buonarroti).
TEATRO (#FILOSOFIA) E #METATEATRO (#METAFILOSOFIA): #COSMOTEANDRIA #BOVILLUS-SIANA (#Androcentrismo, 1510) E #ANTROPOLOGIA #COPERNICANA (#COPERNICO 1543 - #KANT2024). Ricordare che il #mondo non è il #mappamondo e "la #mappa non è il #territorio" (Korzybski - Bateson). E la #question è quella di #DanteAlighieri, come di #GalileoGalilei, e di #Kant: #apriregliocchi sul "marcio nello stato di #Danimarca" (#Hamlet, I.4) e uscire dall’orizzonte della #tragedia.
COSMOLOGIA E DISAGIO DELLA CIVILTA’: COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! *
Con Dante, Michelangelo e Shakespeare, una nota a margine della questione antropologica (e cristologica).
FREUD (CON SHAKESPEARE), A LONDRA. Contrariamente a quanto si pensa, la lunga ricerca di #Freud, se può apparire (come è apparso per lo più fino ad ora) segnata dalla figura di #Edipo e #Giocasta, dall’altra è molto prossima a quella di #Amleto (#Hamlet), dalla volontà e dal progetto di chiarirsi le idee su di sé, e di suo Padre - di chi è veramente #Figlio: la sua opera, una vera e propria "trappola per topi" ("The #Mousetrap"). Egli, in verità, è andato (come si sa) a "scuola" da Shakespeare, e il problema della sua vita è come quello di Shakespeare, contribuire a sciogliere il #nodo di #Ercole, il nodo della nevrosi ossessiva non solo del caso dell’#uomo dei #topi" (1909), ma "della civiltà" e "nella civiltà" e contrastare il dilagare alluvionale del "marcio nello stato di Danimarca":
RIVOLUZIONECOPERNICANA (KANT2024). Sigmund Freud: "Lichtenberg [1742-1799] osserva: «L’astronomo sa se la luna sia abitata o no, all’incirca con la stessa sicurezza con cui sa chi sia stato suo padre, ma con ben altra sicurezza sa invece chi è sua madre». Un gran progresso della civiltà si compì il giorno in cui l’uomo decise di avvalersi, accanto alla testimonianza dei sensi, della deduzione logica e di passare dal matriarcato al patriarcato. Le figure preistoriche in cui si vede una piccola forma umana seduta sul capo di un’altra più grande rappresentano appunto la discendenza dal padre, Atena senza madre scaturisce dal capo di Giove. Ancor oggi, in tedesco, il testimone che attesta qualcosa davanti a una corte giudicante si chiama #Zeuge [«testimone», letteralmente «generatore»], per la parte che ha il maschio nell’atto di procreazione; già nei geroglifici troviamo rappresentato il testimone con l’immagine dei genitali maschili." (cfr. S. Freud, "Racconti analitici, a cura di Mario Lavagetto, Einaudi 2011).
* Sul tema, cfr. Federico La Sala, "Cosa succede in casa - nella “camera nuziale”, e cosa succede in Parlamento - nella “camera reale”?! Una nota introduttiva alla “Istruzione sessuale dei bambini” (1907) di Sigmund Freud..
NOTE:
L’ ITALIA, METAFORA DEL GIARDINO: SIGMUND FREUD (E DANTE ALIGHIERI) ALLA RICERCA DELLA VIA D’USCITA DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA (E DELLA "CADUTA" LUCIFERINA ALL’INFERNO).
USCIRE DA SE’ PER CERCARE LA "ANTICA TERRA" E RI-TROVARE "I PROPRI #GENITORI". Come #DanteAlighieri, con #Virgilio ("dolcissimo patre"), così Sigmund #Freud, con più difficoltà edipiche (con il suo padre #Jakob): entrambi cercano "l’antica madre" (#Eneide, III, 116-117), il "sogno di una cosa" (K. #Marx), il "giardino dell’Impero" l’uno, la "Terra promessa" l’altro.
DANTE, MILTON, E FREUD. Alla fidanzata #Martha, il 7 agosto 1882, Sigmund Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
#AMARE L’ITALIA. Freud, confidando nell’amore di sua madre #Amalia (#Nathanson), come Dante, nell’amore di sua madre, la "#Bella e beata", "#Beatrice"), l’uno, come l’altro, affrontano un lungo cammino per risalire "salomonicamente" la corrente, e, finalmente, ritrovare al di là della dell’inferno e della tragedia, "l’antica matre" ("#Eva") e l’antico padre ("#Adamo"), e, finalmente, rigenerarsi nell’acqua viva dell’#amore "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
#COSMOLOGIA #POESIA E #LOGOS. Quando avremo sondato l’Universo alla ricerca della nostra incapacità di dominarlo e di capirlo, dovremo ritornare al Poeta e concludere che a muover il Sole e le altre stelle (a muoverle, ma non a spiegarle) è l’Amore. Allora la nostra fede non sarà più liberatrice, ma deduttiva, accettata per la nostra incapacità di andare oltre. Crederemo perché è evidente, non perché è assurdo." (#ENNIO #FLAIANO, "DIARIO DEGLI ERRORI", 1967).
* MARINA D’ANGELO, "I VIAGGI DI FREUD IN ITALIA. LETTERE E MANOSCRITTI INEDITI", BORINGHIERI 2024:
TEATRO, METATEATRO, E COSTRUZIONI NELL’ANALISI: AMLETO ("HAMLET") E "LE GATTE" E I GATTI ("THE MOUSE_TRAPPERS") DI SHAKESPEARE (E SIGMUND FREUD).
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA-POLITICA (#CORPOMISTICO): LA DONNA-REGINA E L’UOMO-RE "DEI TOPI". SE E’ VERO, come è vero, che Ofelia e Gertrude si risvegliano dall’ingenuità, non è perché "si liberano dagli aspetti del #patriarcato, Ofelia da suo padre e Gertrude da suo marito", ma perché si svegliano da un epocale tragico "letargo" (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, 94) e cominciano a pensare e a giudicare con la propria testa (storicamente ed esemplarmente, come #Elisabetta I d’Inghilterra, "papa e regina") sul come gestire il proprio corpo e il proprio "tesoro" di donne, di persone regali e reali, e, infine, condividendo i sospetti e le analisi dello stesso Amleto (figlio del "valoroso" re Amleto, ucciso dal "nuovo" sposo della stessa madre-regina e dal "falso" padre-re, Claudio), ad "aiutarsi a vicenda con l’esempio".
"LA TRAPPOLA PER TOPI" ("THE MOUSETRAP"). Se è così, allora, per meglio portare avanti l’analisi e il lavoro di interpretazione del "sogno" di Shakespeare, occorre fare più luce sul tema centrale della rappresentazione nella rappresentazione (“The Mousetrap”) e, conseguentemente, capire che all’opera e nell’opera di Shakespeare le vere e proprie collaboratrici della realizzazione del progetto di Amleto sono proprio Ofelia e Gertrude, sono loro le vere "#cacciatrici di topi", le "gatte" ("mousetrappers"), che rendono possibile il successo dell’operazione, rispettare il #patto del vecchio Re Amleto, "ratificato dalla legge e dall’uso cavalleresco" ("Amleto", I,1,), e, infine, "profetizzare" che "l’elezione al trono cadrà su #Fortebraccio" ("Amleto", V. 2): per Shakespeare, evidentemente, la memoria di santa Gertrude di Nivelles, protettrice delle gatte e dei gatti è ancora ben viva.
LINGUAGGIO E #METALINGUAGGIO. IL "CORPO MISTICO" DEL "PAPA-RE" (E DELLA "REGINA-PAPA", ELISABETTA D’INGHILTERRA), SANTA GERTRUDE DE NIVELLES (PROTRETTRICE DELLE GATTE E DEI GATTI), E IL #COMENASCONOIBAMBINI: IL PROBLEMA DEI TOPI E LA PREOCCUPAZIONE DI "GIUSEPPE", LO SPOSO DI "MARIA". Rileggere e rimeditare la lezione dell’Amleto ("Hamlet"), alla luce del singolare "Trittico di Mérode" di Roger de Campin, dedicato proprio al tema dell’#Annunciazione della nascita del Bambino a "Maria e Giuseppe".
FREUD, L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1899) E LE "COSTRUZIONI NELLE ANALISI"(1937).
ANTROPOLOGIA E #LINGUA. Riflettendo, esemplarmente e rinascimentalmente, con l’aiuto dei #dueSoli (#DanteAlighieri), dei "due #emisferi" (dei "#duecervelli" del "#linguaggio del #cambiamento"), c’è da dire che l’installazione [sui "Coniugi Doni"] realizzata dalla #Galleria degli Uffizi delle opere di Raffaello e di Michelangelo->https://www.uffizi.it/eventi/doni-gennaio-2019] richiama "lodevolmente" (per il suo "esplicito" rinvio all’immagine di una #lavatrice) e fa un poco ricordare la famosa operazione di Alessandro #Manzoni, per realizzare il "sogno" dei suoi "Promessi Sposi", e la sua decisiva sollecitazione storica antropologica e linguistica: “risciacquare i panni in Arno”, a Firenze! Un "Inno alla #Gioia" (Freud+e = "#Freude")!
Federico La Sala->
"INNO ALLA #GIOIA" (#BEETHOVEN, #VIENNA #7MAGGIO1824 ).
***
EUROPA: #7MAGGIO 1824 / #7MAGGIO2024.
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MEMORIA (#SALERNO, 1976) *:
"GIOIOSAMENTE, GIOCOSAMENTE: «FREUD ... E»
* (cit. da una mia relazione intitolata, "Cosa nasconde Freud a Freud? Cosa nascondiamo noi a noi stessi? Note da/per un seminario interdisciplinare sulla "Interpretazione dei sogni", all’ Università degli Studi di Salerno, Sede di Via Irno - 30. 03. 1976).
LA "TERZA PERSONA", IL PARADOSSO DEL "CORPO MISTICO", E IL "CREPUSCOLO DEGLI IDOLI" E DEL PAOLINISMO HEGELIANO (NIETZSCHE): "ESSERE, O NON ESSERE" ("AMLETO").
Una nota a margine di un breve testo di Gilles Deleuze:
Se è vero (come è vero) che "la letteratura incomincia solo quando nasce in noi una terza persona che ci spoglia del potere di dire Io (il “neutro” di Blanchot)" (G. Dekeuze, cit.), è altrettanto vero che la "terza persona" non è affatto una "Persona", ma innanzitutto la Relazione tra "le prime due persone che servono da condizione dell’enunciazione letteraria" stessa: "IN #PRINCIPIO ERA IL #LOGOS", LA "COSTITUZIONE", NON UN #LOGO DI UN SIGNOR "NESSUNO", IL "NEUTRO" DI BLANCHOT).
SUl tema, nel sito, si cfr.:
URGENTE UNA "RICAPITOLAZIONE", MATEMATICAMENTE CORRETTA --- PSICHE (INDIVIDUO) E POLIS (SOCIETA’): LA CURA. Note a margine del "XXI Congresso Società Psicoanalitica Italiana" (Roma, maggio 2024).
FLS
Al di là del #paolinismo (dell’#hegelismo e del #lacanismo): "Psiche e Polis" (#Platonismo) e "#Costruzioni nell’#analisi" (S. Freud, 1937).
ANTROPOLOGIA E #PSICOANALISI: "LA FERMA FERMA" (E. Fachinelli, 1979). Purtroppo, bisogna dirlo la Società Psicoanalitica Italiana, all’altezza del XXI Congresso (in coincidenza con l’anniversario della #nascita di #Kant, trecento anni fa, 1724) ha perso tutto il coraggio degli inizi (del "#sàpereaude!" oraziano come dell’#illuminismo kantiano) del suo "fondatore" (#COPERNICO, #DARWIN, e #FREUD): non riesce ad "#apriregliocchi" su una vera e propria "seconda" #rivoluzionecopernicana in progress e continua ad agitare "la_can_na" per l’aria - almeno dal 1989, dalla morte contemporanea di #CesareMusatti e di #ElvioFachinelli.
MEMORIA E STORIA: L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO #FASCISMO, E "LA FRECCIA FERMA". La lezione sorprendente e preveggente di Elvio Fachinelli.
ARCHEOLOGIA, #STORIAELETTERATURA, E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929): "RIVEDERE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" E’ POSSIBILE. "L’#Interpretazione dei #Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della "Divina Commedia" (Pg. II, 46-48) di #DanteAlighieri.
NOTA:
PSICOANALISI E #SOCIETA’: "TENTATIVI DI ANNULLARE IL #TEMPO" E "#COSTRUZIONI NELL’ #ANALISI" ...
Una breve nota a margine di un intervento di Sergio Benvenuto ("Anti-Deleuze", "Le parole e le cose", 29 aprile 2024).
IL TITOLO DEL XXI CONGRESSO NAZIONALE DELLA Società Psicoanalitica Italiana (Roma, 24-25-26 MAGGIO 2024) E’ “PSICHE E POLIS”. Incapaci di riuscire ad “aprire gli occhi” fuori dalla famosa “caverna” e guardare il “mondo” al di là della luce “del sapere del “Maestro di color che sanno”, del sole e delle altre stelle del cielo aristotelico, è più che “verosimile la tesi promossa da George #Lakoff (in #Moral #Politics): che i grandi conflitti politici, quelli che portano anche a distruzioni e miserie immani, sono una proiezione espansiva, cosmica, delle nostre primitive relazioni con mamma, papà, la balia, la zia... In analisi, emerge la straordinaria pregnanza del Piccolo Mondo Antico”. (cfr. S. Benvenuto, "Anti-Deleuze", cit.).
"ANTI-EDIPO": "[...] Il primato dei crucci privati mi ha certamente colpito ma non sorpreso. Perché non ho mai creduto alla predicazione di #Deleuze e #Guattari. Come è noto, costoro rimproveravano alla psicoanalisi soprattutto freudiana di voler “familiizzare” tutto, di ridurre tutti i conflitti detti psichici a storie di mamma, papà, inauspicato fratellino, toccamenti di pisellino o patatina tra bambini... Mentre, altroché, i veri problemi inconsci sono cose serie, politiche, lotta di classe, rivoluzione degli oppressi, ecc. Gli schizofrenici, in particolare, vibrano per le sorti drammatiche del mondo. [...]" (Benvenuto, cit.).
"LA #FRECCIA #FERMA". A quanto pare, l’evidenza appare al massimo del suo livello: il tempo si è fermato! A questo punto, a che vale chiedersi ”se certi colleghi possano portarmi esperienze ben diverse”, quando “La freccia [è] ferma” (E. Fachinelli, 1979), per quanto qualche “vecchia #talpa” possa essere ancora benvenuta nella sua volontà di scavare, può mai contribuire a trovare la via d’uscita? Così non si butta la "Psiche" del #Bambino ("Edipo") e l’acqua sporca della Città di #Tebe?, della "Polis" t(al)ebana?! Boh e bah?!
PIANETA TERRA (#EARTHRISE). Individuo ("Psiche") e Società ("Polis"): una relazione chiasmatica aperta alla luce del Sole copernicano (e galileiano e kantiano)! Nel 1989, il tema del 36º congresso internazionale dell’ International Psychoanalytical Association (IPA), tenutosi a Roma (con #Musatti, morto il #21marzo 1989, e #Fachinelli, morto il 21 dicembre 1989) era quello dell’#oikos, del "terreno comune" in psicoanalisi - e non solo!
Nota:
CON #KANT E #FREUD, #OLTRE. "UNA SCELTA DECISIVA PER L’INDIVIDUO E PER LA SPECIE". Un nuovo #paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO #FACHINELLI. Antropologia, psicoanalisi, e #critica della #ragione hegeliana (e lacaniana).
Una nota a margine del lavoro di Pietro Barbetta: *
Brillante breve saggio sulla storica figura della cultura psicoanalitica e filosofica italiana, "Elvio Fachinelli - Psychoanalysis of Dissension in Italy" ("Qeios", 24 aprile 2024): pur partendo dall’importante #caso dell’#uomo con il #magnetofono (cfr. J.-J. #Abrahams, "L’uomo col magnetofono: dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista", con note di J.-P. #Sartre, J.-B #Pontalis, B. #Pingaud e E. #Fachinelli, edizioni L’erba voglio, Milano 1977), seguendo il filo di una obsoleta #storiografia freudiana (e fachinelliana), a mio parere, si perde l’equilibrio e ne esce una #visione della ricerca fachinelliana del tutto riduttiva, schiacciata nella valorizzazione pure importante dell’indicazioni di Sándor #Ferenczi.
Sul tema, mi sia lecito, si cfr. il capitolo intitolato "Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli" all’interno di un mio "vecchio" lavoro, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica" (Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-161): "Con #Freud, #oltre - in una nuova direzione e in modo nuovo: contro le sfingi e contro l’imbalsamazione degli uomini come delle teorie".
DA RICORDARE: "L’#Interpretazione dei #Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della #DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di #DanteAlighieri.
Note:
L’ipotesi della distruzione in Sigmund Freud
di Elvio Fachinelli ("Il Corpo", 1, marzo 1965).*
"[...] Si pensi al programma ambizioso iscritto sul frontespizio della Interpretazione dei sogni: Acheronta movebo; trent’anni dopo, nelle ultime pagine de Il disagio nella civiltà, la mantenuta coerenza del proposito appare velata d’amarezza: "M’inchino al rimprovero... di non saper recare alcuna consolazione."Né disperazione, è chiaro; ma piuttosto la consapevolezza del profilarsi - al limite di separazione fra ciò che siamo e il futuro visibile dell’utopia - di una scelta decisiva per l’individuo e per la specie" (* ).
* Cfr. AA, VV., "La negazione freudiana", "Nuova Corrente", 61/62, 1973, 159-171; poi, in E. Fachinelli, "Il bambino dalle uova d’oro", Milano, Feltrinelli 1974, pp. 13-29).
PSICOANALISI, FILOLOGIA, FILOSOFIA, E ANTROPOLOGIA (#KANT2024): "L’#INTERPRETAZIONEDEISOGNI (1899) E LE "#COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (1937).
UN CHIARIMENTO DI FREUD SULLA SUA "RIVOLUZIONE COPERNICANA".
Quale rapporto tra la parola #interpretazione, una "brutta parola" (#SigmundFreud, 1926), e la nuova #parola #costruzione? Sicuramente un #rapporto con il #mare (e la paura del suo "sentimento oceanico"): "Maresfield Gardens" (#Londra, 1938-1939) e ... una #relazione con #Copernico, #Darwin, e le #anguille di #Trieste! Vale a dire: la traccia di una possibile #svolta_antropologica (cfr. "La #menteaccogliente", 1991), un #segnavia di una #seconda #rivoluzionecopernicana (cfr. Kant, Freud, e la banalità del male 2010).
IL "GIOCO DEL ROCCHETTO" ("Al di là del principio del piacere", 1920). Nella Nota del 1937, Freud così getta #luce sulla sua paradigmatica indicazione #dialogica di procedere nella #pratica analitica della #costruzione:
Note:
ALL’ORIGINE DEL DISAGIO DELLA CIVILTA’ EUROPEA,
Così #SigmundFreud nel suo lavoro "L’infelicità nella civiltà ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. #Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
* I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO". NATHAN IL SAGGIO
Nota:
IL CRESCERE DEL "DISAGIO DELLA CIVILTÀ", IL PROBLEMA DEL "LATO MATERNO" NELL’EDIPICO CAMMINO DI #SIGMUNDFREUD, E L’INDICAZIONE DI #DANTEALIGHIERI.
***Tracce per una #svolta_antropologica...
La considerazione di Freud del 1917, relativa al fatto che, “Se un uomo è stato il beniamino incontestato della madre, conserva poi per tutta la vita quel sentire da #conquistatore, quella fiducia nel successo che non di rado trascina davvero il successo con sé" (cfr. S. Freud “«Un ricordo d’infanzia» tratto da «Poesia e verità» di Goethe”, OSF 9, Torino 1977), ha una potente carica ’radioattiva’ di teoria.
LA QUESTIONE DELL’#EDIPOCOMPLETO: SOFOCLE ("EDIPO RE") E FREUD ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"):
IL LEGAME "PARADIGMATICO" DI #GIOCASTA, MADRE E REGINA, ED #EDIPO, FIGLIO E PRINCIPE), CHE REGNA ANCORA "COME IN TERRA COSI’ IN CIELO", PENSATO COERENTEMENTE, COME FREUD HA CERCATO DI FARE, METTE IN EVIDENZA IL DOMINIO "NASCOSTO" DI #MAMMONA, L’ ALLEANZA "MADRE-FIGLIO", SU TUTTO IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" E RIPRODUZIONE, CHE ASSICURA IL COMANDO SUL CICLICO RIPETERSI DELLE #STAGIONI E DELLE #GENERAZIONI, COME HA SANCITO IL TRAGICO "#COMPROMESSO OLIMPICO" TRA #DEMETRA (VITA) E #PLUTONE (MORTE) PROPRIO PER ASSICURARE LA VITA A #PERSEFONE STESSA, ALLA #MADRETERRA, E ... AGLI STESSI DEI E ALLE STESSE DEE DELL’ #OLIMPO - PER "SEMPRE"!?
#pasqua2024 #buonapasqua #Dantedì #25marzo #31marzo ...
STORIA E IMMAGINARIO: GUGLIELMO IL CONQUISTATORE, NAPOLEONE (E IL #SOGNO DI #FREUD, ARRIVANDO IN #INGHILTERRA, DI SBARCARE A #PEVENSEY, 1938).
Arazzo di #Bayeux: "[...] L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito di varie pezze per una lunghezza totale di 68,30 metri, sino alla fine del XVIII secolo era conservato nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre ora è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant di Bayeux.
Nel 2007 l’#UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. [...].
Progettando l’invasione dell’Inghilterra, Napoleone lo volle a Parigi a fini di propaganda nel novembre 1803 [...].
il 6 dicembre 1803, nel pieno dei preparativi per l’invasione, su #Dover era apparso un luminoso corpo celeste (probabilmente un bolide) con traiettoria sud-nord, che consentiva paragoni benauguranti, ai fini della spedizione, con la #cometa apparsa nel 1066. L’arazzo tornò a Bayeux nel febbraio 1804, ormai noto a livello nazionale ed internazionale [...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Arazzo_di_Bayeux).
PSICOANALISI E #CRISTIANESIMO: #PAOLINISMO ("#ANDROLOGIA", "#VIROLOGIA", DEL "#CORPOMISTICO"). Freud scrive nell’estate-autunno del 1929 “Il disagio della civiltà”, in cui discute del senso del comandamento biblico “amerai il prossimo tuo come te stesso” ... e comprende anche, come precisa, che "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" ("Disagio della civiltà", 1929), ma non riesce ad andare oltre l’orizzonte della tragedia della polis tebana (e della biblica "caduta").
"KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE". Avendo mosso l’#Acheronte (con l’aiuto di Virgilio), Sigmund Freud riesce sì a venir fuori dall’inferno ma, sognando di essere Guglielmo il Conquistatore, a raggiungere Londra nel 1938 e a non sciogliere il #nodo della tradizione mosaica, cristiana, e romana, e, cum grano salis, a essere trascinato fino alla fine dalla corrente "acherontica" della tradizione faraonica, paolina, e costantiniana (#Nicea 325-2025):
CULTURA E SOCIETA’.
UNA NOTA A MARGINE DI UNA DISCUSSIONE E DI UNA RILESSIONE IN CORSO SUL TEMA: "LA PSICOANALISI HA UN FUTURO?" *
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "CONOSCI TE STESSO" E DEL "CONOSCI TE STESSA", E LA "#CRITICA DELLA #FACOLTÀ DI #GIUDIZIO: IL CORAGGIO DEL "#SÀPERE AUDE" (#ORAZIO).
#A GLORIA DI #FREUD E A OMAGGIO DI #KANT2024. Ricordando l’eccezionale #coraggio degli #inizi della #psicoanalisi ("L’#interpretazione dei #sogni", 1899) e il coraggio di servirsi della propria intelligenza dell’#illuminismo kantiano ("Risposta alla domanda: che cosa è l’Illuminismo",1784), e, al contempo, il #grido di allarme di #SigmundFreud, lanciato da #Vienna nel 1929, sul "#Disagiodellaciviltà" (e nella #civiltà), a riguardo, può essere interessante e utile un ulteriore approfondimento e una riflessione supplementare, alla luce di una personale #ricerca (del 2010), proprio sul tema storico-filosofico relativo alle ragioni stesse della #domanda sul futuro della tradizione filosofica, picoanalitica, e della stessa civiltà (cfr. "KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE" ).
*
"AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Ct. 8.6):
UNA INDICAZIONE DA GIUBILEO DI PAPA FRANCESCO E UNA PREMESSA FONDAMENTALE A UN’ ANTROPOLOGIA ALL’ALTEZZA DEL "CANTICO DEI CANTICI" (Ct. 8.6).
AMORE (#CHARITAS) E CASTITA’. L’’indicazione è premessa fondamentale al #riconoscimento giuridico e teologico dei "#dueSoli" (#DanteAlighieri), della #maternità piena di "#Maria" e della #paternità piena di "#Giuseppe" e alla ricostituzione della "FAMIGLIA" umana e divina: al di là del "giocastolaio" #incesto edipico (#SigmundFreud e #ThomasMann), la riconsiderazione (al di là delle pretese imperial-costantiniane e tebane di #SistoIV e di #GiulioII della Rovere) e la riaffermazione antropologica e "cosmicomica" della Relazione d’#Amore ("Charitas") tra #MariaeGiuseppe e #Gesù.
ARTE E "PROPAGANDA FIDE": "TONDO DONI". Attenzione: nella cornice "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi)? Ma, per Michelangelo, non erano e non sono due #profeti e due #sibille?!
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA (E CRISTOLOGIA), E PSICOANALISI. Con la ripresa dello spirito di Francesco di Assisi, di Giotto, e di Dante Alghieri, e la memoria del "Cantico dei cantici", a mio parere, è possibile comprendere "#Chiara-mente" che le radici della Terra non sono tragico-edipiche, ma "#Cosmicomiche" (come da lezione di Italo Calvino, Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
LA "MEMORIA DEL MONDO", LA CELESTE "CORRISPONDENZA D’AMOROSI SENSI" DI FOSCOLO (OMERO/ULISSE), E LA RICERCA DI ITALO CALVINO DI USCIRE "FUORI DEL SELF" DELLA TRADIZIONE SOFISTICA (IDEALISTICA E MATERIALISTICA), PER COMPRENDERE ANTROPOLOGICAMENTE (NON ANTROPOMORFICAMENTE) LE RADICI COSMICOMICHE DELLA INFINITA E COMPLESSA MOLTEPLICITÀ... *
CALVINO (OMERO/ULISSE): "IO HO ASCOLTATO IL CANTO DELLE SIRENE" ("La letteratura e la realtà dei livelli", 1978). Non dimentico della lezione di #DanteAlighieri, #Calvino cerca di trovare la via che lo possa portare al "punto di arrivo cui tendeva #Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto di arrivo cui tendeva #Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose" ( "Molteplicità", "Lezioni Americane").
I "LIVELLI DI REALTÀ" (Feltrinelli, Milano 1984) E LA PSICOANALISI. Una traccia, per orientarsi nell’attraversamento dei livelli di realtà delle opere di #Calvino100: ricordare il suo incontro ("Anch’io cerco di dire la mia"), nella "taverna dei destini incrociati", con "Sigismondo di #Vindobona", e ricordare il ruolo di #Venere (#Afrodite) e di #Eros (#Cupìdo) nella mitica versione di Ovidio del "Ratto di #Proserpina", di #Persefone, figlia di #Demetra (#Cerere), da parte di #Ade (#Plutone):
#Eleusis2023
*
LETTERATURA E PSICOANALISI: "IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI" (ITALO CALVINO).
L’INCONTRO CON "SIGISMONDO DI VINDOBONA" [DI VIENNA] NELLA "TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI".
Una "presentazione" del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi... *
"ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un #sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il #represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie.
(Si prenda un giovane, Fante di Denari, che vuole allontanare da sé una nera #profezia: #parricidio e #nozze con la propria #madre. Lo si faccia partire alla ventura su un Carro riccamente addobbato. Il Due di Bastoni segnala un crocicchio sulla polverosa strada maestra, anzi: è il crocicchio, e chi c’è stato può riconoscere il posto in cui la strada che viene da Corinto incrocia quella che va a #Tebe. L’Asso di Bastoni testimonia una rissa da strada, anzi da trivio, quando due carri non vogliono darsi il passo e restano coi mozzi delle ruote incastrati e i conducenti saltano a terra imbestialiti e polverosi, sbraitando appunto come carrettieri,insultandosi, dando del maiale e della vacca al padre e alla madre dell’altro, e se uno tira fuori dalla tasca un’arma da taglio è facile che ci scappi il morto.
Difatti qui c’è l’Asso di Spade, c’è Il Matto, c’è La Morte: è lo sconosciuto, quello proveniente da Tebe, che è rimasto in terra, così impara a controllare i suoi nervi, tu Edipo non l’hai fatto apposta, lo sappiamo, è stato un raptus, ma intanto ti ci eri buttato addosso a mano armata come se non avessi aspettato altro per tutta la tua vita. Tra le carte che vengono dopo c’è la Ruota della Fortuna o #Sfinge, c’è l’ingresso in Tebe come un Imperatore trionfante, c’è le Coppe del #banchetto di nozze con la regina #Giocasta che vediamo qui ritratta come Regina di Denari, in panni vedovili, donna desiderabile benché matura.
Ma la profezia si compie: la peste infesta Tebe, una nuvola di bacilli cala sulla città, inonda di miasmi le vie e le case, i corpi dànno fuori bubboni rossi e blu e cascano stecchiti per le strade, lambendo l’acqua delle pozzanghere fangose con le labbra secche. In questi casi non c’è che ricorrere alla #Sibilla Delfica, che spieghi quali leggi o tabù sono stati violati: la vecchia con la tiara e il libro aperto, etichettata con lo strano epiteto di #Papessa, è lei.
Se si vuole, nell’arcano detto del Giudizio o dell’Angelo si può riconoscere la scena primaria a cui rimanda la dottrina sigismondiana dei sogni: il tenero angioletto che si sveglia nottetempo e tra le nuvole del sonno vede i grandi che non si sa cosa stanno facendo, tutti nudi e in posizioni incomprensibili, mamma e papà e altri invitati. Nel sogno parla il fato.
Non ci resta che prenderne atto. Edipo, che non ne sapeva niente, si strappa il lume degli occhi: letteralmente il tarocco dell’Eremita lo presenta mentre si toglie dagli occhi un lume, e prende la via di Colono col mantello e il bastone del pellegrino. Di tutto questo la scrittura avverte come l’oracolo e purifica come la tragedia. Insomma, non c’è da farsene un problema [...]"
*
#PSICOANALISI E #RINASCITA:
IL PROGRAMMA DI #FREUD DI RIPENSARE L’#EDIPO #COMPLETO (E CAPIRE "COME SI DIVENTA CIO’ CHE SI È") E LA DIFFICOLTÀ PRINCIPALE AFFRONTATA NEL SUO "#MOSAICO" PERCORSO.
#BIOGRAFIA E #STORIOGRAFIA: "SAPERE AUDE!" (KANT, 1784). RICORDANDO CHE FREUD ha iniziato la sua discesa nel regno di #Ade, agli #inferi (nel mondo dei "sogni"), con #Virgilio (e con la guida dell’#Eneide) e, in particolare, in sintonia (non con lo spirito di #Afrodite / #Venere ed #Eros / #Cupìdo ma) con lo spirito di #Era / #Giunone - con l’aiuto della "Madre", di cui richiama le parole, polemiche contro lo stesso #Zeus / #Giove - contro lo spirito del "Padre": "Flectere si nequeo Superos", #Acherontamovebo"), forse, è bene richiamare l’attenzione su uno dei primi fondamentali passi "edipici" del giovane "Freud-#Mosè" sulla strada della conoscenza e dell’uscita dallo "#stato di #minorità" (Kant, 1784):
"La notte prima del funerale di mio padre sognai una tabella a stampa, un manifesto o un affisso - pressappoco come i cartelli:
"Vietato fumare" nelle sale d’aspetto delle ferrovie - su cui si leggeva:
Si prega di chiudere gli occhi
oppure
Si prega di chiudere un occhio,
alternativa che sono abituato a raffigurare nella forma seguente:
gli
Si prega di chiudere occhi(o).
un
Ciascuna delle due versioni ha un suo significato particolare e nell’interpretazione del sogno conduce a vie particolari. Avevo scelto il cerimoniale più semplice, perché sapevo che cosa pensasse il morto di tali manifestazioni; ma altri membri della famiglia non erano d’accordo; ritenevano che saremmo stati costretti a vergognarci di fronte agli intervenuti alla cerimonia. Perciò una versione del sogno chiede di "chiudere un occhio" vale a dire di usare indulgenza. " (S. Freud, "L’Interpretazione dei sogni", cap. 6, pf. C).
ONORARE IL PADRE E LA MADRE. Sul "Si prega di chiudere gli occhi", nella lettera a Fliess del 2 novembre 1896, Freud scrive che la formulazione della frase è "a doppio senso e significa in ambedue i casi: bisogna adempiere al proprio dovere verso i morti", in particolare, il dovere filiale di chiudere gli occhi al defunto. Nella "Interpretazione dei sogni", Freud "tace": guardare negli occhi il proprio padre #Jacob (morto) e, addirittura, chiuderglieli, per l’ "Edipo re", evidentemente, è una missione "impossibile".
USCIRE DALL’#INFERNO E #APRIREGLIOCCHI. L’ anno «prima di morire, il 12 maggio 1938, mentre fuggiva da Vienna a Londra per evitare i nazisti, scrisse al figlio Ernst: "Talvolta mi paragono a Giacobbe [così si chiamava il padre] che i suoi figli, quando era già vecchio, portarono in Egitto» (J. J. Spector, "L’estetica di Freud", Mursia, Milano 1972).
A #LONDRA, #SigmundFreud muore il 23 settembre 1939: "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" era stato pubblicato ad #Amsterdam l’anno prima, nell’autunno del 1938 (con la data: 1939).
ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI ("COSTRUZIONI NELL’ANALISI, 1937)", E FILOLOGIA.
«GRANDE E’ LA DIANA DEGLI EFESINI» (S. FREUD, 1911): EFESO, LA DEA MADRE, IL DIO FIGLIO, E L’INTERPRETAZIONE PAOLINA DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Alcuni appunti:
di Sigmund Freud (Opere complete, VI, 1911)*
L’antica città greca di Efeso, in Asia Minore (a questo proposito dobbiamo essere grati alla nostra archeologia austriaca per l’esplorazione delle sue rovine), era particolarmente celebrata nell’antichità per lo splendido tempio dedicato ad Artemide (Diana). Gli invasori ionici, forse nell’ottavo secolo avanti Cristo, conquistarono la città, che da lungo tempo era abitata da popoli di razza asiatica, e quivi trovarono il culto di un’antica dea-madre, il cui nome era probabilmente Oupis, la quale fu da loro identificata con Artemide, divinità della loro patria di origine. Gli scavi hanno dimostrato che, nel corso dei secoli, parecchi templi furono eretti nello stesso luogo in onore della dea.
Il quarto di questi templi è quello che fu distrutto dal fuoco appiccato dal folle Erostrato, nel 356, la notte stessa in cui nasceva Alessandro Magno. Il tempio fu ricostruito, più splendido che mai. La metropoli commerciale di Efeso, con il suo affollarsi di sacerdoti, maghi e pellegrini, con le sue botteghe, ove erano posti in vendita amuleti, ricordi ed ex-voto, potrebbe essere paragonata alla moderna Lourdes.
Attorno al 54 d.C. l’apostolo Paolo passò diversi anni ad Efeso. Quivi predicò, compì dei miracoli, trovando un largo seguito tra la popolazione. Perseguitato ed accusato dagli Ebrei, si staccò da questi, fondando una comunità cristiana indipendente. A cagione del diffondersi della sua dottrina, vi fu un calo del commercio degli orafi, che solevano fabbricare ricordi del luogo sacro (figurine di Artemide e modellini del tempio) per i fedeli e i pellegrini, che venivano da tutte le parti del mondo (Cfr. anche la poesia di Goethe.) Paolo era troppo rigido per tollerare che l’antica divinità sopravvivesse sotto diverso nome, per ribattezzarla come avevano fatto i conquistatori ionii con la dea Oupis, per cui i pii artigiani e artisti della città cominciarono a sentirsi preoccupati per la sorte della loro dea e anche per quella dei loro guadagni. Si ribellarono e, al grido senza fine ripetuto, di «Grande è la Diana degli Efesini», sciamarono lungo la via principale, detta «Arcadiana», fino al teatro, dove il loro capo, Demetrio, pronunciò un discorso infuocato, contro gli Ebrei e contro Paolo. Le autorità riuscirono con difficoltà a sedare il tumulto con l’assicurazione che la maestà della dea era intoccabile e fuori della portata di qualsiasi attacco ( Atti, XIX.)
La chiesa, fondata da Paolo a Efeso, non gli rimase fedele a lungo. Cadde sotto l’influenza di un uomo chiamato Giovanni, la cui personalità è stata un serio problema per i critici. Potrebbe trattarsi dell’autore dell’Apocalisse, che abbonda in invettive contro l’apostolo Paolo. La tradizione lo identifica con l’apostolo Giovanni, al quale si attribuisce il quarto vangelo. Secondo questo vangelo, quando Gesù era sulla croce gridò al discepolo favorito, accennando a Maria: «Ecco tua madre!», e da quel momento Giovanni prese Maria con sé.
Quindi, quando Giovanni andò a Efeso, Maria lo accompagnava. Di conseguenza, accanto alla chiesa dell’apostolo a Efeso, fu eretta la prima basilica in onore della dea-madre dei cristiani. La sua esistenza è attestata fin dal quarto secolo. E allora la città ebbe di nuovo la sua grande dea e, salvo il nome, scarsi furono i mutamenti. Anche gli orefici ripresero il loro lavoro, consistente nel fabbricare modelli del tempio e immagini della dea per i nuovi pellegrini. Però la funzione di Artemide, espressa dall’attributo Kourotrophos. [che alleva i figli] fu assunta da S. Artemidoro, che si prendeva cura delle donne in travaglio.
Poi venne la conquista della città da parte dell’Islam, e infine la rovina e l’abbandono, dovuti al fatto che il fiume, lungo il quale sorgeva, fu soffocato dalle sabbie. Ma nemmeno allora la grande dea di Efeso abbandonò le sue pretese. Ai nostri giorni essa è apparsa, come una santa vergine, ad una pia fanciulla tedesca, Katharina Emmerich, a Dùlmen. Essa le ha descritto il viaggio ad Efeso, l’arredamento della casa in cui era vissuta ed era morta, la forma del suo letto, e via dicendo. Sia la casa che il letto sono stati effettivamente ritrovati, esattamente quali la vergine li aveva descritti, e ora sono nuovamente meta di pellegrinaggi di fedeli.
*Fonte: "Opere di Sigmund Freud", Vol. VI, Bollati Boringhieri, Torino.
*
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON IL LOGO). IL FILOLOGICO "COLPO DI STATO" DEL "FIGLIO DELL’UOMO", PAOLO DI TARSO:
a) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CRISTOLOGICA. Chi è il "Figlio dell’Uomo" (Gv. 12, 34: "Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου")?!
b) LEZIONE "ANDROLOGICA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
c) "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione [...]" (S. Freud, "Il disagio della civiltà", 1929).
IL PROBLEMA DEL MENTITORE, DEL TRUCCARE LE CARTE, DELLA MENZOGNA, IERI COME OGGI, NON E’ AFFATTO UN "BUON MESSAGGIO" ("EU-ANGELO"), NON SOLO SUL PIANO LAICO (ANTROPOLOGICO) MA ANCHE SUL PIANO RELIGIOSO (TEOLOGICO-POLITICO), PER L’ETERNITA’. La "casa comune" costruita su basi inesistenti (e sulla guerra) non può stare in piedi all’infinito e nell’ #infinito. That is the #question... (Shakespeare, "Hamlet", III.1).
FLS
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E COSMOLOGIA:
"IL MOVIMENTO DI UN’ANALISI" (NELLA "STANZA" DI FREUD) E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" (NELLA "NAVE" DI GALILEO GALILEI).
Una nota sul tema, in memoria di Sigmund Freud (1939), Elvio Fachinelli (1989) e di Jean-Bertrand Pontalis (2013).
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI (*). Nella "#culla" di Freud, a ben considerare, c’è la #memoria della #rivoluzionescientifica, e, al contempo, ci sono le #tracce per una ripresa della #rivoluzionecopernicana kantiana e una #svolta_antropologica epocale: la sollecitazione pontalisiana a "trasmettere il movimento di un’analisi" è un grande invito a rileggere il "#Dialogo sopra i #due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano" (#GalileoGalilei, 1632) e riprendere il lavoro nella "stanza" della "grande nave":
PSICOLOGIA, FILOSOFIA, E CRITICA DELLA RAGIONE "PURA":
USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ"(I. KANT, 1784 - M. FOUCAULT, 1984).
SUL "MOVIMENTO DELL’ANALISI" (J.-B. PONTALIS) E SULLA "MATURITÀ" DELL’ ANALISTA,
QUESTA LA RISPOSTA DI FREUD (1° maggio 1932) A S. H. FOULKES:
INTERPRETAZIONE DEI SOGNI, DIVINA COMMEDIA, FAUST, ED ELEUSIS 2023: LA DISCESA NEL REGNO DELLE MADRI.
Alcuni appunti per riprendere il filo di M_Arianna, che lega Freud, Virgilio, Milton, Goethe, e DanteAlighieri, e, possibilmente, portarsi fuori dall’orizzonte della tragica "caduta".
A) - LA DISCESA ALL’INFERNO DI FREUD E DI DANTE. "L’Interpretazione dei Sogni" (1899/1900) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo #Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48).
B) - FREUD E MEFISTOFELE: LA DISCESA NEL "REGNO DELLE MADRI". Una chiarificazione sulla fondamentale determinazione "giunonica" da parte di Freud è ben evidente nella sua "scelta" della citazione virgiliana che apre la via alla "Interpretazione deisogni: “Chi è disceso fino alle Madri non ha più nulla da temere.” (J.W. #Goethe, #Faust, II. 2).
C) - FREUD E MILTON. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, #SigmundFreud scrive che, nel "#Paradisoperduto" (#JohnMilton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
“ACHERONTA MOVEBO”! MATEMATICA E PSICANALISI: “QUATTRO”, PER RISCRIVERE UN “ROMANZO FAMILIARE” NUOVO... Una "vecchia" nota sul programma di ricerca di Sigmund Freud, a commento di un testo poetico-filosofico di Italo Testa.
FILOSOFIA (DELLA CAVERNA) E PSICOANALISI:
L’OMBRA MINACCIOSA DELL’IMMAGINARIO DI EDIPO E PLATONE SULLE SPALLE DELL’INTERA EUROPA.
Una lettera di Sigmund Freud a Lou Andreas Salomé del 25 novembre del 1914, da ri-leggere:
***
PER NON BUTTARE IL BAMBINO INSIEME ALL’ACQUA SPORCA. A gloria di Freud, nonostante la catena che lo teneva legato alla Madre e, come Edipo, si sia comportato da #Padrino ("Pater Freudenreich* - Padre Freud"), fin dal "caso Dora" e, poi, sia arrivato alla disperazione e al pessimismo più nero ("Perché la #guerra?". Carteggio #Einstein-Freud, 1932/1933) sulle possibilità di portarsi fuori dalla tradizionale cosmoteandria di Platone (e Socrate), bisogna dire che, con (e come) Mosè, riuscì a salvarsi dalle grinfie del "Faraone" del XX secolo e a raggiungere Londra!
A mio parere, la sua lettera a #Lou Salomé è una grande sollecitazione a pensare ancora, di più, e meglio, alle difficoltà gigantesche che sono sì del Freud del 1914, ma che sono ancora, oggi - dopo la morte di Nietzsche (1900) e la stessa morte di Freud (1939) - quelle dell’Europa del 2023, governata dalla logica della tragedia di Edipo e dall’algoritmo demiurgico del "Grande Sconosciuto".
Filologia Antropologia Teologia e Pedagogia. "On The Shoulders Of Giants" (OTSOG): "Senza di loro non vedremmo nulla, su di loro vediamo più lontano di questi San Cristoforo" (cfr. U. #Eco, Introduzione all’edizione italiana: "Dicebat Bernardus Carnotensis" del libro di Robert K. #Merton, "Sulle spalle dei giganti", Il Mulino, 1991).
QUALE #IMITAZIONE DEL #MAESTRO DI #GRAMMATICA? QUALE IMITAZIONE DI "SAN CRISTOFORO"? La #via dell’#umiltà (cristoforo-#bambino) o della #superbia (gigante-nano)? :
“NANI SULLE SPALLE DI GIGANTI: "[...] Che cosa significa l’#aforisma? Umberto Eco spiega, nel suo saggio sul #Medioevo di #Federico Motta Editore, qual è il valore di questa espressione. La prima #domanda da porsi è se si tratti di una ammissione di #umiltà oppure di una manifestazione di #superbia. Ma soprattutto, che senso aveva per i medievali paragonare se stessi a dei nani e gli antichi a dei giganti. Un indizio può venire dal contesto in cui è inserita la #massima: Bernardo parlava infatti di #grammatica. In particolare, criticava gli allievi che copiavano pedissequamente gli antichi; al contrario si doveva prenderli a modello, per scrivere altrettanto bene ed essere un domani ammirati al pari loro. È quindi possibile riconoscere un invito all’#autonomia. Come dirà più tardi #Sigieri di #Brabante, rifarsi a un’autorità non basta. Gli antichi erano pur sempre uomini, per cui nulla vieta ai #posteri di dedicarsi anch’essi alla ricerca razionale."
Sul tema, una "vecchia" recensione di #Franco Marcoaldi del lavoro di Robert K. #Merton,"Sulle spalle dei Giganti".
ANCHE IL GIGANTE INCIAMPA
Rispondere a una lettera, magari anche gradita, e fosse pure soltanto con le canoniche "due righe", sembra essere diventato eroico esercizio cui ci si sottopone a malincuore. Con le dovute eccezioni, naturalmente. Robert (Bob) Merton, ad esempio, docente alla Columbia University e stella di prima grandezza della sociologia contemporanea, in risposta alla succinta missiva dell’ amico Bernard (Bud) Baylin, ha inviato non una, ma mille lettere. Che hanno finito per comporre un libro: folle, geniale ed enigmatico, di cui è pressoché impossibile dare un resoconto rapido, e minimamente sensato.
D’ altronde, lo stesso sottotitolo, "poscritto shandiano", indica chiaramente come in omaggio a Vita e opinioni di Tristam Shandy di #Lawrence #Sterne, si intenda procedere qui in modo altrettanto digressivo ed errabondo. Affidandosi alla #serendipity: la capacità di trovare una cosa avendone a lungo cercata un’ altra. Il che non ci consente, comunque, di menare a spasso per altre tre cartelle l’ eventuale acquirente del volume, senza provare a dirgli, almeno a grandi linee, e in modo necessariamente vago, di cosa - in definitiva - il libro tratti. E allora, vediamo di tornare alla letterina che Bud invia all’ amico Bob, chiedendogli informazioni più precise riguardo al celebre aforisma da sempre attribuito a #Newton: "se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle dei giganti".
Siamo proprio così sicuri, si chiede Bud, che sia stato lui, a inventarlo? Detto e fatto. Bob si mette a tavolino, e affidandosi alla sua prodigiosa erudizione, risponde con una lettera (fantastica) di duecentonovanta pagine, che dà forma a quella sarabanda intellettuale raccolta ora in Sulle #spalle dei #giganti (prefazione di #UmbertoEco, Il Mulino, lire 30.000).
Incredibile a dirsi, ma la semplice ricerca à rebours della genealogia di quella minuscola frasetta, consente a Merton di sollevare una infinita serie di questioni. Di immensa, e infima grandezza. Trattate tutte con eguale rispetto, ed eguale irriverenza. Ma, tanto per cominciare, quando compare per la prima volta il celebre Aforisma? In una lettera che #Newton invia a #Hooke nel bel mezzo di una accesa controversia sulla paternità delle rivoluzionarie scoperte relative all’ ottica e alla meccanica celeste.
Da qui Merton prende le mosse, e da qui comincia a sparare una gragnuola senza fine di domande. Chi ha scoperto, cosa e quando? Come la mettiamo con il problema del plagio, delle influenze consce e inconsce? E con quello del rapporto con la tradizione? Gli uomini, su questo punto, mica l’ hanno pensata sempre allo stesso modo. E ancora, i nani (quelli che vedono più lontano), stanno seduti o in piedi, sulle spalle dei giganti? E come fanno "a mantenersi in equilibrio in quell’ imbarazzante posizione"?
Che accade, infine, nel caso in cui i giganti inciampino o cadano bocconi? Se si aggiunge, che nel frattempo, Merton riesce a discutere pure dei vantaggi di "cercare la verità in un dibattito a quattr’ occhi piuttosto che in una discussione pubblica". A proporci le virtù di tal John Aubrey nel definire le persone a partire da colore e taglio degli occhi. E a scoprire un sorprendente plagio di Sterne ai danni di #Burton, proprio nella pagina in cui il primo si avventa contro questa insana abitudine, beh, si capirà bene che c’ è da perdere la testa. Noi, beninteso. Non Merton, che al contrario tesse le fila del suo folle tappeto con perfetto controllo di sé, conscio dei labilissimi confini che separano, nel mondo dell’ #erudizione, #sanità e #pazzia. Talmente conscio da non perdere l’ occasione per stilare una puntuale tassonomia nosografica delle turbe cui la medesima erudizione conduce: l’ adumbrazionismo denigratorio (nulla di nuovo sotto il sole, tutto è già stato detto nell’ antichità); la correlativa sindrome anatopica (occultamento delle versioni antiche); l’ onesta criptomnesia (far passare per proprie idee scovate altrove); l’ insanabile scribendi cacoethes (quella frenesia del pubblicare da cui ci si può curare solo seguendo il consiglio di Thomas Fuller; riempiendo fogli e fogli di carta unicamente all’ inizio della riga). E così via pazziando. Ma non cadiamo pure noi nelle seduzioni digressive dello stile shandiano. E vediamo di concludere.
Si può, in definitiva, sapere quando e come l’ Aforisma nasce, e magari pure quando muore? Sì, in un certo senso, si può saperlo. Nasce nel dodicesimo secolo, con Bernard de Chartres. E muore con #Freud. Quando quel rompiscatole di #Stekel, allievo mitomane e indesiderato, convinto di aver superato di gran lunga il suo maestro, fa un uso davvero smodato dell’ Aforisma. Tanto che il gigante (Freud) è costretto a rispondere al nano (Stekel): "Questo può anche essere vero, ma un pidocchio sulla testa di un astronomo non può farlo".
Il rebus, dunque, è risolto? Per modo di dire: morte, e soprattutto nascita dell’ Aforisma, restano comunque fittizie, aleatorie. Stabilire che il primo e assoluto ideatore sia stato Bernard significherebbe infatti, rammenta Merton, negare la validità dello stesso Aforisma. Forse che quando lo creò, "non era lui stesso posto sulle spalle dei suoi predecessori?". Insomma, è solo per rispettare il noto detto, "un bel gioco dura poco", che Merton la finisce qui. Se fosse per lui, magicamente afflitto dall’ insanabile desiderio di scrivere, sarebbe ancora lì, a giocare. Con la dovuta serietà, naturalmente. Convinto, con Auden, che "soltanto attraverso la commedia, si può davvero essere seri".
(FRANCO #MARCOALDI, "Anche il gigante inciampa", la Repubblica, 10 dicembre 1991).
* Post precedenti:
A) #ANTROPOLOGIA CULTURALE (Gregory Bateson) #PSICOANALISI (Sigmund Freud) E #FILOLOGIA (#LorenzoValla).
Ulteriori appunti...
Benché sull’amletica #question antropologica ("essere, o non essere?"), #Kant ("#Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’#idealismo materialistico o il #materialismo idealistico ha continuato nel suo cosmo-te-andrico edipico #sogno. #GregoryBateson, "all’#enigma della #Sfinge", ha dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo" (così in una conferenza del 1979), ma non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della #tragedia e dalla città di #Edipo: l’#enigma di (dove poggia il piede) san #Cristoforo (S. #Freud, "#Psicologia delle masse e analisisi dell’io", "4. #Suggestione e #libido") non l’ha sciolto:
B) #PSICOANALISI, #FILOLOGIA, #ANTROPOLOGIA E #STORIOGRAFIA: LA #SUGGESTIONE, L’ #ENIGMA DI SAN #CRISTOFORO, E LA "#PSICOLOGIA DELLE #MASSE E #ANALISI DELL’IO" (S. #FREUD, 1921).
Per meglio comprendere il grande rilievo del contributo di #Stekel, al lavoro e alle "#costruzioni nell’analisi" (1937) di #Freud, molto utile anche la lettura del testo della seduta del 1903, pubblicata come articolo con il titolo "Il ’Piccolo Kohn’" (tradotto e curato dal dr. Michele Lualdi):
PSICOANALISI, CRISTIANESIMO, ANTROPOLOGIA E LETTERATURA:
"PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’ IO" (S. FREUD, 1921): DANTE ("Io non Enëa, io non Paulo sono": Inf. II, 32) SA "DOVE METTE CRISTOFORO IL PIEDE" (cfr. Wilhelm Stekel, " Il ’Piccolo Kohn’ ", 1903, tradotto e curato da Michele Lualdi).
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS", "CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT), E "IDEALE DELL’IO" (S. FREUD). CON GIASONE (OVIDIO) E CON ASTREA (LA "VIRGO" DI VIRGILIO) E MARIA-BEATRICE (LA "VERGINE" DI SAN BERNARDO), DANTE RIPRENDE IL CAMMINO, dall’ INIZIO (dall’Inferno) ma dal PRINCIPIO (Par. XXXIII: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio [...] l’amor che move il sole e l’altre stelle") e racconta come è riuscito a ritrovare "LA DIRITTA VIA" e a capire il senso antropologico di sé: "Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine" (Ap., XXII, 13).
PSICOANALISI, STORIOGRAFIA, E FILOLOGIA:
A) Una citazione dal verbale di una riunione della Società psicologica del mercoledì (primo nucleo della Società psicoanalitica), pubblicato in un articolo del 28 gennaio 1903 da Wilhlem Stekel, tradotto e curato di Michele Lualdi:
"Un piccolo studio accogliente di un illustre neurologo. Il padrone di casa siede allo scrittorio e fuma una piccola pipa inglese.
Lo “s p i r i t o i r r e q u i e t o” si adagia su una morbida poltrona e fuma come il suo maestro, per quanto possibile con ancor più agio, una pipa inglese. Il “t a c i t u r n o” maneggia con grande abilità ed eleganza una sottile sigaretta. Il “s o c i a l i s t a” tira tranquillamente da un #Virginia, con una faccia molto seria.
Suonano.
Entra l’“i n d o l e n t e”. Il padrone di casa gli offre un #sigaro. [...]" (W. Stekel, Discussione sul fumare).
B) CONSIDERATO CHE A VIENNA, al Museo della Hofburg nelle liste dei sigari fumati dal Kaiser Franz Joseph è presente anche il sigaro "Virginia", forse, è bene dedicare allo “s p i r i t o i r r e q u i e t o” (di Stekel), che "fuma come il suo #maestro [...] una pipa inglese", maggiore attenzione (cfr. "Passando da Stekel. Edizione critica dell’Autobiografia di WilhelmStekel" di Michele Lualdi).
C) IL NOME DI DIO. A memoria di Stekel, ricordo l’importante nota di Freud sul "#significato della #successione delle vocali":
"Indubbiamente ha suscitato frequenti obiezioni l’affermazione di Stekel che, nei sogni e nelle associazioni, i nomi che devono rimanere nascosti appaiono sostituiti da altri che rassomigliano ai primi solo in quanto contengono la stessa successione di vocali. Però un’evidente analogia si incontra nella storia della religione. Tra gli antichi Ebrei il nome di Dio era tabù; non lo si poteva pronunciare né scrivere. (Vi sono molti altri esempi del particolare significato dei nomi nelle civiltà arcaiche). Tale divieto riceveva un’obbedienza così implicita che, a tutt’oggi, rimane sconosciuta la vocalizzazione delle quattro consonanti del nome dio (JHVH). Però il nome era pronunciato Jehova prendendosi in prestito le vocali della parola Adonai («Signore»), nei confronti della quale non vigeva tale proibizione (Reinach, 1905-12, 1, 1)." (cfr. S. Freud, "Opere", 1911, vol. 6).
NOTE SUL TEMA:
1) - Freud e la sua debolezza: i sigari:
2) -I SIGARI DI MARCEL DUCHAMP E I SIGARI DI JACQUES LACAN. Un ricordo di Gianfranco Baruchello (6 marzo 2017):
FLS
PSICOANALISI, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA:
LA SUGGESTIONE, L’ ENIGMA DI SAN CRISTOFORO, E
LA "PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO" (S. FREUD, 1921).
Per meglio comprendere il grande rilievo del contributo di Stekel, al lavoro e alle "costruzioni nell’analisi" (1937) di Freud, molto utile anche la lettura del testo della seduta del 1903, pubblicata come articolo con il titolo "Il ’Piccolo Kohn’", tradotto e curato dal dr. Michele Lualdi*:
[FREUD] - Il maestro [...] cosa è suggestione? [...] Mi sono recato dai più celebri maestri della suggestione, ma nessuno ha potuto darmi una risposta a questa domanda.
*cfr.Wilhelm Stekel: "Il ’Piccolo Kohn’" (1903)
AllegaTO: San Cristoforo (Wikipedia).
NOTA:
"INTERPRETAZIONEDEISOGNI", E "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (SIGMUND FREUD,1937): "CLAUSTROFILIA" (ELVIO FACHINELLI, 1983). Una risposta all’edipica ed amletica domanda ("question") di Freud e all’enigma di Cristoforo (come quello della Sfinge), a mio parere, può essere così sintetizzata: noi (esseri umani) del Pianeta Terra "fumiamo" troppo e ancora non abbiamo capito la lezione di Amleto (Shakespeare), e della Regina Vergine, Elisabetta I d’Inghilterra, continuiamo a "fumare" il tabacco della "Virginia" e il sigaro del "Kaiser", e, non vogliamo nascere a noi stessi (esseri umani).
FLS
#PSICOANALISI #FILOLOGIA E #SERENDIPITY: UNA NOTA SULLA ROTTURA DEL RAPPORTO TRA IL #MAESTRO (#FREUD) E Lo "SPIRITO IRREQUIETO" (#STEKEL) GETTA INEDITA LUCE SULL’#ENIGMA DI SAN #CRISTOFORO DELLA "PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO" (cfr. post precedenti), SULL’AFORISMA "NANI SULLE SPALLE DI GIGANTI" (E, ANCORA, SULL’INTERPRETAZIONE DELLE TRE METAMORFOSI DELLO SPIRITO E DELLA LOTTA TRA IL NANO E ZARATHUSTRA NELL’OPERA DI NIETZSCHE).
Sul tema, una "vecchia" recensione di Franco Marcoaldi del lavoro di Robert K. #Merton,"Sulle spalle dei Giganti".
ANCHE IL GIGANTE INCIAMPA
di FRANCO MARCOALDI *
Rispondere a una lettera, magari anche gradita, e fosse pure soltanto con le canoniche "due righe", sembra essere diventato eroico esercizio cui ci si sottopone a malincuore. Con le dovute eccezioni, naturalmente. Robert (Bob) Merton, ad esempio, docente alla Columbia University e stella di prima grandezza della sociologia contemporanea, in risposta alla succinta missiva dell’ amico Bernard (Bud) Baylin, ha inviato non una, ma mille lettere.
Che hanno finito per comporre un libro: folle, geniale ed enigmatico, di cui è pressoché impossibile dare un resoconto rapido, e minimamente sensato. D’ altronde, lo stesso sottotitolo, "poscritto shandiano", indica chiaramente come in omaggio a Vita e opinioni di Tristam Shandy di #Lawrence #Sterne, si intenda procedere qui in modo altrettanto digressivo ed errabondo. Affidandosi alla #serendipity: la capacità di trovare una cosa avendone a lungo cercata un’ altra. Il che non ci consente, comunque, di menare a spasso per altre tre cartelle l’ eventuale acquirente del volume, senza provare a dirgli, almeno a grandi linee, e in modo necessariamente vago, di cosa - in definitiva - il libro tratti.
E allora, vediamo di tornare alla letterina che Bud invia all’ amico Bob, chiedendogli informazioni più precise riguardo al celebre aforisma da sempre attribuito a #Newton: "se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle dei giganti". Siamo proprio così sicuri, si chiede Bud, che sia stato lui, a inventarlo? Detto e fatto. Bob si mette a tavolino, e affidandosi alla sua prodigiosa erudizione, risponde con una lettera (fantastica) di duecentonovanta pagine, che dà forma a quella sarabanda intellettuale raccolta ora in Sulle #spalle dei #giganti (prefazione di #UmbertoEco, Il Mulino, lire 30.000). Incredibile a dirsi, ma la semplice ricerca à rebours della genealogia di quella minuscola frasetta, consente a Merton di sollevare una infinita serie di questioni. Di immensa, e infima grandezza. Trattate tutte con eguale rispetto, ed eguale irriverenza.
Ma, tanto per cominciare, quando compare per la prima volta il celebre Aforisma? In una lettera che #Newton invia a #Hooke nel bel mezzo di una accesa controversia sulla paternità delle rivoluzionarie scoperte relative all’ ottica e alla meccanica celeste. Da qui Merton prende le mosse, e da qui comincia a sparare una gragnuola senza fine di domande. Chi ha scoperto, cosa e quando? Come la mettiamo con il problema del plagio, delle influenze consce e inconsce? E con quello del rapporto con la tradizione? Gli uomini, su questo punto, mica l’ hanno pensata sempre allo stesso modo. E ancora, i nani (quelli che vedono più lontano), stanno seduti o in piedi, sulle spalle dei giganti? E come fanno "a mantenersi in equilibrio in quell’ imbarazzante posizione"? Che accade, infine, nel caso in cui i giganti inciampino o cadano bocconi? Se si aggiunge, che nel frattempo, Merton riesce a discutere pure dei vantaggi di "cercare la verità in un dibattito a quattr’ occhi piuttosto che in una discussione pubblica". A proporci le virtù di tal John Aubrey nel definire le persone a partire da colore e taglio degli occhi. E a scoprire un sorprendente plagio di Sterne ai danni di #Burton, proprio nella pagina in cui il primo si avventa contro questa insana abitudine, beh, si capirà bene che c’ è da perdere la testa. Noi, beninteso. Non Merton, che al contrario tesse le fila del suo folle tappeto con perfetto controllo di sé, conscio dei labilissimi confini che separano, nel mondo dell’ #erudizione, #sanità e #pazzia. Talmente conscio da non perdere l’ occasione per stilare una puntuale tassonomia nosografica delle turbe cui la medesima erudizione conduce: l’ adumbrazionismo denigratorio (nulla di nuovo sotto il sole, tutto è già stato detto nell’ antichità); la correlativa sindrome anatopica (occultamento delle versioni antiche); l’ onesta criptomnesia (far passare per proprie idee scovate altrove); l’ insanabile scribendi cacoethes (quella frenesia del pubblicare da cui ci si può curare solo seguendo il consiglio di Thomas Fuller; riempiendo fogli e fogli di carta unicamente all’ inizio della riga). E così via pazziando. Ma non cadiamo pure noi nelle seduzioni digressive dello stile shandiano. E vediamo di concludere.
Si può, in definitiva, sapere quando e come l’ Aforisma nasce, e magari pure quando muore? Sì, in un certo senso, si può saperlo. Nasce nel dodicesimo secolo, con Bernard de Chartres. E muore con #Freud. Quando quel rompiscatole di #Stekel, allievo mitomane e indesiderato, convinto di aver superato di gran lunga il suo maestro, fa un uso davvero smodato dell’ Aforisma. Tanto che il gigante (Freud) è costretto a rispondere al nano (Stekel): "Questo può anche essere vero, ma un pidocchio sulla testa di un astronomo non può farlo". Il rebus, dunque, è risolto? Per modo di dire: morte, e soprattutto nascita dell’ Aforisma, restano comunque fittizie, aleatorie. Stabilire che il primo e assoluto ideatore sia stato Bernard significherebbe infatti, rammenta Merton, negare la validità dello stesso Aforisma. Forse che quando lo creò, "non era lui stesso posto sulle spalle dei suoi predecessori?". Insomma, è solo per rispettare il noto detto, "un bel gioco dura poco", che Merton la finisce qui. Se fosse per lui, magicamente afflitto dall’ insanabile desiderio di scrivere, sarebbe ancora lì, a giocare. Con la dovuta serietà, naturalmente. Convinto, con Auden, che "soltanto attraverso la commedia, si può davvero essere seri".
*Fonte: la Repubblica, 10 dicembre 1991.
NOTA 1
#ANTROPOLOGIACULTURALE (Gregory Bateson) #PSICOANALISI (Sigmund Freud) E #FILOLOGIA (#LorenzoValla). Ulteriori appunti...
Benché sull’amletica #question antropologica ("essere, o non essere?"), #Kant ("#Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’#idealismo materialistico o il #materialismo idealistico ha continuato nel suo cosmo-te-andrico edipico #sogno. #GregoryBateson, "all’#enigma della #Sfinge", ha dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo" (così in una conferenza del 1979), ma non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della #tragedia e dalla città di #Edipo: l’#enigma di (dove poggia il piede) san #Cristoforo (S. #Freud, "#Psicologia delle masse e analisisi dell’io", "4. #Suggestione e #libido") non l’ha sciolto:
"Cristoforo portava Cristo
Cristo portava il mondo intero
Dimmi, dove allora
Ha messo Cristoforo il piede?"
#PSICOANALISI, #ANTROPOLOGIA, E "#COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (1937): STORIA E STORIOGRAFIA.
IL #TRAUMA DELLA #NASCITA, IL TRAUMA DELLA #CIRCONCISIONE (#MASCHILE E #FEMMINILE), "L’#INTERPRETAZIONE DEI #SOGNI" (1899), E "L’#UOMO #MOSÈ" (1938).
Plaudendo all’originale percorso storiografico relativo all’origine della psicoanalisi di cui scrive Carlo Bonomi nel suo libro, ad evitare riduzionismi e fraintendimenti storiografici, forse, è opportuno ricordare con lo stesso Carlo Bonomi (cfr. l’ Introduzione di "A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma") non solo il significato della «parola "(b)rith milah", circoncisione in ebraico, letteralmente “Patto del Taglio”», ma anche il legame che essa ha con la parola #Alleanza (#berît), quella propria tra "Dio" e Abramo («Porrò la mia alleanza tra me e te»: Genesi 17,2) e Mosè («Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi»: Esodo 24,8), e ancora, e al contempo, con le parole scritte da #Freud nel discorso per la festa data in suo onore dalla #Loggia "B’nai B’rith" [“Figli dell’Alleanza”], in occasione del suo settantesimo compleanno, che dicono della sua diversa #interpretazionedeisogni (di #Abramo, di #Giuseppe, e di #Mosè):
LA PSICOANALISI E IL TRAUMA DELLA CIRCONCISIONE (MASCHILE E FEMMINILE): "L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (1899) E LE "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (1937). *
Recensione di Rita CORSA al numero monografico di
Quando mi sono trovata a parlare con Franco Borgogno del numero monografico di The Wise Baby - Il poppante saggio (1/2022), dedicato interamente alle trentennali indagini storiche di Carlo Bonomi, mi è subito venuto in mente il provocatorio concetto di “piglio antistorico della psicoanalisi” (2019, 268), coniato da Borgogno per indicare come la psicoanalisi tenda ad accomodarsi in una confortevole storiografia narratologica, spesso vacua, incompleta e talvolta priva di qualsivoglia traccia documentale. Questo non è di certo il caso dell’opera di Bonomi. Le ricerche archivistiche da lui effettuate, partite proprio per colmare “una circoscritta lacuna storiografica” (2022, 7), hanno successivamente preso un respiro assai ampio, giungendo a offrire una delle più accattivanti e stimolanti proposte interpretative delle origini della psicoanalisi.
I suoi pluridecennali studi, già da tempo affermatisi a livello internazionale, trovano finalmente una ricca esposizione in lingua italiana sul periodico in esame. Il numero monografico è centrato su un lungo saggio del 1994, già tradotto in molte lingue, che racchiude i frutti delle esplorazioni effettuate da Bonomi, transitando per archivi tedeschi e austriaci, alla ricerca di prove che consentissero di formulare delle ipotesi innovative sul primo Freud e sulla teoria traumatica freudiana, pilastro della metapsicologia psicoanalitica. È così germinata una tesi folgorante, che trova la sua radice nel gigantesco scotoma storiografico del giovane Freud, medico pediatra. Bonomi si chiede: Perché abbiamo ignorato il Freud “pediatra”? - che è anche il titolo del saggio del 1994 e dell’attuale numero della rivista. È questo il primo contributo di Bonomi su una materia che scandaglierà per diversi decenni.
Il trauma della castrazione è il fil rouge che scorre, impetuoso, negli scritti di Bonomi. È il tema che aveva svolto compiutamente nel libro Sulla soglia della psicoanalisi. Freud e la follia infantile (2007) e che riprende nel secondo articolo pubblicato sulla rivista(Cura o punizione? Contraddizioni e paradossi nell’incontro di Freud con la pediatria), dove l’Autore ridisegna i contorni della costruzione psicoanalitica freudiana in dialogo con il cambiamento di paradigma che avviene a fine Ottocento nel mondo della pediatria.
Il punto d’avvio di questa coraggiosa avventura è puramente storiografico, nel suo ripercorrere le vicissitudini della sessualità infantile nella pediatria tardo ottocentesca, pervasa dall’ossessione per l’onanismo, considerato causa di follia nei bambini e curato con la castrazione. La castrazione chirurgica di donne e bambine. Una pratica assai frequente, nonché terribilmente invasiva e violenta, in cui si è imbattuto Bonomi nel 1992, durante la disamina di articoli e cartelle mediche custodite nell’archivio dell’Istituto di Storia della Medicina dell’Università di Tubinga, allora diretto dal professor Gerhard Fichtner.
Bonomi rileva che Freud non solo conosce, ma deve aver osservato in prima persona tale odiosa tecnica terapeutica. Una pagina del percorso medico freudiano incomprensibilmente trascurata dai biografi. O francamente scissa dal profilo identitario medico di Freud. Perché ciò sia potuto accadere non è chiaro. Certo è, come fa notare Bonomi, che lo stesso Freud sminuì o cancellò del tutto il suo decennale impegno con i bambini, compiuto proprio in un periodo cruciale per la nascita della psicoanalisi e, in particolare, per la scoperta della sessualità infantile. Questa lacuna biografica si trasforma in un “disturbo della memoria” e in un vuoto teorico, che Bonomi indagherà negli scritti successivi.
Mi permetto di indugiare sul Freud “pediatra”. Nel marzo del 1886, dopo aver seguito le lezioni di Charcot a Parigi, Freud si recò a Berlino, da Adolf Baginsky, per acquisire una veloce formazione pediatrica in vista dell’assunzione dell’incarico offertogli da Max Kassowitz presso l’Istituto Pubblico per le Malattie dei Bambini di Vienna. Egli manterrà l’incarico di responsabile del reparto neurologico dell’ospedale per l’infanzia per 10 anni, fino al 1896. Bonomi ci informa che la struttura verrà chiusa e distrutta in seguito all’Anschluss, portando via con sé atti amministrativi e cartelle cliniche dell’epoca. Non resta quindi alcuna testimonianza degli anni trascorsi da Freud a Vienna in qualità di medico pediatra. Rimane, invece, qualche segno del breve training che Freud svolse con Adolf Baginsky a Berlino, in un momento storico in cui era preminente l’idea che la masturbazione provocasse dei gravi danni neurologici e psichici: «per Baginsky l’onanismo era una malattia del sistema nervoso che prosperava nelle cattive condizioni igieniche» e che era particolarmente pericolosa, perché contagiosa (Bonomi, 2022, 16). Ad esso era inoltre addebitata l’eziologia della maggior parte delle isterie infantili e pure di quelle in età adulta. -------Questa localizzazione genitale dell’isteria, presente fin dall’infanzia, spinse la medicina a considerare l’ablazione della clitoride e delle piccole labbra e l’asportazione delle ovaie come terapie d’elezione nell’isteria. Bonomi correda tale barbaro, ma a quel tempo molto attuato, esercizio chirurgico con un nutrito ventaglio di riferimenti bibliografici. In estrema sintesi, a suo avviso sarebbe proprio la giovanile esperienza in ambito pediatrico a giustificare l’iniziale “personale avversione” di Freud nei riguardi della teoria sessuale delle nevrosi (Freud, 1896, 340), dovuta specialmente agli orrori della castrazione femminile. Freud si riavvicinerà «alla vecchia teoria sessuale» col rafforzarsi del sodalizio con Wilhelm Fliess, che profila «una nuova soluzione terapeutica “etiologica”, basata sulla teoria della nevrosi nasale riflessa» (Bonomi, 2022, 27), una teoria che vede il locus morbi trasferito dai genitali ai “punti genitali” nel naso (Freud, 1888). Osservato alla luce della tremenda ablazione genitale, lo spostamento a livello nasale, con l’asportazione dei turbinanti, sembra certamente una soluzione più accettabile e umana. Annota invero Bonomi, che Freud «riteneva l’operazione al naso “innocua” e fu profondamente scosso dal drammatico esito dell’operazione di Emma Eckstein» (ibid., 29), come racconta l’accorata lettera a Fliess dell’11 aprile 1895 (Freud, 1986).
La vicenda è nota. All’inizio del 1895, Emma Eckstein, paziente di Freud, che da piccola aveva subito la mutilazione genitale, venne operata al naso da Fliess. L’operazione ebbe delle serie complicanze emorragiche a causa di un errore del medico - una garza emostatica fu dimenticata nella narice (Schur, 1972). Da qui il celebre “sogno dell’iniezione di Irma”, fatto da Freud nel luglio del 1895 e riportato nell’Interpretazione dei sogni (1899). Un sogno “post-traumatico” e “oto-ginecologico”, come viene definito da Anzieu (1975). Non mi soffermo su questo sogno, analizzato minuziosamente in una gran mole di scritti psicoanalitici. Segnalo solo che Bonomi lo esamina con dovizia e gran originalità, richiamandosi al mito classico e alla cultura greca.
Rimando al lettore l’approfondimento di questi dotti passaggi, il cui sunto non sarebbe in grado di rendergli pienamente giustizia. Quel che è certo, l’effetto ultimo del sogno di Irma su Freud «sembra essere stato quello di chiudere il periodo delle operazioni chirurgiche per inaugurare quello della psicoanalisi» (2022, 29). Negli anni di fine secolo ha infatti luogo la profonda trasformazione delle nozioni di nevrosi, isteria e sessualità, che perdono il loro riferimento ai “nervi” e agli organi genitali, mutandosi in disturbi senza sede anatomica: «in breve (...) diventano psicologiche» (ibid., 84). E il rivoluzionario apporto del pensiero freudiano a tale sovvertimento di paradigma è sostanziale.
Tuttavia, si può affermare che delle aree d’ombra non mancano nel primo apparato teorico freudiano: «Con l’ausilio della mitologia greca e della “metafora archeologica”, Freud costruì (...) un imponente monumento agli orrori della castrazione» (ibid., 48). Un monumento alla castrazione maschile, innalzato da un ebreo circonciso che non volle che i propri figli maschi fossero sottoposti alla medesima operazione. Eppure, osserva Bonomi, egli difettò di includere nel suo edificio teorico «la castrazione e mutilazione femminile che pure deve aver avuto un ruolo principale nelle sue esperienze mediche giovanili». Una lacuna che «sembra essere strettamente connessa con quegli aspetti di lutto incompiuto che attraversano sia la sua vita che la sua opera» (ivi). Nonostante ciò egli fu capace di creare uno strumento da usare «per entrare nel mondo delle paure del paziente ed esplorare i suoi “traumi”», aprendo la «più straordinaria indagine sulla paura mai trattata dall’uomo» (ibid., 91).
Chiarisce Bonomi che il terzo articolo (L’abisso del controtransfert. Commento a Freud pediatra), scritto appositamente per questo numero speciale, consente allo studioso di oltrepassare “la soglia”, quella del controtransfert, per trovar ragione dell’abbandono della teoria del trauma reale da parte di Freud. Qui si entra nel vivo del discorso psicoanalitico. Bonomi ipotizza che, durante l’analisi della trentenne Emma Eckstein, Freud si trovò di fronte al racconto della “scena della circoncisione” di lei bambina. Bonomi considera che Emma è la paziente principale di Freud all’alba della psicoanalisi. Il lavoro con questa donna «abitò i suoi sogni»; lo influenzò in modo decisivo nell’ipotizzare la teoria della seduzione, ma pure nella sua ritrattazione; ispirò «quella autoanalisi da cui si sviluppa il capolavoro (...) L’interpretazione dei sogni» (2022, 113). Ma quando appare in seduta la “scena della circoncisione di una fanciulla”, lo scenario relazionale si sovverte radicalmente. La vita del medico, che aveva conosciuto nella sua decennale attività pediatrica la ferocia della castrazione femminile e che, pur essendo ebreo, non aveva fatto circoncidere i suoi figli maschi, e quella della sua paziente, si intersecano indissolubilmente. E Freud si trova affacciato in maniera imprevista all’ “abisso del controtransfert”. Questa illuminante espressione viene presa in prestito da Ferenczi, che la adopera nella pagina del primo maggio 1932 del suo Diario clinico per risolvere il rompicapo del motivo dell’abbandono di Freud del concetto di trauma reale. Bonomi aggiunge un altro essenziale tassello alla sua comprensione: è proprio il racconto di Emma Eckstein relativo alla sua esperienza di bambina circoncisa, che spalanca il controtransfert di Freud, rievocando con violenza dentro di sé gli anni trascorsi a operare in qualità di neuropediatra. Bonomi chiosa che «ormai gli ingredienti fondamentali per spiegare la nascita della psicoanalisi c’erano tutti», ed essi «si erano via via chiariti a partire dallo studio su “Freud pediatra”». Essi richiedevano ormai «una narrazione degli inizi radicalmente diversa da quella a cui ci siamo abituati» (2022, 110).
Il quarto contributo (Breve storia apocalittica della psicoanalisi) è una chicca. Riguarda la traduzione in italiano dell’Introduzione al suo ultimo libro, A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma, pubblicato nel 2023 da Routledge, e in uscita in francese per l’Édition Amsterdam. Questo testo chiude il cerchio di un discorso complesso, dipanatosi per decenni, che è progredito aggiungendo via via delle tessere fino a creare un elegante, inedito mosaico delle origini della psicoanalisi. La tesi esposta torna ancora all’analisi di Emma Eckstein e alla mutilazione genitale patita in infanzia. Il disvelamento in seduta provoca profonda angoscia in Freud, che però non riconosce la natura traumatica di questa Beschneidung (circoncisione). Ma l’impatto emotivo controtransferale è travolgente e si intreccia con la sua storia personale di ebreo circonciso, in conflitto con il padre al punto da decidere di non sottomettere i figli a tale rito. Ed è proprio qua, nel rispecchiamento controtransferale di Freud nel trauma della circoncisione, sofferto dalla sua paziente ma che rievoca il suo proprio trauma e quello del suo popolo, che Bonomi individua il fattore principale della nascita della psicoanalisi. E nelle pagine finali della rivista, l’Autore ipotizza «che il trauma non riconosciuto è iscritto nel pensiero di Freud come un lascito amputato da cui germoglieranno e fioriranno i sogni, le fantasie, i pensieri dei discepoli più intimi di Freud» (2022, 113). In particolare Sàndor Ferenczi, che contribuirà in maniera decisiva «a riparare questo lascito amputato, ponendo così le basi per una rifondazione della psicoanalisi» (ivi).
Forse, però, questi antichi nuclei traumatici in parte permangono ancor’oggi. Resti incistati, perché mai fino in fondo pensati, che vengono fatalmente a erodere, in silenzio, quello che per oltre un secolo è stato il granitico edificio psicoanalitico freudiano. Forse.
Riferimenti bibliografici
ANZIEU D. (1975). L’autoanalisi di Freud e la scoperta della psicoanalisi. Vol. 1.Roma, Astrolabio, 1976.
BONOMI C. (1994). Why have we ignored Freud the “Paediatrician”? The relevance of Freud’s paediatric training for the origins of psychoanalysis. In A. Haynal and E. Falzeder (eds.), 100 years of psychoanalysis. Contributions to the history of psychoanalysis. Special issue of Cahiers Psychiatriques Genevois. London, Karnac, 55-99.
BONOMI C. (2007). Sulla soglia della psicoanalisi. Freud e la follia infantile. Torino, Bollati Boringhieri.
BONOMI, C. (2023). A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis. Erasing Trauma. London & New York, Routledge.
BORGOGNO F. (2019). Sándor Ferenczi, psicoanalista classico e contemporaneo. Rivista di Psicoanalisi, 2, 267-279.
FERENCZI S. (1932). Diario clinico. Gennaio-Ottobre 1932. Milano, Raffaello Cortina, 1988.
FREUD S. (1888). Isteria. OSF, 1.
FREUD S. (1896). Etiologia dell’isteria. OSF, 2.
FREUD S. (1899). L’interpretazione dei sogni. OSF, 3.
FREUD S. (1985). Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904. Torino, Bollati Boringhieri, 1986.
SCHUR M. (1972). Freud in vita e in morte. Torino, Bollati Boringhieri, 1976.
*Fonte: SpiWeb, 28.03.203
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Plaudendo alla recensione di Rita Corsa e al formidabile lavoro di Carlo Bonomi, ad evitare equivoci e fraintendimenti storiografici, forse, è opportuno ricordare con lo stesso Carlo Bonomi (cfr. l’ Introduzione di "A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma") che «la parola "(b)rith milah", circoncisione in ebraico, letteralmente “Patto del Taglio”» e, al contempo, che le parole scritte da Freud nel discorso per la festa data in suo onore dal "B’nai B’rith" [“Figli dell’Alleanza”], in occasione del suo settantesimo compleanno, sono le seguenti: "[...] Non so se sono un vero Figlio dell’Alleanza, nel senso che voi intendete. Ne ho quasi dubitato, nel mio caso erano troppe le resistenze. Ma vi posso assicurare che avete significato molto per me, che avete realizzato molto negli anni in cui vi ho frequentato. Ricevete dunque, per ieri come per oggi, il mio più caloroso grazie. Vostro, Sigmund Freud".
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA, #INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (1899), E "#COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (1937): A ONORE E GLORIA DI #SIGMUND #FREUD (1856-1939).
LA "#PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO" (S. #FREUD, 1921) E UNA LEZIONE (TEOLOGICO-POLITICA) ITALIANA. Data la interminabile lotta e #analisi portata coraggiosamente avanti da #Freud (con il suo #Mosè) fino all’arrivo a #Londra, nella città di #Shakespeare (#Amleto), e, al contempo, di #HowardCarter (1874-1939), lo scopritore della #tomba di #Tutankhamon (1922), per imparare ed insegnare a #distinguere tra l’idea della famiglia del #Faraone (secondo la #Legge) e l’idea della "famiglia" del "Faraone" (secondo la #logica zoppa e cieca dell’#incesto), forse, è utile e importante rilegger(si) l’autobiografia di un grande interprete italiano del lavoro di #Freud: Cesare #Musatti, "Il pronipote di Giulio Cesare" (#Milano 1979) e, possibilmente, anche l’#Hamlet di William Shakespeare.
#Oggi, 17 febbraio 2023, a ricordo di #GiordanoBruno (#17febbraio 1600).
PSICOANALISI STORIA E FILOLOGIA. PER CERCARE DI CAPIRE QUANTO DI VIVO CI SIA ANCORA NEL PERCORSO DI FREUD, FORSE, è OPPORTUNO PRIMA DI TUTTO NON CONFONDERLO CON UN "FREUDOLENTO" MARPIONE CHE VA IN GIRO A VENDERE "UN CARPIONE DI VERITà" PRESO CON "ESCA DI FALSITà" (PER DIRLA COME POLONIO).
L’ENIGMA DELLA SFINGE E IL SEGRETO DELLA PIRAMIDE: L’ "ETICA DELLA PSICOANALISI" (J. LACAN) O LE "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD)?!
La questione è epocale, edipica, ma non nel senso banalizzato e dominante. Freud ha capito il suo errore, recupera tutto il suo coraggio iniziale, e precisa con determinazione il senso del suo progetto nel solare testo sulle "Costruzioni nell’analisi"! Se Howard Carter ha scoperto la tomba di Tutankhamon (1922), Freud ha compreso che il "segreto" della sua psicoanalisi non è solo una questione di tecnica (1937)! Per costruire le Piramidi (anche la sua Istituzione Psicoanalitica) non serve più consultare Platone: la "freudolenza" del marpione, con la sua "esca di falsità" (per dirla, ancora, con Polonio) puà essere utile per prendere qualche "carpione di verità", ma serve solo per portarla a Plutone.
ARCHEOLOGIA, PSICOANALISI, E SPIRITO CRITICO. A gloria di Freud, è da dire che la domanda su Edipo è da mettere accanto alla famosa "That is the question" di Amleto (Shakespeare) e alla sollecitazione ultima di Kant di reinterrogare tutta la tradizione culturale dell’Europa a partire dalla antropologia, dalla questione antropologica ("Logica", 1800). Con le considerazioni fatte sulle "Costruzioni in analisi", Freud, con le sue anguille (non con qualche "#carpa di verità"), non solo è riuscito a raggiungere gli Stati Uniti d’America, ma è stato capace di attraversare la Manica e di portare "in salvo", nel Paese di Howard Carter, a Londra, anche "L’uomo Mosè e la religione monoteistica", l’opera su cui ha dedicato tutta la sua vita.
COSTRUZIONI (NON INTERPRETAZIONI) NELLA PSICOANALISI FREUDIANA: IL SOGGETTO NON E’ UNO (NEMMENO DA SOLO), I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE. Le riflessioni di Freud sulle "Costruzioni nell’ analisi", a mio parere, possono essere preziose proprio per imparare a "dialogare" (Niccolò Machiavelli insegna) meglio anche con l’opera d’arte, e, in questo caso, con l’ "Amleto" di Shakespeare. Per una comprensione quanto più rispettosa del’opera, è necessario prima un grande lavoro "archeologico" e poi, a partire dai "dati acquisiti", proporre una sintesi (ri-costruzione) da verificare - per non prendere un granchio, o, peggio, prendere un carpione di verità con un’esca di falsità (alla #Polonio, con fraudolenta mente)!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (KANT, "Logica", 1800). Se si vuole continua a vivere, a lavorare e a pensare ancora nell’orizzonte platonico della "Scuola di Atene", nel "mondo come volontà e rappresentazione" dell’ "uomo supremo" non c’è che da ammetterlo e rendersene conto: le "costruzioni" nella psicoanalisi di Freud, però, non sono per nulla paragonabili alle #costruzioni degli onnipotenti sofisti (signori e signore) delle scuole t(al)ebane psicanalitiche contemporanee (laiche e religiose). Non è il caso di riflettere di più sulla pratica clinica della psicoanalisi tradizionale e accogliere la "vecchia" sollecitazione di Elvio Fachinelli di aprire alla analisi come "nexologia" e, infine, a una rinnovata e altra "fenomenologia dello spirito"!?
L’ESCA DI "POLONIO" E LA "CARPA DELLA VERITÀ": IL PUNTO DEL CAPITONE (LACAN) E LE ANGUILLE DI "AMLETO" (FREUD).
UN PUNTO DA APPROFONDIRE.Una citazione da le "Costruzioni in analisi" (S. #Freud, 1937):
JACQUES LACAN E IL GIOCO DEL DEMIURGO PLATONICO. "IL PUNTO DI CAPITONE": "Al tempo di Lacan, i materassi erano fatti di lana e i materassai li facevano cucendo la fodera con dei punti tramite un ago ritorto. I punti che tengono insieme le due fodere e la lana si chiamano “punti di capitone”.
Il punto di capitone è il nodo dell’imbottitura e Lacan ne fa la metafora del nodo che lega il piano dei significanti con il piano dei significati, altrimenti separati, come accade nella psicosi. [...] Lacan dice che il rapporto del significante e il significato è mobile, tende a disfarsi, invece nei punti in cui il significante si incrocia con il significato si producono effetti di senso. Il punto di capitone è la nozione necessaria per situare l’intenzione di significazione, cioè l’intenzione che mobiliterebbe il significante. Per colui che ascolta, ma anche per chi parla, quando si ascolta qualcosa che è stato detto è sempre nel momento successivo, in après coup, che si può accedere a quest’intenzione di capire qualcosa." (Cinzia Crosali, 2014).
FREUD E LE ANGUILLE (BURATELLI maschi E CAPITONI femmine), E L’ANATOMIA DEGLI ORGANI RIPRODUTTIVI. TRIESTE 1876: "il giovane Sigmund Freud, grazie ad una borsa di studio ministeriale, svolge presso la Stazione Zoologica di S.Andrea una ricerca sul sistema riproduttivo dell’anguilla. Freud esamina circa 400 anguille e scrive la sua prima pubblicazione: Beobachtungen über Gestaltung und feineren Bau der als Hoden beschriebenen Lappenorgane des Aals (osservazioni sulla conformazione e intima costituzione dell’organo globoso dell’anguilla, descritto come testicolo)." (OGS-ISTITUTO DI OCEANOGRAFIA).
PSICOANALISI, "NEXOLOGIA", E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: "[...] Il paradosso di Freud è stato quello di tentare una scienza dell’individuo [...]. E se il suo tentativo può dirsi, in parte, riuscito, ciò si deve al fatto che la sua non è stata una ricerca individualizzante; non è stata una ricerca di psicologia, nel senso stretto, nel senso classico della psicologia individuale. E’ stata sin dal principio una rilevazione dei nessi, dei rapporti peculiari attraverso i quali passa l’individuo singolo dalla sua nascita, e attraverso i quali egli si forma come individuo. In questo senso il termine psicoanalisi, da lui dato al campo di ricerca da lui dato al campo di ricerca messo in luce, è fuorviante, significa un aggancio e un compromesso con la disciplina accademica chiamata psicologia [...] Con Freud, invece si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali; comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore. Di essa, la psicoanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare" (cfr. E. Fachinelli, "Il paradosso della ripetizione","L’erba voglio" - Rivista, n. 5, 1972; poi, in E. F., "Il bambino dalle uova d’oro", Feltrinelli, Milano, 1974).
Federico La Sala
FILOLOGIA FILOSOFIA PSICOANALISI
"ABBRACCIATEVI, MOLTITUDINI" (F. SCHILLER, "INNO ALLA GIOIA", 1785): "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (S. FREUD, 1899) DEI NIPOTINI E DELLE NIPOTINE DI PLATONE...
«Che cos’è, o uomini ["anthropoi"], che volete ottenere l’uno dall’altro? [...] Forse è questo che volete: diventare la medesima cosa l’uno con l’altro, in modo che non vi dobbiate lasciare né giorno, né notte? Se è questo che desiderate, io voglio fondervi e unirvi insieme nella medesima cosa, in modo che diventiate da #due che siete #uno solo, e finché vivrete, in quanto venite ad essere in questo modo uno solo viviate insieme la vita, e quando morirete, anche laggiù nell’Ade, invece di due siate ancora uno, uniti insieme anche nella morte. Orsù vedete se è questo che volete e se vi farebbe lieti ottenerlo...» (Platone, Simposio, 192 d-e)
PLATONISMO E TECNOCRAZIA. Dopo interi millenni di letargo, non è meglio svegliarsi e capire che l’intenzione di "Platone" (e di Efesto) è pure lodevole, ma molto, molto artigianale (demiurgica), il suo amore è avido e cieco (Cupìdo) e il suo fare "di due che siete uno solo" sembra voler correggere la divisione fatta da Zeus, ma alla fine fa tutto all’incontrario e fa solo un campo di sterminio, un deserto. All’altezza del 2023, come scriveva Nietzsche, siamo ancora ignoti a noi (stessi e stesse).
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA. Forse conviene riprendere il filo da ELEUSI (quest’anno è una delle capitali europee della cultura: Eleusis2023) e cercare di capire il segreto dei misteri eleusini, come nascono i bambini, e, finalmente, scoprire (immergendosi, battesimalmente, nel) l’acqua calda, che ognuno e ognuna è già uno, una, in due; ripartire da sé e riprendere il cammino: "Sàpere aude! (Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984). Ricominciare a contare da due, non da uno (dei due, che fa il furbo): "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia). In principio era il Logos - non il logo di una "fattoria degli animali"!
#ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, FILOLOGIA, E #PSICOANALISI.
#DANTE, #FREUD, E LA #DISCESA ALL’#INFERNO...
LA #DIVINACOMMEDIA NON È UNA #TRAGEDIA (UNA "#BRUTTA #DIPINTURA", ALLA #GIAMBATTISTAVICO).
RIPARTIRE DA TROIA. "L’Interpretazione dei Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della #Commedia di #DanteAlighieri (Pg. II, 46-48):
LA #MONARCHIA DEI #DUESOLI. #DanteAlighieri non cantò i #mosaici dei #Faraoni, ma l’amore che muove il Sole e le altre stelle... e la fine del cattolicesimo imperial-costantiniano!
"DIVINA COMMEDIA" E "NASCITA DELLA #TRAGEDIA": DANTE E NIETZSCHE, OGGI.
FILOLOGIA, LETARGO STORIOGRAFICO, E CREPUSCOLO DEGLI IDOLI. In memoria di Edoardo Sanguineti... *
CON MARX E FREUD, NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA" (NIETZSCHE).
“SI DEVE IMPARARE ANCHE L’AMORE. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più; e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore. (F. Nietzsche, “La gaia scienza”, af. 334, Adelphi 1991).
*Nota a margine dell’articolo su "Il Dante di tutti. O quasi” di Marco Grimaldi (cfr. "Le parole e le cose", 11.11.2022).
PIANETATERRA: C’È DIO E #DIO, PATRIA E #PATRIA, FAMIGLIA E #FAMIGLIA. Un omaggio al lavoro dell’International Psychoanalytical Association (IPA) per...
ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI: LA SFINGE, L’ ENIGMA, ED EDIPO, IL RE DI TEBE. Per riflettere sull’epocale urgenza di portarsi oltre l’orizzonte del tragico giogo cosmoteandrico di Giocasta ed Edipo, per uscire sani e salvi dal labirinto e dalla caverna...
PER NON BUTTARE IL #BAMBINO CON L’ACQUA SPORCA. In memoria della madre di Freud, Amalia Nathanson (1835-1930), riprendere e ripensare le indicazioni di Sigmund Freud sull’«edipo completo» ("L’Io e l’Es", 1923) e, al contempo, rianalizzare e rimeditare il discorso, tenuto al Senato della Repubblica italiana, dalla senatrice a vita Liliana Segre (nata nel 1930), nel Nome dell’Italia e della Costituzione (art. 3), come "madre di famiglia", ma anche secondo il suo personale "fermo convincimento").
Psicoanalisi, pediatria, filosofia e pedagogia.
Un problema di libero arbitrio, di ricerca, di eresia, e di fanatismo...
SAPERE AUDE! (KANT, 1784). In omaggio a Sigmund Freud ("sono io stesso un eretico"), forse, è non male ricordare oggi (e ancora) che nel greco classico, il termine eresia, come "il latino haeresis da cui direttamente proviene, riproduce il greco αἴρεσις (...) ha le varie accezioni di "presa, scelta, elezione, inclinazione verso qualcuno o qualcosa, proposta" ; e che questa parola è un segnavia decisivo del suo stesso percorso - dall’inizio fino alla fine. "Acheronta movebo": almeno dalla "Interpretazione dei sogni" fino a "L’uomo Mosè e la religione monoteistica".
IL "PADRE" DELLA PSICOANALISI. L’atteggiamento autoritario di Freud (che ovviamente è anche teorico, addirittura ’autorizzato’ da #Platone) è leggibilissimo (anche) nel testo della stessa lettera (28 nov. 1920): poco gradendo le critiche di #Groddeck, la risposta che egli dà è carica di risentimento: sentendosi provocato, ha il tono di chi si chiude in difesa (anche con le sue ragioni) e risponde a tono (con un"Lei non sa chi sono io!"). Per far meglio capire il suo "carattere", Freud invita Groddeck a leggersi la sua ultima opera "Al di là del principio del piacere"!
"LA FRECCIA FERMA" (Elvio Fachinelli, 1979). Al di là di Freud, il problema, come ben si sa, è proprio il "sonno dogmatico" (Kant) della stessa psicoanalisi (e non solo) che ancora non è riuscita a ben pensare il nodo che lega il rapporto eresia, ortodossia, e fanatismo.
"DAL LUOGO DELLE ORIGINI". Dopo Freud, Winnicott fa un passo da gigante oltre lo "Scilla e Cariddi" edipico: con il coraggio degli inizi dello stesso Sigmund Freud, egli si è portato più vicino appunto al "luogo delle orgini" (1968) - oltre l’ideologico cielo di ogni atavico perbenismo e di ogni cieco narcisismo:
"Il punto centrale sull’adolescente è la sua immaturità e il fatto che non è responsabile [...] l’adolescente è immaturo, gli adulti maturi devono saperlo e devono credere nella propria maturità più che mai [...] se gli adulti cedono le proprie responsabilità ciò significa abbandonare i figli in un momento critico.
L’adolescente non ne è contento, la ribellione non ha più senso, e L’ADOLESCENTE CHE VINCE TROPPO PRESTO RIMANE IMPIGLIATO NELLA SUA STESSA TRAPPOLA, deve diventare dittatore e deve restare lì ad aspettare di essere ucciso.
[...] ciò che conta è che la sfida adolescenziale sia affrontata. Qui la comprensione è sostituita dal confronto [...] la parola confronto è usata per significare che un adulto (il ragazzo) rivendica ad alta voce il diritto di avere il proprio punto di vista [...] il confronto riguarda il contenimento senza rappresaglie, senza vendette, ma che tuttavia conserva la sua propria forza.
[...]
L’adolescenza è qualcosa di più della pubertà fisica, l’adolescenza implica crescita, e questa crescita è lenta. E mentre la crescita prosegue, la responsabilità deve essere presa dalle figure genitoriali. Se queste abdicano allora l’adolescente è costretto a fare un salto verso una falsa maturità e a perdere la sua maggiore risorsa: la libertà di avere delle idee e di agire sulla spinta dell’impulso."
(Donald Winnicott, “Dal luogo delle origini”, 1968, pp. 242-243).
P. S. - Sul tema, mi sia contentito, si cfr. Federico La Sala, Kant, Freud, e la banalità del male.
Federico La Sala
QUEL FREUD E’ PEGGIO DI KAFKA*
LONDRA - Non li divideva soltanto il dissidio ideologico sulla natura ultima dell’ uomo e sulla pratica psicoanalitica. Carl Gustav Jung detestava Sigmund Freud con tutto il cuore, e per lui finì per nutrire soprattutto disprezzo. "Mi dà sui nervi per il suo arido razionalismo", confessa Jung in una lettera ad una devota seguace, la psicologa ungherese Jolande Jacobi. Questa e altre ottantasei missive inedite, sempre con destinataria la Jacobi, saranno messe all’ asta a Londra da Sotheby’ s il 26 maggio e dovrebbero essere vendute ad un prezzo notevole: da sessanta a settantacinque milioni di lire.
Tra i primi e più zelanti discepoli del "padre della psicoanalisi" Freud, Jung ruppe ogni rapporto con l’ autorevole maestro nel 1913 dopo un sodalizio di sei anni: non ne accettava il principio basilare della libido sessuale come motore profondo della personalità. Dalle 87 lettere inedite (56 scritte a mano e 31 a macchina, la prima è del 1928 e l’ ultima del 1961) emerge con lampante chiarezza che le divergenze filosofiche si tramutarono in sprezzante antipatia: "Freud - denuncia ad esempio Jung - è troppo piatto per me. Ha la stessa psicologia di Kafka, che io trovo altrettanto intollerabile". "Freud - si legge in un altra polemica missiva a Iolande - è un dottrinario mentre io non ho dottrine ma descrivo i fatti. Io non insegno come si sviluppa la nevrosi ma descrivo che cosa si trova nelle persone nevrotiche". Pur avendo spesso e volentieri teorizzato e fantasticato sui simboli universali presenti nell’ inconscio collettivo (gli "archetipi"), Jung contesta a Freud anche l’ audace tentativo di una categorizzazione dei sogni e il discutibile metodo della "libera associazione".
L’epistolario non è importante soltanto per la nuova luce che getta sul tormentato rapporto con Freud ma per meglio capire il laborioso sviluppo della teoria psicologica junghiana.
Nato in Svizzera, morto nel 1961 a 86 anni, Jung rivela in una lettera che si guarda bene dal prendere in cura pazienti cattolici: "Io non mi metterò mai in opposizione alle credenze della chiesa cattolica. Rimanderò sempre un cattolico praticante e convinto al suo confessore, non pretendo di mettermi in opposizione al potere guaritore della Chiesa". In una missiva del giugno ’ 33 lo psichiatra elvetico si mostra lungimirante sull’ascesa del nazismo in quel "calderone di gorgoglianti streghe" che è la Germania.
* Fonte: la Repubblica (20 maggio 1994)
MEMORIA DELLA LIBERTÀ E DELLA COSTITUZIONE: LA LEZIONE DI RITA LEVI MONTALCINI.E SIGMUND FREUD.
Antropologia, matematica, filosofia, e "disagio della civiltà" e nella civiltà (Sigmund Freud, 1929).
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana...
Nel breve testo dalla intervista a Rita Levi Montalcini
ci sono straordinarie indicazioni di una strada aperta e di un cammino che non riguarda solo le donne e che riguarda tutti gli ambiti della società ancora oggi (2022) segnata dall’ombra di Platone (Adriana Cavarero, "NONOSTANTE PLATONE figure femminili nella filosofia antica", 1990). Una storia di lunga durata e una questione antropologica all’ordine del giorno...
Per uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dalla matematica della tradizione tragica di Edipo (Freud) e dalla Accademia di Platone, questo è il problema di tutti i problemi, le colonne d’Ercole da superare: riconoscere l’autodeterminazione, la libertà di disporre di sé a ogni essere umano, alla donna come all’uomo.
Non si possono truccare le carte e le regole del gioco per l’eternità!
DIVINA COMMEDIA. Il problema è proprio quello di non perdere la memoria, la coscienza e la ragione, e, non ricadere nel sonno eterno, del Faraone (e della Faraona), del Re e della Regina! In principio era il Logos - la Costituzione, non il logo di una fattoria, di una religione ...
Edipo non solo scioglie l’enigma della sfinge, ma soprattutto vuole sciogliere il nodo più grande che è quello con la madre-regina e di una Legge incestuosa...
La lotta di Rita Levi Montalcini con il padre richiama la lotta di Sigmund Freud con il padre! Alla fine, entrambi hanno saputo distinguere tra la Legge del Faraone e la Legge di Mosè.
Senza l’interpretazione dei sogni del Faraone, Freud non sarebbe mai arrivato a Londra e l’opera "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" non avrebbe mai vista la luce (1938)!
PSICOANALISI: STORIA E STORIOGRAFIA. UN INVITO...
... A RIPARTIRE proprio da "Mosè e il monoteismo", da questa affermazione "difensiva" di Freud (a Charles Singer, del 31 ottobre 1938): "Un uomo vecchio non può avere idee nuove; non gli resta altro che ripetersi"!
INTERPRETARE BENE E, AL CONTRARIO, CAPOVOLGENDO LO SGUARDO, RILEGGERE PROPRIO A PARTIRE DAL CORAGGIO DI QUESTA ULTIMA OPERA (portata a compimento a Londra e pubblicata ad Amsterdam nel 1938), non solo TOTEM E TABU’ ma la stessa INTERPRETAZIONE DEI SOGNI.
Solo così lo straordinario "mosaico" dell’ampio e profondo lavoro archeologico di Sigmund Freud può apparire alla luce in tutta la sua audacia e brillantezza antropologica, filosofica e scientifica.
IL MONOTEISMO DI UNA LINGUA E DI UNA RELIGIONE E IL PROBLEMA MOSE’...
Il lavoro archeologico (e psicoanalitico) di Freud, a mio parere, non mira a "criticare" la propria o un’altra "lingua-religione" per imporre la sua "religione-lingua" (nonostante tentazioni nel suo percorso e di molti suoi psicoanalisti "seguaci" ci siano state e ci sono ancora), ma a "trovare" e capire la sorgente antropologica comune a tutte le "lingue-religioni", sì da evitare illusioni di fondamentalismo "linguistico-religioso", proprie del monoteismo faraonico (narcisistico ed edipico) di tutte le religioni e dialogare con tutte le altre "lingue-religioni".
USCIRE DALL’INFERNO. In questo Sigmund Freud è molto prossimo alla sollecitazione già e anche di Dante Alighieri (ricordare la sua Divina Commedia e la sua Monarchia e la lezione sui Due Soli) che ha criticato fortemente e duramente il patto di alleanza di lunga durata della Chiesa Cattolica con Costantino e s’interrogava su come entrare in comunicazione, in dialogo con altri esseri umani di terre lontane e di lingue diverse...
SAPERE AUDE! (Kant): AVERE IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA - FINO ALLA FINE...
Sigmund Freud: "[...] Dunque, debbo rischiare" (Lettera a Charles Singer del 31 ottobre 1938)! A partire da "Mosè e il monoteismo" rileggere "Totem e Tabù", non viceversa!
Contrariamente a quanto Freud stesso dice ("io sono un incredulo radicale"), per lo più, si è finito per credere alla sua mezza verità, che l’opera sia una semplice ripetizione di vecchie idee: un giudizio assolutamente offensivo per Freud e autodistruttivo per la psicoanalisi!
Come se l’opera su "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" non fosse mai stata scritta e Freud non fosse mai arrivato a Londra !
P. S. - GIOGO E GIOCO: REPRESSIONE, ESPRESSIONE, E DISAGIO NELLA CIVILTA’...
STORIA E CULTURA. Non è un caso che lo storico olandese, Johan Huizinga abbia scritto, nel 1935, "La crisi della civiltà" e tre anni dopo, nel 1938, un’opera fondamentale sul "gioco come funzione sociale", intitolata Homo Ludens. E, nello stesso anno, Freud riesce a raggiungere Londra e ad Amsterdam pubblica la sua ultima opera su "Mosè e il monoteismo".
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, ANTROPOLOGIA CULTURALE, ARTE E PSICOANALISI...
L’UOMO VITRUVIANO, LA DIGNITA’ DELL’UOMO, E LA DIGNITA’ DELLA DONNA.
In memoria di Franca Ongaro Basaglia e Ida Magli....
Con l’anno nuovo e l’arrivo dei Magi presso la #sacrafamiglia, è proprio bene richiamare l’attenzione sulle parole del Salmo (8: 4-8): “Che cos’è l’uomo che tu n’abbia memoria? e il figliuol dell’uomo che tu ne prenda cura! Eppure tu l’hai fatto poco minor di Dio..”; e, lodevolissimamente, sollecitare a riflettere sul tema e sul significato di "uomo" e di "figliuol dell’uomo".
Ma di quale uomo si parla? Si parla solo di andrologia?
Riprendendo "l’uomo vitruviano", Leonardo ha fatto un disegno, ma l’industria "culturale" di ieri e di oggi ne ha fatto un mito, che associato alla generica e generale parola di "uomo" e "figlio dell’uomo" ha guidato e guida ancora l’immaginazione filosofica, teologica, artistica dei "diritti dell’uomo"!
Ma cosa "nasconde" questa mitizzazione e idolatrizzazione dell’ Uomo Vitruviano (dello stesso tempo di Leonardo e Raffaello, vedere l’altra faccia del quadro (1510), quello del Sapiente di Charles de Bouelles.? Semplimente "l’altra metà del cielo" è confinata nello stadio dello specchio, nello stato di minorità.
Luce Irigaray, in occasione dell’ 8 marzo del 2004, sul "Perché il pianeta donna non è stato ancora esplorato a fondo", ricordava: “[...] Mafalda a suo padre che sostiene che “l’occhio di Dio ci vede tutti uguali”: “Ma chi è il suo oculista?” lei gli chiede“.
IL MONDO E’ UNO. Non è più tempo né di conquistatori (il ’vecchio’ gioco di "Freud o Jung?", alla Eduard Glover) né di colonizzati (Cuernavaca). Una antropologia (e una cristologia) al di là dell’orizzonte edipico e della cosmoteandria andrologica (Dante 2021 insegna) è già nata: Giuditta ha tagliato la testa ad Oloferne e la critica della demitizzazione non solo della "nascita dell’eroe" (Otto Rank) ma anche della stessa figura di Freud e delle strutture chiesastiche della psicoanalisi (si vedano le preziose ricerche e il lavoro investigativo di Michele Lualdi) ha aperto porte e finestre sugli infiniti universi...
Dall’alto della mia ignoranza, non è più il tempo di esportazione né di peste né di democrazia! Sigmund Freud da Londra se ne sta "sulla spiaggia" di Maresfield e guarda compiaciuto il cielo stellato (Kant) e sorride: la claustrofilia è finita e ha capito che "la mente estatica" (Elvio Fachinelli) è la via di una formazione cosmica e di un’amicizia stellare...
PSICOANALISI, FILOSOFIA, E LETTERATURA.
"IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (FREUD, 1929) EUROPEA:
"L’ INTERPRETAZIONI DEI SOGNI" (FREUD, 1900) E "L’ELETTO" (THOMAS MANN, 1951).
Classici. La sublime grandezza del Mann "minore"
Concluse le nuove traduzioni di tutti i romanzi per i Meridiani: i tre raccolti nell’ultimo volume sono i meno noti, ma anche i più vari e ironici
di Marino Freschi (Avvenire, venerdì 3 dicembre 2021)
Finalmente si conclude la grande impresa della traduzione di tutti i romanzi di #ThomasMann. Questo secondo volume dei Romanzi nei “Meridiani”, a cura dell’infaticabile Luca Crescenzi (pagine 1.568, euro 80,00), propone nuove traduzioni ad opera di Margherita Carbonaro e Elena Broseghini, dei romanzi per così dire minori: Charlotte a Weimar, composto tra il 1936 e il 1939, introdotto da Aldo Venturelli; L’Eletto, scritto tra il 1948 e 1950, con una prefazione di Elisabeth Galvan e infine Confessioni dell’impostore Felix Krull, con una premessa di Werner Frizen. Le Confessioni sono l’opera ironico-parodistica di una vita. Cominciamo dal Krull: Crescenzi, quale curatore del volume, ha avuto il coraggio di aggiornare il titolo, assai antiquato, che recitava Confessioni del cavaliere d’industria F.K. Pensate che nel 1905 Mann (aveva trent’anni), dopo la lettura delle memorie di un avventuriero rumeno, cominciò a scrivere su una figura simile, e così nacque il più ironico romanzo della sua vita. Un progetto che abbandonava e riprendeva. Erano tempi severi: la Grande Guerra, l’inflazione e finalmente la Repubblica di Weimar e infatti nel 1923 esce una parte cospicua del racconto, ma sarà solamente alla fine della guerra, nel 1954, che Mann conclude la prima (ed unica) parte. Di nuovo in Europa, a Zurigo, nel Grand Hotel Dolder dopo aver conosciuto un giovane cameriere, l’ultimo amore (platonico), sente di nuovo il piacere e la forza di proseguire a scrivere questo romanzo leggero, sottilmente perverso, un autentico ricamo dell’intelligenza e dell’umorismo. Morì sempre a Zurigo nell’agosto del 1955 e così ci lasciò con un’opera aperta, sublime e ironica, fascinosamente sospesa tra il romanzo di formazione, caratteristico della tradizione letteraria tedesca, e il racconto picaresco.
Nel 1951 aveva pubblicato [L’eletto] un altro racconto stranissimo, di tutt’altro segno: una sorta di riscrittura di un poema medievale, Gregorius. Divenne un racconto inquietante e nel medesimo tempo rispettoso - persino linguisticamente - di quella devota civiltà medievale. Si trattava di una variante del mito di Edipo, trasfigurata e redenta nell’#Europa cristiana. L’impasto linguistico con elementi dal latino, dai parlati romanzi, dal tedesco medievale contribuisce al fascino intrigante, sostenuto da uno stile allegro, melodico come un Lied, come una canzone di un trovatore. Per noi l’incipit ha qualcosa di commovente con le campane di Roma: «Suono di campane, frastuono di campane supra urbem, sull’intera città, nelle sue brezze ricolme di note! Campane, campane, che oscillano e ondeggiano, dondolano e ciondolano con moto alterno sospese ai travi e ai ceppi, con le loro cento voci, in una babilonica confusione». E nella città eterna si compie il #destino, altrimenti tragico, di Gregorius, l’Eletto al sacro soglio pontificio: colui che molto peccò, e molto si pentì ed espiò, era scelto a sostenere la santa istituzione della Chiesa.
Si dice che questo romanzo venisse apprezzato dalle romane gerarchie tanto da consentire al luterano Mann un incontro con il Pontefice nel 1953, come ricorda nel diario: «Mercoledì 29 aprile udienza privata da Pio XII, esperienza di grandissima intensità e commozione, che continua ad agire con forza in me in modo strano». È la magia di Roma, quella Roma dove Mann aveva scritto, ventenne, il primo capolavoro, I Buddenbrook, quella Roma che lo collegava al suo grande maestro, a Goethe, che lo aveva accompagnato, idealmente sostenuto per l’intera esistenza di scrittore e d’intellettuale. Nei momenti più amari e aspri della vita tornava sempre a Goethe, come in quel terribile 1936 in cui ruppe pubblicamente, definitivamente con il Terzo Reich dopo un lungo silenzio di tre anni, trascorsi già in esilio.
Il rifugio spirituale fu questo divertissement serissimo: Charlotte a Weimar. Mann rievoca la visita che Charlotte Buff Kestner, la Lotte del Werther, compì a Weimar nel 1816. Lo spunto era autentico, Frau Kestner era stata veramente a Weimar e durante il soggiorno fu invitata nella sontuosa casa di Sua Eccellenza von Goethe, che gli mise a disposizione la carrozza per una rappresentazione teatrale. Alla fine dello spettacolo, la carrozza attendeva la donna - che al figlio aveva scritto quanto Goethe fosse stato algido. Nel tragitto - sogno o realtà non sappiamo - Goethe appare e le parla come allora: ecco che il genio del Werther ritorna. Lei ascolta e infine non le resta che augurargli: «Pace alla tua vecchiaia!». Augurio per il grande di Weimar, ma anche per Mann, il grande esule, lontano dalla patria, ma che poteva ancora affermare con amaro orgoglio: «Dove sono io, c’è la cultura tedesca».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
PSICOANALISI E FILOSOFIA.
SU FREUD: RIPARTIRE DAL PRINCIPIO.
Per comprendere meglio Freud e la sua "rivoluzione psicoanalitica" ("Die Frage der Laienanalyse",“Il Problema dell’analisi profana”: «Non succede nulla di strano, i due si parlano. [...] L’analista dà appuntamento al paziente a una certa ora del giorno, lo lascia parlare, lo ascolta, poi gli parla e gli chiede di ascoltare ciò che ha da dirgli»"), c’è solo da salire su una grande nave, scendere nella stiva, e rileggere il "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano" di Galileo Galilei: a partire da Copernico, da qui (da questa opera) prende il via la navigazione nell’oceano celeste (Keplero) e si apre la strada alla relatività di Einstein (e non al relativismo culturale dell’antropologia culturale e di Gregory Bateson!), alla rivoluzione copernicana di Kant, e alla rivoluzione di Ferdinand de Saussure, proprio da "due persone che discorrono" ("Corso di Linguistica Generale").
Per andare oltre le robinsonate (Marx) e oltre l’edipo (Freud), e uscire dal terrapiattismo non c’è altra via: con Elvio Fachinelli, superare la claustrofilia (1983), portarsi "sulla spiaggia" (1985), andare oltre le colonne d’Ercole (di Edipo), e non naufragare (come Ulisse), ma uscire dall’inferno (Dante 2021) e rinascere! O no?!.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE E SAUSSURE: UNA SOLA TEORIA, QUELLA DEI "DUE SOLI". Ipotesi di lavoro
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
L’ENIGMA DELLA SFINGE E LE TRACCE DI UNA PESTE DI LUNGA DURATA.
Interrogarsi ancora con Franca Ongaro Basaglia su cosa e successo a "Edipo a Cuernavaca" ("PM", novembre 1982) forse è meglio! Se ci si lascia accecare dal presente e non si riesce ad aprire gli occhi almeno a partire dagli Etruschi (come ha fatto Freud) come si può uscire dalla città di Tebe?? SarantisThanopulos invita a riflettere sulle "radici sociali del disastro sanitario"(il manifesto,18 settembre 2021) e ricorda "la figura di Rudolf Virchow ventiseienne patologo inviato a investigare un’epidemia di tifo nell’Alta Silesia nel 1848. Dopo un’osservazione di tre settimane stilò un rapporto in cui assegnava la colpa alla povertà e all’esclusione sociale. Se fossero cambiate queste condizioni l’epidemia non si sarebbe ripetuta. Riassunse la sua visione in questa frase: «la malattia di massa significa che la società è scombussolata»”. Bene! Semmelweis nel 1847 scoprì che, nelle cliniche ostetriche, l’alta incidenza di febbre puerperale poteva essere drasticamente ridotta mediante la disinfezione delle mani. Bene! Nel 1924, Louis-Ferdinand Céline scrisse la tesi sul "dottor Semmelweis". Bene! Ma, dall’epoca di Ponzio Pilato, lavarsele le mani è lo sport dominante, ancora, oggi!
Considerato che - come scriveva Kafka (1920) - "non c’è cosa che non sia concatenata e dipendente. Il capitalismo è una situazione del mondo e dell’anima", non è meglio osare uscire dall’inferno (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 90) e dalla casa di Edipo, dell’ alleanza Madre/Figlio e Figlio/Madre (una comoteandria platonica-mente organizzata), e stringersele le mani, in segno di riconoscimento, riconciliazione antropologica, e verità!? Non è bene porre fine al gioco dell’antinomia del mentitore, del mentitore istituzionalizzato e parlare chiaro (parresia)?! O vero e falso sono la stessa cosa?! E Freud non ha capito niente (e a Londra non è mai arrivato)?! O che?!
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E MATEMATICA. NOTE PER RISCRIVERE UN “ROMANZO FAMILIARE” NUOVO...
ACHERONTA MOVEBO. “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei, muoverò Acheronte: Virgilio, Eneide, VII, 312). A partire da questa citazione virgiliana, volendo, è possibile tentare di "rileggere" l’intero percorso della ricerca di Freud. Ricordando con lo stesso Freud della "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), l’altra importante citazione sempre ripresa dall’Eneide (IV, 625 ) : "Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor" (che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore), si comincia a capire cosa c’è nel "coraggio degli inizi" (Rubina Giorgi, 1977) e in questa identificazione di Freud con Giunone/Era (non solo la moglie di "Zeus", ma anche la sua stessa madre) con Didone e con Annibale, il grande nemico di Roma.
IL PROBLEMA DEL LIBERATORE. L’esergo dell’Interpretazione "dichiara" semplicemente la "natura" teologico-politica del suo progetto: cercare di fermare il matrimonio di Enea e la nascita della nuova Troia (Roma)! Con la stessa determinazione di Giunone/Era (Virgilio), Freud lavora a portare alla luce della coscienza europea la struttura edipica del sogno del Dio greco e cattolico-romano (di Platone come di Paolo di Tarso), e venir fuori dall’orizzonte della tragedia (come Dante e lo stesso Nietzsche). Con l’aiuto di "Zeus/Giove"" e di "Era/Giunone", pur tra mille difficoltà, egli riesce a venir fuori dall’inferno e a "nascere, di nuovo"! Nel 1938 arriva a Londra e porta a compimento il suo ultimo lavoro "L’uomo Mosè e la religione monoteistica". Un grande respiro di sollievo! Morirà l’anno successivo.
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova educazione civica e a una nuova educazione sessuale per una "società sana" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (comel’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria.
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello edipico! Che dire?! Che fare?! Non è meglio uscire dal "sonnodogmatico"?!
Federico La Sala
Giornata mondiale a sostegno delle vittime di tortura. Un commento di S. Amati Sas
-***Il contributo di Silvia Amati Sas *
Sollecitata a scrivere in occasione della Giornata Internazionale a sostegno delle vittime di torture farò alcune riflessioni in relazione alla mia esperienza con pazienti che hanno sofferto per torture, o sono stati confinati in campi di concentramento, o familiari di persone scomparse.
Una prima considerazione si riferisce allo sguardo che le istituzioni psicoanalitiche hanno storicamente avuto riguardo a questo tema.
Per molto tempo il sociale non fu considerato un oggetto di studio della psicoanalisi. Negli ultimi decenni è stato possibile constatare una lenta ma evidente apertura. La recente pandemia da Covid 19 ha richiesto un passo in più arrivando a mettere in questione l’idea delle asimmetrie, nel momento in cui come psicoanalisti abbiamo condiviso un mondo violento con i nostri pazienti. La nostra partecipazione inconscia ha richiesto molta attenzione e una necessaria responsabilità, sempre accompagnata da una riflessione etica, tecnica e teorica.
Quando parliamo di un’organizzazione istituzionale violenta e traumatica non sono sufficienti i soli elementi pulsionali (sadomasochismo, ad esempio) pertinenti per la comprensione della psicopatologia individuale. Essa richiede lo studio dei contesti sociali e della dinamica dei poteri (di quello politico, in particolare) che ha l’intenzione di manipolare una collettività con l’obiettivo di dominarla.
Non si deve dimenticare che la tortura era (e continua a essere) insegnata. Da prima degli anni ‘60 esiste la Scuola delle Americhe, inizialmente con sede a Panama, dove oltre all’insegnamento delle tecniche di repressione e tattiche per gli interrogatori, sono state utilizzate le scienze umane per fare della tortura un’arma solida contro la libertà di pensiero delle persone. Probabilmente oggi esistono molte altre scuole di questo tipo nel mondo perfezionate con le moderne conquiste tecnologiche, con lo stesso scopo di esercitare un potere sul singolo e sulla collettività.
Occupandomi della psicoterapia di pazienti reduci da tortura e da esperienza del terrore nei campi di concentramento ho trovato nel libro Simbiosi e Ambiguità di J. Bleger (1967) un modello teorico psicoanalitico funzionale alla lettura delle dinamiche intra e intersoggettive e transoggettive. Ho potuto perciò osservare clinicamente e dare forma concettuale a due meccanismi di sopravvivenza psichica: l’adattamento a qualsiasi cosa e a una resistenza umana basica che ho chiamato l’oggetto da salvare (Amati Sas, 2020). Quest’ultimo non è altro che l’oggetto interno, un oggetto privilegiato per la cui incolumità e vulnerabilità il soggetto si preoccupa (concern).
Sono due fronti di sopravvivenza separate e scisse tra di loro. Da un lato si è installato nel paziente vittimizzato un legame adattativo con il contesto violento e alienante (vincolo simbiotico e posizione ambigua) e, dall’altro, l’alterità è stata preservata nella relazione (intrapsichica) con un oggetto interno (posizione depressiva). Sebbene nel caso della tortura l’appartenenza al contesto alienante implichi un adattamento pericoloso e una rinuncia totale alla capacità di scelta, allo stesso tempo il proprio potere di scelta, di decisione e illusione sono stati conservati segretamente attraverso l’intima preoccupazione per un’altra persona.
Bleger (1967) ha elaborato la dinamica dell’ambiguità nel mondo degli oggetti interni (realtà psichica, relazioni oggettuali) utilizzando il concetto di posizioni di Melanie Klein e aggiungendo una posizione ambigua (pre-conflittuale) che precede le due posizioni conflittuali, schizo-paranoide (divalente) e depressiva (ambivalente) da lei descritte. La posizione ambigua diviene una difesa maggiore nelle situazioni di violenza estrema e la qualità mimetica dell’ambiguità protegge - con l’adattamento, l’obnubilazione, l’indifferenza affettiva - il resto della personalità che rimane come sospesa e lontana.
La posizione ambigua possiede questa qualità obnubilante che offusca gli affetti, sospende le emozioni forti, (paura, terrore, dolore, sofferenza) non le fa però sparire ma funziona come una lieve diniego. Nella sua funzione di difesa maggiore, l’ambiguità consente al soggetto di non differenziarsi troppo dal mondo esterno in cui si trova, di non entrare troppo in conflitto con la realtà attuale e di conformarsi a essa, tale e quale si presenta una sorta di sospensione che dà tempo all’Io di muoversi verso le altre posizioni oggettuali e di creare nuove discriminazioni (antinomie e conflitto) e comprensione. Poiché l’ambiguità forma parte inevitabile della nostra struttura psichica, siamo adattabili alla realtà esterna quale si presenta, molto più di quanto noi stessi possiamo percepire o sospettare (lo scopriamo solo raramente ad esempio, nel il primo lockdown per Covid).
Durante il processo della cura ho percepito, nei discorsi, sogni e ricordi di ogni paziente reduce da estrema violenza, la nascosta resistenza alla situazione di tortura e di prigionia, sotto forma di una preoccupazione per l’esistenza, il destino, l’integrità e la dignità di un’altra persona (figlio, congiunto, sia vivo che morto o scomparso) che ho chiamato oggetto da salvare. L’oggetto da salvare è la rappresentazione nel mondo interno di un vincolo o legame con un altro soggetto. Esso comporta una dimensione intrapsichica di differenziazione, di alterità e di continuità psichica che dimostra una capacità intrinseca del soggetto di funzionare affettivamente al di là della paura (Eigen, 1981), al di là del terrore senza nome al quale era sottoposto con la violenza e la crudeltà.
Quando nel processo terapeutico il paziente scopre (insight) il suo oggetto da salvare (rimasto segreto, rimosso o dimenticato nel suo intimo), conferma l’esistenza e la continuità della propria soggettività e può dare, alla sua premura per un altro essere umano, il valore o significato di sua sfida segreta alla situazione di tortura alienante e corrompente. Nella costellazione difensiva della sopravvivenza psichica, l’adattamento a qualsiasi cosa e l’oggetto da salvare sono metafore per descrivere due modalità diverse di sfida alla violenza presenti allo stesso tempo nel soggetto vittima.
Nel lavoro terapeutico si tratta di rendere pensabili la situazione traumatica vissuta e le sue difese inconsce e di offrire al paziente la possibilità di trasformare la propria difesa tramite l’ambiguità in ambivalenza critica, e la sua alienazione in capacità di giudizio. Il paziente deve decifrare gli affetti che lo turbano, la sua ansia catastrofica, la sua vergogna, il sentimento della perdita di significato dei suoi desideri e comportamenti, l’alterazione del suo senso d’appartenenza e d’identità; deve essere capace di scoprir il suo rigetto alla violenza subìta e riuscire a delegittimarla. É molto importante per il paziente situare la situazione traumatica nel tempo e nello spazio, ricostruendo le sue circostanze.
Il concetto di spazi della soggettività (di Berenstein e Puget, Kaës), intra-, inter- e trans-, permette di descrivere separatamente alcune conseguenze della violenza estrema imposta al soggetto.
A livello intrapsichico, la tortura provoca nella vittima una regressione difensiva a uno stato di ambiguità (diminuzione della capacità di discriminazione, di conflitto interno e di scelta). La scomparsa violenta di tutti i depositari esterni (dai vestiti fino al ricorso alla giustizia, l’habeas corpus, ecc.) si accompagna all’angoscia catastrofica (perplessità, confusione) che è seguita da uno stato d’indifferenza e di apatia, segnale di un tacito accomodamento alla situazione.
I torturatori si avvalgono dello stato di ambiguità che comporta un’aumentata permeabilità alle introiezioni (suggestionabilità), attaccando verbalmente le appartenenze identitarie del prigioniero (famiglia, credo religioso, ideologia politica, ecc.) e obbligandolo ad atti di tradimento della sua struttura morale (lealtà, fedeltà) per indebolire la sua autostima (per esempio, fornire indirizzi, segnalare altre persone). Essi, inoltre, esercitano attacchi continui alle percezioni e all’orientamento.
La loro intenzione è d’imporre alla vittima un’autorità (di aspetto superegoico) parassitaria, arbitraria ed equivoca che permette l’assassinio, il furto, l’impostura, e che vuole impedire il pensiero critico, la comprensione, l’etica e il riconoscimento dell’alterità. Essi cercano di trasformare i loro bersagli in individui indefiniti, imprecisi e manipolabili che non possano difendere le proprie appartenenze, in cui lo stato di alienazione conduce all’incapacità critica, alla suggestionabilità, all’istallazione in una pseudo normalità e alla banalizzazione della corruzione morale.
Nello spazio intersoggettivo, la violenza sociale traumatica organizzata provoca un’importante alterazione delle relazioni umane (nella famiglia e nel contesto immediato della persona vittimizzata) e introduce inevitabili malintesi tra le persone (rigetto, disprezzo, insorgenza di pregiudizi, ecc.). Il sistema torturante si incorpora direttamente nelle famiglie (attraverso minacce, ordini aberranti, finte promesse), obbligando genitori e parenti a compromessi e ad azioni non volute.
Lo spazio transoggettivo è uno spazio della realtà psichica di condivisione inconscia con tutto un gruppo (Kaës, Ventrici), relativo ai bisogni comuni di sicurezza e certezza
A livello affettivo, la transoggettività si collega a un ampio ventaglio di emozioni e illusioni condivise di fiducia (sicurezza) o di catastrofe (perdita di fiducia) nel senso inteso da Bion (Eigen,) relative alla conservazione o perdita di contesti comuni.
La violenza di Stato è sempre indirizzata allo spazio transoggettivo della soggettività del singolo individuo, giacché modificando o distruggendo i contesti comuni di sicurezza mediante il terrore, la propaganda o procedure socio-economiche, essa conduce ogni soggetto e l’intera popolazione all’adattamento alle circostanze provocate.
Ritornando al lavoro terapeutico delle situazioni estreme, il terapeuta avrà bisogno di tutto il suo allarme etico (Amati Sas, 2020) poiché, anche quando siamo lontani nel tempo e nello spazio dagli avvenimenti traumatici, condividiamo con il paziente lo stesso contesto-mondo di terrore e incertezza, che possiede una grande forza di penetrazione e disorganizzazione, e spinge tutti al conformismo (accettare imposizioni senza rendersi conto).
Da un punto di vista emozionale ed esistenziale, ambedue - paziente e terapeuta - transitano nella cura tra rassegnazione e sfida. Si tratta di sostenere il recupero del funzionamento psichico del paziente e della sua intrinseca capacità di auto liberarsi della pesante esperienza di alienazione, per recuperare il proprio sentimento d’essere in divenire. Nello stesso tempo diventare consapevoli, riconoscere la nostra umana plasticità, ossia l’ambiguità conformista esistente in ognuno di noi, evidenzia un mimetismo che non è accettabile né spiegabile per il soggetto e può provocare intensi sentimenti di vergogna. Nella persona che ha subìto violenza estrema, l’affetto di vergogna segnala un conflitto relativo al proprio adattamento e familiarità con una situazione sinistra inaccettabile. La vergogna diventa un affetto strutturante quando si recupera il suo significato conflittuale.
Considerando la tendenza che tutti abbiamo di entrare difensivamente nell’ambiguità, voglio riferirmi a l’indignazione in quanto sentimento controtransferale. Teoricamente, considero l’indignazione come un meccanismo di disimpegno (Laplanche e Pontalis, 1993); sarebbe il dis-impegnarsi, disfarsi della tendenza a essere conformisti davanti alla violenza; ossia un’emozione, un movimento affettivo che ci permette di uscire dalla perplessità immobilizzante, dalla confusione e dalla paura trasmessa dall’evidenza della crudeltà di un essere umano nei confronti di un altro.
L’indignazione segnala che ci troviamo di fronte a una realtà abusiva non accettabile. Nel sentirci indignati c’è, necessariamente, un impulso (combattivo, aggressivo, di autonomia) che ci permette di separare i valori e di liberare il senso critico, la nostra capacità di operare una scelta di valori, scegliere di poter emettere un giudizio di condanna (Laplanche e Pontalis, 1993). Il punto più importante è mantenere vivo in noi la capacità di indignazione perché nella nostra cultura mass-mediatica tutto può apparire possibile e anche ovvio e giustificabile, e poiché c’è sempre in noi un rischio di complicità non voluta con ciò che è inaccettabile.
Nel tema della tortura si trovano molti problemi esistenziali, molte domande sul senso dell’umano e del restare umani e, soprattutto, sul tema del potere. Risulta necessaria una posizione etica di sfida a nostre tendenze conformiste, una sfida che certamente non è neutrale.
Bibliografia
Amati Sas S. (2020) Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. FrancoAngeli, Milano.
Berenstein I., Puget J. (1997), Lo vincular, Paidos, Buenos Aires.
Bleger J. (1967) Simbiosi e ambiguità. Libreria editrice Lauretana. Loreto, 1992.
Eigen M. (1981) The area of faith in Winnicott, Lacan and Bion, Int. J. PsychaAnal., 66 (3): 321-30.
Laplanche e Pontalis (1993) Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma.
Kaës R. (2009) Le alleanze inconsce, Borla, Roma, 2010.
Ventrici G. (2004) Transubjetividad: un término con historia, un término que hizo historia y un término histórico, in Pensamiento vincular: un recorrido de medio siglo. Publicación Asociación Argentina de Psicología y Psicoterapia de Grupo. Buenos Aires.
*Fonte: SPIweb, 24 Giugno 2021
OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE, CON ULISSE-DANTE. Essere giusti con (Kant e) Freud....
PACCOTTIGLIA FREUDIANA
di Sergio Benvenuto *
Molti, e non solo psicoanalisti, votano a Sigmund Freud un vero culto. Per loro Freud non è solo l’inventore di una teoria e di una pratica che hanno marcato la nostra epoca, ma è un genio che raramente si è sbagliato. Il rovescio di questo culto della personalità sono i Freud bashers, quegli autori che non solo attaccano radicalmente Freud e la psicoanalisi, ma dedicano spesso gran parte della loro vita a distruggere il mito di Freud. Ho sempre cercato di sfuggire a questo doppio polo, per confrontarmi con un’immagine del tutto laica - né agiografica né spregiativa - di Freud.
In conclusione. Ho segnalato questi cedimenti intellettuali di Freud per liberarci di una persistente egemonia del pensiero freudiano? Ricordare le concessioni di Freud alla paccottiglia storiografica è parte della campagna per screditare Freud e la psicoanalisi?
No, perché sono convinto che Freud abbia detto alcune cose fondamentali, e che la pratica analitica non è riducibile a una pratica magica o suggestiva. Ma questo a condizione di non prendere Freud alla lettera, di non far parte di una sacrestia psicoanalitica del culto freudiano. Freud era un uomo della propria epoca, con pregiudizi e limiti di certi intellettuali razionalisti della propria epoca, aveva i suoi punti ciechi. Insomma, non si può comprare Freud in toto.
Ma proprio questo dovrebbe permetterci di mettere in luce ciò che in Freud non è effimero, fossero anche solo due o tre cose... Come facciamo del resto con quasi tutti i grandi autori del passato: distinguiamo ciò che resta di un autore, da aspetti transeunti legati alle mode e alle fisime del pubblico dell’epoca, a idiosincrasie personali che oggi non ci dicono più nulla.... Questo è vero per Platone, per Dante, per Molière, per Kant... per tutti. Occorre voltare pagina nella storiografia psicoanalitica: uscire dall’alternativa “ricostruzione pia e pietosa” versus “demistificazione demolitiva”, prendere la giusta distanza da Freud e dalla psicoanalisi. E costruire, anche attraverso Freud, una pratica della soggettività giusta per il XXI° secolo.
* Fonte: Le parole e le cose, 15 febbraio 2021 (ripresa parziale - senza note).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA: FREUD CON KANT.
FLS
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!!
Il punto.
Coppie omosessuali, sì alla tutela civile ma niente confusione col matrimonio
Tante reazioni alle parole del Papa nel docufilm “Francesco”. Parla Fernández arcivescovo argentino: Sin da quando era cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio ha distinto i due piani
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 23 ottobre 2020)
«Ciò che dobbiamo fare è una legge sulla convivenza civile, hanno diritto a una forma di tutela legale. L’ho già sostenuto». Al di là delle forzature mediatiche, l’opinione di Jorge Mario Bergoglio sulle coppie omosessuali non è cambiata negli ultimi dieci anni.
La frase riportata nel documentario di Evgeny Afineevsky ricalca quanto già espresso nel 2010 quando, come arcivescovo di Buenos Aires, si trovò ad affrontare l’infuocato dibattito sulle nozze gay, legge fortemente voluta dal governo dell’allora presidenta Cristina Fernández de Kirchner. A ricordarlo non sono solo accreditate fonti giornalistiche di quell’epoca, tra cui il biografo ufficiale Sergio Rubín.
Ieri, in un messaggio su Facebook, monsignor Victor Manuel Fernández, arcivescovo di La Plata, teologo e profondo conoscitore del pensiero bergogliano, ricostruisce la vicenda, sottolineando come per papa Francesco, prima e dopo l’elezione al soglio pontificio, si devono distinguere due piani.
Da una parte c’è il «matrimonio», termine con un significato preciso, applicabile solo a un’unione stabile tra una donna e un uomo, aperta alla vita. «Questa unione è unica, perché implica la differenza tra l’uomo e la donna, uniti da un rapporto di reciprocità e arricchiti da questa differenza, naturalmente capace di generare vita», spiega monsignor Fernández. Qualunque altra unione simile richiede, dunque, una denominazione differente.
Unioni o convivenza civile, appunto. «Jorge Mario Bergoglio ha sempre riconosciuto, pur senza necessità di definirli matrimonio, l’esistenza di legami molto stretti fra persone dello stesso sesso, che vanno al di là del mero piano sessuale, ma sono alleanze intense e stabili. Le persone si conoscono a fondo, condividono lo stesso tetto per molto tempo, si prendono cura e si sacrificano l’uno per l’altro», afferma l’arcivescovo di La Plata. In caso di malattia grave o morte, uno dei due può desiderare i suoi beni all’altro o che sia quest’ultimo ad essere consultato invece di un familiare. «Tutto ciò può essere contemplato da una legge» sulle «unioni civili o normativa di convivenza civile, non matrimonio».
A tal proposito, monsignor Fernández conferma quanto già riportato dai media dieci anni fa. Ovvero che, durante il dibattito sul cosiddetto matrimonio igualitario in Argentina, il cardinal Bergoglio sostenne tale posizione durante un incontro ad hoc con l’episcopato: la maggioranza, però, si oppose. La questione era già emersa subito il conclave del 2013. Da allora, il successore di Pietro ha sempre mostrato sensibilità e attenzione pastorale nei confronti delle persone omosessuali. Certo, nel docu-film di Afineevsky, Francesco torna espressamente sulla questione delle unioni civili e ripropone, da Papa, quanto già affermato dieci anni fa. Nemmeno questo, però, è un inedito assoluto.
Nel libro che raccoglie le conversazioni con il sociologo Dominique Wolton, pubblicato in Francia nel 2017 e in Italia l’anno successivo, c’è già un accenno al riguardo. «Matrimonio è un termine che ha una storia. Da sempre, nella storia dell’umanità e non solo della Chiesa, viene celebrato tra un uomo e una donna», afferma Francesco in Dio è un poeta, edito nel nostro Paese da Rizzoli. E aggiunge: «È una cosa che non si può cambiare. È la natura delle cose, è così. Chiamiamole unioni civili. Non scherziamo con la verità» .
Il documentario Francesco, insignito ieri, nei giardini vaticani, del premio Kinéo, non contiene, dunque, verità sconvolgenti.
Del resto non era questo l’obiettivo dell’autore, ebreo non praticante di origini russe. Attraverso la raccolta di testimonianze e immagini, il regista cerca di narrare le ferite del mondo: le guerre, l’esodo infinito a cui sono costrette migliaia di persone, i muri vecchi e nuovi, fisici e mentali che separano gli uni dagli altri. Il racconto segue il Papa nei suoi viaggi, da Lampedusa a Manila, da Ciudad Juárez a Santiago.
Il racconto su Francesco, spiega Afineevsky, però, piano piano, si è trasformato in un film «sull’umanità che commette errori, fatta di peccatori...». La chiave è contenuta in una frase di Oscar Wilde cara al Papa e riportata nel filmato: «Ogni santo ha un passato e ogni peccatore ha un futuro».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA !!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
STORIA E STORIOGRAFIA...
Storicizzare Freud
di Aurelio Musi (L’identità di Clio - 29 Febbraio 2016)
La traduzione italiana del bel libro di Elisabeth Roudinesco, Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro (Einaudi 2015) e la pubblicazione, nello stesso anno, del mio Freud e la storia (Rubbettino 2015) rappresentano una stimolante novità per gli studiosi e per la considerazione del rapporto tra storia e altre scienze. La parola d’ordine è: storicizzare Freud. Naturalmente i suoi significati possono essere diversi.
Per la Roudinesco si tratta di proporre un modello di biografia storica con due obiettivi fondamentali. Il primo consiste nel dimostrare come l’invenzione freudiana abbia cambiato il modo stesso di scrivere la Storia. Il secondo obiettivo, meglio riuscito rispetto al primo, è la collocazione della scrittura di Freud nella storia del suo tempo. Il che significa per la Roudinesco ricostruire la rete e il contesto nei quali ha operato il fondatore della psicoanalisi, discepoli e dissidenti, i pazienti, la fortuna internazionale.
Io ho voluto compiere un’operazione differente: ricostruire e approfondire l’idea di storia che aveva Freud e dimostrare come tutto il suo itinerario, dalla formazione alle opere della maturità , vada nella direzione di un elogio della storicità. Da tale punto di vista il padre della psicoanalisi si colloca nello spirito del suo tempo e ha ancora molto da dire alla nostra epoca. Nello spirito del suo tempo è la Bildung degli anni di formazione: la cultura classica, l’ebraismo, la vicinanza ai padri del metodo storico, Droysen e Ranke in particolare, l’attrazione per grandi personaggi storici come Alessandro, Cromwell e Napoleone.
Freud ha ancora molto da dire a noi soprattutto perchè supera radicalmente la dicotomia tra le due culture, quella umanistica e quella tecnico-scientifica e si proietta verso la prospettiva unitaria delle scienze della vita. Egli può essere così visto in una luce nuova e suggerire un programma di straordinaria attualità: fare entrare la vita nella storia e la storia nella vita.
*
NOTA:
STORICIZZARE FREUD? MISSIONE IMPOSSIBILE ...
VITA E FILOSOFIA. Se è vero, come è vero, che "Freud ha ancora molto da dire a noi soprattutto perchè supera radicalmente la dicotomia tra le due culture, quella umanistica e quella tecnico-scientifica e si proietta verso la prospettiva unitaria delle scienze della vita" (A. Musi, "Storicizzare Freud", L’identità di Clio, 29.02.2016), è altrettanto vero, a mio parere, che il progetto di "storicizzare Freud" è una missione impossibile, semplicemente perché egli ha conquistato un "luogo" storico, che è un luogo "meta-storico", che coincide con la messa in questione della stessa "coscienza" di chi fa "storia" e/o "storie"!
Dopo Copernico, dopo Darwin, non si può non riconoscere che è proprio Freud a stabilire che chi scrive la storia (a tutti i livelli) non è più padrone o padrona in casa sua. Vale a dire, diversamente, come sosteneva il maestro dello stesso Musi, Giuseppe Galasso (rievocando la lezione di Nietzsche): "non è la storia maestra di vita, ma la vita maestra di storia". O no?
Dopo i cosiddetti "maestri del sospetto" (Marx, Nietzsche, e lo stesso Freud), per evitare ricadute in fondamentalismi storiografici e nella fatale "dialettica dell’illuminismo", mi sia lecito, si cfr. un mio breve lavoro del 2010: "Kant, Freud, e la banalità del male. Note per una rilettura".
Federico La Sala
Il caso Wilson
di Giancarlo Alfano *
Nel 1930, durante un periodo di degenza a Berlino, Freud riceve la visita di un ambasciatore e uomo politico americano, William C. Bullit, che gli rivela di avere in animo di scrivere un libro sui protagonisti degli accordi di Versailles, con cui si risolse la Prima guerra mondiale (nel contempo, in verità, gettando le basi per la Seconda). Tra questi c’era il Presidente degli Stati Uniti, Thomas Woodrow Wilson, universalmente noto per essere stato colui che concepì e sostenne - al punto da perdere di vista l’effettivo equilibrio politico complessivo che gli accordi avrebbero dovuto garantire - il progetto della Società delle Nazioni.
A questa notizia Freud si riprese improvvisamente dall’abbattimento che lo affliggeva in quei giorni (temeva infatti di avere solo poco tempo da vivere) e propose all’amico americano di scrivere insieme a lui un libro dedicato al Presidente. Quasi dieci anni dopo - una pausa dovuta forse a un disaccordo dovuto alle rispettive posizioni religiose - il padre della psicoanalisi avrebbe sottoscritto la versione definitiva dello scritto, pubblicato poi soltanto dopo la morte della seconda moglie di Wilson.
Quel libro, Il caso Wilson, appare adesso in Italia per le cure di Davide Tarizzo, che non esita a definirlo «una gemma»: sia «della letteratura psicoanalitica», sia «della storiografia novecentesca». -Personalmente non saprei dire se la seconda affermazione è del tutto condivisibile ma certo si tratta di un libro molto interessante, che sollecita nel lettore una serie di riflessioni sull’incidenza culturale e politica della psicoanalisi.
Come spiega il curatore nella sua elegante introduzione, il libro a doppia firma è stato infatti a lungo oggetto di imbarazzo, se non proprio di un’esplicita avversione: per la pochezza dei risultati o per lo stesso atteggiamento di Freud (apertamente ostile a Wilson). Tarizzo preferisce parlare a questo proposito di una «resistenza» dei lettori, che individua nell’incertezza con cui si è portato avanti il compito, indicato più volte dallo stesso Freud (soprattutto nella seconda parte della sua produzione), di applicare la psicoanalisi alle questioni più generali della vita umana.
L’idea del curatore è chiarita sin dall’epigrafe, tratta dal grande libro di Keynes sulle Conseguenze economiche della pace (1919), in cui l’economista osserva che il rapporto del Presidente con l’elaborazione del Trattato di Pace «tocca[va] sul vivo un complesso freudiano». Ed è proprio per la dimensione politica che è oggi importante leggere questo libro: così strano per chi conosce la scrittura freudiana, così analitico, a volte pedissequo, a tratti pedante. In esso infatti, al di là delle intenzioni del suo collaboratore, Sigmund Freud volle proseguire la riflessione avviata nel 1921 con Psicologia della masse e analisi dell’io, passando a un caso concreto - e anzi della massima rilevanza - di leadership contemporeanea.
Un caso che non assomigliava per niente all’immagine del padre primordiale disegnata nell’oramai lontano Totem e tabù (1912-13), e che anzi si segnalava per un’evidente debolezza di carattere del protagonista, pur mostrando - e con grande evidenza - che bastano pochi elementi per influenzare e trascinare le masse: pochi elementi che possono anche essere l’espressione stessa di quella debolezza.
È il frutto più impressionante dello studio freudiano, privo di ogni empatia per il personaggio di cui si occupa, in cui riconosce - nelle parole del curatore - «il mago indiscutibile dell’autoinganno». Gli ultimi capitoli del libro, almeno a partire dal XXXIII, seguono «il progressivo avvicinamento di Wilson al collasso fisico e mentale», dalla firma del Trattato di Versailles, 28 giugno 1919, al crollo del 26 settembre dello stesso anno. -È il racconto spietato del conflitto, nell’inconscio del Presidente, tra «la passività e l’attività aggressiva nei confronti del padre»; il conflitto tra la spinta narcisistica a proporsi come il Dio Figlio che porta, in ossequio al mandato di Dio Padre, la Pace tra gli uomini (cosa che, peraltro, gli uomini gli riconobbero con deliranti dimostrazioni di affetto) e la deriva depressiva di chi si vede tradito e reso incapace di agire.
Il caso Wilson si presenta allora davvero come l’altra faccia della Psicologia delle masse: se nel 1921 Freud aveva individuato lo spirito gregario delle masse e il legame ipnotico con il leader, dieci anni dopo egli lavorò sui processi psicologici di un leader effettivo, mostrando in che modo quei processi producessero leadership, tenendo insieme forza e debolezza, carisma e pochezza di carattere. Quello politico, evidentemente, è una degli aspetti della ricerca di Freud che dobbiamo ancora imparare a capire.
Sigmund Freud - William C. Bullit
Il caso Wilson
a cura di Davide Tarizzo, traduzione di Sarah Manocchio
Cronopio, 2014, 286 pp.
€ 19,00
Sigmund Freud
Psicologia della masse e analisi dell’io
a cura di Davide Tarizzo, traduzione di Enrico Ganni
Einaudi, 2013, LI-86 pp.
€ 16,00
* Fonte: Alfabeta-2, 6 giugno 2014
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI, E POLITICA
ALTRO CHE LACAN, "RITORNARE" A FREUD E AD ALESSANDRO MANZONI...
FORSE è meglio riprendere il filo del discorso dalle riflessioni “fallimentari” di Freud sul “caso clinico di Dora” o, se si vuole e meglio, della “Madonna Sistina”(cfr. S. Freud, “Frammento di un’analisi d’isteria”, 1901/1905) e, rianalizzando la ‘possessione’ di Lacan per “L’origine del mondo” di Courbet, ripartire dalle indicazioni critiche di Alessandro Manzoni sul caso della monaca di Monza e di un’antropologia zoppa e cieca - edipica, appunto - fondata sull’ordine simbolico della madre. Vogliamo o non vogliamo uscire dalla caverna?! O no?! Sapere aude!
Federico La Sala
ESSERE GIUSTI CON KANT E FREUD ....
Nota a margine di “Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
A quanto pare, dopo Derrida e dopo Foucault, non è solo difficile “essere giusti con Freud” ma anche con Kant! Immersi nella palude “acherontica” del “monomito” (James Joyce) dell’ultimo uomo (Nietzsche), non riusciamo più a capire la ragione di Kant che riprende, per dare la sua “Risposta alla domanda: che cosa è l’Illuminismo?”, le parole del suo famoso motto (“sàpere aude”) da Orazio (Epistole, I, 2, v. 40) e, per affrontare il problema “della coesistenza del principio cattivo accanto a quello buono o del “male radicale nella natura umana” , nel capitolo primo di “La religione entro i limiti della sola ragione”, (Laterza, 1979), in testa al “§ 3. L’uomo è cattivo per natura”, cita ancora Orazio (Satire, I. 3. 67): “Vitiis nemo sine nascitur” (“nessuno nasce senza difetti”). Non è perché abbiamo perso il “ben dell’intelletto” e, con esso, il filo di Arianna -lo spirito critico e l’amore conoscitivo ?! O no?! Boh e bah?!
* Cfr. Sergio Benvenuto, di “Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” , "Le parole e le cose", 15 giugno 2020.
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
***
Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
* La Civiltà Cattolica,·Domenica 5 aprile 2020]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI : STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI : LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
COSTITUZIONE, MESSAGGIO EVANGELICO, CATTOLICESIMO ROMANO, E FILOLOGIA... *
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Solo alla psicoanalisi sta a cuore il senso della sofferenza mentale
CONVEGNI. L’efficacia incompresa dell’orientamento psicodinamico. «L’efficacia della psicoterapia psicoanalitica nei contesti di cura»: il 7 a Roma
di Francesca Borrelli (il manifesto, 06.06.2019)
Da anni, ormai, della sofferenza mentale si è impossessato un ingegnoso mercato, che punta sulla idealizzazione delle neuroscienze e sugli effetti delle terapie cognitiviste, entrambe perfettamente sintonizzate con l’individualismo contemporaneo e il tempo della fretta. La cacciata in esilio del senso ha colonizzato il senso comune: non è un gioco di parole, è precisamente quanto è avvenuto in coincidenza con ciò che Alain Ehrenberg chiama, nel suo ultimo libro - La meccanica delle passioni (Einaudi, 2019) - l’avvento di un uomo nuovo: «l’uomo neurale».
ANCHE A CHI non sia un cultore di Freud è evidente come ciò che ci identifica non è il nostro cervello, bensì ciò che facciamo della nostra esistenza. In questo contesto, notava nel 2015 Miguel Benasayag, quel che spesso si nasconde dietro gli attacchi alla psicoanalisi non è ascrivibile alle sue lacune, ma è piuttosto frutto delle sue virtù: sembra che a venire soprattutto rifiutata sia infatti, la «dimensione tragica» della cura analitica, quel contatto del singolo con il mondo in cui risuona l’eco hegeliana di una teoria della storia secondo la quale gli individui, pur dedicandosi alle loro attività e perseguendo fini egoistici servono, sebbene inconsciamente, un comune disegno di emancipazione. L’universo dell’uomo contemporaneo - scrive ancora lo psichiatra argentino - si ferma invece ai confini del corpo. Eppure, nemmeno quando si limita a un fenomeno fisico, il dolore si esaurisce, in realtà, in un impulso nervoso: la sua percezione dipende, infatti, dalla diversa griglia interpretativa che ha in dotazione ciascun individuo. Detto altrimenti, non esiste dolore che preceda il senso.
A dispetto di questa evidenza, Anna Maria Nicolò, attuale presidente della Spi, introdurrà il convegno L’efficacia della psicoterapia psicoanalitica nei contesti di cura (promosso dalla Società Psicoanalitica Italiana, dalla Associazione Italiana Psicologia Analitica, e da Soci Italiani European Federation for Psychoanalytic Psychotherapy) il 7 giugno all’Università La Sapienza di Roma, sottolineando come «la psicoterapia sta praticamente sparendo dalle istituzioni e l’approccio psicodinamico, che aveva tanto bene orientato la prevenzione, la diagnosi e la cura nei consultori, nelle équipe mediche psicopedagogiche delle scuole, nei centri di salute mentale e negli ospedali, viene relegato a settori o a operatori rari e isolati».
ORMAI ALMENO due generazioni di psichiatri sono stati allenati a ignorare la ricorsività intrinseca a giochi linguistici che, se interpretati, potrebbero aiutare sensibilmente molti dei loro pazienti, trattati invece farmacologicamente sulla base di un investimento di interessi sul cervello piuttosto che sulla psiche.
Nel denunciare la illusoria prassi di sbarazzarsi dei sintomi schizofrenici trasferendoli sui farmaci, il grande psicoanalista inglese Christopher Bollas ha parlato di «incarcerazione psicotropa», identificando nella medicalizzazione vigente una minaccia alla dimensione umana. Per molti aspetti, infatti, sintomo e persona sono tutt’uno. «Di fatto - scrive Bollas - l’idea che i disturbi mentali possano essere risolti tramite un intervento neurologico è un errore categoriale ridicolo quanto lo è confondere un programma radiofonico con la radio stessa».
Da che la ricerca empirica ha ormai dimostrato l’efficacia dei trattamenti analitici, ciò che è in gioco - dirà Antonello Correale al convegno - è «capire come e per chi il trattamento analitico funziona e chiarire quali siano i fattori terapeutici realmente attivi». La psicoterapia a orientamento dinamico ha rivelato la sua particolare efficacia nel trattamento della depressione, «inesorabile contropartita dell’uomo che si pretende sovrano» ha scritto Ehrenberg, in un saggio ormai famoso, La fatica di essere se stessi, che analizza questa «malattia della responsabilità» come tipica di dinamiche sociali dove il conflitto non è più fra ciò che è permesso e ciò che è vietato, bensì tra ciò che è possibile, ovvero alla nostra portata, e ciò che è inaccessibile, sebbene propagandato come dipendente dalle nostre capacità autoimprenditoriali.
AL CONVEGNO che avrà inizio venerdì, Antonello Colli si incaricherà di riassumere le critiche più frequenti alle terapie psicoanalitiche: «non sono validate empiricamente; laddove esistano prove empiriche l’efficacia delle terapie psicoanalitiche è modesta se paragonata ad altre terapie evidence based; sono eccessivamente e inutilmente lunghe e costose». Ma «mettere in atto una valutazione psicodinamica in età evolutiva, significa - farà notare Mirella Galeota - sostare senza fretta a osservare e interrogarsi sulla persona intera del paziente, non solo sul disturbo o sull’organo o la singola funzione... Valutare psicodinamicamente un minore significa utilizzare il metodo psicoanalitico che è il solo che consente di stare con propria mente in relazione con la mente dell’altro».
STORIA, FILOSOFIA, E SCIENZA. PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero 7giugno 2019 ...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
Sigmund Freud Speaks: The Only Known Recording of His Voice, 1938 *
Il 7 dicembre 1938, la radio BBC fece visita a Sigmund Freud nella sua casa ad Hampstead, nel nord di Londra.
Freud si era trasferito in Inghilterra solo qualche mese prima per sfuggire all’annessione nazista dell’Austria. Aveva 81 anni e soffriva di un incurabile cancro alla mascella. Pronunciare ogni parola era un’agonia.
Meno di un anno più tardi, quando il dolore divenne insopportabile, Freud chiese al suo dottore di somministrargli una dose letale di morfina. La registrazione della BBC è l’unica audioregistrazione conosciuta di Freud, il fondatore della psicoanalisi e una delle più rilevanti figure intellettuali del 20° secolo.
In un inglese fortemente accentato, dice:
Ho iniziato la mia attività professionale come neurologo provando a portare sollievo ai miei pazienti nevrotici. Sotto l’influenza di un vecchio amico e i miei propri sforzi, ho scoperto alcuni nuovi e importanti fatti sull’inconscio nella vita psichica, sul ruolo dei desideri istintuali, e così via. Da queste indagini è cresciuta una nuova scienza, la psicoanalisi, una parte della psicologia, e un nuovo metodo di trattamento delle neurosi. Ho dovuto pagare un prezzo pesante per questo poco di fortuna. La gente non credette nei miei fatti e trovò le mie teorie disgustose. La resistenza fu dura e inesorabile. Alla fine sono riuscito a procurarmi allievi e a costruire una società psicoanalitica internazionale. Ma la lotta non è ancora finita. Sigmund Freud.
Traduzione a cura di Laura Ravaioli
* Ripresa parziale dall’ Omaggio a Freud 6 maggio 1856 - 23 settembre 1939 della SPI WEB
OLTRE LA CECITA’ DEL DIO DI PLATONE, SULLE ALI DEI "DUE SOLI",
LA NECESSITA’ DI UNA "RAFFINERIA" ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA.
Freud signore degli anelli
Ritrovati gli antichi sigilli che il padre della psicanalisi donava agli allievi più fedeli
di Ada Treves (La Stampa, 18.10.2018)
Tre luoghi fondamentali, tre case trasformate in musei: Příbor, dove Sigmund Freud è nato nel 1856; Vienna, con le stanze dove ha vissuto per 47 anni e in cui ha scritto la maggior parte delle sue opere; Londra, dove il padre della psicanalisi si rifugiò con la famiglia dopo l’Anschluss - l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938 - e fino alla sua morte, nel settembre dell’anno successivo. A Příbor - Freiberg - città della Moravia all’epoca parte dell’Impero austriaco e oggi si trova nella Repubblica Ceca era Sigismund Schlomo, figlio di un commerciante di lane ebreo che poco dopo decise di trasferirsi a Vienna, dove il giovanissimo Freud proseguì gli studi, e decise di abbreviare il proprio nome in Sigmund.
Come in una saga
Inventore della psicanalisi, termine che usò in maniera formalizzata per la prima volta in due articoli del 1896, considerato uno dei personaggi più influenti vissuti tra 800 e 900, Freud è protagonista di due mostre molto diverse. Freud of the Rings - Freud degli anelli - aperta fino a marzo 2019 all’Israel Museum di Gerusalemme è nata dalla curiosità di una giovane curatrice del museo, Morag Wilhelm, dopo il ritrovamento tra gli oggetti della collezione di una scatoletta di cartone su cui compariva la scritta «Freud Nike». Dentro, un anello con incastonata una pietra che raffigurava la dea della vittoria, appartenuto alla paziente di Freud e a sua volta psicanalista Eva Rosenfeld.
Non è l’unico, ed è collegato a una storia che porta a pensare alla Compagnia dell’anello così come la racconta Tolkien nel primo volume della sua saga: Pyllis Grosskurth in The Segret Ring: Freud’s Inner Circle and the Politics os Psychoanalysis spiega come dopo la rottura del 1912 con Carl Gustav Jung, suo discepolo e sino ad allora suo erede, si fosse costituito un Comitato segreto composto dai più prossimi collaboratori di Freud: Karl Abraham, Sándor Ferenczi, Otto Rank, Ernest Jones e Hanns Sachs. Furono loro i destinatari dei primi anelli: discepoli analizzati direttamente dal maestro, rappresentanti della teoria psicoanalitica pura destinati a costituire una roccaforte non ufficiale all’interno della Società di Psicoanalisi. Le pietre, con incisa una divinità, venivano dalla collezione di arte antica di Freud, che a sua volta portava sempre al dito un sigillo risalente ai tempi dell’antica Roma.
Hanns Sachs, nel suo testo del 1944 intitolato Freud, maestro e amico (pubblicato in italiano da Astrolabio nel 1973), scrisse che «Il dono degli anelli aveva un preciso significato simbolico: ci ricordava che ogni nostro reciproco rapporto aveva lo stesso centro di gravità. Ci faceva sentire che appartenevamo a un gruppo nel gruppo, quantunque senza alcun legame formale o il tentativo di diventare un’organizzazione separata». L’Israel Museum espone sei dei circa venti anelli che anche in seguito Freud donò ad alcuni dei discepoli in segno di riconoscenza e di stima, tra di essi oltre a quello di Rosenfeld, gli anelli di Ferenczi, Ernst Simmel e della figlia di Freud, Anna, accanto a una selezione delle sue statuette antiche.
Dallo sguardo all’ascolto
Molto diversa la mostra aperta da pochi giorni al MahJ, il Museo di arte e storia ebraica di Parigi, curata dal critico d’arte Jean Clair - già direttore del Museo Picasso di Parigi e curatore della Biennale di Venezia del centenario - intitolata Du regard à l’écoute, Dallo sguardo all’ascolto: visitabile fino a febbraio del prossimo anno, è la prima organizzata in Francia sul padre della psicanalisi, che pure tra il 1885 e il 1886 visse a Parigi, dove era giunto per studiare con Jean-Martin Charcot. Un percorso intellettuale e scientifico che attraverso alcune grandi opere d’arte - dalla Lezione di Charcot alla Salpetrière di Broullet a Courbet con L’origine del mondo a Klimt, da Magritte, Max Ernst e Mark Rothko a Oskar Kokoschka e Egon Schiele - porta alla scoperta del suo lavoro come neurologo, a Vienna e Parigi, e del suo interesse per la biologia. E racconta come, nonostante la passione di Freud per l’arte, la psicoanalisi sia cresciuta nell’assenza di rappresentazioni visive basandosi esclusivamente sulla parola e sull’ascolto, in continuità con l’eredità di Mosè che aveva proibito al suo popolo di farsi delle immagini.
E se nel Novecento la psicoanalisi si è ulteriormente evoluta confluendo in altre teorie, contribuendo alla nascita di altre scuole, se fra ricerche e studi scientifici che ne esaltato i benefici per i pazienti e altri che ne ridimensionano la portata, il dibattito è ancora così acceso è perché il segno che Freud ha lasciato è indelebile. Quasi un sigillo, come quello che portava sempre al dito.
"LA CHIESA, CORPO DI CRISTO", LA PAROLA DEL PAPA, E LA NECESSITA’ DI UNA "UMILTA’ NUOVA". IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.... *
Pedofilia: la parola profonda e tagliente del Papa.
Se nella Chiesa c’è chi fa muto Dio
di Marina Corradi (Avvenire, sabato 15 settembre 2018)
C’è fra alcuni di noi una stanchezza. Gli episodi di pedofilia nella Chiesa emergono dal passato molto più numerosi di quanto li avremmo mai creduti. Si delinea un male sotterraneo, taciuto, e quasi, in certi ambienti, tollerato. È un’onda fangosa quella che si solleva dall’Irlanda, dagli Usa, dall’Australia e da altrove. Fa scandalo, come è giusto, e fa molto rumore. E appunto alcuni credenti, pure avviliti e addolorati, cominciano a avere una reazione tuttavia di insofferenza: non si sente parlare che di pedofilia, obiettano, non c’è solo questo, la Chiesa è ben altro. La Chiesa, dicono, è piena uomini e donne che fanno del bene senza fare rumore, è fatta anche di missionarie e missionari coraggiosi, di bravi parroci, di suore che curano i figli dei poveri, di laici generosi. È fatta la Chiesa, anche di sconosciuti santi, e di martiri.
Ed è tutto assolutamente vero. Eppure, il Papa giovedì scorso a dei vescovi di recente nomina, tornando sul dramma della pedofilia fra consacrati, ha detto parole drammatiche. Ha detto che le nostre risposte «saranno prive di futuro se non raggiungeranno la voragine spirituale che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze, se non metteranno a nudo il vuoto esistenziale che esse hanno alimentato. Se non riveleranno - ha proseguito - perché mai Dio è stato così reso muto, così messo a tacere, così rimosso da un certo modo di vivere, come se non ci fosse».
Dio reso muto. Dio messo a tacere, come se non esistesse. Etsi non daretur. E hanno vissuto, e vivono, così persone consacrate. Taglia come un rasoio questa parola del Papa. Come il bisturi del chirurgo che, aprendo il petto di un paziente, scopre che è ampio, il male da asportare. Non minimizza il Papa, non si consola pensando a tutto il bene fatto dalla Chiesa. Sembra dirci che occorre prendere coscienza del male, tutto intero, di quanto profondo sia stato - tanto da ammutolire Dio.
Francesco ci fa stare davanti al peccato che ha intaccato la Chiesa, senza scappatoie. Un peccato che, nel dolore delle vittime, nel loro scandalo, riguarda anche noi. Coloro che parlavano a dei bambini di Dio erano gli stessi che ne abusavano: ingenerando in loro il pensiero che né degli uomini, né di Dio ci si può fidare. Pensiero che annienta, colpo di scure su giovani piante.
Dio reso muto, Dio rimosso, proprio da chi doveva insegnare ad amarlo. Il dito del Papa non smette di indicarci ciò che è stato. Noi, forse, avremmo la tentazione di dimenticarcene. D’accordo, lo sappiamo, basta adesso. Perché abbiamo il vizio di pensare che gli uomini e le istituzioni siano "buoni", oppure "cattivi". La Chiesa è "buona", e dunque non tolleriamo di constatare quanti abbiano potuto tradire, e nel modo peggiore, con dei bambini. Ci umilia troppo il ricordarlo.
Ma la Chiesa, corpo di Cristo, è fatta da uomini. Contiene in sé, come il cuore di ogni uomo, possibilità di luce e di buio, di generosità fedele e silenziosa, di eroismo, ma anche di diserzione vigliacca, sotto a ordinate apparenze. E chi conosce il labirinto del suo cuore, e a una certa età almeno bisognerebbe conoscerlo, può guadare allo scandalo che il Papa continua a indicarci, senza domandare che si parli d’altro.
Si può stare a viso aperto davanti a tanto male compiuto in mezzo a noi, solo se non ci si sente orgogliosamente "buoni", "onesti", intoccabili dalla miseria umana. Nessuno è buono, ci ha insegnato Gesù Cristo. Siamo tutti poveri, dei miserabili che mendicano la grazia di Dio. È quella grazia, domandata ogni mattina, che ci permette di fare del bene, che ci allontana dalla attrazione del male. Non un nostro essere "bravi".
«Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore» era la litania dei monaci della tradizione greco-bizantina, ripetuta come un respiro, come una domanda inesausta. In questa coscienza di mendicanti possiamo stare di fronte alle parole del Papa, al tragico Dio muto che ha evocato, e non perdere il coraggio. In un travaglio che potrebbe portarci a una umiltà nuova.
Nessuno è buono, e c’è in ciascuno di noi la possibilità del male. Bisogna ostinatamente domandare. Il peccato dentro la Chiesa che si leva alto come un’onda non ci travolge, se non lo censuriamo; ma, più coscienti del nostro e altrui male, ci ricordiamo che l’autentica santità, come ha concluso l’altro giorno Francesco, «è quella che Dio compie in noi».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
I dialoghi. Vittorio Lingiardi e Benedetto Farina
Dottor Freud aiutaci a cooperare
La psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma di psicoterapia
di Vittorio Lingiardi (la Repubblica, 12.09.2018)
La psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma di psicoterapia. Sono giunto a questa conclusione dialogando con un collega che ha una formazione diversa dalla mia. Non che parlare di "scuole" abbia sempre senso, ma la mia educazione, psicoanalitica, e quella del mio interlocutore cognitivista Benedetto Farina, docente all’Università Europea di Roma e allievo di Giovanni Liotti, uno dei padri del cognitivismo italiano, sono oggettivamente diverse. Cose importanti però ci uniscono: siamo entrambi clinici e ricercatori. Benedetto fa ricerca soprattutto da una prospettiva neuroscientifica; io parto dai trascritti delle sedute di psicoterapia per valutare la qualità dell’alleanza terapeutica: rotture, riparazioni, negoziazioni...
Entrambi siamo cresciuti studiando la teoria dell’attaccamento di Bowlby, che pone basi etologiche e motivazionali all’origine delle relazioni e dello sviluppo della personalità. Forse l’unica teoria che ha saputo raccogliere attorno a sé, mettendole in dialogo, discipline tra loro diverse e litigiose. «Oggi - dice Farina - potremmo metterla così: la tua psicoanalisi e il mio cognitivismo considerano la relazione con il paziente il principale strumento terapeutico. Ma non è forse questo il fattore comune che secondo la ricerca spiega l’efficacia di tutti i trattamenti?».
Vittorio Lingiardi: Sì, l’esito di una terapia è in gran parte associato alla qualità della relazione che si stabilisce tra paziente e terapeuta. Detto questo, le variabili in gioco sono molte. Anche perché molte sono le psicoanalisi e molti i cognitivismi. Nonostante il marchio di fabbrica, un paziente in cerca di terapia non sa mai esattamente quello che trova. E poi ci sono le diverse tipologie, anche caratteriali, di terapeuta. Un terapeuta riservato e uno espansivo funzionano nello stesso modo? Con tutti i pazienti? Per tornare alla relazione come fattore terapeutico, mi domando se è più in gioco l’accudimento o la cooperazione, pur sapendo che il bravo clinico sa dosare il loro contributo.
Benedetto Farina: È un tema che appassionava Liotti, il quale ha sempre sostenuto che è più efficace impostare la terapia sul piano cooperativo, soprattutto con pazienti gravi che hanno alle spalle un’infanzia traumatica. Stimolare troppo il sistema dell’attaccamento è rischioso, può riattivare memorie traumatiche di accudimenti mancati o distorti. Molte ricerche dimostrano che la promozione di un clima di cooperazione favorisce invece la capacità di provare empatia, di sintonizzarsi con i pensieri degli altri, di comprendere il funzionamento della mente propria e altrui e di lavorare sugli aspetti che portano a soffrire.
VL: È quello che in psicologia viene chiamato mentalizzare, una funzione che inizia a svilupparsi nei primi anni e ci accompagna tutta la vita. Ed è il pane quotidiano di molte terapie. La sua complessità sta nel riuscire a "tenere in mente" i nostri stati mentali e quelli degli altri. Sofisticate tecniche di registrazione simultanea dell’attività cerebrale di due individui che interagiscono mostrano che l’attività elettrica dei loro cervelli, nelle aree evolutivamente più recenti come la corteccia frontale, si sincronizza quando devono compiere azioni coordinate e cooperative.
BF: Molte discipline indicano che l’eccezionale espansione del cervello e lo sviluppo delle funzioni cognitive e culturali di cui l’uomo è capace sono il risultato di una traiettoria evolutiva finalizzata alla relazione e alla cooperazione. La spinta motivazionale alla cooperazione ha richiesto lo sviluppo di capacità cognitive sempre più sofisticate come il linguaggio, l’empatia, la condivisione di scopi e decisioni, l’insegnamento.
VL: E dunque delle strutture cerebrali per sostenerle. Ma se la capacità di instaurare legami cooperativi è così fondata sul piano etologico e biologico, come può essere tanto in disgrazia sul piano sociale? Il discorso va affrontato sul piano dell’evoluzione. Proprio Liotti ci insegnava a non perdere di vista la tripartizione evolutiva e gerarchica del nostro cervello e dei nostri sistemi motivazionali. Il livello più arcaico presiede le condotte non-sociali legate alla regolazione delle funzioni fisiologiche, alla difesa dai pericoli, al controllo del territorio, ecc. Quando è molto attivato può avere la meglio. Il secondo livello corrisponde all’attività delle reti neurali che definiscono le condotte di attaccamento, accudimento, richiesta/offerta di cura, ecc. Il terzo livello, prerogativa della specie umana, è nella neo-corteccia e riguarda le dimensioni cognitive dell’intersoggettività e della costruzione di significati. Regola i livelli più arcaici ed è influenzato dalla cultura di appartenenza.
BF: Ed è proprio qui che poggia il sistema cooperativo paritetico. La spinta a cooperare non solo ha promosso le nostre capacità empatiche e intellettuali, ma ha anche favorito la nascita della cultura. Il vantaggio di condividere ciò che si è appreso dall’esperienza individuale è alla base delle capacità culturali che caratterizzano la nostra specie.
VL: Ha dunque ragione l’antropologo Robert Boyd quando sostiene che il nostro successo nell’adattamento è dovuto alla capacità di imparare dagli altri, una capacità che ci permette di accumulare informazioni tra le generazioni e sviluppare strumenti, credenze e pratiche che sarebbe troppo complesso per il singolo individuo concepire durante l’arco della vita. La cosiddetta social brain hypothesis ci spiega infatti che, nei primati, l’espansione del cervello è avvenuta per gestire rapporti sociali sempre più complessi e cooperare al meglio. Un fatto che ci aiuta a capire lo sviluppo di tutte quelle relazioni non finalizzate alla riproduzione, "cognitivamente" impegnative e specificamente umane, come quella psicoterapeutica. Se la mente umana si è sviluppata per cooperare non sorprende che, quando si ammala o soffre, la sua cura non possa che basarsi su una relazione cooperativa.
L’aspetto più "miracoloso" dell’evoluzione è forse proprio l’abilità di generare cooperazione in un mondo competitivo. Al punto che c’è chi sostiene che, alla mutazione e alla selezione naturale, andrebbe aggiunta la cooperazione come terzo principio fondamentale dell’evoluzione.
Revisioni
Il vero Freud e la psicoanalisi parola per parola
All’inizio del 2019 uscirà la nuova edizione integrale dell’opera omnia in inglese del padre della psicoanalisi. Cosa disse effettivamente dell’omosessualità? E della cultura americana? E qual è il significato reale di alcuni termini-chiave? Sarà presto disponibile in lingua inglese la nuova edizione integrale della sua Opera omnia
di Vittorio Lingiardi (la Repubblica, 17.07.2018)
Le bozze sono corrette, i nuovi indici analitici sono redatti. Dopo qualche falso allarme (doveva uscire nel 2014) la nuova edizione inglese dell’opera freudiana presto sarà nelle nostre biblioteche. Il nome ufficiale dei 24 volumi è Revised Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud. Si abbrevia in RSE e sarà affiancata dai 4 volumi dei Neuroscientific Works.
Chi si è preso la briga di revisionare la Standard Edition ( SE) curata più di mezzo secolo fa da James Strachey per la Hogarth Press e tanto lodata da Anna Freud?
Chi si è fatto carico di questa fatica immensa? Mark Solms, psicoanalista sudafricano e professore di neuropsicologia all’Università di Città del Capo.
Lo conosciamo perché ha scritto, con Oliver Turnbull, un libro affascinante, Il cervello e il mondo interno, e perché ha fondato una nuova disciplina, la neuropsicoanalisi. Proprio per questo alcuni clinici, poco inclini alle neuroscienze psicoanalitiche, lo considerano un collega un po’strano con la passione per la fisiologia e l’anatomia cerebrale. Argomenti che invece non dispiacevano a Freud, il quale nasce neurologo e, con il Progetto di una psicologia del 1895, tentò di immergere la nascente psicoanalisi nelle neuroscienze dell’epoca.
«Quello di revisionare la SE non può che essere definito un compito “grande”», dice Solms.
Per affrontarlo, ha passato al setaccio ogni frase tradotta da Strachey (e da sua moglie Alix), ha verificato il tedesco, è tornato sui manoscritti originali. Questa, in poche righe, la filosofia con cui ha lavorato: «Ogni volta che mi imbattevo in un errore di Strachey il mio compito era semplice: lo correggevo». Se le correzioni erano sostanziali, o sorprendenti, aggiungeva brevi note redazionali. Strachey stesso, del resto, aveva tenuto un elenco di correzioni e aggiunte, molte delle quali sono oggi incorporate nella nuova edizione.
L’ultimo volume contiene infatti tutti i commenti di Solms relativi alla traduzione di molti termini tecnici, esattamente 53. Tra questi, Anlehnung (“appoggio”), Besetzung (“investimento”), Einfall (“idea improvvisa”, ma anche “associazione”),
Einfühlung
(“immedesimazione”, ma Solms preferisce “empatia”),
Nachträglichkeit (“posteriorità” nell’edizione italiana, deferred action in quella inglese; ma oggi tutti usiamo il francese
après- coup), Trieb (Strachey, sbagliando, lo traduce instinct, Solms sceglie drive; in italiano è reso con “pulsione”). «Ma il principio su cui ho basato la mia revisione - conclude Solms - è stato paradossalmente quello di conservare il lavoro di Strachey». Rivederlo, non sostituirlo.
Strachey sosteneva di aver tradotto Freud come se fosse un «uomo di scienza inglese». Una posizione che Solms rispetta. Secondo lui, quando si traduce si deve scegliere se usare le convenzioni della lingua di partenza oppure di arrivo. Nessuna delle due soluzioni è la migliore, ma impiegarle entrambe è impossibile.
Laplanche, quando ha tradotto le OEuvres complètes in francese, ha scelto la prima opzione; Strachey, la seconda. A quale Freud dare più voce? Come rendere quel termine?
Alcuni ricorderanno i violenti pareri di Bettelheim contro la traduzione di Strachey, accusato di aver reso troppo tecnica e medicalizzata la lingua di Freud. Si sa che le questioni linguistiche diventano prima editoriali, poi scientifiche e infine politiche (soprattutto nella comunità analitica, piuttosto accanita sul piano esegetico).
Su questo punto l’edizione italiana voluta da Paolo Boringhieri, diretta da Cesare Musatti, curata e in gran parte tradotta da Renata Colorni, è molto consapevole: «La terminologia psicoanalitica è uno dei problemi della psicoanalisi e le sue variazioni possono considerarsi strumenti e indici della sua storia». Alla pluripremiata Colorni, che ha saputo trasformare le diverse traduzioni di Freud nel testo di un “autore unico”, fondando un corpus terminologico coerente, chiedo se davvero la versione di Strachey aveva bisogno di una revisione: «Saluto con gioia questa nuova edizione», esordisce Colorni, «e spero in una resa della terminologia psicoanalitica meno tecnica, specialistica e gergale di quella adottata da Strachey, più rispettosa della scelta di Freud di attingere, anche quando si è trattato di inventare parole nuove per la scienza nuova che andava costruendo, alla lingua corrente, quotidiana, oltre che alla cultura letteraria, filosofica e scientifica del suo tempo. Spero, in sostanza, che a Freud sia pienamente restituita, anche in lingua inglese, la bellezza letteraria che gli è stata riconosciuta dal Premio Goethe nel 1930».
Un’altra importante novità dell’edizione Revised riguarda il materiale freudiano che non è incluso nella vecchia Standard e nemmeno nell’edizione italiana. In un recente articolo, Solms racconta che, tra i documenti aggiunti, molti riguardano le opinioni di Freud su due temi specifici: l’omosessualità e l’America. Per esempio, ha inserito una dichiarazione del 1905 sull’idoneità delle persone omosessuali a diventare analiste (lui era favorevole). Oppure una lettera tranquillizzante (oggi diremmo “gay-friendly”) che Freud scrisse nel 1935 alla madre angosciata di un giovane omosessuale americano.
Un’altra aggiunta riguarda una parte del poscritto a Il problema dell’analisi condotta da non medici, all’epoca espunta, su consiglio di Eitingon e Jones, a causa della natura poco “diplomatica” delle opinioni di Freud sull’America in generale e sulla psicoanalisi americana in particolare. Secondo Jones, biografo ufficiale di Freud, la parte espunta ammontava a tre frasi, in realtà si tratta di almeno sei paragrafi. Alla fine dei quali emerge che buona parte dell’antipatia di Freud nei confronti di ciò che era americano dipendeva dal disprezzo che Wilson, presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921, aveva espresso per la cultura tedesca.
Oggi, nel mondo, Freud è più letto in inglese che in tedesco. Questo spiega l’enorme importanza di una nuova edizione inglese: inevitabilmente influenzerà lo studio e la trasmissione del pensiero freudiano più di quella tedesca. La versione di Solms uscirà all’inizio del prossimo anno e non vediamo l’ora. Le nuove traduzioni vanno sempre accolte con entusiasmo e curiosità.
Come dice Colorni, sono un modo di «accogliere lo straniero», di farlo dialogare con noi. Questo lavoro influenzerà gli studi e la trasmissione del suo sapere
Pensare l’ "edipo completo"....
PLAUDENDO al lavoro e alla sollecitazione delle Autrici di "ripensare le figure della maternità", e, al brillante saggio introduttivo di Daniela Brogi, "Nel nome della madre. Per un nuovo romanzo di formazione", mi sia lecito ricordare che il programma di Freud, al di là dei molteplici e "interessati" riduzionismi (in nome del padre o in nome della madre), era quello di = Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!! Per andare oltre la vecchia "cattolica" alleanza Madre-Figlio (e portare avanti il programma illuministico kantiano: diventare maggiorenni), è necessario (sia per l’uomo sia per la donna) non solo il "parricidio" ma anche il "matricidio"; e, possibilmente e ’finalmente’, uscire fuori dalla "caverna", dalla "preistoria", e portarci (tutte e tutti) DAL "CHE COSA" AL "CHI".
Federico La Sala
Lettera aperta ai dirigenti della Rai TV
"Pago il canone e pretendo che i giornalisti della tivù pubblica sappiano come nascono i bambini".
di Luisa Muraro
Le sindache (e i sindaci) d’Italia, possono credere nella cicogna che porta i bambini, ma quelli che preparano i telegiornali, no, loro no. Pago il canone e pretendo che i giornalisti della tivù pubblica sappiano come nascono i bambini. Nel telegiornale delle ore19 di sabato 28 aprile, hanno dato la notizia di un bambino che ha due padri, anzi “due papà”, e come tale è stato regolarmente iscritto all’anagrafe di Roma. Non sembrava l’annuncio di un qualche miracolo della scienza medica. La signora che ha letto la notizia, se, come dobbiamo supporre, era incredula, l’ha nascosto molto bene. E così dovranno fare, suppongo, le segretarie, le maestre, i parenti, i nonni, i pediatri, e via via, fino a quando l’interessato, reso consapevole, smetterà di annunciare che lui ha due papà. Che commedia sia questa, se questo è tutto il progresso in cui possiamo sperare, io non so. Dico solo una cosa ai dirigenti della Rai tivù: c’è un sacco di posto per la finzione, per la fantapolitica, per la finta realtà, per la pubblicità e la propaganda; evitate, per favore, di usare lo spazio delle notizie per raccontare certe storie. Prima ho detto “pretendo”, ma ho sbagliato, scusate, nei vostri confronti non ho diritti, pago il canone e ho l’obbligo di pagarlo in ogni caso.
*www.libreriadelledonne.it, 29 aprile 2018
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
LA PSICOANALISI, LA LEGGENDA DI "COLAPESCE", LA "LEZIONE" DI FREUD A ROMAIN ROLLAND.
Una nota
di Federico La Sala
All’interno di un lavoro portata avanti da più Autori, sul tema “L’India della psicoanalisi. Il subcontinente dell’inconscio” (IPOC, Milano 2014), Livio Boni, a conclusione del suo contributo specifico, dedicato a “Freud e l’India: un percorso ermeneutico lungo/un itinerario mancato”, e, in particolare, allo sforzo di fornire chiarimenti sul “dialogo con Romain Rolland” e sulla “equazione freudiana: India = misticismo”, scrive:
LA PAURA DELLA "GIOIA ECCESSIVA". Alla luce di un “vecchio” lavoro di Giampaolo Lai (“Due errori di Freud”, Boringhieri, Torino 1979), di Elvio Fachinelli (“La mente estatica”, Adelphi, Milano 1989) e, mi sia consentito, di una altrettanto mia “vecchia” analisi della “provocazione” fachinelliana di portarsi oltre Freud (si cfr. “La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 138-161), pur volendo accogliere l’opinione della lettura di Boni (2002/2014) sul valore della “soprendente” testimonianza di Goetz relativa alle dichiarazioni di Freud sull’India, con tutte le implicazioni che esse hanno anche sul dialogo con Rolland, è da dire che nel testo di Goetz c’è un elemento, che sollecita attenzione e invita non a semplificare (“Questo riduzionismo - scriveva Fachinelli - non ci serve: ci serve piuttosto un adduzionismo”) ma ad “approfondire” ulteriormente la lettura della “lezione” di Freud a Goetz, proprio per fare possibilmente più chiarezza sul “percorso ermeneutico lungo" e su "l’itinerario mancato".
L’elemento è la citazione ripresa dalla ballata di Schiller - un vero e proprio “iceberg” del “mare” interno di Freud: “La Bhagavadgita è un poema grande e profondo che apre però su dei precipizi. E ancora giace sotto di me celato nella purpurea tenebra afferma "il tuffatore" di Schiller, che mai rivenne dal suo secondo temerario tentativo” (sul tema, si cfr. la brillante tesi di laurea di Malvina Celli, "La simbologia di Friedrich Schiller nella ballata "Der Taucher": amore o ambizione?", Università di Pisa "014/2015).
Tale elemento illumina con molta forza un “impensabile” ancora da pensare: esso non è affatto “in aperto contrasto con tutto ciò che Freud afferma altrove” ma, al contrario, esprime solo e già tutto “il disagio della civiltà”, quella occidentale, nei confronti dell’altra civiltà, quella orientale in questo caso e, in particolare, dell’India.
Nel 1904-1905, a pochi anni dalla pubblicazione della Interpretazione dei sogni, avvenuta nel 1899 (con la data “1900”), e con la consapevolezza che la sua autoanalisi - interminata e interminabile - non è affatto finita, egli sa bene in quale impresa si è “tuffato”! Il motto virgiliano, “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” («Se non posso muovere gli dei superiori, muoverò quelli degli inferi»), posto ad esergo dell’opera, già dice bene a se stesso di quali e quanti pericoli e difficoltà dovrà affrontare il “conquistador” nel suo cammino.
Un’ombra lo seguirà fino alla fine: è quella di Josef Popper-Lynkeus (1838-1921), ingegnere, filantropo, e scrittore, che con le sue “Fantasie di un realista”, opera pubblicata a Vienna nel 1899, contemporaneamente a “L’interpretazione dei sogni”, che lo "tormenterà" a non rassegnarsi (“I miei rapporti con Josef Popper-Lynkeus”, 1932) e ... a non perdere il coraggio degli inizi!
Nel 1929, nel “Disagio della civiltà”, «un’opera essenziale, di primo piano per la comprensione del pensiero freudiano, nonché il compendio della sua esperienza» (J. Lacan), nella parte finale del primo capitolo, a Romain Rolland, chiudendo con modi da “animale terrestre” la porta in faccia al “suo amico oceanico” (così dalla dedica sulla copia del libro inviatagli), ripete la “lezione” data a Goetz nel 1904-1905, con altri versi dalla stessa ballata: -“(...) ancora una volta sono indotto ad esclamare con le parole del Tuffatore di Schiller: “... Es frue sich, / Wer da atmet im rosigten Licht. [...Gioisca, / Chi qui respira nella luce rosata.]” (S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, p. 208).
A ulteriore precisazione, per chi ancora possa avere qualche dubbio sul senso del suo discorso e del suo percorso, alla fine del capitolo 7 del "Disagio", richiama alcuni versi dalla canzone dell’arpista nel “Wilhelm Meister” di Goethe e commenta:
Il Conquistador comincia a deporre le armi e ammette: “(...) mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai mei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti” (op. cit., p. 280).
Nel 1930, a Freud viene conferito l’ambito “Premio Goethe”. Il riconoscimento segnava per lui, come dichiarò, la vetta più alta della sua vita. Nel “Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte”, (S. Freud, Opere, XI, Torino 1979, pp. 7-12), egli scrive: “Io penso che Goethe, a differenza di tanti altri nostri contemporanei, non avrebbe respinto di malanimo la psicoanalisi”. Certamente non si sbagliava, ma forme di immaginario “prometeico”, condiviso sia con Goethe sia con gli “altri nostri contemporanei”, lo accecano ancora. I suoi “sogni” personali erano più le “fantasie” di un idealista (platonico-hegeliano ), che di un realista, alla Popper-Lynkeus e alla Rolland!
Nel 1931, alla fine dell’ultimo capitolo del “Disagio della civiltà”, dopo l’ultima frase: “Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo [...]. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale.”, aggiungerà: “Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito” (op. cit., p. 280).
Nel 1938, con grandissime difficoltà, a stento riesce a lasciare Vienna e a raggiungere, sognando "Guglielmo il Conquistatore", l’Inghilterra - un’isola in mezzo all’oceano! Morirà a Londra il 23 settembre 1939.
A sua memoria e gloria, è da ricordare che, se il suo primo lavoro "L’interpretazione dei sogni" richiama alla memoria la figura di Giuseppe, e il suo lavoro di interpretatore dei sogni del Faraone, l’ultimo lavoro risollecita a riflettere su “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e a proseguire il suo lavoro, quello di interpretatori e interpretatrici dei sogni dell’intera umanità. Uscire dallo Stato di minorità è possibile, non è “l’avvenire di un’illusione”. Non dimentichiamo di «coltivare il nostro giardino»!
Sul tema, nel sito, si fr.:
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
VITA, FILOSOFIA, STORIA E LETTERATURA...
BENEDETTO CROCE, LO SPIRITO DI "COLAPESCE", E LA VITA DI UN "PALOMBARO LETTERARIO". Una brillante ricognizione di Luisella Mesiano
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..... *
Chi dice che è morta? Prima che terapeutica l’invenzione freudiana è una rivoluzione etica. E la scommessa più ardita si chiama “desiderio”. Da assecondare così
di Massimo Recalcati (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Che cosa resta della grande lezione di Freud? Cosa resiste della esperienza sovversiva dell’inconscio? Cosa della grande rivoluzione culturale rappresentata dalla psicoanalisi è destinato a non essere cancellato? Il progresso delle neuroscienze, l’affermazione delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, la potenza chimica dello psicofarmaco, la promessa di terapie brevi ed efficaci centrate sul cosiddetto “ sintomo bersaglio”, sembra abbiamo messo definitivamente all’angolo la psicoanalisi riducendola a uno spettro condannato a circolare solo nel museo delle cere del Novecento. Lo si grida da più parti e ormai da molto tempo: la psicoanalisi è morta, le sue categorie teoriche irrimediabilmente compromesse da un irrazionalismo di fondo che rifiuta di confrontarsi con la valutazione scientifica, la sua efficacia terapeutica dubbia, la proverbiale lunghezza delle sue cure assolutamente sfasata rispetto al ritmo performativo richiesto dallo spirito del nostro tempo e indice di una fumisteria epistemologica e clinica priva di fondamenti.
Perché allora dovremmo insistere nel difendere tenacemente l’invenzione di Freud? Il nucleo di questa invenzione è etico prima che terapeutico. Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certamente della natura borghese dell’Io o dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità assai più ampia che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità. Certamente questo riguarda la sessualità umana che
Freud rivela essere sempre parzialmente contaminata da quella infantile e pregenitale come se non esistesse una sessualità cosiddetta “matura”, “genitale”, perché essa vive e si nutre di fantasmi che provengono dalle esperienze infantili del corpo pulsionale.
Ma la prima vera e grande sovversione etica imposta da Freud è quella che ci costringe a modificare la nostra ordinaria concezione della malattia e della sofferenza psichica. Questo è un contributo ancora attualissimo e nevralgico della psicoanalisi: l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto - tra coscienza, preconscio e inconscio, tra Es, Io e Super- io - ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro stesso essere, della nostra più propria intimità.
L’inconscio freudiano è infatti “uno stato nello stato” - un “territorio straniero interno” - che obbedisce a una legislazione che eccede radicalmente quella che governa il funzionamento normativo dell’Io. Nei sogni, nelle nostre più quotidiane sbadataggini, nei lapsus, nei sintomi di una singolarità eccedente l’Io parla, manifesta la propria voce dissonante disturbando il funzionamento diurno della coscienza e del pensiero. Ne deriva, appunto, un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto. Se queste procedure egoico-narcisistiche di esclusione si rafforzano, se il soggetto persegue una rappresentazione solo ideale di sé stesso finalizzata a scongiurare l’esistenza di quelle parti di sé giudicate “incompatibili” con questo stesso Ideale, la vita si atrofizza e si ammala. È un principio clinico che riguarda tanto la vita individuale quanto quella collettiva: i confini che disegnano la nostra identità devono essere plastici, capaci più di integrare lo straniero interno che di scindere e segregare. La psicoanalisi incoraggia una politica anti-segregativa.
La prima grande lezione etica della psicoanalisi consiste nel favorire una concezione indebolita della soggettività che consenta il transito e l’apertura in alternativa a ogni sua illusione identitaria di padronanza che finisce per irrigidire i propri confini contribuendo alla loro chiusura.
Quale è il volto dello straniero che si tratta di accogliere? Innanzitutto quello del desiderio che esprime la dimensione radicalmente insacrificabile della singolarità. Si tratta di un’altra grande e ardita scommessa della psicoanalisi: non contrapporre la ragione al desiderio - come la luce all’ombra - ma fare della “ voce del desiderio” la voce stessa della ragione. È questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce la sua attitudine, la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio - assimilato kantianamente da Freud alla “voce della ragione” - non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà. La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni tentativo di assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale.
È il tratto, se si vuole, irriducibilmente “ femminista” della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare, per la sua differenza assoluta, per l’incomparabile, per la vita non nel suo statuto generico e biologico ma nel suo nome proprio, nel suo volto unico e irriproducibile. Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio - la vita della singolarità - è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra, anomala.
La psicoanalisi opta per l’accoglienza di questo “straniero interno” come condizione di possibilità per l’accoglienza della vita in tutte le sue forme più divergenti. Essa contrasta politicamente ogni conformismo del pensiero, ogni attitudine all’adattamento passivo, ogni ideale moralistico di normalità. Non esiste infatti mai un “rapporto giusto col reale”, affermava Lacan. Ciascuno ha il compito di trovare la propria misura della felicità.
La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario. La sua vocazione è antifascista nel senso più radicale e militante del termine: veglia affinché la tentazione autoritaria che spinge l’uomo verso il padrone o verso il suo carnefice che promette la tutela autoritaria da ogni rischio che la libertà della vita fatalmente impone, sia avvistata per tempo.
La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che, in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. È la dimensione “fascista” della psicologia delle masse che costituisce un grande capitolo della ricerca sociale e politica della psicoanalisi oggi più che mai attuale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Lo psicoanalista dal volto umano
Un nuovo manuale, che il suo autore qui ci presenta, già definito all’uscita negli Usa “il più sofisticato sistema diagnostico attualmente disponibile”. Una dettagliatissima mappa della mente: per una terapia dove, finalmente, la parola d’ordine è “sensibilità”. Così la disciplina del dottor Freud ritrova, un secolo dopo, l’ispirazione originaria: aggiornata e corretta ai tempi nostri. Quale migliore occasione per scoprire cosa resta davvero del suo sogno?
di Vittorio Lingiardi (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Se quello della diagnosi psicodinamica è un lungo viaggio, mi piace immaginare che sia partito nel 1915 da questa frase di Freud: “ Noi non vogliamo semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolge nella psiche”. Sono orgoglioso di pensare al Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM) come una tappa importante di questo viaggio.
Con Nancy McWilliams ne ho curato la nuova edizione, il PDM- 2, uscita l’anno scorso negli Stati Uniti e da pochi giorni disponibile in traduzione italiana. Otto Kernberg, decano internazionale della diagnosi psicoanalitica, lo ha definito “il più sofisticato sistema diagnostico attualmente disponibile”. Si tratta del primo tentativo sistematico di fondare la diagnosi su teorie e modelli clinici psicodinamici, cioè finalizzati a comprendere e, dove possibile, spiegare, proprio quel “gioco di forze che si svolge nella psiche”. Certamente consapevoli che oggi questo tentativo può avvenire solo in dialogo con altre discipline, in primis la psicopatologia evolutiva, la psicologia cognitiva, le neuroscienze e la teoria dell’attaccamento.
Non tutti gli psicoanalisti e gli psichiatri sono propensi a riconoscere i vantaggi delle diagnosi. C’è chi ha affermato, proprio in occasione dell’uscita di questo manuale, che ogni categorizzazione diagnostica è una forma di “ oggettivazione autoritaria”, un modo di “inaridire” l’esperienza umana. Dal nostro punto di vista, invece, ricondurre un’esperienza umana a una dimensione clinica a sua volta riconducibile anche a una diagnosi non significa inaridirla. Significa studiarla, comprenderla, confrontarla. Sappiamo che limiti e semplificazioni sono intrinseci a ogni sistema di classificazione. Proprio per questo sosteniamo che per il clinico la diagnosi deve rappresentare, direbbe Karl Jaspers, un tormento, una tensione votata a conciliare l’assoluta singolarità di quel paziente con la possibilità di ricondurlo a un quadro più generale.
Costruendo il Manuale Diagnostico Psicodinamico abbiamo insomma cercato di mantenere una visione binoculare, capace di tenere insieme l’etichetta diagnostica e la formulazione narrativa del caso, la categoria generale e l’elemento distintivo. Se il più diffuso Manuale diagnostico dei disturbi mentali ( DSM)) può essere definito una “tassonomia di malattie”, il PDM è piuttosto una “tassonomia di individui”: in altre parole si prefigge di fornire al clinico informazioni per capire che cosa una persona è e non solo che cosa una persona ha. Anche nei disturbi psichiatrici a forte componente biologica vi sono fattori psicologici e ambientali che influenzano l’esordio, il decorso, la suscettibilità alla terapia. Due persone con lo stesso disturbo ( che sia una patologia ansiosa, un disturbo dell’alimentazione o della personalità) avranno storie e potenzialità diverse, e risponderanno alla cura in modi diversi.
La valutazione psicodinamica serve proprio a immergere nella varietà umana il rigore dell’etichetta diagnostica. Quando dico che il signor A. ha una personalità ossessiva oppure narcisistica, tanto per nominare due diagnosi, sto evocando la sua unicità esistenziale, ma anche la sua appartenenza a dimensioni diagnostiche con caratteristiche che devo saper descrivere usando un linguaggio comprensibile e condiviso. Il signor A. con cui ho appena concluso un colloquio è unico, ma per indicargli la terapia più efficace devo conoscere anche i dati che anni di clinica e ricerca hanno accumulato su casi simili al suo. Per non parlare del fatto che al signor A. può interessare molto sapere che anche altri hanno il suo problema e che questo problema ha un nome. Lo racconta bene Simona Vinci in Parla, mia paura: “ Lo psichiatra mi dedicò un’ora del suo tempo. Parlammo dell’analisi che stavo facendo, degli attacchi d’ansia, della paura. [...] Aveva centrato il punto: [...] la mia era una depressione reattiva [...] avevo bisogno di definirmi, di appiccicarmi un’etichetta, di sapere chi ero diventata”.
Come è strutturato il nuovo manuale? In altre parole, che cosa offre al clinico? Per prima cosa la possibilità di formulare le diagnosi a partire dall’età del paziente, dal bambino all’anziano. Poi di descrivere la personalità, dalle risorse ai tratti più problematici o francamente patologici. Quindi di valutare, una per una, le principali capacità mentali (per esempio, la regolazione dell’autostima, i meccanismi di difesa, il controllo degli impulsi, la capacità di sviluppare relazioni intime, l’adattamento, la resilienza, le capacità di autosservazione, la mentalizzazione, gli standard morali). Infine di riconoscere ed elencare i sintomi, senza trascurare l’esperienza soggettiva che ne fa il paziente e le risposte emotive del clinico (controtransfert diagnostico).
Alle indicazioni per il colloquio, via regia per la formulazione diagnostica, il PDM-2 affianca istruzioni specifiche anche per la somministrazione di test e questionari. È, insomma, espressamente rivolto alla pianificazione dei trattamenti. La bontà di una diagnosi, infatti, sta nella sua traducibilità clinica: come sintesi dei problemi e delle risorse principali di un paziente, come indicatore efficace per individuare l’approccio terapeutico più idoneo. Se isoliamo l’etichetta diagnostica dagli obiettivi potenziali che essa contiene, rischiamo di fare come lo sciocco che, quando il saggio indica la luna, guarda il dito.
Come sappiamo dalla sua etimologia, la diagnosi è un processo conoscitivo e un incontro. La scommessa del PDM- 2 è integrare conoscenza operativa, complessità clinica e dimensione intersoggettiva. Agli psicoanalisti diffidenti del processo diagnostico ricordo che Freud criticava chi non si preoccupava di formulare diagnosi accurate. E paragonava questo atteggiamento alla “ prova della strega” di cui andava fiero un re scozzese: faceva immergere la sospetta strega in un calderone d’acqua bollente e poi assaggiava il brodo. Solo a quel punto era in grado di dire se si trattava di una strega. Ecco, chi trascura la diagnosi rischia di fare come il re scozzese: riconosce e nomina le cose fuori tempo massimo.
Oggi molti giovani colleghi si trovano a dover scegliere tra procedure diagnostiche ipersemplificate e linguaggi idiosincratici, estranei alla prova della ricerca empirica e poco condivisibili tra professionisti di diversa formazione. Questa condizione, sospesa tra compilazione burocratica e autoreferenzialità gergale, non solo mortifica l’identità professionale del clinico, ma appanna o distorce la sua capacità di individuare e descrivere le caratteristiche del suo paziente. In definitiva, compromette la relazione clinica. Manuale Psicodinamico si muove nella direzione opposta: dare un senso alla diagnosi valorizzando la sensibilità clinica.
Sabina Spielrein
di Nicole Janigro (Doppiozero, 01 marzo 2018)
Sabina Spielrein è una delle irregolari, rappresenta il lato in ombra della storia della psicoanalisi che da una parte accompagna la liberazione femminile, dall’altra tende a conservare la legge del primato e della complicità maschile. Il suo destino è segnato dall’essere donna, ebrea e russa. E proprio tutto questo rende così interessante inseguire, quasi stessimo nella trama di un giallo, la passione di Sabina. Cancellata, dimenticata, Sabina Spielrein (1885-1942) era solo una nota a piè di pagina nelle opere di Freud e di Jung. Poi è stata casualmente ritrovata nei sotterranei del Palais Wilson a Ginevra dove, prima di tornare in Russia, aveva lasciato i suoi documenti, lo scambio di lettere con Jung e Freud e pagine del suo diario.
Così, con il Diario di una segreta simmetria di Aldo Carotenuto, del 1980, Sabina è diventata la protagonista di un intrigo vertiginoso che condensa l’avventura delle origini della psicoanalisi, la Grande guerra, la rivoluzione sovietica e l’olocausto.
Un personaggio quasi letterario, cinematografico attraverso il film Prendimi l’anima, ricostruito attraverso i carteggi raccolti da Kerr in Un metodo molto pericoloso nella pellicola A Dangerous Method, con un’intensa Keira Knightley, storicamente determinato nel bellissimo documentario Ich hiess Sabina Spielrein di Elisabeth Màrton, come se la sua figura, in analogia a tante vicende del primo secolo di vita della psicoanalisi, potesse essere meglio narrata dalla struttura del romanzo.
Sabina Spielrein. Una pioniera dimenticata della psicoanalisi, curato da Coline Covington e Barbara Wharton, è il testo che permette al lettore di conoscere la doppia vita di Sabina. La vita vissuta attraverso pagine di diario, cartelle cliniche che segnano il suo ricovero al Burghölzli, scritti finora inediti e lettere (per la prima volta la versione integrale in italiano anche delle lettere di Jung).
Arriva al Burghölzli nel 1904 con una diagnosi di isteria e trova a Zurigo la guarigione, Jung, ma anche la possibilità di studiare medicina che in patria le era preclusa. L’incontro tra Sabina e Jung sarà l’occasione della prima lettera di Jung a Freud, produrrà l’incontro tra Sabina e Freud, mentre il distacco tra Sabina e Jung scorre in contemporanea al distacco tra il maestro ebreo di Vienna e l’allievo ariano di Zurigo. Un plot dove le dinamiche esistenziali del loro triangolo si mescolano alle conquiste teoriche: isteria, talking cure, traslazione. È il primo caso al quale Jung applica il metodo freudiano, è il caso per il quale chiederà aiuto a Freud, e Freud parlerà per la prima volta di controtransfert, dopo aver messo in guardia Jung da “la felicità perfetta sotto mentite spoglie”. È il qui e ora della relazione tra la paziente e il suo medico, quello che affascina della lettura epistolare. E la cosiddetta controtraslazione, non considerata più un ostacolo ma il mezzo più potente della trasformazione analitica, quel Leitmotiv che oggi unisce le psicologie del profondo, agita ancora i sogni e le coscienze degli analisti.
Sabina Spielrein è il successo di Jung, “il mio caso da manuale”. L’esperienza con questa giovane donna russa lo porterà molto vicino a un’idea di cura come “un’esperienza emotiva correttiva”, quel nuovo complesso che deve liberare un io non abbastanza forte dal dominio del complesso morboso. Ma è anche la sua fatica - non a caso nelle lettere Jung la accomuna a Otto Gross: “in tutta questa faccenda anche le idee di Gross mi hanno occupato un po’ troppo il cervello. (...) Gross e la Spielrein sono amare esperienze. Non ho dato tanta amicizia a nessuno dei miei pazienti, e con nessuno ho mietuto tanto dolore” (lettera a Freud del 4/6/1909).
Entrambi gli permettono di legittimare il suo bisogno d’amore - Sabina nel suo fare Anima, Gross con la sua teoria antimonogamica. Affinità elettive e competizione per chi ha pensato prima un’idea si confondono, sono i “misteriosi parallelismi”, è il concetto di pulsione di morte che Freud deve anche all’originale testo di Sabina, La distruzione come causa del divenire (1912). E lei tiene testa anche teoricamente a Jung e Freud: L’origine delle parole infantili papà e mamma (1922) stimola riflessioni sulle stratificazioni linguistiche, sulle due forme del pensare e sul piacere stesso della parola in analisi. Rimarrà fedele al suo sentimento per Jung, conserverà quell’intelligenza del cuore capace di quel e-e che la condurrà a cercare di riconciliare i due ex amici.
Risucchiata dalla storia collettiva della seconda guerra mondiale, la sua morte avvenne in circostanze rimaste a lungo sconosciute. Ma Sabina lascia a Ginevra tracce che sfuggiranno alla cancellazione nazista e comunista: la vita ritrovata interrompe un lungo oblio. E il testo Sabina Spielrein. Una pioniera dimenticata della psicoanalisi presenta numerosi interventi di analisti e studiosi che offrono diversi punti di vista sul significato della sua figura e in particolare sul casus belli: quando Sabina parla della poesia che passa tra lei e Jung allude al sentimento d’amore o all’atto?
Alla fine tornerà in Unione Sovietica dove seguirà la sua vocazione fino al sacrificio. Nell’estate del 1942 morirà, insieme alle due figlie, a Rostov, in un massacro nazista che fece ventottomila vittime.
A ventun’anni, prima di lasciare la clinica, aveva affidato al suo medico le ultime volontà: «Il corpo dovrà essere cremato. Nessuno potrà assistervi. Divida le ceneri in tre parti. Metta una parte in un’urna e la mandi a casa mia. Sparga la seconda parte sulla terra del nostro campo più grande. Lì pianti una quercia con la scritta: “Anch’io fui una volta un essere umano. Il mio nome era Sabina Spielrein”. Mio fratello Le dirà che cosa fare con la terza parte».
Schnitzler, Klimt, Loos
Così Sigmund irruppe nel biennio della svolta
di Claudia Provvedini (Corriere della Sera, 23.01.2018)
Lo spostamento della data di uscita dell’«Interpretazione dei sogni» dal 1899 al 1900 fu un desiderio del suo autore, Sigmund Freud. Quella, per così dire, rimozione era però in lui tutt’altro che inconscia: volle che il suo nome aprisse il ‘900.
«È impressionante la consapevolezza che Freud aveva del valore epocale di quel libro», rileva Mara Fazio, docente di Teatro e Spettacolo moderno e contemporaneo alla Sapienza di Roma, che con «La Vienna di Freud» ha aperto gli incontri attorno alla nuova produzione del Piccolo Teatro.
«E in quel punto di svolta tra i due secoli, si addensarono ingegni e opere tali da rendere la capitale dell’impero austro-ungarico rivale di Parigi e Londra. Non mi pare si possa dire altrettanto dell’Europa nel passaggio tra XX e XXI secolo, se non per la tecnologia».
Fu a Vienna, il ‘99-00 un prodigioso biennio. «Nello stesso anno scelto da Freud, il 1900, un altro ebreo viennese, Schnitzler, che aveva studiato alla Scuola di medicina ed era stato medico prima che scrittore, nel racconto I l Sottotenente Gustl introduce nella letteratura di lingua tedesca il monologo interiore, poi ripreso nella Signorina Else , ragazza nevrotica e forse isterica».
Tra i due ci fu rivalità? «Piuttosto si trattò di sintonia intellettuale e condivisione di uno stesso clima culturale che stimolava la curiosità scientifica nei confronti della mente e delle emozioni. L’anno 1900 vide anche completate da Otto Wagner le stazioni ferroviarie». Quelle che i viennesi, non amandole per la struttura nuda, chiamavano «le gabbiette». «E un altro architetto, Adolf Loos, scrisse Ins Leere gesprochen , Parole nel vuoto, in cui attaccava la Neue Secession, corrispettivo dell’Art Nouveau».
Se invece Freud avesse lasciato come data il 1899... «Si sarebbe trovato a condividerla con il quadro Nuda Veritas di Klimt, nudo femminile con chioma rossa trapunta di margherite. E con la IV Sinfonia in Sol maggiore di Mahler che a Vienna aveva appena diretto la II. E ancora con Verklaerte Nacht, Notte trasfigurata di Arnold».
In quell’anno però si manifestarono anche attacchi alla psicoanalisi. «Quelli di Karl Kraus sulla sua rivista satirica Die Facke l». E già nel 1901, contro la «grande scienza dei segni» si rivoltò Hofmannsthal: nella «Lettera di Lord Chandos» dubita della possibilità della parola di trascrivere il preverbale, oggetto del lavoro analitico. Forse il desiderio di Freud di scegliere l’anno 1900 scaturì da un sogno premonitore .
Freud
Il dottore lotta con noi
Debutta stasera la nuova produzione del Piccolo Teatro di Milano
Tiezzi porta in scena l’inconscio i suoi sogni e quelli dei pazienti
Il regista spiega la chiave per rappresentare antichi e nuovi dolori, successi e fallimenti
di Maurizio Porro (Corriere della Sera, 23.01.2018)
La vita è fatta della materia di cui son fatti i sogni, diceva Shakespeare senza smentite. Ma i sogni sono fatti della materia di cui è fatto il teatro, soprattutto quelli offerti dall’inconscio di Freud. Così il cerchio si chiude. Federico Tiezzi è il regista di «Freud o l’interpretazione dei sogni» di Stefano Massini, grande produzione del Piccolo Teatro, gioco di illusioni al quadrato che passa attraverso antichi e nuovi dolori, successi e fallimenti.
«Quest’estate mi sono recato alla casa-museo Freud al 19 della Bergasse a Vienna, piena di pezzi d’arte africana. Suonando il campanello un giorno, solo, ho sentito a caldo il dolore e la ferita di chi andava a consultare il professore, passava il cortile col grande albero, saliva la scala al primo piano e si trovava davanti la targa “Dottor Sigmund Freud”. Ma la nostra non è la biografia di un dr. Freud riappacificato e realizzato, ma di uno che pensa e lotta: i rapporti con i pazienti sono come su un ring».
Tiezzi pensa a uno spettacolo molto cinematografico («credo sia il mio primo film»), con tanti setting e del resto, mentre i Lumière esordivano il 28 dicembre 1895, Freud analizzava il primo sogno.
Ma l’arte del cinema, a lungo disprezzata dal professore che rifiutò lauti guadagni, è coeva a quella dell’interpretazione dei sogni. Già nel 1933 un magnifico incubo cartoon, «Topolino e il dottore matto», contiene Hitchcock, Fellini, Lynch e Buñuel. «A questi registi e ad altri ho molto pensato. Il nostro lavoro - dice Tiezzi - è come si svolgesse nella testa di Freud: Massini usa i sogni citati dei pazienti nei libri, ma anche quelli del professore, assai turbato dai rapporti col padre, di cui metto in scena il funerale. Quando lessi Freud da liceale imparai che esiste sempre una scrittura manifesta e una latente, una tesi confermata da Pirandello. La verità è che Freud, amico di Schnitzler e del filosofo Ludwig Biswanger, smascherò i desideri e gli impulsi inconfessabili, mentre Vienna viveva il suo grande Rinascimento».
Si apre il vaso di Pandora. Quando apparve «L’interpretazione dei sogni», il 4 novembre 1899, ecco, in quel momento si spense l’eco dell’ultimo valzer ed iniziava il dolore straziante lancinante del Novecento che doveva per forza trovare rifugio in metafora onirica. «Stop Strauss: Schoenberg compone a soli 25 anni la “Notte trasfigurata” di cui sentiremo alcune note in sala. La Vienna della Belle époque getta la maschera, così si capirà che molti dolori sono allevati in famiglia, perché non sempre l’uomo riesce a stare al passo con le richieste della società».
Il prof. Freud rivoluzionario o reazionario? Rimandiamo il tema alla prossima puntata, ma vediamo il poster culturale che ha in testa il regista per uno spettacolo che, forse, sarà esso stesso un sogno vagante, acchiappato in platea come nel Nolan di «Inception». Allora, calendario alla mano: nel 1899 Schnitzler e Klimt hanno 37 anni, Richard Strauss 35, Von Hofmannsthal e Kraus 25, Musil 19; aggiungerei, altre latitudini, che Poe era morto da 50 anni, Joyce aveva 17 anni e Proust, amatissimo dalla «setta» Tiezzi-Lombardi, ne aveva 28 e solo nel ’13 apparirà la «Recherche», anche quello un immenso sogno.
«Lo spettacolo sarà la scoperta del linguaggio che ha rivoluzionato la vita e l’arte fornendo la chiave dell’interpretazione del mondo; ma anche un romanzo di formazione e la conferma che cinema e teatro vivono di una drammaturgia onirica, tanto che Freud studiò Ibsen e “Rosmersholm”. I sogni sono di Sigmund, citati da Freud, ma anche di Stefano Massini, egittologo consapevole che l’onirocritica è antica quando il mondo: i sogni sono nostri, è un patrimonio comune». Tra questi, quelli doc, del prof., riguardano la moglie Martha e il padre, suoi nervi scoperti. In uno poi c’è un uomo che si trova al gelo con alcune lucertole (i suoi pazienti?) e le sfama coi frutti di un albero di cui conosce chissà come il nome latino... ma a tutto c’è spiegazione. Lo sapeva Hitchcock che, nella «Donna che visse due volte», conta sul tronco gli anni della vecchia quercia. Lo sapeva Huston, che incaricò Sartre di scrivere la sceneggiatura del film sul professore: lo scrittore visse in empatia con Freud, si battè a lungo contro se stesso, però alla fine non se ne fece nulla, ma «I sequestrati di Altona» saranno poi il vero risultato freudiano.
«Così gli attori-pazienti, in analisi allo Strehler fino all’11 marzo anche nei week end, lottano con Freud, si riflettono in lui in una polifonia di allucinazioni, voci, tormenti, estasi di uomini senza qualità e senza maschera. Il teatro è sollievo, cura e non guarigione». Tutti in costume storico, ma attaccati all’àncora della contemporaneità: Fabrizio Gifuni, seduto sul titolo, è Freud, lui che sa accendere campi magnetici in platea, ma c’è un cast formidabile, 14 attori con Elena Ghiaurov, Marco Foschi, la Toffolatti, Maccagno, Ceriani e Giovanni Franzoni che, reduce dall’en plein nevrotico di Oscar Wilde, vive un atroce complesso di colpa per la morte dei fratelli.
Ma chi sarà il Freud di Tiezzi, di cui è uscito un volume Ubu con tutti i pezzi di Franco Quadri, che ha cominciato con lo spettacolo «Crollo nervoso» e voleva laurearsi con tesi su Bosch? «Sarà uno di noi che interpreta, riflette, pensa, trascrive sul taccuino, fa sdraiare sul lettino; ma anche un cercatore, un pellegrino sempre in dubbio sugli esiti della ricerca che boxa con i suoi pazienti».
Freud
La sua ricerca ideale per il cinema
Lo psicanalista Lingiardi: «I film oggi sono complementi didattici»
Ma il prof disse no a Hollywood
di Giuseppina Manindi (Corriere della Sera, 23.01.2018)
Sapeva che sarebbe stato un viaggio «pericoloso». Si trincerava dietro la paura delle malattie, del clima, ma in realtà Roma lo angosciava per ben altro, qualcosa che riguardava il profondo. E difatti Roma, in quei miti giorni di fine settembre del 1907, aveva in serbo per Sigmund Freud due incontri fatali: con il bassorilievo di Gradiva, che lo spinse a indagare nuovi baratri della psiche, e con quella nuova arte chiamata cinema. In piazza Colonna, su uno schermo all’aperto Freud vide i primi filmini, comiche del muto che lo lasciano «ammaliato».
Non a caso, cinema e psicoanalisi sono fratelli gemelli. Nati lo stesso anno, il 1895, quando a Vienna Freud pubblica i primi studi sull’isteria e a Parigi i fratelli Lumière mostrano in pubblico il primo film, 45 secondi in bianco e nero tremolante sull’uscita delle operaie dalle officine Lumière. Un doppio sogno costruito su evidenti affinità - immagini in movimento, oscurità, voyeurismo - destinato a infiniti intrecci futuri. La rassegna di psico-film curata da Maurizio Porro, dal 5 febbraio al 12 marzo all’Anteo, offrirà occasioni per meditarci su.
Ma se Freud restò incantato alla sua prima visione romana, non altrettanto accadde quando Hollywood lo interpellò. Nel 1924, pur trovandosi in ristrettezze economiche, rifiutò i 100mila dollari offerti dalla MGM per collaborare alla stesura di copioni su storie d’amore tra personaggi famosi, a partire da Antonio e Cleopatra. Due anni dopo altro invito, altro rifiuto. Sebbene stavolta la richiesta fosse più sensata, supervisionare la sceneggiatura de I misteri dell’anima di Pabst, primo film sulla psicanalisi, Freud si ritrasse indignato. «Non voglio aver nulla a che spartire con storie del genere» scrisse a Karl Abrahm, presidente della Società Psicanalitica, che prima tentò di convincerlo e poi accettò di collaborare lui stesso al film. E questo provocò la rottura tra i due.
«Freud non odiava il cinema, la sua diffidenza era verso un cinema che voleva raccontare la psicoanalisi - assicura Vittorio Lingiardi, psicanalista appassionato del grande schermo -. Ma detta con il senno di poi, aveva torto. Vera “fabbrica dei sogni”, il cinema tra tutte le arti visive ha dimostrato di essere la più adatta a raccontare la vita psichica».
Tanto che oggi alcuni film vengono adottati come complemento didattico nelle università. «Se una volta si portavano gli studenti a vedere le isteriche alla Salpêtrière, oggi si mostrano i meccanismi della psiche attraverso i paesaggi del cinema». Per esempio? «Se voglio parlare della fragilità analitica proietto Blue Jasmine di Woody Allen, mentre Natural Born Killer è un trattato sulla personalità antisociale. E niente come l’ Inquilino del terzo piano di Polanski spiega, complice Topor, come nasce il delirio psicotico».
E poi viene Hitchcock. « Psyco per me è il primo vero film psicanalitico. Hitch semplifica molto, ma sa trattenere i tre elementi chiave della psicanalisi: il trauma, la rimozione, la catarsi. Capisce che la psicanalisi al cinema è un successo, la usa per costruire il plot».
Altro discorso per Woody Allen: «Maestro nel raccontare le nevrosi quotidiane, meglio le sue, con quel tocco di ironia necessaria per trasformare il dramma in commedia». Ma se Hitch piega la psicologia al cinema e Allen stende il cinema sul lettino, che fa Cronenberg? «La affronta dal punto di vista del paziente, dentro i più oscuri pertugi della mente».
Impossibile scordarsi di Bergman e Buñuel. «Il primo usa la psicanalisi per sfiorare la metafisica, il secondo ne recupera la forza eversiva originaria». Ma il più psy di tutti resta Fellini. «Il più visionario. Jung, “lo scienziato veggente”, è il suo compagno di viaggi onirici». Ne resta ancora uno, Lars von Trier.
«Melancholia è il poema della depressione, Nymphomaniac il film impossibile sulla sessualità femminile. Due buchi neri della psiche illuminati dalla forza emotiva del cinema».
LO SPIRITO DELL’EUROPA .... *
Thomas Mann: è l’Europa l’unico antidoto al nazionalismo tedesco
Tornano, con una introduzione di Giorgio Napolitano, i Moniti etico-politici scritti tra le due guerre: mai così attuali
di Francesca Sforza (La Stampa, 21.11.2017)
Mai così tedesco, Thomas Mann, come quando era lontano dalla Germania. E mai così attuale come nei giorni in cui la Repubblica Federale, dopo aver per la prima volta riammesso nel Bundestag gli estremisti del partito di destra AfD, si prepara ad affrontare una stagione quanto mai difficile, senza una maggioranza di governo stabile, con una cancelliera sfinita da infruttuose consultazioni e un futuro segnato da incertezza e instabilità.
Leggere oggi Moniti all’Europa, raccolta di saggi di Thomas Mann scritti tra il 1922 e il 1945 - che Mondadori ripubblica dopo sessant’anni dalla prima edizione nella stessa traduzione di Lavinia Mazzucchetti e con un’importante introduzione di Giorgio Napolitano - significa dunque ripensare alcuni tragici nodi del passato, ma anche snebbiarsi gli occhi dalle opache interpretazioni del momento presente.
La raccolta si apre con lo storico discorso berlinese del 1922 Della repubblica tedesca, a sostegno della repubblica di Weimar, attraversa gli scritti più espressamente anti-hitleriani e i radiomessaggi inviati all’America al popolo tedesco durante gli anni della guerra, per poi concludersi con due fondamentali saggi del 1945: La Germania e i tedeschi, e Perché non ritorno in Germania, in cui Thomas Mann concentra in pagine brevi e intensissime il senso della missione individuata per il proprio Paese, ovvero quello di farsi il più possibile europeo.
Una domanda però sorge spontanea: siamo di fronte allo stesso autore che nel 1918 pubblicava le Considerazioni di un impolitico, manifesto del più puro neoconservatorismo, venato di pulsioni illiberali e antidemocratiche, ambiguo nei toni e appannato nei propositi? A tentare una risposta è Giorgio Napolitano, nella sua introduzione, quando sottolinea il bisogno di Mann di trovare, per sua stessa ammissione, «una verità nuova quale nuovo stimolo di vita»: l’adesione alla repubblica e alla democrazia, scrive il Presidente emerito, «risente in qualche passaggio ancora di un certo impaccio, ma senza più ombra di dubbio o equivoco», in particolare quando attacca «“i patrioti avversari”, il loro nazionalismo, e ne ridicolizza la nostalgia dinastico-imperiale del Paese».
C’è uno scritto, in particolare, che riassume con forza la ritrattazione di Considerazioni di un impolitico - ritrattazione a tratti insinuata, ma mai resa esplicita, è bene ricordarlo - ed è La Germania e i tedeschi, in cui Mann, per prima cosa, confessa di sentirsi profondamente a suo agio nei panni americani: «Così come le cose stanno oggi [giugno 1945, ndr], il mio germanesimo è qui, nell’ospitale cosmopoli, nell’universo nazionale e razziale che ha nome America, al suo posto migliore». È come se la permanenza americana portasse una ventilazione nuova nei suoi pensieri, facendogli cogliere la bellezza dell’universalismo, del cosmopolitismo, della mescolanza. E meglio mostrasse, per converso, l’angustia dei sovranismi, delle barriere nazionalistiche, dei deliri identitari e dei trionfalismi germanocentrici.
Ed è peculiare che Mann scelga, per meglio esprimere le contraddizioni dell’animo tedesco, Martin Lutero, il riformatore, l’uomo della separazione da Roma. Per un verso Mann ne riconosce la grandezza, relativamente alla capacità di garantire la libertà religiosa, per l’altro però ne vede l’incapacità di comprendere con la stessa lungimiranza la libertà del cittadino, come ben sintetizzò la sua posizione - di totale disprezzo e rifiuto - nei confronti della rivolta dei contadini.
Thomas Mann, di fronte a Lutero, è in primo luogo spaventato, e a spaventarlo è l’estrema «tedeschità» dell’uomo, il suo spirito anti-romano e anti-europeo: «Non mi sarebbe piaciuto essere ospite alla tavola di Lutero, mi sarei probabilmente sentito come nella dimora di un orco, mentre sono persuaso che me la sarei cavata molto meglio con Leone X, cioè con Giovanni de’ Medici, il cortese umanista che Lutero soleva chiamare “la scrofa del demonio, il Papa”».
In antitesi al modello-Lutero si staglia, nel percorso del Mann americano e rinnovato, la figura di Goethe, capace di conciliare forza popolare e civilizzazione: «Egli è il demonismo consumato, è spirito e sangue a un tempo, cioè arte [... ], con lui la Germania ha fatto un grandioso passo avanti sul cammino della civiltà umana».
Ciò che più di tutti Thomas Mann lamenta, nel guardare le macerie tedesche, è quel pendere dalla parte di Lutero, più che di Goethe. E risuona sinistra la domanda che pone e si pone: «Perché l’impulso di libertà tedesco deve sfociare sempre in una non-libertà interiore?».
Nel ribadire di non essere in alcun modo un nazionalista, Thomas Mann in questi scritti affida il destino della Germania, e anche il suo personale, all’impegno nei confronti dell’Europa, unico antidoto al nazionalismo tedesco: «Mi si conceda il mio germanesimo cosmopolita», scrive quasi chiedendo indulgenza per non voler ritornare in patria, dopo la guerra. Sarebbe stato per lui un gesto troppo politico, la cui portata, ne era forse consapevole, non avrebbe saputo gestire.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
ROMA BRUCIA. GRAZIE AL "TIMES" PER L’ALLARME, MA LONDRA NON RIDA (E ABBIA MIGLIOR CURA DI FREUD). L’incendio è generale. Un omaggio alla Sapienza di Oxford
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
BIOLOGIA, ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA.... *
L’amore è davvero cieco così il cervello si spegne e la scienza non lo sa spiegare
È la Francesca di Dante il simbolo tragico della forza sprigionata dalle nostre passioni
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 29.09.2017)
Un saggio di Grazia Attili indaga le basi biologiche del sentimento più grande e misterioso. Studi ed esperimenti confermano le intuizioni dei poeti, ma non rispondono alla domanda cruciale: come accade? Consapevole di quanto l’amore plasmasse la vita quotidiana nel mondo occidentale, ma anche in altre culture, Sigmund Freud scrisse parole illuminanti in un suo saggio del 1915: «Indubbiamente l’amore fra i sessi è una delle cose più importanti della vita, e l’unione del soddisfacimento spirituale e fisico che si attinge nel godimento d’amore ne rappresenta precisamente uno dei vertici. Soltanto nella scienza si ha ritegno ad ammetterlo ».
È passato da allora più di un secolo ma la complessità dell’esperienza amorosa è ancora oggi difficile da decodificare in campo scientifico perché vi è un ritegno, più che comprensibile, ad entrare nell’intimità della vita individuale, ma anche a tradurre questo sentimento in un linguaggio troppo distante da quello che usano gli innamorati.
Ma l’amore non è solo quello del batticuore e del desiderio che si prova per la persona che si ama, anche il corpo e lo stesso cervello ne sono coinvolti, come viene raccontato nel libro Il cervello in amore (il Mulino, pag. 230) dalla psicologa e docente universitaria Grazia Attili.
Già in altri suoi libri Attili aveva esplorato l’esperienza amorosa in una chiave evoluzionistica mettendo in luce come l’amore dei genitori per i figli, ma anche fra partner sentimentali comporti l’attivazione di circuiti cerebrali che sostengono la relazione affettiva favorendo la propagazione delle specificità genetiche alle generazioni successive e la stessa sopravvivenza della specie umana. In questo nuovo libro esplora ulteriormente le basi biologiche dell’amore sentimentale con un’attenta revisione delle nuove scoperte nel campo dei neurormoni. Quando si pensa alla persona che si ama e ancora di più quando si è con lei si verifica nel cervello una tempesta ormonale, di cui la dopamina è la grande protagonista. Nel viso e negli occhi della persona innamorata si coglie il piacere che sta vivendo, ma che a volte suscita pensieri così insistenti da divenire travolgenti, quasi ossessivi.
Non può non ritornare in mente la tragica figura di Francesca da Rimini, che Dante incontra all’Inferno e che racconta il turbine da cui è stata travolta: «Amor che a’nullo amato amar perdona mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona». Ma il confine fra passione e innamoramento e delirio amoroso a volte può sfumare. Come per esempio nel film di François Truffaut Adele H., in cui la protagonista, la secondogenita di Victor Hugo, si innamora di un ufficiale inglese e lo insegue in Canada nonostante il divieto paterno, fino a perdere il senno.
Ma che cos’è che fa scivolare l’amore in un’ossessione che fa perdere il senso della realtà? A questo interrogativo cerca di rispondere il libro di Grazia Attili: nell’amore sentimentale, come hanno messo in luce le ricerche che hanno studiato il cervello delle persone innamorate utilizzando la risonanza magnetica, si verificano grandi cambiamenti. Le aree connesse alla sensazione di piacere e di euforia si attivano fortemente, ad esempio quando si guarda la foto della persona che si ama, mentre si disattivano le aree cerebrali connesse al riconoscimento delle emozioni negative e alla cognizione sociale. In altre parole gli studi confermano il detto “l’amore è cieco” proprio perché si verifica una specie di cecità mentale che compromette il riconoscimento delle qualità meno attraenti della persona che si ama.
È più che mai vero quello che scrisse Freud: artisti, poeti e scrittori hanno saputo raccontare le esperienze umane anticipando anche di molti secoli quello che la scienza ha cercato di scoprire molto dopo. Ma nel caso dell’amore la scienza sta compiendo i primi passi e ancora oggi non è in grado di spiegarne l’enigma: perché ci innamoriamo, perché succede proprio in un determinato momento della vita, perché siamo attratti da quella persona, ma anche perché può finire.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Antropologia e teologia....
"EROS", "AGAPE", "CHARITAS". L’ALLEANZA DI FUOCO: L’ANTICO TESTAMENTO E IL SESSO.
SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA".
La lezione di Sigmund Freud (l’"Istruzione sessuale dei bambini")
Federico La Sala
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....*
Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
Buondì Motta: vivere con l’asteroide sopra la testa
di Sarantis Thanopulos (Psychiatry on line, 11 settembre, 2017)
Buondì Motta, lo spot pubblicitario della nota azienda dolciaria, ha provocato uno scontro tra chi lo accusa di essere scorretto e offensivo e chi ne difende l’originalità e il sottile senso dell’ironia. Lo spot è un video ambientato nel giardino/parco di una bella villa. Inizia con una bambina che chiede alla madre una colazione leggera ma invitante, che coniughi leggerezza e golosità. La madre ribatte che una cosa simile non esiste. “Possa un’asteroide colpirmi se esiste!”, aggiunge. Puntualmente arriva un’asteroide e la polverizza, aprendo un cratere nel giardino. In una seconda versione dello spot il posto della madre è preso dal padre.
L’intento dei realizzatori del video è ovviamente manipolativo. Il pubblicitario di tendenza oggi associa il prodotto da vendere a una cosa emotivamente forte che aggancia visceralmente lo spettatore. Crea così una dipendenza dal prodotto in modo indiretto. Usa raffinati mezzi di condizionamento psichico che Pavlov gli invidierebbe. Questi mezzi non derivano dalla sua “creatività”, vengono prevalentemente da un apposito campo di ricerca sull’induzione di comportamenti a cui anche Trump si è rivolto per la sua campagna elettorale. Lo studio dei comportamenti e della loro prevedibilità ha ceduto il posto alla scienza della loro costruzione che li rende riproducibili a piacere. Nulla è lasciato all’imprevedibilità e al caso.
Buondì Motta ha nel suo mirino gli spot del “Mulino bianco”. Punta (senza l’ironia che gli è stata attribuita) a una clientela “trendy” che si immagina privilegiata nel voler abbinare lusso, leggerezza e invitante golosità e si esprime (dalla culla pare) con un linguaggio di maniera, supposto elegante. Incurante di mostrare che i prodotti Motta si abbinino effettivamente a questa percezione di sé, va per le spicce e ricorre agli effetti forti.
L’emozione negativa può essere più efficiente di quella positiva: essendo più shoccante tende ad essere anche più persistente. Cosa di meglio da servire a tavola, dell’angoscia della catastrofe naturale che attualmente si mescola finemente dentro di noi con la paura dell’incidente terroristico? Se poi la si coniuga con il conflitto con i genitori sui limiti del piacere e con l’inconscio desiderio di ucciderli, che sovverte nella nostra psiche l’ordine del mondo, il cerchio si chiude. Le merendine Motta possono entrare nel circuito della domanda di strumenti di gratificazione immediata e pacificazione/silenziamento dei sensi che rassicurano e consolano. Il condizionamento ha trovato l’aggancio con la compensazione.
Giocare con l’inconscio, violando la determinazione psichica dei comportamenti per sottoporli a ragioni di opportunità, ha i suoi inconvenienti. Finisce per rivelare la natura vera di un sistema di relazioni fondato sulla comunicazione pubblicitaria che preclude il reale incontro. La dissoluzione delle relazioni erotiche (colpite nella loro profondità) scava un vuoto nella femminilità (l’apertura all’inconsueto), ben rappresentato nello spot dal cratere finale nel giardino di casa (simbolo della sessualità femminile). Si è creato un mondo senza legami di reciprocità che eludendo il conflitto e il dolore sta sprofondando (profezia involontaria dei pubblicitari di Buondì Motta) in una violenza insensata, autodistruttiva.
Questo mondo, che pur di imbrigliare l’imprevisto è disposto a pagare il prezzo della cecità (l’incapacità di vedere al di là del suo naso), sta producendo la più temibile delle casualità: l’impazzimento del suo funzionamento. Vive nella paura che un asteroide (proiezione all’esterno della sua follia) possa cascargli sulla testa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
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FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
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Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
Buondì Motta: vivere con l’asteroide sopra la testa
di Sarantis Thanopulos (Psychiatry on line, 11 settembre, 2017)
Buondì Motta, lo spot pubblicitario della nota azienda dolciaria, ha provocato uno scontro tra chi lo accusa di essere scorretto e offensivo e chi ne difende l’originalità e il sottile senso dell’ironia. Lo spot è un video ambientato nel giardino/parco di una bella villa. Inizia con una bambina che chiede alla madre una colazione leggera ma invitante, che coniughi leggerezza e golosità. La madre ribatte che una cosa simile non esiste. “Possa un’asteroide colpirmi se esiste!”, aggiunge. Puntualmente arriva un’asteroide e la polverizza, aprendo un cratere nel giardino. In una seconda versione dello spot il posto della madre è preso dal padre.
L’intento dei realizzatori del video è ovviamente manipolativo. Il pubblicitario di tendenza oggi associa il prodotto da vendere a una cosa emotivamente forte che aggancia visceralmente lo spettatore. Crea così una dipendenza dal prodotto in modo indiretto. Usa raffinati mezzi di condizionamento psichico che Pavlov gli invidierebbe. Questi mezzi non derivano dalla sua “creatività”, vengono prevalentemente da un apposito campo di ricerca sull’induzione di comportamenti a cui anche Trump si è rivolto per la sua campagna elettorale. Lo studio dei comportamenti e della loro prevedibilità ha ceduto il posto alla scienza della loro costruzione che li rende riproducibili a piacere. Nulla è lasciato all’imprevedibilità e al caso.
Buondì Motta ha nel suo mirino gli spot del “Mulino bianco”. Punta (senza l’ironia che gli è stata attribuita) a una clientela “trendy” che si immagina privilegiata nel voler abbinare lusso, leggerezza e invitante golosità e si esprime (dalla culla pare) con un linguaggio di maniera, supposto elegante. Incurante di mostrare che i prodotti Motta si abbinino effettivamente a questa percezione di sé, va per le spicce e ricorre agli effetti forti.
L’emozione negativa può essere più efficiente di quella positiva: essendo più shoccante tende ad essere anche più persistente. Cosa di meglio da servire a tavola, dell’angoscia della catastrofe naturale che attualmente si mescola finemente dentro di noi con la paura dell’incidente terroristico? Se poi la si coniuga con il conflitto con i genitori sui limiti del piacere e con l’inconscio desiderio di ucciderli, che sovverte nella nostra psiche l’ordine del mondo, il cerchio si chiude. Le merendine Motta possono entrare nel circuito della domanda di strumenti di gratificazione immediata e pacificazione/silenziamento dei sensi che rassicurano e consolano. Il condizionamento ha trovato l’aggancio con la compensazione.
Giocare con l’inconscio, violando la determinazione psichica dei comportamenti per sottoporli a ragioni di opportunità, ha i suoi inconvenienti. Finisce per rivelare la natura vera di un sistema di relazioni fondato sulla comunicazione pubblicitaria che preclude il reale incontro. La dissoluzione delle relazioni erotiche (colpite nella loro profondità) scava un vuoto nella femminilità (l’apertura all’inconsueto), ben rappresentato nello spot dal cratere finale nel giardino di casa (simbolo della sessualità femminile). Si è creato un mondo senza legami di reciprocità che eludendo il conflitto e il dolore sta sprofondando (profezia involontaria dei pubblicitari di Buondì Motta) in una violenza insensata, autodistruttiva.
Questo mondo, che pur di imbrigliare l’imprevisto è disposto a pagare il prezzo della cecità (l’incapacità di vedere al di là del suo naso), sta producendo la più temibile delle casualità: l’impazzimento del suo funzionamento. Vive nella paura che un asteroide (proiezione all’esterno della sua follia) possa cascargli sulla testa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito.... *
La chiesa e la cura del vivere
Il papa in psicoanalisi. Per i gesuiti l’analisi è un valido strumento di cura psichica e non esiste alcuna incompatibilità con la fede. Eppure la rivelazione di Bergoglio va ben oltre, afferma un principio di laicità e riconosce l’autonomia dei dubbi, del dolore, delle incertezze
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 03.09.2017)
Papa Francesco all’età di 42 anni si è fatto aiutare per un breve periodo da una psicoanalista ebrea. La rivelazione è contenuta in un libro di prossima pubblicazione in Francia (Politique et société edizioni L’Observatoire): la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton.
Il fatto non è di per sé sorprendente. Bisogna considerare prima di tutto che papa Francesco è gesuita. Per i gesuiti la psicoanalisi è un valido strumento di cura psichica e il ricorso personale ad essa può essere finanziato dal loro ordine. Parecchi degli analisti sono credenti come anche la maggior parte dei loro analizzandi. Tra la psicoanalisi e la fede non esiste alcuna incompatibilità: i conflitti psichici si distribuiscono equamente tra credenti e non credenti.
Nondimeno la confessione pubblica del papa ha una sua innegabile particolarità. Proveniente dalla massima autorità della chiesa cattolica va ben oltre ciò che un fedele o un sacerdote fanno nella loro privata.
Afferma un principio di laicità che non consiste solo nel dare a Cesare ciò che è di Cesare (un riconoscimento dell’ordinamento politico terreno che legittimò la trasformazione della chiesa in un’organizzazione di potere secolare). Riconosce anche l’autonomia dei dubbi, del dolore, delle incertezze che fanno parte della nostra esistenza (e la cui elaborazione determina la sua qualità, dalla fede nei valori eterni di una vita oltre la morte). La fede non può garantire da sola una vita decente, la terra può guardare il cielo per trovare in esso una visuale superiore delle cose di questo mondo, ma questa visuale non decide il modo di vivere e di gestire i propri desideri e sentimenti.
La differenza tra la religione cattolica e la psicoanalisi sta nella centralità che quest’ultima attribuisce alla dimensione erotica dell’esistenza. Ciò non implica semplicemente la sessualità vera e propria, con tutta la sua fondamentale importanza, ma più in generale il modo profondo, radicato nei sensi, di gustare e dare senso alla propria vita. La spiritualità religiosa, che si fa carico della caducità, nella prospettiva psicoanalitica è sostituita dalla sublimazione: l’esperienza culturale, includente la religiosità, che espande il piacere dei sensi e la profondità/intensità dei vissuti oltre i confini della pura contiguità sensoriale. Questa espansione amplia i legami e la ricchezza degli scambi tra di noi al di là dei limiti temporali e trasforma l’esperienza concreta, limitata del singolo individuo in una parte dell’infinita varietà potenziale dell’avventura umana.
La prospettiva psicoanalitica e quella cattolica non sono affatto in contraddizione insanabile se la spiritualità accetta la differenza tra la vita terrena e il principio dell’eternità, se non pretende che il secondo disincarni la prima, che la svuoti di senso e di soddisfazione. Se riconosce che una persona deprivata sul piano del desiderio e delle sue molteplici forme sublimate e appiattita su una posizione di dilazione consolatoria del piacere del vivere, astratto da ogni forma di emozione vera, è ridotta alla materia del proprio scheletro. Nessuna forza la farà risorgere, la morte se ne è impadronita per sempre. I credenti che hanno rispetto di se stessi e degli altri non aspirano alla resurrezione dei morti viventi.
Papa Francesco sembra più vicino dei suoi predecessori a Sofocle, un uomo profondamente religioso. In Antigone, dopo aver detto che l’eros è in battaglia invincibile, il grande tragico ha affermato che il Desiderio siede tra le Leggi (politiche e religiose) possenti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Perché la “confessione” del Pontefice è rivoluzionaria
In Italia la Chiesa spinse per mettere Freud fuorilegge
di Fabio Martini (La Stampa, 02.0’9.2017)
C’è qualcosa di rivoluzionario nella confessione di papa Francesco di essere andato in analisi, di averne tratto giovamento e di essersi fatto curare da una psicoanalista. Sin dai primi del Novecento la Chiesa ha sempre osteggiato con tutti i mezzi, anche “illegali”, la psicoanalisi, avvertita come pericolosa concorrente, come “colpevole” di aver infranto il monopolio cattolico nel confessionale e nella introspezione delle anime. Certo il capo di accusa non è mai stato dichiarato esplicitamente, ma per almeno 50 anni si è sviluppata una guerra senza quartiere contro una disciplina “eretica” fondata dall’ebreo Sigmund Freud.
La psicoanalisi è stata disciplina, almeno in Italia, vissuta come destabilizzante da tutti i poteri costituiti. Agli albori la contrastano non solo la Chiesa, ma anche il fascismo, l’idealismo crociano e nel secondo dopoguerra il Pci di influenza sovietica. E infatti all’inizio degli Anni Trenta i pionieri, non per caso, sono due ebrei - Edoardo Weiss ed Emilio Servadio - e due antifascisti socialisti, Cesare Musatti e Nicola Perrotti.
Il Vaticano è ostile perché intuisce nella psicoanalisi una pericolosa concorrente. Ne denuncia il «pansessualismo» e il «materialismo», ma di quelle teorie ancora più inquieta l’ambizione «totalitaria», un’attitudine che finisce col sottrarre alla Chiesa il monopolio dell’anima e i tanti segreti personali, fino a quel momento custoditi in confessionale. E crolla persino il monopolio sull’attività onirica, rispetto alla quale la Chiesa aveva elaborato, ben prima di Freud, una sua «Interpretazione», per la quale attraverso i sogni è il diavolo che vuole catturare l’anima. Ecco perché la Chiesa nel 1934 chiede a Mussolini - e ottiene - la soppressione della “Rivista italiana di psicoanalisi”, alla quale seguirà cinque anni dopo lo scioglimento della pur piccola Società italiana di psicoanalisi.
Soffocata sul nascere con l’accordo del fascismo, la psicoanalisi italiana nel secondo dopoguerra subisce la ripresa di ostilità da parte della Chiesa, al punto che nel 1952, sul Bollettino del clero romano, si arriva a qualificare addirittura come «peccato mortale» ogni pratica psicoanalitica. Una scomunica apparentemente senza appello, ma che negli anni successivi via via si scioglie grazie a piccole aperture di papi come Paolo VI e Giovanni XXIII. Ora Francesco non soltanto ha “sdoganato” la psicoanalisi ma l’ha elevata a “compagna” dell’anima umana.
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. IN DIFESA DELLA PSICOANALISI... *
La confessione del Papa
«La psicanalisi mi ha aiutato». Bergoglio all’età di 42 anni, per sei mesi ogni settimana, ha incontrato un’analista ebrea. È il Pontefice a rivelarlo in un libro in cui parla anche di matrimoni gay, laicità e immigrazione.
In un libro gli incontri di anni fa del futuro Papa con un’analista ebrea
di Leonardo Martinelli Andrea Tornielli (La Stampa, 01.09.2017)
Padre Jorge Mario Bergoglio, all’età di 42 anni, per sei mesi ogni settimana ha incontrato una psicanalista. È lui stesso a rivelarlo in un libro di prossima pubblicazione in Francia, che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: «Politique et société», edizioni L’Observatoire).
Durante una delle interviste, il Papa ha parlato del ruolo avuto da alcune donne nella sua esistenza. «Quelle che ho conosciuto mi hanno aiutato molto quando ho avuto bisogno di consultarmi». Poi si passa alla psicanalista.
«Ho consultato una psicanalista ebrea - racconta Bergoglio al suo interlocutore -. Per sei mesi sono andato a casa sua una volta alla settimana per chiarire alcune cose. Lei è sempre rimasta al suo posto. Poi un giorno, quando stava per morire, mi chiamò. Non per ricevere i sacramenti, dato che era ebrea, ma per un dialogo spirituale. Era una persona buona. Per sei mesi mi ha aiutato molto, quando avevo 42 anni». -L’esperienza raccontata da Francesco si colloca dunque tra il 1978 e 1979, gli anni della dittatura, quando aveva concluso la non facile esperienza di provinciale dei gesuiti d’Argentina e stava iniziando quella di rettore del Collegio Máximo, dove venivano formati gli studenti che desideravano entrare nella Compagnia.
Chiesa e psicanalisi
All’inizio la Chiesa ha denunciato il «pansessualismo», ma anche l’ambizione «totalitaria» della psicanalisi. Ad aprire un primo spiraglio fu Pio XII nel 1952, spiegando: «È inesatto sostenere che il metodo pansessuale di una certa scuola di psicoanalisi sia parte indispensabile di ogni psicoterapia degna di tal nome». Nel luglio 1961, con Giovanni XXIII, il Sant’Uffizio proibì ai preti di praticare la psicanalisi e ai seminaristi di sottoporvisi. Nell’enciclica «Sacerdotalis coelibatis» del 1967 Paolo VI ammetteva la possibilità del ricorso «all’assistenza e all’aiuto di un medico o di uno psicologo competenti» nei seminari e nel 1973, durante un’udienza, affermava: «Abbiamo stima di questa ormai celebre corrente di studi antropologici, sebbene noi non li troviamo sempre coerenti fra loro, né sempre convalidati da esperienze soddisfacenti e benefiche». Come dato curioso si può infine ricordare «Habemus Papam», il film di Nanni Moretti, che racconta di un Pontefice eletto che ricorre - seppur con poca convinzione - al consulto di una psicanalista.
«In gabbia, ma libero»
Il Papa, nei dialoghi con Wolton parla anche della sua vita di oggi. «Mi sento libero. Certo, sono in una gabbia qui al Vaticano, ma non spiritualmente. Non mi fa paura niente». Si scaglia contro quei «preti rigidi, che hanno paura di comunicare. È una forma di fondamentalismo. Quando m’imbatto in una persona rigida, soprattutto giovane, mi dico che è malato. Sono persone che in realtà ricercano una loro sicurezza». Inevitabile, poi, il riferimento all’immigrazione. «La nostra è una teologia di migranti, perché lo siamo tutti fin dall’appello di Abramo, con tutte le migrazioni del popolo d’Israele. E lo stesso Gesù è stato un rifugiato, un migrante. Esistenzialmente, attraverso la fede, siamo dei migranti. La dignità umana implica necessariamente di essere in cammino». Si rammarica del fatto che «l’Europa in questo momento ha paura. Chiude, chiude, chiude...». Il Papa rigetta anche la nozione di «guerra giusta», che pure ha un fondamento nella tradizione della Chiesa e nella legittima difesa dei popoli. Per Bergoglio, «la sola cosa giusta è la pace».
La vera laicità
Francesco tocca anche il tema della laicità. «Lo Stato laico è una cosa sana - dice -. Gesù l’ha detto: bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Ma «credo che in certi Paesi, come la Francia, la laicità abbia una colorazione ereditata dai Lumi davvero troppo forte, che costruisce un immaginario collettivo in cui le religioni sono viste come una sottocultura. Credo che la Francia dovrebbe «elevare un po’ il livello della sua laicità». Sul dialogo con l’Islam, si dice ottimista e accenna al suo rapporto con l’imam di Al-Azhar. Ma afferma anche che «i musulmani non accettano il principio della reciprocità».
Quanto al matrimonio gay, ritiene che «da sempre nell’umanità, non solo nella Chiesa cattolica, il matrimonio è fra un uomo e una donna». Ma quelle tra omosessuali accetta di chiamarle «unioni civili». Le piace essere chiamato «Papa dei poveri»? «No, perché è un’ideologizzazione». «Io sono il Papa di tutti, dei ricchi e dei poveri. Dei poveri peccatori, a cominciare da me». A Francesco piace il contatto fisico con i fedeli. «La tenerezza - confida - è qualcosa che procura così tanta pace».
Se il religioso va alla guerra con se stesso
di Ferdinando Camon (La Stampa, 01.09.2017)
La notizia che l’attuale papa Francesco, quando aveva 42 anni, andò in analisi, ti entra nel cervello e non ne esce più. È sconvolgente: un alto esponente della Chiesa Cattolica va in analisi; va da una psicanalista-donna; che è anche ebrea. Quelli che ragionano sull’analisi e sulla religione sono convinti che siano due contrari. Questo perché la fede parte dalla rivelazione: la verità è stata rivelata, una volta per tutte. Sappiamo che cosa è bene e che cosa è male.
Mentre l’analisi è ricerca incondizionata: se alla tua ricerca metti dei limiti (non parlerò di mia madre o della mia amante), l’analisi fallisce, anzi non comincia nemmeno. Cesare Musatti, presidente della Società Psicanalitica Italiana, esprimeva questo concetto ricorrendo alla metafora della guerra civile: l’analisi è una guerra civile, chi va in analisi è in guerra con se stesso, è come uno Stato in cui una parte dei cittadini si ribella e combatte contro gli altri.
Lo Stato non può dire: combatterò i ribelli a Torino e a Milano, ma non a Venezia e a Trieste, perché se parla così succede che tutti i ribelli si rifugiano a Venezia e a Trieste, e quelle città, che lo Stato voleva risparmiare, dovrà raderle al suolo. Pasolini andò in analisi da Musatti e dopo poche sedute disse: «Non parlerò della mia omosessualità, perché è natura». Musatti rispose: «Ne parlerà comunque, anche senza volerlo». Pasolini entrò in un’angoscia tremenda, e dopo sette-otto sedute non si presentò più. È mia opinione che lì sia accaduto un grave errore di Musatti. Perché tu, analista, non puoi dire al tuo paziente qualcosa che il tuo paziente in quel momento non è in grado di reggere. Aspetta, hai tutta l’eternità a disposizione. Se glielo dici in anticipo, e quello entra in crisi e si ritira, la colpa è tua. Musatti faceva l’analisi anche a preti e membri della gerarchia cattolica. Diceva che venivano a lui col permesso dei superiori.
L’analisi è l’esame delle potenti figure interiori che ti porti dentro, se sei cattolico la prima di queste potenti figure interiori è Cristo: non puoi iniziare una battaglia, nella quale puoi trovarti di fronte Cristo, senza dire ai tuoi che parti per il fronte. Un profondo e delicato psicanalista freudiano, Giovanni Gozzetti, allievo prediletto di Salomon Resnik, argentino (il quale è l’autore delle voci di psicanalisi dell’Enciclopedia Einaudi), aveva un paziente cattolico che a un certo punto gli annunciò: «Piuttosto di mettere in discussione Cristo, preferisco ritirarmi», e non si fece più vedere. Probabilmente era questo che temevano i cardinali del film «Habemus Papam» di Nanni Moretti, quando si presentò il problema se il papa (appena eletto, e in crisi col nuovo ruolo) poteva andare in analisi: in analisi? E parlare dei sogni? No no no. Se va in analisi, è la Curia che stabilisce di che cosa può parlare, e di che cosa no.
L’analisi è una discesa dentro te stesso, in una profondità che non conosci, là sotto troverai un te stesso che ignori, può incantarti ma anche spaventarti, puoi tornar su deciso a proseguire per la strada di prima oppure a fare una inversione a U. Non è affatto detto, come credono gli psicanalisti anti-cattolici, che analisi e fede siano due nemiche. Viktor Frankl lo dimostra. E ora anche l’analisi di Bergoglio. Perché ha avuto una conclusione stupefacente: è durata poco, sei mesi, e aveva un ritmo blando, una seduta per settimana, ma alla fine successe qualcosa di raro: in punto di morte, fu la psicanalista a chiamare l’ex-paziente, «per un dialogo spirituale». In analisi le due forze che agiscono sono il transfert, che lega il paziente all’analista, e il controtransfert, che lega lo psicanalista al paziente. Se succede che il secondo sia più forte del primo, allora è lo psicanalista che è in analisi dal suo paziente. Andò così con Bergoglio?
Il pontefice in cura da Moretti
in «Habemus Papam» (La Stampa, 01.09.2017)
Il Papa e uno psicanalista. Un incontro che il cinema aveva già raccontato. Nanni Moretti, nel suo «Habemus Papam» nel 2011, interpreta un analista che assiste il pontefice depresso e poi dimissionario Michel Piccoli (altra previsione azzeccata del regista romano). Per affrontare la crisi del Papa viene chiamato il professor Brezzi (Nanni Moretti), uno psicanalista, che prescrive al santo padre alcune sedute con la moglie, Margherita Buy, analista anche lei, al di fuori delle mura vaticane. L’intervento dei due specialisti non basterà: il Papa si troverà a vagare per Roma di notte su un autobus.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
LACAN PROPOSE UN “RITORNO A FREUD”, MA A LONDRA, A “20 MARESFIELD GARDENS”, NON ARRIVÒ MAI ... *
LACAN INTERPRETA “KANT CON SADE” E SI AUTO-INTERPRETA CON “L’ORIGINE DEL MONDO” DI COURBET.... **
KANT CON SADE: “Che l’opera di Sade anticipi Freud, foss’anche solo riguardo al catalogo delle perversioni, è una sciocchezza detta e ridetta nelle lettere, la cui colpa, come sempre, va agli specialisti”. Così inizia il testo di J. Lacan, "Kant con Sade", (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 762).
Sulla “kantizzazione” di Sade e sulla “sadizzazione” di Kant da parte di Lacan, cfr.: E. Fachinelli, “Lacan e la Cosa”, "La Mente estatica", Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195; e, sulla più generale “hitlerizzazione” di Kant, si cfr., mi sia consentito, Federico La Sala, FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA).
LACAN E “L’ORIGINE DEL MONDO” (G. Courbet, 1866): “(...) Jacques Lacan conservava L’origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur” (Sergio Luzzatto, “L’origine del mondo, storia di un tabù”, Corriere della Sera, 24 maggio 2008).
** PSICOANALISI: LACAN INTERPRETA “KANT CON SADE” E SI AUTO-INTERPRETA CON “L’ORIGINE DEL MONDO” DI COURBET.
Federico La Sala
Al di là del principio di prestazione
di Moreno Montanari (Doppiozero, 26.02.2017)
La psicoanalisi è un fenomeno di cui si può parlare solo al plurale e ben oltre i differenti indirizzi delle sue principali scuole (freudiana, junghiana, lacaniana) perché la sua pratica è sempre legata all’unicità di “due persone che s’incontrano in una stanza”. Senza mai venir meno alla sua originale vocazione clinica, la psicoanalisi si è sempre vissuta anche come una teoria critica, uno straordinario armamentario di chiavi ermeneutico-simboliche per leggere le diverse dinamiche che innervano il mondo umano, si è apertamente proposta come un’etica del riconoscimento dello straniero e del minaccioso che ci abitano, come una pratica di comprensione ed elaborazione della propria Ombra e come luogo in cui esercitarsi a coltivare la possibilità di dirsi la verità, di prendere sul serio le proprie fantasie, di guardare in faccia le proprie illusioni, di prendersi cura del destino del proprio desiderio, facendo al contempo i conti con un serio esame di realtà. In questa sua feconda ed irriducibile polimorficità è possibile scorgere quella che, con una bella formula, Nicole Janigro chiama “un’eredità al futuro” (Psicoanalisi. Un’eredità al futuro, Mimesis).
Questa “scaturisce dalla sua capacità ineguagliata di mettere in relazione, leggere e legare, le soggettività”, dalle quali è nata e sempre rinasce e nella quale, spiega l’autrice, rischia a volte di arenarsi, di relegarsi, mettendo tra parentesi il mondo. “Arte artigiana”, pratica clinica, chiave interpretativa, fonte di ispirazione di correnti letterarie - il romanzo analitico, ricorda l’autrice, ha attraversato il Novecento - ed essa stessa espressione narrativa, la psicoanalisi “può partecipare ad un discorso critico integrato dove l’io e il noi siano capaci di passare da mondi esterni e interni, autisticamente chiusi e scissi, da un o/o che procede per differenze e opposti, a incontri di un e/e che fluidifica e avvicina”.
Contro i pregiudizi che ancora l’accompagnano, Nicole Janigro - con un taglio in cui la dimensione biografica e quella sociologica s’intrecciano arricchendosi vicendevolmente - rivendica “l’andare in analisi (...) come la continuazione della politica con altri mezzi” che rovescia “lo slogan il privato è politico”. Ma la stanza di analisi si rivela al contempo “un luogo linguistico, di un piacere legittimo e riconquistato” fatto di parole che nutrono, che orientano, danno voce a quanto altrimenti resterebbe inespresso, all’altrimenti indicibile o a quel silenzio che rischiamo di non sapere più ascoltare. Poiché, come spiegava già nel 1939 Jung, “è caratteristica della psiche non soltanto di essere matrice e fonte di ogni attività umana, ma anche di esprimersi in tutte le forme e le attività dello spirito, (...) lo psicologo (...) non riuscirà a catturare la psiche nel chiuso del suo laboratorio né nello studio del medico, ma dovrà seguirne le tracce in tutti quei campi che pure possono risultargli estranei, ove essa si manifesta”. La personale sensibilità di Janigro la porta ad indagare in particolare due canali privilegiati: il romanzo e le forme artistiche in generale.
La porta di Magda Szabó, Vite che non sono la mia di Emanuel Carrère, ad esempio, ma nel solco di quanto già affermava Freud per il quale “nella psicoanalisi si ritrovano e si compendiano, trasposte in gergo scientifico, le maggiori scuole letterarie del secolo decimonono: Heine, Zola e Mallarmé si congiungono in me sotto il patronato di mio vecchio maestro, Goethe”. Nella letteratura che chiama il lettore a prendere parte allo svolgimento emotivo della narrazione, a empatizzare con i personaggi, a interrogarsi su quanto farebbe al loro posto, Janigro scorge un’analogia con la seduta di psicoanalisi nella quale “l’idea e l’immagine originale nascono in due” e in cui “il momento estetico”, come scrive Bollas, “evoca in noi una sensazione profonda di essere stati in rapporto con un oggetto sacro (...) in un’esperienza dell’essere e non della mente”. Così, mentre Lacan invitava gli aspiranti analisti ad esercitarsi a risolvere i cruciverba, Janigro ritiene che “analizzante e analista possono farsi l’orecchio” alle conversazioni che intrattengono con se stessi, con “la poesia, la narrativa e la musica”.
Insieme a questo esercizio, ampiamente suffragato da citazioni di diversi indirizzi analitici che ne confermano l’importanza, l’autrice propone un lavoro sulle immagini - oniriche, emerse dal gioco della sabbia, scaturite dall’immaginario collettivo, profondamente individuali, reminiscenze del passato e prefigurative del futuro - che “in quest’epoca di inflazioni di immagini dove il tutto-detto, tutto-esposto è privato di ogni possibilità simbolica”, si fa sempre più urgente, delicato ed importante. In questo contesto la centralità del lavoro immaginale di Jung incontra la lezione americana sulla Visibilità di Calvino e porta l’essere umano in una dimensione che apre all’al di là del principio di prestazione - titolo dell’ultimo capitolo del libro.
Superare questo imperativo categorico del nostro tempo e fare i conti con le proprie incapacità e debolezze, non più vissute come deficit ma come tratti personali umanizzanti, può fare della psicoanalisi, come scrive Franco Borgogno, un laboratorio esistenziale dove sperimentare “un’educazione alla vita e al vivere (...) un apprendimento dell’esperienza delle emozioni e delle relazioni, che quando funziona genera una nuova fiducia e un nuovo inizio”, che ha radici antiche che affondano in un patrimonio terapeutico non meno che culturale di cui il libro ci offre una breve ma puntuale sintesi, appassionata che, senza nascondere le polemiche e i colpi bassi che hanno attraversato la sua storia, si muove, anche biograficamente, alla ricerca di punti d’incontro che ne rilancino la funzione e l’attualità, al di là degli aridi steccati dei particolarismi.
LA "COPPIA FREUDIANA". L’OPERA DI CHRISTOPHER BOLLAS "disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca":
Prenderli al volo prima che precipitino
di Pietro Barbetta ( "Doppiozero", 22 ottobre 2016)
Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo... io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.
È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).
Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s’intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici.
Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l’opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo - nel tempo, col suo trasferimento a Londra - la formazione psicoanalitica. È un’epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.
La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell’ultimo libro Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo.
Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l’essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po’ schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient’altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.
Autore prolifico - le opere di Bollas hanno avuto particolare successo in Italia, grazie a Raffaello Cortina, Astrolabio, Borla e Antigone - è tra i massimi psicoanalisti viventi e attivi. Mentre qui da noi ci sono ancora psicoanalisti che si chiedono se sia corretto usare la lampadina elettrica, dal momento che ai tempi di Freud si usavano le lampade a gas, Bollas, senza alcuna inibizione da psicoanalista, scrive delle sedute che fa per telefono, via Skype; lasciandoci surplace.
Durante le mie lezioni di psicologia dinamica, propongo a un gruppo di studenti un seminario su Cristopher Bollas. Gli studenti intitolano il paper, scaturito dal lavoro collettivo: Alla scoperta dei temi controversi nella psicoanalisi. Ne nasce un animato dibattito tra il gruppo degli studenti coinvolti, il resto della classe e me. Il gruppo dà questo titolo al seminario per sottolineare come una serie di argomenti di Bollas si sviluppi a partire da riferimenti critici, addirittura di rottura, rispetto alla psicoanalisi. Evocano Ronald Laing e, più in generale, l’idea di psichiatria democratica.
Altri sottolineano che la cultura di Bollas è ricca di elementi storici, letterari, filosofici, che il libro sulla Mente orientale ricorda lo Zen e le considerazioni di Bateson su Bali.
Altri ancora sostengono che il transfert in Bollas è il contrario dell’idea di neutralità nella psicoanalisi classica, che per molti aspetti Bollas somiglia a un terapeuta rogersiano, a un terapeuta narrativo sistemico, a uno psicoanalista della relazione.
C’è chi, infine, dice che tutte queste tematiche sono recepite da buona parte dei membri della società psicoanalitica freudiana (la famosa IPA) e che oggi non si può più definire chi sia eretico in psicoanalisi. Chi, tra gli studenti, è già in terapia, dichiara che il suo terapeuta è come Bollas, ha lo stesso stile.
Forse Bollas dà voce a un modo accogliente di fare terapia che è già diffuso in campo psicoanalitico, transazionale, sistemico, gestaltico. Non fa che descrivere la terapia, distinguerla da quel guazzabuglio di interventi coatti e autoritari che hanno dominato l’inizio del millennio e che - finalmente! - stanno tramontando. Se così, dobbiamo dire che la sua voce è efficace, è un autentico metodo basato sull’evidenza; evidenza che la psicoterapia è, come la follia: creazione.
I racconti dei casi clinici, così come li scrive Bollas - in quello stile elegante tipico della letteratura anglosassone - sono opere letterarie, lontane dai gerghi psicoanalitici. Racconti didascalici, chiari, privi di espressioni tecniche. Bollas non usa la scolastica psicoanalitica in modo diretto. Quando la usa, come nel caso del termine inconscio collettivo, non dà mai per scontato che cosa significhi per lui e come mai, in quella circostanza, ha usato quel termine junghiano.
Il lettore che legge i suoi libri non sente sul collo il fiato della psicoanalisi seria, di quella cosa che Foucault chiamerebbe pratica discorsiva. Mi capita spesso di leggere in parallelo un testo letterario e dei saggi. Mentre leggo Bollas, non mi accorgo della differenza, non sento il salto tra saggistica e narrativa. I suoi scritti partono sempre dal soggetto Christopher, piuttosto che dal dottor Bollas.
Bollas non ha dunque alcuna pretesa teoretica astratta, nessun modello filosofico/antropologico definitivo da proporre. Scrive partendo dalla vita e la vita è vita di relazione tra sé e i suoi casi clinici, casi della vita. Nel libro Il mondo dell’oggetto educativo, Bollas insiste in maniera singolare su un termine: coppia freudiana. Non si tratta di un nuovo concetto da inserire nel lessico psicoanalitico, si tratta di un lemma che riguarda la relazione terapeutica.
Che cos’è la coppia freudiana? La coppia freudiana è un evento. Accade quando l’inconscio del soggetto che frequenta la terapia tocca l’inconscio del terapeuta. Questa definizione della traslazione in psicoanalisi non può non ricordare un autore che sta sullo sfondo del pensiero di Bollas, un po’ come Nietzsche sta sullo sfondo del pensiero di Freud: Sandor Ferenczi.
Il termine coppia freudiana evoca l’analisi reciproca di Ferenczi. L’opera di Bollas disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca. Il coraggio di parlare di sé alle persone che frequentano le sedute e di scrivere di sé ai suoi lettori, non va scambiato con il narcisismo. È semmai il contrario. È immerso in un orizzonte di ironia e di curiosità terapeutica. È la maniera di mettere in comune le proprie esperienze con quelle del soggetto in terapia, di condividere le passioni, di reagire agli eventi, di riconoscere gli errori del terapeuta, di entrare in relazione.
Insomma, la traslazione del terapeuta non è contro-transfert, semmai co-transfert, se vogliamo usare il gergo della psicoanalisi.
Il terapeuta non è istruttore, interpretante, riparatore, è la parte di un incontro, non sempre dialogico, non senza conflitti. Ma la terapia è anche un mondo in cui i conflitti si gestiscono insieme.
Vorrei infine sottolineare l’uso diagnostico del termine psicosi per definire il periodo storico di una nazione: le tendenze psicotiche interne agli Stati Uniti negli anni Sessanta, secondo capitolo del suo ultimo libro, nome del capitolo: “La follia di una nazione”.
Mi è capitato di recente di scrivere su doppiozero.com alcune note sull’epoca psicotica che stiamo attraversando in Europa - sto persino cercando di scriverci sopra un libro - e mi conforta sapere che le mie riflessioni sono corroborate da un autore ben più importante. Dall’assassinio di Kennedy alla guerra del Vietnam, venti psicotici hanno pervaso gli Stati Uniti così come oggi questi venti pervadono l’Europa; dai comportamenti delle banche e dei più potenti manager alle incursioni dello Stato Islamico, dal risorgere di venti fascisti e nazionalisti all’insorgenza dei massacri della crescente sociopatia. Come i bimbi dell’East Bay Activity Center di Oakland, in California, negli anni Sessanta sentivano la patologia della nazione dentro la pelle, così gli adolescenti che mi capita di incontrare nel mio lavoro quotidiano sentono i venti psicotici dell’Europa contemporanea.
PSICOANALISI COSMOLOGIA E CIVILTA’: IL SOGNO, IL DESIDERIO, E LA NASCITA. Tracce per una svolta_antropologica...
Qui Bollas, mi sembra che semplifichi troppo e non tenga affatto conto dell’ombelico del sogno: ma tutto il programma di Freud non è proprio quello di dare "la dovuta attenzione alla pulsione profonda che muove l’Io [:] la pulsione a rappresentare il Sé" (C. Bollas), uscire dal gorgo claustrofilico e ad aprire glio cchi?
A mio parere, a questo punto del cammino della ricerca aperta da Freud, forse, è il caso di tornare indietro con lo stesso Bollas e rianalizzare il famoso gioco del bambino con il rocchetto (Freud, "Al di là del principio di piacere", 1920), che tocca questo problema nel profondo e rende possibile capire dove porta il "desiderio umano di rappresentare", dove nasce e dove porta "la pulsione profonda che muove l’Io [...] il principio di piacere della rappresentazione spinge il Sé a comunicare con l’altro, e parte di tale azione complessa è l’investimento inconscio del Sé nella ricerca della propria verità"(Christopher Bollas).
"IL BAMBINO DALLE UOVA D’ORO" (Elvio Fachinelli, 1974). Su questa strada è possibile dare a Freud ciò che è di Freud, a Bollas ciò che è di Bollas, e a Fachinelli ciò che è di Fachinelli.
"Essere giusti con Freud". come ha scritto Jacques Derrida, non è cosi semplice...
A mio parere, ripeto, Christofer Bollas non ha ancora ben pensato e pesato dal punto di vista teorico dell’antropologia e della storia (non solo della geografia) la presenza dello stesso Sigmund Freud a Londra (1938): la questione tocca il problema della nascita, di Mosè, e del Sè!
Detto in altro modo, e per via telegrafica e bibliografica, solo così si riesce a comprendere cosa dice "La frecciaferma", con i suoi "tre tentativi di annullare il tempo" (Elvio Fachinelli, 1979), la "claustrofilia", il "saggio sull’orologio telepatico in psicoanalisi" (Elvio Fachinelli, 1983) e, infine, "La mente estatica" (Elvio Fachinelli, 1989).
UN’ALBA STUPENDA. PARTENDO "DAL LUOGO DELLE ORIGINI" (Donald W. Winnicott, 1986) DEL GENERE UMANO... FINALMENTE LA TERRA E’ DAVANTI A OGNI ESSERE UMANO E IL SORGERE DELLA TERRA MANIFESTA TUTTO IL SUO BRILLANTE SPLENDORE.
Il femminismo non è morto. L’abbiamo visto in piazza a Roma
di Lea Melandri *
Valeva la pena aspettare dieci anni per ritrovarci di nuovo in tante e poter dire che siamo un movimento, anche solo per un giorno, e non solo una rete virtuale, anche se le reti ci sono state di aiuto come spinta a uscire dalla carsicità. Confluire in massa in una storica piazza di tutte le proteste, quale è piazza San Giovanni a Roma, è stato sicuramente il modo più felice per rispondere a una ricorrenza, come il 25 novembre, che felice non è.
Una manifestazione come quella di sabato 26, come quelle che si sono succedute da quarant’anni a questa parte, deve darci il coraggio di dire che il femminismo, in tutta la varietà delle sue pratiche, dei suoi gruppi, collettivi, associazioni, ecc... - o forse proprio per questa varietà - è l’unico movimento sopravvissuto agli anni ’70, l’unico che nonostante la messa sotto silenzio, l’ostilità che incontra nel nostro Paese in particolare, non ha mai smesso di riempire le piazze con donne di generazioni diverse, che non ha mai smesso, pur con tante contraddizioni, di ripresentarsi con la radicalità dei suoi inizi.
Non mi soffermerò sulle tante ragioni che ci hanno portato qui. Sulla violenza sappiamo molto, molto abbiamo detto e scritto e analizzato, sia sulle sue forme manifeste - stupri, omicidi, maltrattamenti - sia su quelle meno visibili e perciò più subdole, più ambigue, che passano nella «normalità», nel senso comune, nei gesti e nelle parole della quotidianità, e dell’amore così come lo abbiamo inteso o male inteso finora.
Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, c’entrano quei vincoli di indispensabilità reciproca presenti anche là dove non ce n’è bisogno, c’entra l’infantilizzazione dei rapporti all’interno delle famiglie. Di quanto sia complesso liberarsi di rapporti di potere che si sono confusi con le esperienze più intime, sappiamo molto e molto dovremo ancora scoprire, analizzare.
Ma c’è un altro modo per parlare della violenza, che viene visto meno. È il fatto che da mezzo secolo a questa parte, le donne hanno dato vita a una cultura e a pratiche politiche per contrastare la violenza maschile in tutte le sue forme, a partire da quei segni profondi che ha lasciato dentro di noi, costrette a incorporare quella stessa visione del mondo che ci ha segregate fuori dalla vita pubblica, identificate con la natura, il corpo, la conservazione della specie.
Abbiamo scritto e detto più volte che il sessismo è l’atto di nascita della politica, intendendo con questo sottolineare che il rapporto di potere tra i sessi è l’impianto originario di tutte le oppressioni e disuguaglianze che la storia ha conosciuto. Forse è il momento di dire con chiarezza quello che non siamo più disposte a tollerare:
che questo patrimonio di sapere, consapevolezze, studi, battaglie vinte venga messo sotto silenzio, lasciato negli archivi e che qualcuno ancora si permetta di dire che il femminismo è morto o silenzioso;
che quando interviene una «parola pubblica» a istituzionalizzare pratiche nate dal femminismo, come i consultori, i centri antiviolenza, ciò significhi emarginare le persone che vi hanno dato vita, cancellare l’autonomia delle pratiche che li ha caratterizzati. Mi riferisco al Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere dove i centri antiviolenza finiscono per essere confusi con il Terzo settore, i servizi sociali;
che si parli tanto di educazione di genere e si lascino le donne che insegnano, quasi tutte precarie, a dover affrontare campagne denigratorie da parte di presidi e famiglie, rischiare il posto di lavoro, affrontare temi che richiedono una formazione, senza avere la certezza di finanziamenti al riguardo.
Siamo qui per dire che non dimentichiamo le donne che la violenza l’hanno subita nella sua forma più selvaggia, ma che non vogliamo più leggere su un giornale o sentire in un commento televisivo che sono «vittime» della passione o della gelosia di un uomo. Sono donne che hanno pagato il prezzo di una affermazione di libertà: quella, inconsueta per un dominio maschile secolare, della donna che dice «Io decido» della mia vita, della mia sessualità, di avere o non avere figli.
Vorrei che ci portassimo a casa questi due bellissimi slogan - «Io decido», «Non una in meno» - per dire che continueremo a batterci contro imposizioni esterne, controlli, divieti, intimidazioni, ma anche per la liberazione da modelli, pregiudizi, leggi non scritte che ci portiamo dentro e che ci impediscono di trovare la forza collettiva di cui abbiamo bisogno. Se non possiamo condividere la varietà delle nostre pratiche, teniamoci almeno disponibili a momenti come questo e forse riusciremo a trovare quei «nessi» che legano la specificità dei nostri interessi, delle nostre esperienze, delle nostre storie.
Teatro classico.
Salvatore Natoli: «Edipo, l’enigma all’interno di ognuno di noi»
Tra libertà e destino: il filosofo Salvatore Natoli rilegge la figura centrale della tragedia antica, in scena a Milano con Glauco Mauri
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 25.11.2016)
Uccide il padre, sposa la madre, trasmette la maledizione ai figli concepiti in quell’unione colpevole. Eppure, nonostante tutto, Edipo è tra le figure del mito non solo maggiormente indagate (il proverbiale “complesso” teorizzato da Sigmund Freud è la più celebre, non la più convincente tra molte interpretazioni elaborate nei secoli), ma anche maggiormente disponibili a una rilettura in prospettiva cristiana. Una stranezza, almeno in apparenza.
Ma il filosofo Salvatore Natoli suggerisce una spiegazione più che motivata. «Il punto è - osserva - che la storia di Edipo ci è nota in particolare attraverso Sofocle e Sofocle è il più religioso fra i tragici greci, il più aperto alla dimensione della pietà e del perdono». Edipo ritorna, dunque, ma in effetti non se n’è mai andato. In questi giorni al Teatro Franco Parenti di Milano va in scena il dittico composto dalle opere sofoclee di cui il personaggio è protagonista, Edipo re ed Edipo a Colono, e contestualmente viene proposto un ciclo di conferenze, Riflessioni sul tragico, che prevede la partecipazione di studiosi quali Maurizio Bettini (30 novembre) ed Eva Cantarella (2 dicembre). A inaugurare gli incontri, questa sera alle 18, è appunto Natoli, al quale è affidato un tema più che impegnativo: Libertà e destino nella tragedia greca. Ma lo studioso non si scompone e ribadisce che è proprio da lui, da Edipo, che occorre partire.
Perché, professore?
«Perché la sua è la tragedia per eccellenza, come già sosteneva Aristotele - risponde -. Una peripezia in senso tecnico, ossia un vagare da un luogo all’altro, che però non coinvolge un dio o un semidio, ma quello che saremmo tentati di definire l’uomo medio. L’umanità media, anzi. Qualcuno che ci assomiglia e che, come capita a ciascuno di noi, trova ad affrontare i dilemmi e le contraddizioni dell’esistenza. Per i greci, del resto, la realtà intera si presenta sotto la cifra dell’antinomia, dell’enigma, addirittura della doppiezza: tutti elementi che richiedono una costante decifrazione da parte dell’uomo».
In questo Edipo è un esperto, no?
«Fino a un certo punto. Non c’è dubbio che lui e lui soltanto riesca a risolvere il famoso indovinello della Sfinge, ma è una vittoria parziale. Edipo è a conoscenza della profezia che lo destina a uccidere il padre e sposare la madre. Anche a questo enigma prova a tenere testa, d’accordo, ma senza mai interrogarsi su se stesso. Ed è per questo che, fuggendo da colui che crede sia suo padre, finisce per imbattersi nel vero padre. Uccidendolo, sposandone la vedova, realizzando la profezia che si illudeva di aver aggirato».
Da dove viene questo fraintendimento?
«Dal fatto che l’enigma del tragico non si situa sul piano esclusivamente logico, è invece un conflitto tra potenze esterne all’uomo, dalle quali l’uomo stesso rischia sempre di essere schiacciato. Nella sua espressione più radicale, l’enigma è quello che ciascuno di noi ignora di se stesso. Il tragico esprime questa lacerazione profonda dell’esistenza, questo destino di morte insito nella vicenda umana fin dal momento della nascita. Così considerata, la vita non può essere se non sfida, battaglia, agone».
Si tratta di una condizione universale?
«Con una distinzione necessaria. Il tragico si manifesta anche nel mondo contemporaneo, ma in un orizzonte post-cristiano, di perdita e smarrimento. Il tragico greco, al contrario, scaturisce dalla natura. Fa perno sulla mancanza di identità e nello stesso tempo la ricostituisce attraverso la peripezia. Edipo conosce finalmente se stesso grazie al viaggio, altrimenti erratico, che da Tebe lo porta a Colono, alle porte di Atene, dove lo attende l’accoglienza ospitale di Teseo, ovvero la svolta capace di dare soluzione alla contraddizione del tragico».
Vuol dire che l’enigma arriva a uno scioglimento?
«Sì, è un’altra caratteristica che differenzia il tragico antico dal moderno. La struttura della trilogia greca prevede che, alla fine, una soluzione ci sia. Meglio ancora, che nell’esperienza della contraddizione l’uomo scopra la misura che gli è propria, secondo una dinamica già intuita da Nietzsche. La catarsi scaturisce da questa consapevolezza e, per compiersi, prende sempre una via obliqua, un detour alternativo al concatenarsi degli eventi. Può accadere per diretto intervento degli dèi, come nell’Orestea di Eschilo, oppure per iniziativa dell’uomo».
È il caso dell’Edipo di Sofocle?
«Esattamente. La figura decisiva è Antigone, il cui atteggiamento non rappresenta semplicemente la rivincita dell’arcaico nei confronti del diritto, come sosteneva Hegel. La mia personale convinzione è che Antigone, in quanto personificazione della pietas, indichi una via d’uscita laterale, e niente affatto arcaica, dalle strettoie della legge: tanto quest’ultima può essere implacabile, tanto la pietà dell’essere umano verso il suo simile si pone sotto il segno della comprensione. Grazie alla pietà, che sostiene le ragioni umane contro la durezza del diritto, la città stessa rivela il suo volto più accogliente, quello che permette a Teseo di prendersi carico dello straniero».
Ma come si realizza allora il rapporto fra libertà e destino?
«Se guardiamo a Edipo, dobbiamo rispondere che per essere liberi occorre conoscere il proprio destino. Il quale, a sua volta, non si colloca nel futuro, custodito magari da un’ambigua preveggenza. No, a condizionare ciascuno di noi è semmai il passato, che è la vera fonte della necessità. Qualcosa che ci spinge, non da cui siamo attratti. In questa chiave, il passato viene a costituirsi come premonizione di un futuro che si presenta sotto la forma della ripetizione, della reiterazione obbligata. Per scardinare questo meccanismo c’è un solo modo».
Quale?
«Fare chiarezza sulle proprie intenzioni. Gnòthi seautòn, il detto delfico solitamente tradotto come “conosci te stesso”, andrebbe inteso nel senso di “sappi che cosa stai domandando”. Affronta l’enigma che tu stesso sei ai tuoi occhi, prima di provare a risolvere l’enigma del mondo. Ma questo Edipo lo comprende solo al termine delle sue peripezie».
Verità nascoste.
Il Telemaco, il messia e la Costituzione
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 19.11.2016)
Massimo Recalcati nell’elogiare, alla Leopolda, Matteo Renzi, ha accusato la sinistra del No di essere masochista, paternalista e di odiare la giovinezza. Accuse fondate su luoghi comuni.
Un discorso aforistico, privo di argomenti, teso a screditare l’avversario piuttosto che ad esprimere una propria opinione sui quesiti referendari.
L’andazzo è proprio questo: la grande maggioranza degli italiani nel referendum prossimo voterà pro o contro Renzi, a prescindere dalla valutazione di una riforma che modificherà in modo sostanziale la costituzione italiana.
La personalizzazione del conflitto politico ha finito per espropriarci della cura nei confronti delle regole fondamentali della nostra convivenza democratica. Si è fatta strada una corrente di «eccezione dalla costituzione», che mentre aspira formalmente a riformarla, di fatto crea il clima di una sua sospensione sul piano emotivo.
Questo tipo di sospensione dell’ordinamento costituzionale è il più pericoloso. La restrizione diretta e apertamente autoritaria delle garanzie costitutive dei nostri diritti, crea opposizione e ribellione.
La loro sostituzione con l’affidamento regressivo all’«uomo della provvidenza», da una parte sposta l’attenzione su un quesito fuorviante - se costui è quello «vero» o quello «falso» - e dall’altra favorisce la deresponsabilizzazione.
La nota identificazione del premier con Telemaco, nella versione ideata da Recalcati come riparazione (impropria) dell’assenza del padre, è espressione di un vissuto di delegittimazione collettiva. Di questa delegittimazione, della cui origine non è responsabile, Renzi si è costituito come l’interprete più importante.
L’ha fatto per negazione, cioè oscurandola: più incerta sente la propria legittimità, più insiste sulla delegittimazione degli altri.
La rottamazione pura e semplice di una classe politica inadeguata non produce di per sé legittimazione. Se resta come unica opzione perpetua il senso di delegittimazione. Infatti, Renzi, il rottamatore, si identifica con Telemaco: un figlio reso illegittimo dall’assenza del padre e dalla solitudine, vedovanza «bianca», della madre (le due condizioni sono inscindibili).
Dimentica che il ritorno della legge nel regno di Itaca, non è opera di Telemaco. Deriva dal ritorno di Ulisse nel letto coniugale, dal suo riconoscimento e legittimazione come uomo e come padre dall’amore di Penelope.
Le regole «costituzionali» che garantiscono la buona gestione delle relazioni familiari, sono fondate sulla capacità dei genitori di essere soggetti paritari nel loro legame di desiderio. I figli che rottamano il padre, cercando di sostituirlo nell’amore della madre, finiscono per assumere un ruolo messianico.
In modo analogo al governo familiare, il governo della Polis non può essere affidato a un Telemaco capovolto nel suo significato, che non sa attendere il suo tempo. Aspettare il momento giusto per sentirsi adulti - l’accesso alla piena comprensione della congiunzione erotica dei genitori e della sua problematicità - è il senso vero dell’attesa del padre in Odissea.
Un leader capace di identificarsi con Penelope e Ulisse, cioè con il senso di corresponsabilità che costituisce le relazioni cittadine in termini di condivisione e di scambio, è molto più affidabile di un figlio che si sostituisce ai genitori. Costui si imprigiona nel destino del redentore e, diversamente da Telemaco di Omero, si considera il frutto di una unione spirituale tra un padre ideale e una madre/figlia vergine. Promuove la deresponsabilizzazione che gli ha assegnato la sua funzione immaginaria e si/ci illude di poter farcela.
I tabù del mondo
Se la morte non è un abisso da vincere
Freud non pensava al corrompersi delle cose come a un male da sconfiggere. Per lui è proprio la caducità a generare bellezza Il trascorrere del tempo, il suo divenire inesorabile ci fa apprezzare i dettagli più insignificanti e arricchisce il senso della nostra esistenza
La meditazione filosofica come precisa Schopenhauer non sorge platonicamente dallo spettacolo del mondo quanto piuttosto dal trauma e dall’incontro con il dolore
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 16.10.2016)
Davanti a me il ricordo indelebile delle mani nodose di mio nonno paterno che decretavano inesorabilmente, con gesti lenti e precisi, la morte di un coniglio impaurito. Un colpo secco alla testa, poi le operazioni di scuoiamento. È attraverso questa pratica antica della vita contadina che ho fatto da bambino il mio primo incontro con la morte. Restavo basito di fronte a quella mescolanza di violenza e tranquillità chiedendomi come era possibile integrare il ritmo naturale della vita - uccidere l’animale per nutrirsi - con la brutalità ordinaria che orientava i gesti antichi del nonno.
Non era, il suo, un desiderio sadico: stava lavorando per prepararci la cena, non stava uccidendo con piacere la sua vittima. Tuttavia, il ritmo naturale della vita contadina non poteva assorbire del tutto lo sconcerto dell’incontro con la nuda morte. Quel coniglio, scelto casualmente tra i suoi simili rinchiusi nella stessa gabbia, mi faceva incontrare una dimensione di non-senso che già da bambino intuivo non essere per nulla estranea alla vita.
La morte introduceva nella vita un tabù che mi appariva psichicamente indigeribile. La morte del coniglio non mi spingeva a pregare, né a fare alcun lavoro del lutto. Quella morte mi obbligava semplicemente a pensare. La meditazione filosofica, come precisa Schopenhauer, non sorge tanto, platonicamente, dallo spettacolo del mondo, dalla meraviglia di fronte all’essere, quanto piuttosto dal trauma, dall’incontro spesante nei confronti del male, del dolore e della morte. È la morte, come egli scrive, il vero punctum pruriens della metafisica.
Le pagine heideggeriane di Essere e tempo, che scoprii con entusiasmo a vent’anni, lasciarono in me una traccia indelebile: la morte non è l’ultima nota che conclude, aggiungendosi dall’esterno, la melodia dell’esistenza; essa è, piuttosto, radicalmente inclusa, un’imminenza sovrastante, una impossibilità sempre presente, una pressione sempre in atto che non lascia in pace.
Cosa da ragazzo avevo amato così profondamente in Gesù se non l’offerta radicale di sé, l’esposizione del suo corpo trafitto, se non il suo passaggio attraverso l’abisso della morte? Non era la potenza dell’amore a salvarci dal nostro destino di conigli? La vittoria sulla morte non avveniva attraverso l’ascesi epicurea, non avveniva allontanandola semplicemente dalla vita (dove c’è vita non c’è morte e dove c’è morte non c’è vita affermava Epicuro), ma accadeva nella morte, nell’incontro con l’alterità assoluta della morte.
Era questa l’esperienza decisiva di Cristo: scendere negli abissi della morte, scendervi come uomo, per vincere la morte, per risorgere dal suo ventre scuro e ricongiungersi al padre. Si trattava dello stesso passo che ritrovai più tardi in Heidegger? Liberare la vita dalla paura e dall’orrore della morte, renderla risorta.
Come spesso accade, la mia fede in Dio incontrò un primo scacco il giorno in cui, adolescente, mi recai all’ospedale Niguarda di Milano per trovare un amico coetaneo colpito da un tumore al cervello. Aveva già perso la vista e giaceva al buio cantando in modo surreale una vecchia canzone d’alpini. Portava il mio stesso nome e quando provai a chiamarlo e lui girò la testa bendata verso di me senza rispondermi scoppiai a piangere. Perché Dio non aveva ascoltato le mie preghiere? Dov’era mentre le metastasi distruggevano il cervello del mio amico? Cosa c’è di più assurdo di questo? Cosa c’è di più assurdo, scrive in apertura de Il Mito di Sisifo Camus, della morte di un bambino, della fine di una giovane vita?
La lettura dell’articolo di Freud titolato Caducità offrì una risposta nuova ai miei interrogativi. Freud non pensava alla morte come un abisso da vincere, ma come condizione della vita. È il trascorrere del tempo, il suo divenire inesorabile a farci apprezzare i dettagli apparentemente più insignificanti della vita. Il corrompersi delle cose, anziché generare disperazione, introduce ad una esperienza della bellezza non disgiunta da quella della caducità: «Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida». Il senso tragico della vita non sopprime la vita, né il suo senso, ma la arricchisce. Nel Freud di Caducità trovavo un “sì!” alla vita che non implicava la resurrezione dei corpi, la loro salvezza eterna, ma che si fondava, al rovescio, sulla loro estrema caducità.
Freud era ben consapevole della paura degli uomini nei confronti della morte e della loro attitudine a trovare rimedi, illusioni, “scacciapensieri”. Per questa ragione una psicoanalista come Gennie Lemoine ha potuto affermare che dalla vita non ci si deve attendere nulla; si tratta solo di fare, di vivere; nella vita bisogna fare perché, in effetti, non c’è altro da fare.
L’assunzione della propria morte sfronda la realtà dall’Ideale, ma non annulla la possibilità dell’amore. Anzi, l’amore - ed è qui che ritrovo il motivo decisivo della testimonianza di Cristo - può salvare dalla morte e dalla distruzione. Esso è come la bellezza della rosa che sa essere eterna nel battito di un solo giorno.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
SIRONI EDITORE
Tutti noi siamo stati un uovo, all’inizio! Carlo Alberto Redi torna in libreria per raccontare la storia di questa cellula fantastica. Dalla conservazione degli oociti, alla produzione artificiale dei gameti, alla regolamentazione della ricerca pubblica e privata: dove vogliamo andare e con quali regole?
Tutti noi siamo stati un uovo, all’inizio!
Il “biologo furioso” Carlo Alberto Redi torna in libreria, questa volta insieme a Manuela Monti, per raccontare la sorprendente storia di questo oggetto fondamentale della biologia che da sempre esercita un fascino speciale sulle culture di ogni epoca.
A partire dalla loro esperienza di scienziati impegnati sul campo, gli Autori ci guidano in un viaggio meraviglioso alla scoperta di noi stessi che dalla biologia passa per l’arte, la letteratura, la sociologia e - poteva mancare? - la gastronomia.
Una lettura divertente e documentata, che non si sottrae a riflessioni sui temi caldi dell’attualità scientifica.
Codice ISBN: 978-88-518-0266-0
Pagine: 224
Prezzo di copertina: € 19,80
Prezzo scontato 10%: € 17,82
Carlo Alberto Redi è professore di zoologia all’Università di Pavia e direttore del Laboratorio di Biologia dello Sviluppo. È membro dell’Accademia dei Lincei. È autore per Sironi di Il biologo furioso. Provocazioni d’autore tra scienza e politica (2007).
Manuela Monti è biologa. Lavora alla Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia. Collabora con iisitituti di ricerca negli USA e in Giappone. È coautrice con Redi di Staminali. Dai cloni alla medicina rigenerativa (Carocci).
Siamo liberi? Yes, Edipo, we can
Il vero complesso non è quello indagato dalla psicoanalisi e definitivamente entrato nel nostro immaginario con Freud
Il vero complesso è quello dell’uomo di fronte a se stesso e alla storia: ciò che ci fa grandi non sono le risposte che troviamo ma le domande che ci poniamo
Al di là delle scoperte delle neuroscienze
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 03.07.2016)
Perché Edipo, subito dopo che si è strappato gli occhi con le sue proprie mani, accusa Apollo, lo incolpa di tutto quello che gli è successo? Sono lontani i tempi in cui il romanzo giallo era considerato un genere minore. Di sicuro è quello più adatto alla filosofia: in entrambi i casi si tratta di ricomporre una trama, di cercare il disegno che si cela dietro al disordine apparente. L’ordine magari non sarà quello auspicato ma comunque esiste, come ne Il giorno della civetta di Sciascia, in cui il commissario Bellodi riporta alla luce il sistema di corruzione e connivenze che permette ai tanti don Mariano Arena di prosperare sul «bosco di corna» dell’umanità.
A volte invece il giallo serve a mettere in crisi l’illusione dell’ordine, rivelando che il mondo è dominato dalla confusione. Come ne La promessa di Friedrich Dürrenmatt: paziente, meticoloso, ostinato il commissario Matthäi ha capito tutto, sa dove l’assassino colpirà la prossima volta: si apposta, ma l’attesa durerà tutta la vita (il commissario si licenzia e si mette a fare il benzinaio in una sperduta piazzola di servizio perché sa che è lì che tutto deve accadere), inutilmente, perché la sua preda, l’assassino in viaggio per il delitto, è morta in un banale incidente automobilistico. Era tutto giusto, il commissario aveva compreso, il disegno era quello, ma la realtà è governata dal caso: ogni tentativo di controllo razionale del disordine, ogni progetto di riduzione del caos a cosmo, è destinato allo scacco. Matthäi però continua ad aspettare, mentre la luce del sole si dispiega su un mondo sempre più incomprensibile.
Il dio della luce, in Grecia, era Apollo. Edipo, invece, è l’archetipo del detective, e la tragedia di Sofocle che racconta la sua vicenda, l’ Edipo re, è il modello ineguagliato del romanzo giallo. Un investigatore, intelligente, caparbio, implacabile, è sulle orme di un assassino. Laio, il re di Tebe, è stato ucciso, e Edipo, il nuovo re, vuole fare giustizia. Raccoglie gli indizi, ascolta i testimoni, ricostruisce i fatti. Alla fine scopre che il colpevole è lui stesso. È la trama più semplice, quella perfetta. L’investigatore è l’assassino: tutto si concentra in un unico personaggio, il resto non conta, fa da contorno.
Ma Sofocle non si accontenta, vuole di più. I romanzi gialli si reggono sull’incertezza. L’ Edipo re invece non fa nulla per nascondere l’identità dell’assassino, fin dall’inizio: il pubblico lo sapeva prima ancora che la tragedia cominciasse (il mito era noto) e Tiresia lo rivela subito allo stesso Edipo. L’oracolo di Delfi aveva predetto a Edipo che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre; Edipo era subito fuggito da Corinto, ignorando che Polibo e Merope non erano i suoi veri genitori. E durante la fuga aveva prima ucciso il suo vero padre e poi sposato la madre, Laio e Giocasta, i sovrani di Tebe.
La tragedia - l’indagine del commissario Edipo - svela una storia che conoscevano tutti. Come si spiega allora quella suspence che inchioda al testo qualunque lettore, che impedisce di distogliere lo sguardo dal palcoscenico? Perché Edipo non sta cercando soltanto un assassino. E noi stiamo cercando con lui. Sperando che abbia successo, ma allo stesso tempo terrorizzati da quello che lo attende in fondo al tunnel in cui si è addentrato, come in un vortice, lento all’inizio e poi sempre più impetuoso, che avvolge tutto.
Edipo è definitivamente entrato nell’immaginario collettivo nel 1900, con L’interpretazione dei sogni . Freud aveva visto bene: le vicende di Edipo ci appassionano perché in lui vediamo qualcosa di noi. Ma nella tragedia c’è molto di più che la semplice scoperta delle pulsioni (desiderio della madre, conflitto con il padre) che si annidano dentro di noi. Edipo era partito alla ricerca di un assassino e si era poi messo a indagare sui suoi genitori. Ma il vero obiettivo dell’indagine è un altro ancora, più profondo: come Diogene (quello che girava con la lanterna in pieno giorno), Edipo è in cerca dell’uomo, della sua libertà.
L’indagine riguarda tutti.
Quando era arrivato a Tebe, la città era oppressa da un mostro terribile, la Sfinge, che uccideva chiunque non rispondesse al suo enigma. Edipo aveva trovato la soluzione, salvando la città. Il mondo, quello degli antichi non meno del nostro, è opaco, oscuro, ambiguo, sempre rischioso: questo significa la Sfinge. Edipo è colui che porta la luce, con la forza della sua intelligenza. È l’eroe dell’età di Sofocle, dell’illuminismo trionfante ad Atene, «la scuola della Grecia». Come Protagora sa che l’uomo è misura di tutte le cose, come Pericle sa che possiamo rispondere alle sfide dell’esistenza. Ha insegnato che la nostra vita e la nostra felicità dipendono da noi, dalla nostra capacità di comprendere la realtà, di metterla in ordine. È un «modello» per tutti, riconosce il coro. Quando si mette in cerca dell’assassino è questo che vuole dimostrare, una volta di più.
Il momento decisivo è in uno scambio di battute con Giocasta. Edipo ha finalmente trovato un testimone decisivo. Il testimone parla e Giocasta inizia a capire: che Edipo è l’assassino di Laio; che Laio era il padre di Edipo e che lei ha sposato suo figlio. Che niente è come sembrava. Prega Edipo di smettere con le indagini, di fermarsi prima che sia troppo tardi. Scappa. Edipo si irrita, non comprende la reazione di Giocasta. Equivoca: pensa che provi vergogna all’idea di aver sposato il figlio di uno schiavo. Ma a lui questo non importa. Lo grida gonfio d’orgoglio: non era nessuno ed è diventato il re di Tebe, grazie alla sua pazienza, alla sua intelligenza, al suo coraggio. Lui è «figlio del destino», le sue origini non contano. We can . Ha mostrato di cosa è capace un essere umano.
Non ha capito nulla. Infaticabile e ostinato, Edipo, l’uomo più intelligente, per tutta la tragedia non capisce mai nulla, ha sempre vissuto nel buio dell’ignoranza. Poi, finalmente capisce: precipita nella verità come in un abisso, è stato detto. L’indagine è conclusa. Maledice Apollo. Dopo non resta che l’orrore, e il dolore.
Il figlio del destino: Edipo credeva di essere libero, padrone e responsabile per le sue scelte. Credeva che la sua vita dipendesse da lui. Ha scoperto che un destino più grande incombeva sulla sua testa, dominandolo. La libertà è un’apparenza; la vita di Edipo, il «modello» degli uomini, era già da sempre costretta in un disegno su cui lui non aveva nessuna possibilità di controllo. Si è scoperto ingranaggio di un meccanismo: un meccanismo, imperscrutabile ma implacabile, che ha il sorriso beffardo di Apollo - i Greci scolpivano le statue dei loro dèi con un sorriso enigmatico - il dio che illumina, che mostra come stanno le cose. Sul tempio di Apollo, a Delfi, campeggiava una scritta celebre: «Conosci te stesso». Edipo ha seguito l’esortazione del dio, ha indagato se stesso. Quello che ha trovato riguarda tutti.
In effetti, i problemi con cui ci confrontiamo oggi non sono diversi. Che cos’è l’uomo? Quale controllo abbiamo sulle nostre azioni, decisioni, scelte? Quanto di ciò che ci accade è dovuto a cause che non dipendono da noi - eventi del passato, condizionamenti sociali, situazioni impreviste, predisposizioni del carattere? Tanto più conosciamo, di noi e delle cose che ci circondano, tanto più le domande si fanno pressanti.
Il parallelo più interessante è con le neuroscienze. Conosciamo come non mai il funzionamento del nostro cervello: e quello che sembra emergere è che non abbiamo un controllo effettivo, consapevole e razionale, delle nostre decisioni e azioni. «Il tuo senso d’identità personale e di libero arbitrio in realtà non sono niente più che il comportamento di un’ampia organizzazione di cellule nervose e delle molecole loro associate»: questo è Francis Crick, scopritore del Dna e premio Nobel.
Tutti i nostri stati mentali sono epifenomeni, spiegano altri scienziati, non esercitano alcun impatto causale sulla realtà. Che senso ha allora parlare di libertà o responsabilità? Sarà incredibile, ma è così. E poi, a pensarci bene, non è neppure incredibile. La rivoluzione scientifica, fin dal Seicento, ha rivelato che tutto l’universo si muove secondo leggi necessarie di cause ed effetto.
E Kant aveva posto il problema, con la consueta chiarezza: per quale ragione gli esseri umani non dovrebbero essere vincolati a queste stesse leggi di natura? Cambiano i modi per dire le cose, ma l’ironia è la stessa: tanto più conosciamo tanto più ci pensiamo grandi; fino a scoprire la nostra irrilevanza. Come tutto il resto siamo parte di un meccanismo, di cui ci sfugge il senso, fuori dal nostro controllo.
Ma proprio dove maggiore sembra la miseria, lì è la nostra grandezza. È vero: ci crediamo forti e non lo siamo, pensiamo di vedere e non capiamo nulla. Ma non per questo ci arrendiamo. Siamo sempre in cerca. E in questa continua ricerca di un significato, nel coraggio con cui affrontiamo le domande più scomode, costi quello che costi, emerge qualcosa che è nostro e solo nostro, che ci distingue e ci fa unici nell’universo immenso che ci circonda. L’uomo, l’animale che fa domande, che vuole capire.
Fino a che come Edipo non smetteremo di interrogarci su quello che ci circonda senza accontentarci delle apparenze; fino a che come Matthäi e Bellodi continueremo a stare lì, in una piazzola abbandonata, su un pianeta insignificante, in attesa, cercando di capire e cercando la giustizia: fino ad allora dimostreremo che siamo qualcosa di speciale. È buffo, forse folle, ma è così. Ciò che ci fa grandi non sono le risposte che troviamo, ma le domande che poniamo. È questo il vero complesso di Edipo.
Mosè va dallo psicologo
Da Freud agli esegeti più recenti questa figura continua a suscitare interesse e interrogativi sulla sua storicità
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.07.2016)
«Questo lavoro che prende le mosse dall’uomo Mosè sembra al mio spirito critico una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Questa confessione di Freud riguardo al trittico di saggi raccolti sotto il titolo L’uomo Mosè e la religione monoteistica è condivisa dalla maggioranza degli esegeti che hanno letto quelle pagine; anzi, essi sono per lo più convinti che la ballerina abbia alla fine perso l’equilibrio e sia piombata a terra.
Tuttavia è indubbio il fatto che, come spesso accade, non si possa del tutto uscire indenni da una lettura provocante e provocatoria. È ciò che suggerisce di sperimentare il libretto che raccoglie un’analisi succinta di quello scritto freudiano approntata da Pier Cesare Bori, un noto docente di storia delle dottrine teologiche, morto nel 2012 a Bologna ove insegnava. A lui, tra l’altro, dobbiamo (con Giacomo Contri ed Ermanno Sagittario) la migliore versione del Mosè freudiano, edita da Boringhieri nel 1977.
Bori, anche se più anziano di cinque anni, era stato mio compagno di studi teologici presso l’Università Gregoriana di Roma. Poi le nostre strade si erano divaricate, non solo per ragioni topografiche (lui era di Casale Monferrato e forse alla sua fine, sia pure tardivamente, ha contribuito l’inquinamento da Eternit), ma anche religiose. Egli era, infatti, successivamente approdato all’«Associazione religiosa degli Amici», i cosiddetti Quaccheri (da quake, “tremare” davanti al Signore), una confessione fondata nel 1649 dall’inglese George Fox, priva di ogni predicazione, rito, sacramento, ministri, affidata solo al silenzioso incontro personale con Dio. Ritrovo ora la sua acribia e finezza ermeneutica in questo breve testo, ampiamente introdotto da Gianmaria Zamagni che ci conduce, però, con acutezza anche nell’orizzonte della particolare e “ballerina” esegesi di Freud.
Come riassume lo stesso Bori, tre sono le tesi centrali: l’origine egizia di Mosè; la sua sorte tragica, simile a un parricidio operato dagli stessi Ebrei (su questo il padre della psicanalisi si appoggiava a un’interpretazione ipotetica di un noto esegeta tedesco, Ernst Sellin, riguardo a un passo oscuro del profeta Osea); infine il dualismo tra il culto e il legalismo jahvista, da un lato, e il monoteismo puro, propugnato poi dai profeti, dall’altro.
La questione della dipendenza del monoteismo ebraico da quello professato dal faraone Akhnaton, attraverso la fede nell’unico dio solare Aton, connessione fieramente dibattuta e controversa, permette però di affrontare indirettamente un quesito più generale, quello del rapporto complesso e rilevante tra storia e religione. Non per nulla il titolo del saggio di Bori è emblematico: È una storia vera? Ed è facile immaginare quanto sia arduo discernere i due fili nel groviglio del loro intrecciarsi, annodarsi e ingarbugliarsi.
Gli stessi interrogativi, puntati soprattutto sul monoteismo, hanno coinvolto la ricerca anche di uno dei più famosi egittologi contemporanei, Jan Assmann, che però ha allargato il ventaglio delle sue analisi oltre il perimetro storico-filologico per inoltrarsi nell’orizzonte più fluido del nesso tra cultura e religione. Tra l’altro, la sua analisi si è incrociata con quella dello studioso bolognese, tant’è vero che ne è nata una Lettera a Pier Cesare Bori che si può leggere nello scritto di Assmann Monoteismo e distinzione mosaica, edito dalla Morcelliana nel 2015. A tradurre quella lettera era stata Elisabetta Colagrossi alla quale dobbiamo ora una suggestiva intervista all’egittologo, autore lui pure di un Mosè l’egizio (Adelphi, II ed. 2007). Il dialogo permette di ricomporre la mappa dei «sentieri teorici e autobiografici» percorsi da questo “archeologo” della memoria e dei popoli, divenuto noto per la sua rovente (e contestata) tesi sulla radice violenta dei monoteismi.
In queste pagine vengono ovviamente affrontati in modo sintetico i tanti itinerari di ricerca assmanniani. Noi ne vogliamo segnalare due in particolare. Il primo concerne la cosiddetta “distinzione mosaica” formulata dallo studioso nel 1995, riguardante la distinzione tra vero e falso.
Sentiamo lo stesso autore: «La mia tesi afferma che essa non appartiene alla religione. Nella religione si tratta di ciò che puro e impuro, santo e profano, giusto o sbagliato nello svolgimento dei riti, ma non di ciò che è vero e falso. Questa distinzione appartiene alla scienza, che lavora per dimostrazioni, come la logica, la matematica, la storia, la giurisprudenza, ma non alla religione. In tale dominio essa è penetrata per la prima volta col monoteismo, che delimita il vero Dio rispetto ai falsi dèi e il vero credo rispetto alla falsa credenza e all’eresia».
L’altra tesi di Assmann che segnaliamo è quella della cosiddetta religio duplex. In pratica si confrontano, per contrappunto o per dialettica, in duello o in duetto secondo i casi, una verità religiosa rivelata e una di indole più naturale e universale. Si delinea così, nella storia dell’umanità una sorta di doppia verità che spesso si polarizza, pur avendo talora tangenze e convivenze personali e sociali. Si configura in tal modo «una sovra- o inter-religione, una religione naturale, comune a tutti gli uomini, al di là delle loro religioni positive ereditate». La declinazione di questa dualità si attua nel contrasto o confronto tra fede popolare e religione codificata, affidata a una rivelazione, a misteri e riti, tra una spiritualità personale e una religiosità pubblica, tra una epifania cosmica, essoterica cioè aperta a tutti, e una teofania circoscritta ed esoterica.
È facile intuire in quale linea prevalentemente si collochi, secondo Assmann, il monoteismo all’interno della religio duplex. Significative sono le ultime battute dell’intervista, in cui lo studioso rimanda alla famosa parabola dei tre anelli di Lessing per concludere - con una punta di relativismo faticosamente esorcizzato dallo stesso autore - centrando ancora una volta la sua batteria contro il monoteismo: «Il problema del monoteismo della verità risiede nel suo pretenzioso concetto di rivelazione, con la sua paradossale connessione di esclusività e universalità. Ci sono molte religioni, ma non può esistere più di una verità assoluta e universale».
La cosiddetta “teologia fondamentale”, interpellata da tempo su questa aporia, ha elaborato una serie di repliche che non trovano, però, eco nelle pagine di Assmann e questo è un po’ dovuto anche all’autoreferenzialità che relega spesso la teologia sistematica nell’hortus conclusus delle accademie teologiche.
L’uomo Mosè. Un romanzo storico: un inedito di Freud
di Romano Màdera (Doppiozero, 17 Dicembre 2022)
È uscito da poco, prima in Francia e poi nella traduzione italiana - che ha in più l’introduzione di un grandissimo studioso di storia delle religioni, Giovanni Filoramo - la versione inedita del 1934 del libro di Freud che si intitolava L’uomo Mosè. Un romanzo storico, poi rimaneggiata e data finalmente alle stampe come L’uomo Mosè e il monoteismo nel 1939, l’anno della sua morte. Il libro riproduce il testo tedesco riportandone anche le correzioni, il commento è di Thomas Gindele - un libro nel libro per ampiezza e per impegno interpretativo (le traduzioni sono di Johanna Venneman dal tedesco e di Chiara Calcagno dal francese, l’editore è Castelvecchi). Do per esteso queste informazioni bibliografiche perché questo è un volume che “deve” stare insieme a quelli che raccolgono le opere di Freud, tanta è la sua importanza.
Mi sembra astratto, ma anche difficile da sostenere un approccio al pensiero freudiano che cerchi di immunizzarlo - certo riprendendo anche un’aspirazione dello stesso autore - dal suo contesto storico-familiare per lasciarne intatta l’ambizione scientifica, perciò stesso neutralizzata rispetto a questi condizionamenti soggettivi. Siamo in uno dei gorghi dei gineprai freudiani e, molto spesso, delle diverse correnti della psicoanalisi e delle psicologie del profondo: il materiale più idiosincrasico possibile, disperatamente soggettivo, che si vorrebbe riportare all’oggettività imparziale del ricercatore, facendo astrazione dai suoi condizionamenti culturali, storici, familiari, personali (in una parola-concetto: dalla sua biografia), vuole elevarsi a scienza in base a un modello che rimane in gran parte derivato dalla fisica e dalle scienze naturali.
Nelle due versioni di L’uomo Mosè questo conflitto epistemologico raggiunge il suo apice: far valere le ragioni della “scienza” psicoanalitica nel vortice del momento storico e della persecuzione nazista degli ebrei tedeschi che sta esondando nell’invasione dell’Austria e quindi tocca direttamente la stessa famiglia del medico viennese. Il Mosè di Freud è la testimonianza in presa diretta, per quanto ritradotta in ricerca, di questa temperie: scrivere di questo argomento è una sfida titanica. Inevitabile è l’implicazione politica che comporta anche il solo evocare la figura principe dell’ebraismo, il maestro per eccellenza, sullo sfondo dell’antisemitismo e del disegno della cancellazione del segno ebraico nella storia d’Europa. Infatti è proprio per questo che Freud rinuncia alla pubblicazione, la cambia e la consegna cinque anni dopo la prima stesura. E che anni, anche per lui e la sua famiglia: Rosa, Marie, Adolfine, Pauline - le sorelle che non incluse nella lista delle persone che avrebbe portato con sé nell’esilio londinese del 1938 - moriranno nei campi di concentramento tra il 1942 e il 1943. Non si sa perché non furono incluse nella lista: forse, nonostante tutto - ma questa è anche la supposizione di Ernest Jones, biografo-agiografo del maestro -, perché Freud non immaginava la smisurata ferocia dell’antisemitismo nazista. Di certo nel 1934, dopo aver terminato la prima versione, quella appunto intitolata L’uomo Mosè. Un romanzo storico, scrive all’amico Max Eitington che aveva deciso di non pubblicare il suo scritto perché “una parte del testo infligge gravi offese al sentimento ebraico, un’altra al sentimento cristiano: due cose che è meglio evitare nell’epoca in cui viviamo”. La lettera è del 27 Ottobre 1934, il 6 Febbraio del 1938, dopo l’assassinio del cancelliere austriaco Dollfuss - quando è ancora a Vienna, convinto che si debba sostenere il regime cattolico autoritario austriaco -, in un’altra lettera a Eitington dice: “Il nostro governo, a suo modo valoroso e coraggioso, è ora più forte che mai nella difesa contro i nazisti, anche se non si può essere certi, visti gli ultimi eventi in Germania, di come andranno a finire le cose”.
Quindi si può supporre che la decisione di pubblicare il libro su Mosè, rivisto e con un nuovo titolo che dichiara il suo contenuto ideale, cioè il tema-problema della religione monoteista (che è poi la concezione di Dio nell’ebraismo e nel cristianesimo), sia il frutto di una situazione disperata nella quale le “offese” ai sentimenti ebraici e a quelli cristiani debbano essere esposte per amore della scienza, ma anche per mostrare che il dramma ebraico affonda, in definitiva, nel dramma comune della “civiltà”. Implicitamente la perdita, agli occhi di Freud, del “narcisismo dell’elezione” rivela che l’attacco nazista all’ebraismo sostituisce un’altra, e ben più perniciosa, pretesa di unicità e superiorità razzista alle convinzioni fideistiche di ebrei e cristiani sulla individuazione della “vera” origine della salvezza. Il tentativo di Freud, malato da anni di cancro, esule, testimone della fine delle istituzioni psicoanalitiche in Germania e in Austria, è qualcosa di gigantesco - mi verrebbe da dire tra l’eroico e il superomistico.
Si tratta, in un libro che raccoglie il frutto del lavoro di una vita, di ricondurre ebraismo e cristianesimo all’origine comune delle costruzioni religiose e morali dell’umanità, delegittimare quindi le loro convinzioni di eccezionalità e di “superiorità” ma, insieme e proprio per questo, mostrare l’inconsistenza delle accuse antisemite e anche anticristiane del nazismo, visto, insieme a ogni nazionalismo e razzismo, come la pretesa, nascostamente “religiosa”, di essere l’avvento del Vero Regno Tedesco (senza nessuna delle alte mete spirituali e morali rappresentate comunque, per Freud, dall’ebraismo e dal cristianesimo).
Freud scrive a Lou Andreas-Salomé il 6 Gennaio del 1935 sul tema dei “fondamenti storici della storia di Mosè”, che “Questo problema mi ha tormentato tutta la vita”. In questione è la genesi del monoteismo che, agli occhi di Freud è da un lato una grande conquista ideale e morale, dall’altro richiede, nella forma che ha preso nell’ebraismo e nel cristianesimo, una grande rinuncia pulsionale. Quello che gli sta cuore, per la sua scienza, la psicoanalisi, è la genesi del fenomeno culturale dal fenomeno psichico, insieme alla prospettiva, più volte evocata nei suoi scritti, di dare un nuovo fondamento - unitario e quindi, sotto nuove spoglie, “monoteistico”? - all’insieme dei saperi sull’umano ancora lontani da un solido statuto scientifico. Questo interesse si lega, come accennato sopra, alla difesa dall’antisemitismo cercando una spiegazione - che, ovviamente, non significa una “giustificazione”, tutt’altro - alla domanda: “Come mai l’ebreo sia diventato ciò che è e si sia tirato addosso un odio così inestinguibile” (così scrive in una lettera ad Arnold Zweig il 30 Settembre 1934, presentandogli L’uomo Mosè: un romanzo storico”).
Ecco intanto una prima grande sorpresa: l’uso del termine “romanzo” da parte di Freud che per tutta la vita aveva cercato di allontanare da sé, e non solo esteriormente, l’immagine dello scrittore, considerandola un modo di inficiare l’esame puramente scientifico delle scoperte della psicoanalisi (anche se aveva chiamato “romanzo familiare” la storia, difficile da ricostruire e piena di vuoti, delle nevrosi individuale). Certo aveva già scritto qualcosa del genere, una specie di invenzione mitologico-scientifica sulle origini della cultura, a partire da un materiale antropologico che lasciava spazio a conclusioni non certo univoche. Era l’affresco di Totem e tabù, pubblicato nel 1913, un’opera che doveva ricostruire in base al complesso edipico, scoperto in se stesso e nei suoi pazienti, l’origine della religione, della moralità e del senso di colpa, del Super-Io: niente di meno che la cellula dell’intera cultura umana! E il romanzo storico di Mosè ne è in fondo la prosecuzione, lo scritto che dovrebbe collegare la teoria sulla genesi della cultura umana in generale agli sviluppi ebraici, cristiani e islamici che hanno forgiato la cultura euro-americana con la sua influenza sul mondo intero. Adesso sfidata dal nuovo “messianesimo all’incontrario”, dall’avvento della mitologia germanico-nazista. Freud sa di muoversi su un terreno ancor più insidioso - e provocatorio, almeno nei confronti di ebrei e cristiani - di quello di Totem e tabù. Qui è in gioco la proiezione elettiva e salvifica su Mosè e Gesù, inevitabilmente carica di affetti personali e di senso dell’appartenenza di milioni di seguaci.
È per questo che cerca subito di schivare le prevedibili accuse con un incipit bizzarro: “Così come l’unione sessuale tra cavallo e asino dà origine a due ibridi diversi, al mulo e al bardotto, anche la mescolanza tra storia e invenzione libera fa nascere prodotti diversi, i quali, sotto la denominazione comune di ‘romanzo storico’, vogliono essere apprezzati sia come opere di storia che come romanzi.” Una excusatio in stile diminutivo, apparentemente umile, che non fa che indicare, al lettore un po’ smaliziato e non in soggezione di fronte ai “grandi maestri” (in fondo in questo più simile a Freud che ai suoi adulatori), quanto immensa fosse la sua ambizione e pretesa: salvare nella scienza la cultura mentre ne abbatte le “illusioni” più amate, assumersi il compito del continuatore dei programmi illuministici e positivistici portati alle loro più radicali conseguenze, proprio mentre una catastrofica infezione di oscurantismo minaccia ogni conquista della civiltà.
Quale è il nocciolo atomico della “ricostruzione-distruzione” freudiana del mito mosaico? Anche gli ebrei, ripetendo il parricidio primordiale, hanno ucciso Mosè che tuttavia sarebbe stato (come il suo nome sembrerebbe indicare nella ricostruzione di Freud) un egiziano! Una doppia, rovente accusa: gli ebrei parricidi e discepoli del loro “primo maestro” che però ebreo non era, anzi proveniva dalla stirpe del nemico. Così abbandonarono il monoteismo mosaico per seguire la fede tribale in Yahweh, dio vulcanico, selvaggio e violento. Ma poi, per il ritorno dell’assassinio rimosso della loro guida, oppressi dal senso di colpa, tornarono alla fede monoteistica di Mosé. Secondo Freud si verifica qui una giustapposizione-trasformazione: l’antico Mosè egiziano viene fuso con un nuovo Mosè, un madianita sacerdote della stirpe di Abramo. Il rimosso ritorna con ancora più forza di prima per paura della punizione. Il Dio-Padre che premia e punisce è un’elaborazione della colpa dei figli, in una ripresa dell’immagine originaria totemica che si ripete per ciascuno nel dramma infantile edipico. La circoncisione rappresenterebbe perciò la simbolica della castrazione minacciata dal padre per i figli che si oppongono alla sua Legge (pp.10-11).
Ma perché, liberatosi di Mosè, quel gruppo di ebrei ha mantenuto il rito della circoncisione? Nella “Conclusione” del saggio di commento all’opera - lungo 173 pagine - intitolato “L’elaborazione di L’uomo Mosè dal 1934 al 1939”, il curatore sostiene che delle tre modifiche importanti apportate al romanzo storico in vista della pubblicazione, ce n’è una che costituisce in qualche modo il filo conduttore dello sviluppo storico ed è “lo status dei leviti” (p. 367). Dunque uno sviluppo del culto del Dio unico da parte dei sacerdoti di Eliopoli, antenati dei leviti, che avevano diffuso il culto di Aton. Scrive Freud: “Quando l’Egitto divenne un impero mondiale durante la XVIII dinastia, il nuovo imperialismo trovò la sua espressione anche in un’influenza sulla religione.
Già sotto Amenofi III si dice che il dio del sole di On (Eliopoli) abbia assunto un ruolo dominante nel regno degli dèi. Ma fu solo sotto il figlio Amenofi IV che gli successe nel 1375 che questa preferenza per un dio assunse il carattere di un sublime monoteismo che proibiva e perseguitava il culto di altre divinità. Il nuovo dio Aton veniva rappresentato come un dio solare e i suoi raggi erano emanati dalle mani (pp. 36-7). Freud aggiunge in nota che “durante il regno di Akhenaton l’Egitto perse tutti i suoi possedimenti in Siria e Palestina”. Il re non mandò aiuti ai suoi sostenitori in Asia, oppressi dai loro nemici, perché, secondo alcuni storici “fare la guerra e spargere sangue gli ripugnava”.
Tuttavia il ruolo chiave dei Leviti, la cui origine doveva essere egizia, nella seconda parte del testo consentirebbe di mantenere il rito della circoncisione, mentre però, nella prima parte, i Leviti erano ebrei. Anche Gindele, il curatore che peraltro sostiene la tesi del Mosè egizio, non può nascondere le contraddizioni interne allo scritto e così immagina che la strategia di stesura voglia mascherare questa confusione, almeno per “il lettore poco sospettoso” che “non tornerà indietro per costatare questa contraddizione” (p. 251).
La costruzione traballa anche concettualmente: “L’ebraismo estremamente elaborato che viene istituito all’indomani dell’esilio babilonese non poteva essere il risultato di un ritorno del rimosso è [...] L’imponente costruzione del Secondo Tempio [...] e questo notevole ‘progresso della spiritualità’ che Freud descrive, non possono essere un sintomo nevrotico perché si è traumatizzati per aver subito un atto psichicamente intollerabile, e non per aver ricevuto un insegnamento (la parola ‘Torah’ può essere anche tradotta in questo modo) che porta invece un notevole progresso psichico”.
Se il curatore non nasconde le difficoltà e le autocontraddizioni del testo - rivelatrici di un tormentato, irrisolto rapporto di Freud con l’ebraismo rispetto alla sua “fede” scientista - gli concede peraltro accordo sulla tesi dell’origine egiziana di Mosè. Senza alcun riferimento a posizioni opposte, Gindele intitola un paragrafo del suo scritto: “Conferma da parte del biblista Richard Friedman”. Ora, non essendo né egittologo né biblista, non saprei prendere partito, tuttavia non vedo come si possa, su un tema di tale portata, evitare di citare almeno qualche autore che si è preso la briga di criticare Richard Friedman: uno solo degli esempi possibili è David Gottlieb.
Peraltro lo stesso Freud accenna nel paragrafo “Mosè è esistito davvero?” a una visione ben più problematica, riducendola però subito all’opposizione “vita vera di una persona” oppure “ruolo e imprese significative” di qualcuno, al quale si è poi dato un certo nome. Vien da ricordare che proprio Thomas Mann, ammiratissimo da Freud e a sua volta grande estimatore dello psicoanalista viennese, in Le storie di Giacobbe del 1933, primo libro di Giuseppe e i suoi fratelli, aveva parlato di “personalità corporative”, intendendo con ciò che Giacobbe, o Giuseppe, non sono nomi attribuibili a una sola singola persona, ma che sono il condensato di un numero indefinito di persone e di situazioni che creano il personaggio di Giacobbe o di Giuseppe.
L’uomo Mosè. Un romanzo storico: un inedito di Freud
di Romano Màdera (Doppiozero, 17 Dicembre 2022)
È uscito da poco, prima in Francia e poi nella traduzione italiana - che ha in più l’introduzione di un grandissimo studioso di storia delle religioni, Giovanni Filoramo - la versione inedita del 1934 del libro di Freud che si intitolava L’uomo Mosè. Un romanzo storico, poi rimaneggiata e data finalmente alle stampe come L’uomo Mosè e il monoteismo nel 1939, l’anno della sua morte. Il libro riproduce il testo tedesco riportandone anche le correzioni, il commento è di Thomas Gindele - un libro nel libro per ampiezza e per impegno interpretativo (le traduzioni sono di Johanna Venneman dal tedesco e di Chiara Calcagno dal francese, l’editore è Castelvecchi). Do per esteso queste informazioni bibliografiche perché questo è un volume che “deve” stare insieme a quelli che raccolgono le opere di Freud, tanta è la sua importanza.
Questo deficit della dimensione simbolica, ridotta a una sorta di letteralismo storico-evolutivo riguarda il filo teorico più importante di tutto il testo che, in sostanza, applica il romanzo mitologico di Totem e tabù del 1913 (nel quale peraltro Freud “aggiusta” il testo di Darwin sull’orda primitiva aggiungendo un padre che non c’è, come fa osservare Gindele a p. 242 del suo commento) alla genesi dell’ebraismo, confermando l’impianto generale, cioè il romanzo psicoanalitico dell’Edipo che da osservazione su casi singoli è stato elevato a storia universale.
Si tratta sempre dell’omicidio del padre dell’orda, dell’omicidio in questo caso di Mosè, del susseguente senso di colpa e della nascita della legge e della morale dal timore e dalla regolazione della concorrenza tra i maschi. Le equazioni che attraversano le costruzioni psicostoriche sono quelle tra l’originario e l’inconscio, l’infantile e lo psicopatologico, quattro radici che mostrano all’analisi le stesse strutture. Ora, a parte le obiezioni logiche possibili al modo freudiano di usare l’abduzione, generalizzandola secondo passaggi inconsistenti, l’assunzione di fondo dalla quale tutto procede in Freud è che dai conflitti dinamici propri e interni al singolo individuo si possa, e si debba, procedere a generalizzazioni che riguardano l’umanità intera nell’insieme del suo sviluppo sociale-storico-culturale.
Scrive infatti in Psicologia delle masse e analisi dell’io che “la pulsione sociale non può essere originaria e non ulteriormente analizzabile [...] i primi inizi della sua formazione possono essere ritrovati in un ambito più ristretto, come per esempio quello della famiglia”. Qui la tesi di Freud si scontra con il fatto che una famiglia isolata, senza un gruppo più vasto, non avrebbe mai potuto sopravvivere: la rete di scambi necessaria alle diverse attività produttive e il mutuo aiuto in caso di pericolo non sono che due dei fattori decisivi. Un gruppo umano sotto una certa soglia numerica è minacciato di estinzione. Se poi, come è necessario fare, si affronta il tema dal punto di vista del mondo moderno, è difficile capire come si possa partire dalla famiglia per comprenderne le dinamiche, sembra più credibile il contrario: la forma della famiglia, i suoi modelli di formazione e di educazione della prole, il suo stile di relazione con l’esterno e altri innumerevoli aspetti del comportamento, del modo di sentire e di pensare saranno piuttosto, al contrario, determinati dall’ambiente sociale (cioè dalla dimensione storico-culturale).
Freud riassume il suo pensiero nel Poscritto del 1935 allo scritto sulla Autobiografia: “Capii con sempre maggiore chiarezza che gli avvenimenti della storia dell’umanità, gli influssi reciproci tra la natura umana, lo sviluppo culturale e quei residui di eventi primordiali, dei quali la religione si considera la massima rappresentante, non sono che il riflesso dei conflitti dinamici tra l’Io, l’Es e il Super Io che la psicoanalisi studia nel singolo individuo. Sono gli stessi processi, riportati in un contesto più ampio”. Il debito nei confronti della teoria - oggi difficilmente sostenibile, per dirlo con garbo - della ricapitolazione nell’ontogenesi della filogenesi di Haeckel è chiaro.
D’altra parte un grande “freudiano”, ma libero e creativo come Fachinelli, conclude così il suo saggio Su Freud (Adelphi, 2012, p. 59): --***“Nel momento in cui Freud si pone l’esigenza di riportare a un contesto generale ciò che ha trovato in sé e nei suoi malati - e questo avviene, in fondo, secondo un canone di valori assoluti ancora vigente in lui - insorgono difficoltà e oscillazioni caratteristiche. Come si passa da questo individuo, questo e nessun altro, alla generalità degli individui? E come si origina ciò che in questo individuo viene ritrovato?
La risposta prima di Freud - la più ‘scientifica’, e quella che un lettore superficiale ritrova di continuo - si basa su un’analogia nel primo caso e su una trasmissione (ereditaria) nel secondo. Gli uomini sono l’uomo, il gruppo, l’individuo, senza inerzia né mediazioni che non siano rapportabili al singolo individuo. E ciò che si trova nel figlio fu nel padre e nel padre del padre, per passaggio di tracce che sono abbastanza inevitabilmente legate a eventi ‘traumatici’ [...] la psicoanalisi della civiltà - il suo ultimo compito in cui sembra appagata la sua ‘originaria’ ambizione filosofica - può apparire semplicemente un’indagine ossessiva attorno a un fatto preistorico, che consenta l’eterno ritorno della storia come elemento rimosso”.
Tuttavia, al di là della fallacia scientifico-teorica della sua impostazione che ripete lo stesso schema edipico per le origini dell’umanità e per le origini dell’ebraismo, possiamo vedere nell’ultimo Freud il tentativo di dare una forma a un’oscillazione tra le sue origini ebraiche e la sua professione di fede scientifica e atea. Si potrebbe dire: riportare il dramma ebraico al totemismo lo mette sullo stesso piano del cristianesimo, in più tenta di sottrarre queste due religioni, attaccate dal nazismo, alla “invidia dell’elezione” che cercava di delegittimare le origini semitiche di entrambe per promuovere l’elezione nazionalista e razzista del germanesimo puramente ariano. Tutto ciò Freud lo fa ribadendo la sua impassibilità scientifica che osa strappare Mosè, il primo grande maestro ebreo e il più “giusto” tra gli uomini, alle origini ebraiche.
Un doppio e conflittuale movimento che lo ha accompagnato per tutta la vita. Sempre nello scritto autobiografico del 1935 c’è un’aggiunta, rispetto alla versione di dieci anni prima, nella quale Freud parla di un essersi precocemente immerso (“frühzeitige Vertiefung”) nella storia biblica appena aveva imparato a leggere. L’episodio che suo padre gli racconta - quando un cristiano a Freiberg gli ingiunse di scendere dal marciapiede buttandogli il berretto nel fango e lo dovette raccogliere - gli lascerà sempre una diffidenza tanto per i non-ebrei (cosa che dice a chiare lettere a Sabina Spielrein quando la giovane psicoanalista ebrea, che era stata paziente e amante di Jung, non vuole comunque rompere con il suo vecchio amore e primo maestro), quanto nei confronti di una identificazione con l’ebraismo (non casualmente la sua affezione per Jung erano anche motivate dal suo essere “ariano”).
Sigmund, a differenza del padre Jakob, non accetta di dover raccogliere il suo cappello buttatogli nel fango. Ma la lotta tra il sentimento di appartenenza al suo popolo e il superamento di ogni fede di parte per il superiore ideale scientifico, lo abitano fino alla fine della vita, come appunto si vede dal suo tormentato scritto su Mosè. Il padre, d’altra parte, cercò sempre di ricordargli la sua origine: nella Bibbia illustrata di Philippson che gli regala per il suo trentacinquesimo compleanno gli scrive: “Ricordo dell’amore di tuo padre che ti ama di un amore eterno”. E cosa è la Bibbia? “Il libro dei libri dove i saggi hanno attinto, dove i legislatori hanno imparato il sapere e il diritto”. Un libro che documenta il rapporto decisivo di Freud con le immagini, ricostruito anche rispetto al Mosè michelangiolesco, è quello di Gianluca Solla, Disegnare, la formula di Freud (si veda un estratto su Doppiozero).
Peraltro Freud fu un membro attivo dell’associazione umanitaria austriaco-israelitica “B’nai B’rith, cioè dei “figli del Patto”, per la quale, tra le altre cose, tenne la conferenza, inizialmente non inclusa nelle Opere Complete, su “Noi e la morte”, prima stesura del Febbraio del 1915 (con importanti varianti proprio sul tema della guerra che testimoniano l’iniziale atteggiamento di schieramento patriottico del fondatore della psicoanalisi, testo pubblicato per la prima volta in italiano dalle edizioni Palomar di Bari nel 1993) delle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte.
L’ambivalenza di Freud nei confronti delle origini ebraiche raggiunge un acme di drammatica intensità nel suo rapporto con Jung: per un verso lo sceglie come suo “principe ereditario”, proprio in quanto il suo non essere ebreo può consentire alla psicoanalisi di uscire da una possibile ghettizzazione in un circolo di medici ebrei, per un altro è chiara l’aspettativa filiale e la proiezione sul più giovane collega dell’immagine del futuro continuatore e conquistatore vittorioso. In una lettera a Jung del 17 gennaio 1909 “Freud si era paragonato a Mosè in quanto anch’egli, come il profeta e legislatore ebraico, non avrebbe potuto vedere la Terra Promessa (della psicoanalisi riconosciuta internazionalmente) a differenza di Jung, novello Giosuè, destinato a conquistare questa terra” (così scrive a pagina 8 della sua bella prefazione Giovanni Filoramo).
Interessante quanto ne dice lo stesso Jung nel suo Ricordi, sogni, riflessioni, ( pp. 198-199, curato da Aniela Jaffé) : “Anche un’altra volta [...] Freud svenne in mia presenza. Accadde durante una conferenza di psicoanalisi, a Monaco, nel 1912. Qualcuno aveva portato il discorso su Amenofi IV (Echnaton). La questione era imperniata sul fatto che, come conseguenza del suo atteggiamento negativo verso il padre, questi aveva distrutto i cartigli di suo padre sulle stele, e che dietro la sua grande creazione di una religione monoteistica si nascondeva un complesso paterno. Irritato da queste affermazioni, tentai di stabilire che Amenofi era stato un uomo dotato di capacità creativa e profondamente religioso, le cui azioni non si potevano spiegare con un’opposizione personale al padre.
Al contrario, dicevo, aveva tenuto in onore la memoria del padre, e il suo zelo distruttore era solo diretto contro il dio Amon, che aveva cancellato dovunque, e perciò anche dai cartigli di suo padre. Inoltre anche altri faraoni avevano sostituito i nomi dei loro antenati effettivi o divini su monumenti e statue col loro proprio, ritenendo di avere il diritto di farlo dal momento che erano incarnazioni dello stesso dio. Ma essi non avevano inaugurato né un nuovo stile né una nuova religione. A questo punto Freud cadde dalla sua sedia privo di sensi. Tutti gli si affollarono intorno senza aiutarlo. Allora lo sollevai, lo trasportai in una stanza più vicina, e lo feci sdraiare su un sofà. Mentre lo portavo, ritornò alquanto in sé, e mi fissò con uno sguardo che non dimenticherò mai: nella sua impotenza mi aveva guardato come se fossi suo padre. Quali che fossero le altre cause che potevano aver contribuito a questo svenimento - l’atmosfera era molto tesa - [...] era presente la fantasia del parricidio.”
Freud e Binswanger divisi dal demone della metafisica
Psicoanalisi. Introdotto da Jung, Binswanger conobbe Freud nel 1907 e avviò subito con lui un carteggio, che fu preludio di una lunga amicizia
di Andrea Calzolari (il manifesto, 29.05.2016)
Sentii parlare per la prima volta dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger da Luigi Gozzi, membro del Gruppo 63, drammaturgo allora esordiente, poi direttore a Bologna del Teatro delle Moline. Era la fine degli anni sessanta e Gozzi stava elaborando una poetica centrata sul manierismo dell’attore, ispirata, tra l’altro, anche a Tre forme di esistenza mancata, il primo libro di Binswanger, del 1956, tradotto in italiano nel ’64. Dedicato al manierismo, il saggio ne proponeva una accezione assai ricca e complessa, nutrita non solo dall’esperienza clinica ma anche da vaste conoscenze in ambito figurativo e letterario: utilizzava, per esempio, il capolavoro di Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e medioevo latino, del 1948, per dimostrare come la pratiche linguistiche di alcuni manierismi schizofrenici, che affettano caratteristici stereotipi espressivi, si apparentino a antiche tecniche letterarie e retoriche.
Mentre si capisce, dunque, l’analogia tra il manierismo attoriale cui Gozzi si dedicava nel teatro d’avanguardia di quegli anni e la «paranoia critica» surrealista, ancora più interessante è vedere come il risultato delle ricerche di Binswanger fosse un brillante esempio di quella che egli chiamò la Daseinanlyse, tradotta un po’ approssimativamente qui da noi (e in francese) come «analisi esistenziale», vale a dire una indagine che cerca la fondazione delle categorie psichiatriche nella fenomenologia husserliana e nel pensiero di Martin Heidegger.
Una delle conseguenze di questo orientamento, e uno degli aspetti più significativi della Daseinanalyse, stava nello sfumare il confine tra il normale e il patologico, mostrando le radici dei fenomeni studiati dalla psichiatria nell’esistenza umana cosiddetta normale, vale a dire nell’essere-del-mondo dell’Esserci (Dasein) come era stato indagato in Essere e tempo da Heidegger. Poco dopo che Binswanger pubblicò Tre forme , dedicato a Heidegger, questi sconfessò lo psichiatra svizzero - che del resto era sempre stato consapevole del fatto che le sue indagini riguardavano i problemi dell’esistenza e non la domanda sull’esistenza - e liquidò con pochi, sprezzanti giudizi quel Freud che, viceversa, Binswanger avrebbe considerato sempre un maestro.
Figlio e nipote di psichiatri, Binswanger aveva studiato nel Burghölzli di Zurigo, la celebre clinica diretta dal grande psichiatra Eugen Bleuler, dove aveva lavorato con 0Chiunque conosca le affascinanti ma turbolente vicende della nascita e del primo sviluppo della psicoanalisi sa che quasi mai il distacco degli allievi dal padre fondatore si è consumato senza traumi e recriminazioni, e sa come di solito questi si concludessero non solo nell’interruzione di ogni relazione, ma nella reciproca disistima: il rapporto tra Binswanger e Freud costituisce una felice eccezione.
La storia di questa solida e generosa amicizia, che si mantenne nonostante il dissenso intellettuale tra i due, venne descritta dallo psichiatra svizzero in un volumetto del 1956 -Ricordi di Freud (Astrolabio 1971) seguendo la falsariga della sua corrispondenza con Freud, ora integralmente tradotta e curata da Aurelio Molaro in un bel libro: Sigmund Freud-Ludwig Binswanger, Lettere 1908-1938 (Cortina, pp. 316, euro 29,00) di piacevole interesse, benché l’introduzione sia impegnativa e un po’ ridondanti le note, fin troppo erudite.
Sullo sfondo delle vicende della scuola freudiana, si possono seguire le biografie dei due corrispondenti, scoprendo, per esempio, un Freud affettuoso, che nel 1912 pur di visitare Binswanger gravemente ammalato (era stato operato per un tumore) urta la suscettibilità di Jung, che pure considera il suo allievo più promettente: come si sa, i primi dissapori con quello che gli era sembrato l’erede destinato a succedergli alla guida del movimento psicoanalitico sarebbero sfociati nella più famosa delle eresie e nella costituzione di un indirizzo di ricerca ancor oggi autonomo e rivale alla teoria e al metodo freudiani.
Se non si consumò una rottura tra Binswanger e Freud, questo dipese non solo dal carattere di entrambi, ma anche dalla apertura della loro intelligenza, nonché da una disponibilità alla speculazione teorica, particolarmente pronunciata nello psichiatra svizzero, attratto fin da giovane dalla filosofia, interesse al quale nemmeno il suo interlocutore era peraltro estraneo.
Le divergenze tra i due, in effetti, non derivano tanto dalla maggiore apertura di Binswanger al pensiero filosofico, da lui fin troppo sottolineata, di contro all’orientamento più scientifico di Freud, quanto a ciò che si rende evidente in una lettera del padre della psicoanalisi, il quale scherzosamente mette in guardia l’allievo dal «demonio» della filosofia, intendendo le speculazioni metafisiche che secondo lui, risolutamente ateo e materialista, possano ostacolare la conoscenza.
Così, quando Binswanger nel 1928 gli fece avere il suo volumetto sul sogno, Freud da una parte si congratulò, ma dall’altra non mancò di criticare la pagina conclusiva in cui Binswanger faceva appello a una metafisica dello spirito che non poteva non condurre all’idea di Dio.Paragonando la religione a una sbronza senza alcol, Freud scriveva di essere sempre stato sobrio, se non astemio: aveva appena pubblicato L’avvenire di un’illusione, ma - diceva - mentre i bevitori di razza gli incutevano rispetto, «solo chi riesce a ubriacarsi con una bevanda analcolica mi è sempre apparso piuttosto ridicolo».
Giudizio che ribadì, seppur temperandolo nei modi, otto anni dopo, quando nel 1936, per festeggiare il suo ottantesimo compleanno, Binswanger tenne una conferenza, La concezione freudiana dell’uomo alla luce dell’antropologia, che è forse il suo testo più maturo e organico fra quelli dedicati al maestro. In quelle pagine espone i tratti a suo avviso essenziali della dottrina freudiana, centrata sull’idea dell’homo natura, vale a dire dell’uomo in quanto creatura naturale (in opposizione alle altre figure in cui una tradizione millenaria ha di volta in volta identificata l’essenza umana: l’homo coelestis, l’homo universalis e l’homo existentialis).
Se Binswanger non esita a paragonare Freud a Goethe o a Nietzsche, nonché a riconoscere la grandezza rivoluzionaria e il rigore delle sue concezioni, è tuttavia ugualmente deciso nel prenderne le distanze, accusando la psicoanalisi di frantumare la totalità dell’esperienza umana e di ridurne la ricchezza, irrigidendola nella tensione tra pulsioni e illusioni.
Nel ringraziare affettuosamente Binswanger, Freud ribadì le sue posizioni con queste parole destinate a restare famose: «Naturalmente ancora non Le credo. Io mi sono sempre limitato al parterre e al souterrain dell’edificio - Lei sostiene che cambiando il punto di vista si possa vedere anche un piano superiore in cui abitano ospiti distinti come la religione, l’arte e altri ancora. Non è l’unico a pensarlo, è di questo parere la maggior parte degli esemplari civilizzati di homo natura. In tal caso è Lei il conservatore, io il rivoluzionario. Se avessi ancora una vita di lavoro davanti a me, mi permetterei di assegnare a simili individui di alto lignaggio un posto nella mia casupola. Per la religione l’ho già trovato, da quando sono approdato alla categoria di “nevrosi dell’umanità”. Ma probabilmente ci parliamo senza capirci, e il nostro contrasto si appianerà solo fra qualche secolo».
Dal 26 al 29 maggio il congresso della Società Psicoanalitica Italiana
Antiche certezze: la Terra è Madre
Freud torna a Goethe per aiutarci
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, 23.05.2016)
Viviamo in un’epoca di crisi in cui l’orizzonte del futuro si è fatto opaco. Difficile per i giovani elaborare un progetto di vita in una società statica, dove il ricambio generazionale sembra essersi inceppato. La stagnazione, indebolendo la speranza, favorisce comportamenti ripetitivi, monotoni e coatti, come quelli indotti dalle dipendenze. Questo è uno dei problemi che saranno discussi nel prossimo Congresso nazionale della Società Psicoanalitica Italiana (Spi), che si terrà a Roma da giovedì 26 a domenica 29 maggio intitolato Le logiche del piacere, l’ambiguità del dolore.
Sotto il segno dell’ambivalenza tra piacere e dolore saranno affrontati molti temi, quali la malattia, l’anoressia, l’autismo, la seduzione della violenza, la corruzione, il terrorismo suicida, le mutilazioni genitali.
Ma quello delle dipendenze appare, per gravità e diffusione, uno dei più urgenti. Il loro ambito, un tempo riservato alle sostanze tossiche, come l’alcol e gli oppiacei, si sottrae ormai a qualsiasi catalogazione perché tutto può divenire droga: Internet, il sesso, il cibo, il gioco d’azzardo, persino il lavoro. Ciò che contraddistingue i comportamenti coatti è l’eccesso, la mancanza del limite, la dismisura. Come tali si rivelano effetti dell’inconscio, di un’economia onnipotente che ricerca il piacere sino a prevaricarlo per inseguire un «aldilà» che, come aveva svelato Freud, finisce per convergere con la pulsione di morte. La morte ci attrae perché offre un «rifugio» per la mente che, evitando la conflittualità che ogni relazione comporta, s’illude di bastare a se stessa.
La psicoanalisi più attuale e radicale, posta di fronte a queste contraddizioni, sta elaborando un nuovo modello che, articolando le dicotomie freudiane, come quelle tra pulsioni di vita e di morte, piacere e dolore, esterno e interno, individua scambi, commistioni e fusioni che rendono più complessa la teoria e più raffinata la clinica. La terapia non si limita ad abolire il sintomo ma si propone di trasformare l’assetto della mente per renderla capace di accettare l’ambivalenza e aprirsi alla percezione della bellezza creata dal lavoro analitico stesso.
La parte più innovativa del programma consiste tuttavia nel confronto con la neurobiologia delle emozioni, in particolare con le proposte di Jaak Panksepp che, riprendendo la convergenza auspicata da Freud nel Progetto (1895), propone di fondare una «neuropsicanalisi». Una prospettiva che coinvolge la ricerca, la formazione, la terapia, il modo di pensare noi stessi.
Non dimentichiamo però che, nel saggio Il problema dell’analisi condotta da non medici (1926), Freud indica, per la formazione degli psicoanalisti, un programma prevalentemente storico-letterario in cui lo psicoanalista ideale risulta un intellettuale complessivo. Una figura che sarà ribadita dal progetto Geografie della psicoanalisi che, affrontando il rischio dell’incomprensione, apre il sapere dell’inconscio a culture diverse e lontane.
L’ultima giornata infine, che fa da contrappunto alla discussione scientifica, sarà dedicata alla dimensione estetica nella natura, nell’arte e nella vita psichica stessa. Mentre la psicoanalisi classica sonda soprattutto il tempo, quella contemporanea valorizza lo spazio nella convinzione che il paesaggio esterno e interno interagiscano tramite una segreta, speculare sintonia. La contemplazione del mondo, non solo umano ma globale, naturale e culturale, ricongiunge etica ed estetica, riprendendo la coincidenza tra bello e buono degli antichi Greci.
Ogni nuovo nato incontra una primordiale esperienza della bellezza nella contemplazione della madre, che rappresenta per lui tutto l’ambiente. Riconoscere questa priorità significa recuperare una visione premoderna della Madre-Terra: valorizzare il nostro essere parte del cosmo, non per dominarlo e sfruttarlo ma per comprenderlo e tutelarlo.
Questa prospettiva ci riporta al dialogo che Freud intrattiene con Goethe quando, nel Faust , scorge nella bellezza la forza creativa che salverà il mondo.
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La vita segreta (e dolorosa) di Freud
di Franco Manzoni (Corriere della Sera, 12.04.2016)
Freud sta morendo, divorato da un carcinoma alla bocca. Da tempo gli hanno asportato la mascella. La paura di nuove sofferenze lo attanaglia, terribili contrazioni ai muscoli della faccia gli impediscono di bere e mangiare. Ha ottant’anni, da più di quindici lotta contro la malattia. Un supplizio che lo condurrà all’idea di anticipare la fine del dolore con un piccolo aiuto. Sullo sfondo sta la grande Storia nel gioco delle coincidenze, che per somiglianza Rino Mele utilizza nel poema Un grano di morfina per Freud (Manni).
A seguito del patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939), il resto dell’Europa permette che la Polonia venga sbranata come un agnello sacrificale. Le date, in rapida scansione, uniscono dramma collettivo e individuale: il primo settembre Hitler invade la Polonia, Stalin il 17, Freud muore il 23. Il fondatore della psicanalisi aveva conosciuto la durezza dell’ Anschluss nel 1938: la sua casa di Vienna invasa dalle SA, l’ebreo Freud costretto ad aprire la cassaforte.
Mele canta con rabbia la Polonia divisa dal fiume Bug, teatro di avvenimenti terribili, presagio di ciò che si preparava per milioni di ebrei polacchi. E non c’era scampo: le guardie sovietiche sparavano su chiunque cercasse di lasciare la Polonia nazista.
L’autore, nato a Sant’Arsenio (Salerno) nel 1938, tenta di immaginare i pensieri di Freud, usando testimonianze e documenti. In un’aspra prosa poetica alterna sogni e vita vissuta. L’attaccamento incestuoso per la madre, vista nuda da piccolo. La severità del padre, che però perde la stima del ragazzo: confessa di non essere riuscito a reagire contro un gentile, che gli aveva tolto il berretto in mezzo alla strada.
Gillo Dorfles scrive nell’introduzione al poema: «...la lunga trama dei versi di Mele esprime, accanto ai dati più dolorosi di Freud, quella che è stata la sua vita segreta, attraverso quelle parole che attingono dal profondo dell’inconscio la loro forza espressiva, svelandone il lato più occulto e misterioso». Esausto e sofferente, il cancro che gli sgretola la guancia, Freud non riesce ad addormentarsi. La tortura non ha più senso la notte del 23 settembre 1939. Gli è sufficiente un grano di morfina per raggiungere il tranquillo sonno del silenzio .
Il mistero dell’esistenza attraverso la lettura di Freud
Il docente salernitano riflette sull’animo umano nell’ultima raccolta di poesie *
di ALFONSO CONTE (La Città di Salerno, 05 aprile 2016)
Perché. l’uomo aggiunge dolore a dolore, somma alle sofferenze già riservate dalla natura altre volontarie ed inutili? Ad invitare a riflettere su tali interrogativi è Rino Mele nella sua ultima raccolta di poesie, “Un grano di morfina per Freud”, Introduzione di Gillo Dorfles (editore Manni, di Lecce, pp. 94), compresa nella Collana “Pretesti” curata da Anna Grazia D’Oria.
In tempi di dittatura del presente, di rifiuto a ricordare ma anche a progettare, di certo tale pubblicazione rappresenta un’operazione coraggiosa e controcorrente, che non va furbamente ad intercettare gli umori del pubblico di massa, ma quasi costringe a non sfuggire alla drammatica realtà della nostra condizione umana, a seguire il poeta nel suo tentativo di penetrare il mistero dell’esistenza.
Non è un caso, pertanto, che protagonista dell’opera sia proprio Sigmund Freud, il Freud che dedica la sua vita a scandagliare l’animo umano, a ricostruire le cause inconsce dei sensi di colpa, a tentare di capire il male di vivere.
Al medico viennese padre della psicoanalisi Rino Mele aveva già dedicato in passato due poesie, “Una città sconosciuta” ed “Il padre di Freud”, riproposte anche in quest’ultimo libro insieme ad un esauriente corredo di note e, soprattutto, al poemetto inedito “La guerra dai due lati del fiume Bug”, nel quale la trasfigurazione poetica riguarda particolarmente il periodo che va dalla primavera del 1938 al 23 settembre 1939, data della sua morte.
L’ultimo Freud non è solo il grande scienziato, è soprattutto l’uomo ormai anziano, ultraottantenne, devastato da un tumore alla mandibola che l’ha costretto ad interventi chirurgici e protesi scarsamente risolutivi, reduce dal cercare risposte, inutilmente, nella fede religiosa ignorata durante tutta la vita. Una fede che, invece di dare sollievo, genera altre nevrosi, rimanda ad un Dio, quello di Mosé e degli ebrei, “contro cui / si poteva solo peccare / trasformando il continuo errare in un interminabile senso / di colpa”. Il “vecchio Freud” di Mele è ogni uomo all’approssimarsi della morte, la “barba sporca di muco”, la saliva che “bagna l’angolo del labbro, quel tremore / delle mani, il sudicio tra le dita, il cispo negli occhi, / l’umore attonito dello sguardo”.
Ma è anche l’uomo, forse più di ogni altro, che, nell’accingersi a sedere alla “tavola vuota”, avverte il peso della sofferenza interiore, perversa ed inestricabile, che precede e supera quella fisica. Di più, il vecchio Freud vive nei suoi ultimi giorni di vita l’inizio della seconda guerra mondiale, il ripetersi, a poco più di vent’anni dalla prima, di un’ancor più esaltata esplosione di violenza. Le due sponde del fiume Bug diventate improvvisamente confine, una linea di separazione tracciata da Hitler e Stalin al centro della Polonia e della civile Europa, iniziano a generare lutto, che “servirà a costruire - l’anno / dopo - una città capovolta, Auschwitz, / i morti in irriconoscibili divise”. È il dolore provocato dagli uomini, ancor più insensato, che va ad aggiungersi ad altro dolore, mentre Freud assiste lucidamente impotente alla devastazione, al disfacimento, all’imminente fine del suo corpo e, insieme, di quello dell’Europa.
La stretta relazione tra poesia e storia nella scrittura di Rino Mele non è recente, poiché già Federico II, Giordano Bruno, Galeazzo Ciano alla vigilia della fucilazione, Aldo Moro rapito ed assassinato, fino agli oltre centocinquanta tra terroristi ed ostaggi morti in seguito all’irruzione prima dei nazionalisti ceceni e poi delle forze speciali russe nel teatro Na Dubrovka di Mosca nell’ottobre 2002, sono entrati nella scena voluta e disegnata dal poeta salernitano. Usciti dalla storia solo apparentemente, essi rivivono ancor più reali, rappresentati fedelmente attraverso le loro vicende biografiche, affinché possa approssimarsi quanto più possibile la comprensione del loro dramma, che è sempre non solo loro, ma anche, sia pure in forme e contesti diversi, di ciascun uomo (“nella giusta interpretazione della Realtà e della Storia risiede l’autentica Poesia”, come ricorda Thomas Carlyle).
Una Storia, quella di Mele, che non è mai svelamento progressivo di un disegno divino o di una più laica razionalità, piuttosto il girare vano nel tempo, un cerchio che si restringe ed allarga fino a diventare voragine, penetrato e raccontato attraverso parole di straordinaria potenza, perché nude e vere, incarnate nella realtà dalla quale non si intende fuggire neanche per un attimo.
*
Il libro “Un grano di morfina per Freud”, viene presentato oggi alle 18 alla libreria Feltrinelli di Salerno (al Corso Vittorio Emanuele). Letture di Pasquale De Cristofaro. Con la sua viola, Michele Coppola suona Mahler e Mozart (che Freud -capitolo 5 dell’Interpretazione - rievoca nell’analisi di un suo sogno: “Canticchio qualcosa che riconosco come l’aria delle “Nozze di Figaro”).
DOPO "Una stanza tutta per sé" (1929), DOPO I "Pensieri di pace durante un’incursione aerea" (1940), DOPO LA DECAPITAZIONE DI OLOFERNE E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA, CHI HA (ANCORA!) PAURA DI "GIUDITTA", di "JUDITH", DI VIRGINIA WOOLF, E DI FACHINELLI E FREUD NELLA "NAVE" DI GALILEI?!:
PENSIERI DI PACE DURANTE UN’INCURSIONE AEREA [1940]
di Virginia Woolf *
I tedeschi sono passati sopra questa casa ieri sera e la sera prima. Eccoli un’altra volta. E’ una strana esperienza, questa di stare sdraiata nel buio e ascoltare il ronzio di un calabrone che in qualsiasi momento può pungerci mortalmente. E’ un rumore che non permette di pensare freddamente e coerentemente alla pace. Eppure è un rumore che dovrebbe costringerci - assai più che non gli inni e le preghiere - a pensare alla pace. Poiché se non riusciamo, a forza di pensare, a infondere esistenza a questa pace, continueremo per sempre a giacere - non questo corpo in questo letto bensì milioni di corpi non ancora nati - nello stesso buio, ascoltando lo stesso rumore di morte sulla testa. Facciamo tutto il possibile per creare il solo rifugio antiaereo efficace, mentre là sul colle sparano i cannoni e i riflettori tastano le nuvole; e qua e là, a volte vicino, a volte lontano, cade una bomba.
Lassù in cielo combattono giovani inglesi contro giovani tedeschi. I difensori sono uomini, gli attaccanti sono uomini. Alla donna inglese non vengono consegnate armi, né per combattere il nemico né per difendersi. Ella deve giacere disarmata, questa sera. Eppure se ella crede che quel combattimento lassù in cielo è una lotta da parte degli inglesi per proteggere la libertà, da parte dei tedeschi per distruggere la libertà, ella deve lottare, con tutte le sue forze, dalla parte degli inglesi. Ma come può lottare per la libertà senza armi? Fabbricandole, oppure fabbricando vestiti e alimenti. Ma c’è un altro modo di lottare senza armi per la libertà. Possiamo lottare con la mente; fabbricare delle idee, le quali possano aiutare quel giovane inglese che combatte lassù in cielo a vincere il nemico.
Ma perché le idee siano efficaci, dobbiamo essere in grado di accendere la loro miccia. Dobbiamo metterle in azione. E quel calabrone in cielo mi sveglia un altro calabrone nella mente. Ce n’era uno questa mattina, che ronzava nel "Times"; era la voce di una donna che protestava: "Le donne non possono dire una parola sulle questioni politiche." Non c’è nessuna donna nel Gabinetto; né in nessun posto di responsabilità. Tutti i fabbricanti di idee, in grado di attuare queste loro idee, sono uomini. Ecco un pensiero che soffoca il pensiero, e incoraggia invece l’irresponsabilità. Perché non sprofondare allora la testa nel cuscino, otturarsi le orecchie e abbandonare questa futile attività di fabbricare idee? Poiché ci sono altri tavoli, oltre ai tavoli dei militari, e i tavoli delle conferenze. Potrebbe darsi che se noi rinunciamo al pensiero privato, al pensiero del tavolo da tè, perché esso ci sembra inutile, stiamo privando quel giovane inglese di un’arma che potrebbe essergli utile. Non stiamo esagerando la nostra incapacità, solo perché la nostra capacità ci espone forse all’insulto, al disprezzo? "Non cesserò di lottare mentalmente", scrisse Blake. Lottare mentalmente significa pensare contro la corrente, e non a favore di essa.
E quella corrente scorre veloce e violenta. Straripa in parole dagli altoparlanti e dai politici. Ogni giorno ci dicono che siamo un popolo libero il quale combatte per difendere la libertà. Quella è la corrente che ha trascinato nei suoi turbini quel giovane aviatore fino al cielo, e che lo fa girare incessantemente tra le nuvole. Quaggiù, protetti da un tetto, con una maschera antigas sotto le mani, è nostro dovere sgonfiare questi palloni d’aria e scoprire qualche germe di verità. Non è vero che siamo liberi. Questa sera siamo tutti e due prigionieri: lui nella sua macchina con un’arma accanto, noi sdraiati nel buio con una maschera antigas accanto. Se fossimo liberi saremmo all’aperto, a ballare, o in un teatro, o seduti davanti alla finestra, conversando. Che cosa ce lo impedisce? "Hitler!" esclamano unanimi gli altoparlanti. Chi è Hitler? Che cosa è Hitler? L’aggressività, la tirannia, l’amore forsennato del potere, rispondono. Distruggetelo, e sarete liberi.
Ora sulla mia testa gli aerei rombano come se segassero il ramo di un albero. Gira e gira, segando e segando quel ramo proprio sopra la mia casa. E nel cervello un altro suono comincia a aprirsi, anch’esso segando, una galleria. "Le donne capaci" - così diceva Lady Astor nel "Times" di questa mattina - "vengono ostacolate in tutte le carriere a causa dell’inconscio hitlerismo nel cuore dell’uomo." E’ vero, siamo ostacolate. E questa sera siamo tutti prigionieri: gli inglesi nei loro aerei, le inglesi nei loro letti. Ma se lui smette un attimo di pensare, possono ucciderlo; e anche noi. Pertanto, pensiamo per lui. Cerchiamo di fare conscio l’inconscio hitlerismo che ci opprime. E’ il desiderio di aggressione; il desiderio di rendere schiavi. Perfino nel buio possiamo vederlo chiaramente. Vediamo le vetrine dei negozi illuminati a giorno, e le donne che guardano; donne incipriate; donne travestite; donne dalle labbra rosse e dalle unghie rosse. Sono schiave che cercano di rendere schiavi gli altri. Se potessimo liberarci dalla schiavitù, avremo liberato gli uomini dalla tirannia. Gli Hitler sono generati dagli schiavi.
Cade una bomba. Tutte le finestre tremano. I cannoni antiaerei entrano in azione. Là, sull’alto del colle, sotto una rete con pezzi appiccicati di stoffa verde e bruna, imitando i colori delle foglie d’autunno, si nascondono i cannoni. Ora sparano tutti insieme. Il giornale radio delle nove ci dirà: "Questa sera sono stati abbattuti quarantaquattro aerei nemici, dieci dei quali dal fuoco antiaereo." E una delle condizioni della pace, dicono gli altoparlanti, sarà il disarmo. Non ci saranno più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani non saranno più addestrati a combattere con le armi. Quello sveglia un altro calabrone nelle camere del cervello, un’altra citazione: "Combattere contro un nemico reale, meritare eterno onore e gloria uccidendo dei perfetti sconosciuti, e tornare a casa con il petto coperto di medaglie e di decorazioni, quello era il colmo delle mie speranze... A questo era stata dedicata, finora, tutta la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto..."
Queste sono le parole di un giovane inglese combattente nell’ultima guerra. Davanti a queste parole, possono credere onestamente i pensatori dell’accennata corrente che scrivendo "disarmo" su un pezzo di carta in una conferenza di ministri, avranno fatto tutto ciò che si doveva fare? Otello non avrà più occupazione, ma egli sarà sempre Otello. Quel giovane aviatore in cielo non è spinto soltanto dalle voci degli altoparlanti; è spinto anche dalle voci che ascolta in sé, antichi istinti, istinti incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione. Glieli dobbiamo forse rimproverare? Si potrebbe forse sopprimere l’istinto materno, perché così ha voluto un gruppo di politici? Supponiamo che fra le condizioni di pace ci fosse questa, imperativa: "L’esercizio della maternità sarà ristretto a una classe ridotta di donne accuratamente selezionate", forse sarebbe accettata? Piuttosto diremmo: "L’istinto materno è la gloria della donna. A questo è stata dedicata finora la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto..." Ma se fosse necessario, per il benessere dell’umanità, per la pace del mondo, che l’esercizio della maternità venisse ristretto, e l’istinto materno messo a tacere, forse le donne non si rifiuterebbero. Gli uomini le aiuterebbero. Onorerebbero queste donne per il loro rifiuto di generare. Aprirebbero altre possibilità al loro potere creativo. E anche questo deve essere parte della nostra lotta per la libertà. Dobbiamo aiutare i giovani inglesi a togliere dai loro cuori l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per coloro i quali cercano di dominare in se stessi l’istinto combattivo, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle sue armi.
Il rumore di sega sulle nostre teste aumenta. Tutti i riflettori puntano in alto, verso un punto sito esattamente sopra questo tetto. In qualunque momento può cadere una bomba in questa stanza. Uno due tre quattro cinque sei... passano i secondi. La bomba non è caduta. Ma durante quei secondi di attesa, l’attività del pensiero è cessata. E anche è cessato ogni sentimento, tranne un opaco timore. Un chiodo fissava tutto l’essere a un’asse di legno duro. L’emozione della paura e dell’odio è pertanto sterile, non fertile. Non appena la paura scompare, la mente affiora di nuovo e istintivamente cerca di rivivere creando. Siccome la stanza è al buio, può creare soltanto con la memoria. Si protende verso il ricordo di altri agosti, a Bayreuth, ascoltando Wagner; a Roma, passeggiando per la campagna romana; a Londra. Ritornano le voci degli amici; frammenti di poesia. Ognuno di questi pensieri, anche nella memoria, era assai più positivo, rinfrescante, consolatore e creativo di quanto non lo fosse quell’opaco spavento, fatto di paura e di odio. Perciò, se vogliamo compensare quel giovane della perdita della sua gloria e della sua arma, gli dobbiamo aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fabbricare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione, all’aperto. Ma a che cosa serve liberare il giovane inglese, se il giovane tedesco e il giovane italiano rimangono schiavi?
I riflettori, ondeggiando sulla pianura hanno trovato finalmente l’aereo. Da questa finestra si può vedere un piccolo insetto argentato che gira e si contorce nella luce. I cannoni sparano e sparano. Poi smettono. Probabilmente l’attaccante è stato colpito, dietro il colle. L’altro giorno, uno dei piloti riuscì ad atterrare in un campo qui vicino. In un inglese abbastanza tollerabile, disse ai suoi catturatori: "Come sono contento che la lotta sia finita!" Poi un inglese gli diede una sigaretta, e una inglese gli offri una tazza di tè. Questo starebbe a dimostrare che se si riesce a liberare l’uomo dalla macchina, il seme non cade in un suolo completamente sterile. Il seme può essere ancora fertile.
Finalmente tutti i cannoni hanno smesso di sparare. Tutti i riflettori si sono spenti. Il buio naturale della notte d’estate ritorna. Si sentono nuovamente gli innocenti rumori della campagna. Una mela cade per terra. Un gufo grida, spostandosi da un albero all’altro. E qualche parola quasi dimenticata di un vecchio scrittore inglese mi viene in mente: "I cacciatori si sono alzati in America... " Mandiamo dunque queste note frammentarie ai cacciatori che si sono alzati in America, agli uomini e alle donne il cui sonno non è stato ancora interrotto dal rumore della mitragliatrice, con la speranza che vengano ripensate, generosamente e caritatevolmente, e forse rimaneggiate fino a diventare qualcosa di utile. E adesso, in questa metà buia del mondo, a dormire.
1940, da The Death of the Moth
* Virginia Woolf, Romanzi e Altro, "I Meridiani" - Mondadori, pp. 871-876.
Sigmund Freud e l’omosessualità. La lettera ritrovata che svela il suo pensiero: "Non c’è niente di cui vergognarsi"
di Redazione *
Nel 1935, Sigmund Freud scrisse una lettera di risposta a una madre che gli aveva chiesto aiuto per il figlio gay. Nonostante le percezioni più ampie sull’omosessualità a quel tempo Freud aveva un approccio diverso: "Non c’è nulla di cui vergognarsi", scriveva alla donna.
"Deduco dalla tua lettera che tuo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non utilizzi questo termine quando dai informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo eviti?" scrive Freud. "L’omosessualità non è di certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante, non può essere classificata come una malattia, riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni sono stati omosessuali, molti dei quali sono stati grandi uomini".
Questa corrispondenza getta una luce sulle opinioni personali di Freud: è noto da tempo che non considerava l’omosessualità come una patologia. Credeva che tutti nascessero bisessuali e più tardi si orientassero verso l’etero o l’omosessualità. Nella lettera, Freud suggerisce che una "terapia" per trattare l’omosessualità può essere possibile, ma dice che il risultato "non può essere previsto".
La lettera è attualmente esposta a Londra nell’ambito della mostra alla Wellcome Collection. [...]
Ecco il testo integrale:
Cara signora,
deduco dalla sua lettera che suo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non usi mai questo termine nel darmi le informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo evita? L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante; non può essere classificata come una malattia; riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni erano omosessuali, tra di loro c’erano grandi uomini. (Platone, Michelangelo, Leonardo da Vinci, ecc).
È una grande ingiustizia perseguitare l’omosessualità come un crimine - e anche una crudeltà. Se non mi credete, leggete i libri di Havelock Ellis. Mi chiede se posso aiutarla, intendendo dire, suppongo, se posso sopprimere l’omosessualità e fare in modo che al suo posto subentri l’eterosessualità. La risposta è, in linea generale, che non posso promettere che questo accada.
In un certo numero di casi riusciamo a sviluppare i semi degradati delle tendenze eterosessuali, che sono presenti in ogni omosessuale, ma nella maggior parte dei casi non è più possibile. Dipende dal tipo e dall’età dell’individuo. Il risultato del trattamento non può essere previsto. Quello che l’analisi può fare per suo figlio è un’altra cosa. Se lui è infelice, nevrotico, lacerato da conflitti, inibito nella sua vita sociale, l’analisi può portargli armonia, pace della mente, piena efficienza, sia che rimanga un omosessuale, sia che diventi eterosessuale. Se si decide, può fare l’analisi con me - non mi aspetto che lo farete - lui deve venire a Vienna. Non ho alcuna intenzione di spostarmi da qui. Tuttavia, non trascurate di darmi una risposta.
Cordiali saluti con i migliori auguri,
Freud
Post Scriptum
Non ho trovato difficoltà a leggere la sua scrittura. Spero che non troverete la mia scrittura e il mio inglese difficile da leggere.
FILOSOFIA E PSICOANALISI: A GLORIA ETERNA DI FREUD. Con l’aiuto di Edipo, ha gettato una grande luce su Mosè e con l’aiuto di Mosè ha gettato una grande luce su Edipo. Con questo doppio movimento, egli ha liberato il cielo - e la terra....
Se dopo il Padre viene uccisa anche la Legge
All’inizio il capofamiglia sedeva sul trono e governava per il suo godimento. Poi i figli presero il potere e il loro rimorso creò le regole-totem del nuovo ordine. Nacque così il patto sociale con il suo tabù: nessuno occuperà in modo arbitrario il trono vuoto. Ora quel vuoto non solo non è riempito ma ha perso ogni significato
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 03.01.2016)
Il nostro tempo sembra cancellare ogni forma di tabù. La disinibizione e l’assenza di vergogna e di senso di colpa trionfano alla faccia del vecchio uomo del Novecento ancora preso dai grandi dissidi morali tra il bene ed il male, le ragioni individuali e quelle della Storia, il progresso e la tradizione, gli Ideali e la pulsione.
Le lacerazioni tragiche del Novecento hanno lasciato il posto ad un disincanto generalizzato che sembra aver annullato l’esperienza angosciata del tabù. Una vignetta clinica può darci il senso di quello che sta accadendo. È il caso di un giovane che, insieme a dei suoi compagni, nel corso di una rapina, ha ucciso brutalmente un anziano. Nel colloquio in carcere con lo psicologo dichiara che dopo aver commesso il crimine non ha avvertito alcun senso di colpa. La sua giornata è scivolata via come se niente fosse. Ha dormito profondamente, la mattina ha fatto colazione e si è recato normalmente a scuola. Tutto era come prima. Non siamo di fronte alla lacerazione dostoevskijana tra il senso della Legge e la sua trasgressione colpevole. Il delitto non sembra più in rapporto all’esigenza morale del castigo; la colpa non divora il criminale, non lo costringe all’insonnia, non lo tormenta.
Mentre l’uomo dostoevskijano vive il dramma dell’infrazione della Legge, il giovane criminale, dopo aver compiuto il delitto, si reca tranquillamente a scuola ridendo e scherzando con i suoi amici. Egli vive un altro genere di angoscia. Quale? La confida allo psicologo: la vertigine che lo ha assalito il giorno successivo al crimine - dopo essere stato arrestato - scaturisce dalla sensazione della inesistenza della Legge; ovvero, dalla percezione che tutto, senza la Legge, è diventato possibile; anche l’uccisione spietata di un uomo per qualche euro. Diversamente dall’uomo dostoevskijano che sprofonda nell’abisso del senso di colpa di fronte al volto severo e inflessibile della Legge, per questo giovane assassino l’angoscia scaturisce dalla dimensione totalmente inconsistente della Legge.
Siamo di fronte a un’esperienza che rovescia la genesi del tabù così come Freud l’aveva concepita nel 1913 in uno dei suoi testi più visionari qual è Totem e Tabù. In quel libro, sulle orme di Darwin, il padre della psicoanalisi aveva immaginato che la prima forma organizzata di vita umana avesse come protagonista un padre titanico, geloso e crudele, possessore di tutte le donne (il Padre dell’orda), che confondeva arbitrariamente la Legge col proprio godimento. Di fronte a questa tirannia permanente i figli-fratelli, ai quali era proibito l’accesso alle donne, decidono di allearsi uccidendo il padre e divorando il suo corpo in un pasto tribale. Il fatto che i fratelli si cibino delle carni del padre manifesta tutta l’ambivalenza del loro legame al padre: ucciso in quanto oggetto d’odio, ma sbranato in quanto oggetto d’amore affinché la sua potenza illimitata possa essere incorporata dai suoi figli.
Il termine “rimorso” trova qui il suo significato più profondo: divorando il corpo del padre temuto ma amato, i figli si sentono morsi dalla colpa. L’esito del rimorso è l’instaurazione del totem: il padre morto continua a vivere sebbene non più nella forma della tirannia capricciosa, ma in quella dell’autorità simbolica incarnata nel totem.
La sua morte è, dunque, all’origine del senso stesso della Legge; il totem diviene, al tempo stesso, oggetto di venerazione e di angoscia, commemorando l’assassinio del padre e il rimorso che esso ha suscitato. Da quel momento in poi, si instaura il divieto dell’incesto che obbliga tutti i figli all’esogamia. Il senso della Legge sorge come effetto retroattivo dell’atto parricida: mentre in Edipo il parricidio infrange la Legge conducendo il figlio verso l’abisso dell’incesto e della distruzione, in Totem e Tabù esso genera la Legge.
La vita democratica della Comunità si rende possibile solo attraverso il tabù che sorge in seguito all’uccisione del padre. È solo la morte del padre che pretende di essere la Legge, di fare coincidere la Legge con la sua volontà di godimento, a costituire la condizione della nascita di una Legge più umana e della Cultura stessa. Il patto sociale sostituisce il caos della violenza; la pulsione deve sublimarsi nel riconoscimento di una Legge che, trovando il suo fondamento nel padre morto, vale per tutti, non è più Legge ad personam. Nessuno può occupare il posto del padre morto perché si tratta di un posto destinato a rimanere vuoto. I totalitarismi del Novecento e i fondamentalismi di ogni genere mostrano, a rovescio, l’inferno che può generarsi dal suo riempimento fanatico.
Nel nostro tempo il rischio però non è quello di riempire il vuoto lasciato dal padre morto, ma, nella dissoluzione neo-libertina di ogni tabù, di fare venire meno il rispetto verso la Legge. È la vertigine che assale il giovane assassino: non esiste un argine, un limite, una barriera che possa contenere il suo atto. In questo modo l’assenza della Legge sembra diventare l’unica forma della Legge; se tutto diventa possibile, se dopo aver compiuto un crimine efferato tutto resta come prima - senza senso di colpa e senza rimorsi - non sarebbe forse necessario rivalorizzare il tabù come effetto della Legge?
La democrazia per Freud e Kelsen
di Giulio Azzolini (la Repubblica, 03.01.2016)
Qual è il legame che ha stretto Hans Kelsen e Sigmund Freud? Nel saggio edito da Morcelliana lo spiegano, con attenzione a testi, critica e storia, Federico Lijoi e Francesco Saverio Trincia.
Nel 1921 Freud invitò Kelsen alla “Società psicoanalitica di Vienna” per una conferenza sul rapporto tra lo Stato e la psicologia delle masse. I due dialogarono su rischi e potenzialità della democrazia. Se in Totem e tabù, i fratelli uccidevano il padre, nella storia erano le masse a voler distruggere le gerarchie aristocratiche. Ma non basta una rivoluzione per fare una democrazia. Il monito freudiano di “educazione alla realtà” e quello kelseniano di “educazione alla democrazia” risuonano preziosi e lontani.
L’analisi di Bori
E Freud propose un Mosè liberale
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, La Lettura, 03.01.2015)
L’ultima opera di Sigmund Freud è L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Il padre della psicoanalisi sottrae Mosè all’ebraismo e ne fa un principe egizio, che trasferisce al popolo d’Israele il concetto di monoteismo, elaborato dal faraone Akhenaton, e si pone alla sua guida. Viene però ucciso dal suo popolo di adozione e sostituito da un omonimo: nasce così il dualismo - tra sacerdoti e profeti, tra Yahweh e Adonài - che percorre la storia ebraica sino alla dicotomia tra legge e grazia di Paolo. Per Freud, il parricidio commesso dagli ebrei nei confronti di Mosè sta alla base della forza del fenomeno religioso, che rappresenta a livello sociale ciò che nell’inconscio individuale è il ritorno del rimosso.
Pier Cesare Bori, scomparso nel 2012, curò l’edizione italiana del saggio di Freud per Boringhieri nel 1977. Vent’anni dopo tenne una relazione, ora ripubblicata a cura di Gianmaria Zamagni ( È una storia vera? Le tesi storiche dell’uomo Mosè e la religione monoteistica di Sigmund Freud , Castelvecchi, pp. 48, e 6), in cui condensa il significato più duraturo dello scritto freudiano: la prospettiva di una religione liberale, priva di immagini e fondata solo sulla verità e sulla giustizia.
L’eredità di Freud
Nel 2015 c’è stato il centenario della pubblicazione di «Metapsicologia»: una raccolta di saggi di Freud, in cui sono definiti i concetti di «pulsione», «inconscio» e «lutto». Ha prodotto un cambiamento drammatico nel modo di concepire la nostra esistenza.
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 02.01.2016)
La pulsione e l’inconscio, nell’uso che ne fa Freud, sono concetti epistemologici che fondano un nuovo dominio di sapere e non oggetti di indagine scientifica diretta, fenomeni neurofisiologici di cui studiare sperimentalmente l’esistenza. Freud ha definito la pulsione (concetto limite tra il somatico e lo psichico) come rappresentante psichico degli stimoli corporei, la misura del lavoro che la psiche deve compiere, costretta dal suo legame con il corpo.
Il concetto di pulsione ha reso indirettamente conoscibile (mediante l’osservazione dei suoi effetti) la forte spinta corporea che sottende la nostra relazione con il mondo. Sotto l’effetto della spinta, l’essere umano si estroverte, si apre al mondo, può dare senso e direzione alla sua esistenza solo in modo trasformativo.
L’idea dell’inconscio precede Freud e la sua esistenza è oggi riconosciuta dalle neuroscienze. Ogni rappresentazione della realtà avviene in due modi interconnessi: uno segue il principio di piacere e, ignorando il tempo e il principio della non contraddizione, non ha accesso alla coscienza; l’altro segue il principio di realtà e può diventare cosciente. La loro relazione è regolata dalla «rimozione»: le rappresentazioni coinvolte in conflitti psichici sono confinate nel modo di pensare inconscio, dove sono tollerate e, se cercano di diventare coscienti, sono respinte.
Freud ha centrato il suo sguardo non direttamente sui processi mentali inconsci, in sé inconoscibili, ma sulle aeree, definite «propaggini», in cui essi penetrano nella coscienza. Ha reso così osservabili forme di pensiero miste, compatibili con la coscienza sul piano formale, ma incongrue sul piano del contenuto: fantasticare, lapsus, atti mancati, motti di spirito, sintomi e soprattutto sogni. Luoghi incerti di comunicazione tra l’inconscio e la coscienza, sedi di un equilibrio instabile tra la potenza destabilizzante del desiderio e le condizioni oggettive della sua soddisfazione. Misurano il conflitto tra la chiusura e l’apertura dell’essere alla vita.
Il conflitto tra due modi di relazionarsi con la realtà, ha il suo punto critico nel contrasto tra il soggetto e l’oggetto centrale del suo desiderio: un soggetto altro. Perché il contrasto non degeneri in lotta mortale, governata dal solo principio di piacere, è necessario perdere l’altro come oggetto della nostra volontà, riconoscerlo nella sua differenza.
Il lutto diventa il perno della nostra relazione con il mondo, il laboratorio della trasformazione che l’estroversione pulsionale (che muove il ritorno del rimosso) imprime alla nostra esistenza. Freud definisce il lutto come prolungamento psichico dell’esistenza dell’oggetto perduto, che consente il graduale distacco da esso, punto per punto. La differenza dell’oggetto - che causa la sua perdita - viene allora interiorizzata ed esso può essere investito in modo nuovo.
Quando, nell’incontro della domanda di piacere con la realtà, la chiusura del vivere ha la meglio sulla sua apertura, la relazione con altro è affidata all’identificazione narcisistica: la sua costituzione come protesi del soggetto. «L’ombra dell’oggetto cade sull’Io» e il conflitto con la diversità, può diventare perdita inesorabile che trascina il soggetto nella melanconia. Cercare di annullare il conflitto, appiattisce la relazione sull’inerzia, come testimoniano i nostri tempi incapaci di essere tristi.
La teoria dell’inconscio di Freud compie 100 anni
Concetto centrale psicanalisi, poi rivisitato e attualizzato *
Cento anni. Tanti ne sono trascorsi da quando Sigmund Freud ha concettualizzato le sue teorie sull’inconscio espresse nello scritto Metapsicologia del novembre 1915, gettando le basi per un concetto centrale della psicoanalisi che e’ stato poi attualizzato e rivisitato nel tempo. Nell’inconscio risiedono, secondo la teoria freudiana, pulsioni e contenuti rimossi che sfuggono alla ragione e condizionano i comportamenti degli individui senza che se ne rendano conto. Per comprenderne l’importanza può essere di aiuto proprio un’immagine di Freud, che paragono’il complesso della nostra psiche a un iceberg: la parte che affiora sopra l’acqua è la parte conscia, mentre tutta la parte sommersa è inconscia.
Sogni, lapsus e altro possono servire a comprenderne il funzionamento. "L’inconscio è il concetto centrale della psicoanalisi - spiega Elisabetta Marchiori, psichiatra e membro della Società Psicoanalitica Italiana (Spi) - Freud ha gettato le basi per una scienza che continua a esplorare, evolvendosi, le relazioni della coscienza con l’inconscio, quelle tra il mondo interno e il mondo esterno dell’individuo". "Nella psicoanalisi il concetto di inconscio si è evoluto e sviluppato nelle diverse teorie, in parte discutendo e rivedendo le ipotesi originarie freudiane, arricchendosi di un fertile lavoro di integrazione con le neuroscienze e le scienze cognitive" aggiunge, spiegando che "i casi descritti da Freud rimangono attuali: oggi le storie raccontate dai pazienti, il disagio psichico, si possono certamente differenziare, ma i conflitti e le vicissitudini più profonde dell’individuo non sono cambiate".
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Elisabeth Roudinesco.
Per ricostruire l’ambiente storico del fondatore della psicoanalisi mi ispirai a Le Goff
Intervista. "Insieme a Derrida organizzai nel 2000 gli Stati Generali della psicoanalisi: l’eco fu enorme, ma si spense presto"
di Fabrizio Palombi (il manifesto, Alias Domenica, 15.11.2015)
La sua biografia si aggiunge, oggi, ai numerosi studi già pubblicati in tutto il mondo su Sigmund Freud. Quale esigenza l’ha indotta a scriverla, e come riassumerebbe quel che differenzia il ‘suo’ Freud da quello di altri studiosi?
Avevo l’urgenza di studiare nuovamente Freud, in una prospettiva storica e perciò mi sono ispirata all’impostazione con la quale Jacques Le Goff ha scritto il suo libro su San Luigi, nel quale si mostra come il santo venisse pensato diversamente a seconda delle diverse epoche storiche. Volevo sottolineare la necessità e l’attualità di un nuovo «ritorno a Freud», che coinvolga, non tanto e non solo gli psicoanalisti, ma gli studiosi e il grande pubblico, oltrepassando sia le posizioni antifreudiane sia quelle idolatriche. Il mio lavoro intende evidenziare l’importanza della rivoluzione simbolica freudiana che ha inventato il soggetto moderno, il soggetto edipico.
Quando parla della necessità di un «ritorno a Freud», si richiama a una esortazione resa celebre da Jacques Lacan: in che modo la frequentazione dei testi dello psicoanalista francese ha influenzato i suoi studi su Freud?
Il ritorno di Lacan a Freud non riguardò la dimensione storica: il problema, piuttosto, era leggerlo in modo diverso da quello psicologizzante, in voga negli anni cinquanta. Non c’erano ancora, al tempo, studi approfonditi sull’ambiente viennese, mancavano circa vent’anni alla pubblicazione dello studio di Henri Ellenberger e non era disponibile il materiale conservato negli archivi della Biblioteca del Congresso di Washington, documenti che io invece ho potuto usare ampiamente e dei quali ho proposto un inventario. Un ritorno a Freud in chiave storica penso possa rappresentare anche una efficace risposta a quelle ricostruzioni diffamatorie che lo hanno descritto, di volta in volta, come cocainomane, dittatore, reazionario o filonazista.
Nella sua autobiografia, pubblicata nel 1994, lei descrive gli incontri con grandi intellettuali della seconda metà del Novecento: Lacan, Foucault, Althusser, Derrida. Quali sono i ricordi più significativi che associa a ciascuno di loro?
Lacan lo conoscevo benissimo sin da bambina, perché era un amico di mia madre, anche lei psicoanalista. Successivamente, la pubblicazione dei suoi Scritti mi permise di scoprire il clinico e l’intellettuale, che trovai straordinari. Non ho mai avuto una conoscenza personale di Foucault però ho seguito un suo seminario all’università di Vincennes: il suo duplice versante, di storico e di filosofo, gli trasmetteva un grande fascino. Althusser l’ho incontrato nel 1972: era un uomo adorabile, un amico che mi ha incoraggiato a scrivere e ha avuto un ruolo importantissimo nella mia vita. Derrida l’ho conosciuto più tardi, nel 1986, e l’ho stimato molto sebbene avessi inzialmente criticato severamente i suoi testi e il suo orientamento filosofico.
In dialogo con Jacques Derrida ha scritto un libro, intitolato «Quale domani?», il cui primo capitolo riprende la questione dell’eredità, molto cara al filosofo francese. Anche lei concepisce i suoi lavori storici, e dunque questa recente biografia di Freud, come un lascito necessario a orientare le nuove generazioni?
Derrida ci ha lasciato una grande eredità insegnandoci che il modo migliore per essere fedeli a un maestro è quello di essergli infedeli: bisogna essere capaci di ammirare e di criticare contemporaneamente un autore per scriverne qualcosa d’interessante. Una delle esperienze che più mi ha segnato, nel mio rapporto con Derrida, è stata l’organizzazione degli Stati Generali della psicoanalisi nel 2000. Ne risultò una formidabile discussione, con studiosi provenienti da trentacinque paesi: al momento l’eco fu enorme, ma poi, purtroppo, andò rapidamente ad affievolirsi.
Dopo, ho avuto la sensazione che gli psicoanalisti si siano ritirati dalla vita intellettuale e scientifica pubblica, rifugiandosi nelle proprie scuole, incapaci di rispondere, nel senso derridiano, alle grandi questioni poste dagli Stati Generali: è il sintomo di una più generale loro inadeguatezza a fronteggiare l’altezza delle trasformazioni del mondo contemporaneo. Hanno condotto battaglie molto giuste contro gli eccessi della psichiatrizzazione e quelli dei trattamenti farmacologici senza però riuscire a rilanciare un confronto culturale con i nuovi problemi e saperi che sono andati affermandosi negli ultimi decenni. Alcuni hanno pensato di trovare conforto nelle neuroscienze: una scorciatoia teorica alla quale non sono favorevole perché dissolve l’autonomia e la specificità della psicoanalisi. Altri hanno attuato una sorta di ripiegamento estetizzante e apolitico, dedicandosi soprattutto agli studi letterari. Oggi si accontentano di essere psicoterapeuti senza interessarsi più alle questioni storiche e teoriche.
Lei racconta di aver seguito le lezioni tenute da Gilles Deleuze, di cui ricorre quest’anno il ventennale della morte, poco prima dell’uscita dell’Anti-Edipo nel 1972: come lo ricorda?
Sì, sono stata un’allieva di Deleuze all’università di Vincennes: era un insegnante straordinario, che riusciva a far saltare ogni forma di dogmatismo. Non ero d’accordo con lui su molte cose e, in particolare, sulla sua proposta di interpretare l’inconscio come fabbrica e non come tragedia. Le tesi dell’Anti-Edipo, ferma restando la grandezza del libro e il valore della sua scrittura, sono secondo me piuttosto insostenibili.
La ricerca storica sul passato recente si avvale dell’analisi dei documenti ma anche della voce dei testimoni diretti. Quanto hanno contato per lei le fonti, e quanto i testimoni? E come pensa si potrà andare avanti nella ricostruzione storica, per esempio della Shoah, ma non solo, ora che la generazione dei testimoni si va estinguendo?
Oggi, in tutto il mondo, sono rimaste poche le persone che hanno potuto conoscere Freud nella loro infanzia. Nella mia biografia, le testimonianze dirette hanno contato pochissimo anche se mi sono avvalsa del grande lavoro fatto da Kurt Eissler che ne ha trascritte tante. Al contrario, nel lavoro che ho dedicato a Lacan, ho potuto contare su duecento testimonianze di persone che l’avevano conosciuto. Si teme che la scomparsa degli ultimi sopravvissuti alla Shoah possa provocare un indebolimento della memoria collettiva di questa immane tragedia. Credo si tratti di una paura infondata perché i testimoni hanno già raccontato le loro dolorose vicende, che sono state trascritte. Non credo assolutamente che la morte degli ultimi sopravvissuti ai campi di sterminio potrà agevolare l’antisemitismo.
Lei torna sulla sua avversione a ogni forma di discriminazione e, in particolare, all’antisemitismo, anche nel capitolo della sua biografia dedicata a Freud intitolato «Di fronte a Hitler». La recente pubblicazione dei «Quaderni neri» di Heidegger ha ridimensionato la sua considerazione del filosofo tedesco?
Sono serena di fronte a questa questione, forse perché non sono mai stata heideggeriana. Il nazismo di Heidegger era già conosciuto fin dal 1933 e questo ha provocato un dramma imponendo subito a Karl Jaspers, Hannah Arendt e ai contemporanei di Heidegger un’inquietante domanda: in che modo l’autore di Essere e tempo ha potuto trovare nel nazismo una consonanza con il suo pensiero? Nel secondo dopoguerra tentò di presentarsi come una vittima mentendo sul suo passato nazista, ciò che ne fa ai miei occhi una persona esecrabile: si atteggiava a vittima senza aver mai speso una sola parola sullo sterminio degli ebrei. Ma è grottesco che in Francia si debba affrontare un affaire Heidegger, ogni dieci anni. -Ciclicamente si sostiene che è stata nascosta la compromissione di Heidegger con il nazismo; ma è una mistificazione. Il brutto libro di Victor Farias, pubblicato nel 1987 e dedicato a questo problema, non deve essere letto solo come un attacco contro il filosofo tedesco ma anche contro Derrida, considerato come uno dei massimi esponenti dello heideggerismo francese.
I Quaderni neri aggravano la posizione di Heidegger non solo per il loro contenuto antisemita ma per la loro collocazione nella successione dei volumi delle sue opere complete. Facendoli stampare nell’ultima parte delle Gesamtausgabe Heidegger stesso ha contribuito a nazificare per la posterità la sua opera che, invece, può essere letta in un’altra luce.
Ho toccato questo problema in alcune pagine del mio libro riguardanti l’antisemitismo di Heidegger che, tra l’altro, detestava Freud, perché sosteneva fosse il fondatore di un modo di pensiero, incompatibile con quello dell’essere, che tendeva a spiegare ogni cosa in termini puramente istintuali. Non credo che la filosofia di Heidegger sia completamente indenne dalle sue scelte politiche, anche se, come ha detto Derrida, la si può leggere in un altro modo: a condizione farsi carico di questo problema spaventoso.
Sta per terminare il 2015, l’anno in cui il saggio freudiano sull’«inconscio» ha compiuto un secolo, segnando una svolta fondamentale nel sapere sull’uomo. A suo parere, esistono ancora, da un punto di vista teorico, margini di lavoro sul concetto di ‘inconscio’?
Sicuramente ce ne sono molti anche se non condivido alcuni di quelli al centro dell’attuale dibattito psicoanalitico. Penso, innanzitutto, alla questione dell’inconscio originario, un ‘oltre’ l’inconscio, che sarebbe all’origine della psicosi; è una prospettiva di ricerca che riconduce il dibattito sul trauma e la seduzione infantile a un’interpretazione giustamente abbandonata da Freud. Credo si tratti di una china pericolosa che ha condotto alcuni, come Jeffrey M. Masson negli Stati Uniti, a interpretare tutti i traumi infantili come effetti di abusi di tipo sessuale. Un altro tipo di ricerca sull’inconscio, molto attuale, lo interpreta in senso neurologico e cognitivo tentando di trovare nei neuroni la conferma di alcune ipotesi di Freud. Non credo sia una strada giusta perché si confrontano indebitamente oggetti di studio appartenenti a ambiti completamente diversi: di certo non è possibile trovare la sede dell’inconscio psicoanalitico nei neuroni.
I DUELLANTI di Joseph Conrad. Un invito alla lettura
di Francesco Bollorino (Psychiatry-on-line, 5 novembre, 2015)
Credo che in tanti conoscano la storia raccontata nel romanzo breve di Conrad “The Duel, A Military Tale” scritto nel 1907 durante un breve soggiorno dell’autore nel sud della Francia a Montpellier.
In tanti, infatti, anche per merito degli innumerevoli passaggi televisivi, hanno visto e penso ammirato lo splendido film di esordio, “I Duellanti”, di Ridley Scott ispirato in maniera molto precisa al testo da cui non si distacca mai se non come vedremo nel finale.
La critica ha sempre considerato questo racconto come un’opera minore del genio anglo-polacco, lontana dagli abissi di un Lord Jim, di un Cuore di Tenebra o di Linea d’Ombra eppure nella sua apparente e magistrale, per me, levità della scrittura il testo merita non solo un’attenzione diciamo così letteraria ma pure una attenta riflessione di natura psicoterapica che mi ha portato a proporlo essenzialmente come un invito alla lettura e alla sua scoperta ai lettori di Psychiatry on line Italia.
La storia, che prende spunto da un episodio vero scoperto casualmente dall’Autore leggendo un giornale, narra di un duello durato 15 anni tra due ufficiali napoleonici che attraversano l’avventura militare di Napoleone iniziando a sfidarsi a Strasburgo e continuando a farlo in ogni occasione possibile, pur procedendo nella loro carriera militare ma non per questo restii a sfidarsi ogni volta che la cosa è possibile senza che in realtà vi sia una vera “ragione” per farlo in una logica dove il conflitto cruento diviene una sorta di ragione di vita per entrambi pur nella differenza notevole dei caratteri e dei modi: aristocratico e compassato D’Hubert, irrefrenabile e cocciuto Feraud, accomunati però da un unico destino militare e personale. Sullo sfondo la storia dell’Impero dalla sua ascesa alla sua rovinosa caduta.
Nonostante la Critica, come dicevo, lo collochi tra le opere minori di Conrad sottolineando come rispetto ai suoi romanzi maggiori il racconto “pecchi” in profondità e in significato simbolico io trovo invece che la libertà di scrittura che Conrad si è regalato nell’inverno del 1907 e la scrittura di getto (molto diversa dal suo lavoro usuale meticolosissimo anche per l’uso di una lingua appresa l’inglese rispetto alla lingua madre polacca) ci abbiano regalato un piccolo capolavoro che merita l’attenzione SPECIALMENTE di chi si occupa di salute mentale.
Fiumi di inchiostro sono stati usati per commenti e interpretazioni psicoanalitiche dei Romanzi di Conrad, che in effetti si prestano molto bene ad approfondimenti di tal fatta.
Eppure come scrive Giorgio Montefoschi sul Corriere della Sera (23 settembre 2002): “Conrad pubblicò per la prima volta in volume Cuore di tenebra, presso l’ editore Blackwood, nel 1902. In realtà, il romanzo era già apparso a puntate, in rivista, nel 1898. In quegli stessi anni - uscì, senza calorose accoglienze, nel 1899 - Freud scriveva l’Interpretazione dei sogni. E’ difficile immaginare che i due si conoscessero. Certo è che la coincidenza non è affatto casuale: se è vero che le idee profonde circolano come fiumi carsici nelle viscere della terra e - simili alle ninfe dell’ antichità, trasformate in sorgenti che s’ inabissano - riemergono, magari contemporaneamente, a Londra e a Vienna”.
Pure “I duellanti” non si sottrae a parer mio a questa carsicità offrendoci anzi una lettura, ancorchè involontaria, but who does care of it?, di assoluta impronta psicoterapica.
Sotto le mentite spoglie di un’assurda faida personale intrisa di onore, aggressività, accettazione ineluttabile, si cela per me, nelle pagine del racconto, la teatralizzazione del conflitto nevrotico e la chiave di soluzione dello stesso con una mirabile aggiunta che definirei “tecnica” nel suo bellissimo finale.
Cosa è infatti questo infinito duello tra gli ufficiali D’Hubert e Feraud se non la rappresentazione del conflitto tra l’emergere delle pulsioni inconsce e il tentativo frustrato dell’Io di incanalarle verso qualcosa di meno distruttivo o insensato del sintomo?
Feraud è l’Es, D’Hubert è l’Io incapace di costruire difese adeguate perché affascinato e legato alle sue pulsioni che gli impediscono di crescere fino al drammatico e catartico finale.
Come in un ritorno del rimosso Feraud ricompare, intatto nella sua cieca ferocia, nella vita apparentemente rasserenata di Armand D’Hubert costringendolo, direi spingendolo a ricominciare come se nulla in 15 anni fosse cambiato tra loro. Nell’ultimo duello i due contendenti si affrontano rincorrendosi tra le rovine di un castello con due pistole in mano ma Feraud sbaglia i due colpi a sua disposizione e si ritrova davanti D’Hubert con le pistole cariche.
Ecco il passo del testo:
“Il Generale D’Hubert abbassò con cura il cane delle pistole. L’operazione fu osservata dall’altro generale con sentimenti contrastanti.
“Mi hai mancato due volte - disse freddamente il vincitore - l’ultima da quasi mezzo metro. Stando alle regole dei duelli, la tua vita mi appartiene. Questo non significa che voglia togliertela ora”
“Non so che farmene della tua indulgenza” - boffonchiò cupo il generale Feraud.
“Permettimi di farti notare che la cosa mi lascia affatto indifferente. - disse il generale D’Hubert. (...) - Non avrai la pretesa di dettarmi casa devo fare di ciò che è mio”
Il generale Feraud parve stupito e l’altro riprese: “Mi hai costretto per un punto di onore a tenere la mia vita a tua disposizione, diciamo così per quindici anni. Benissimo. Ora che la questione si è risolta in mio favore, io farò della tua quanto mi pare e piace, in base allo stesso principio. La terrai a mia disposizione finchè ne avrò voglia. Né più né meno. Ritieniti vincolato sul tuo onore fino a nuovo ordine. (...) Non posso certo stare a discutere con uno che, per quanto mi riguarda, ha cessato di esistere”.
Conrad reifica nel racconto la risoluzione del conflitto interiore che può avvenire solo se l’Io e, io aggiungo, il terapeuta riesce a parlare alle pulsioni con il loro linguaggio che non può essere tradotto per essere compreso e divenire efficace. Ridley Scott sceglie di finire la storia qui mentre Conrad sceglie di andare avanti e inserisce nel finale il concetto di integrazione che sola può garantire una equilibrata vita ad ognuno di noi.
Riconoscere le nostre parti bambine e bisognose come un pezzo della nostra storia che ci ha portato ad essere ciò che siamo da adulti: tutto questo è detto nel magnifico finale che inserisco alla fine di questa che più che una recensione è un caldo invito alla lettura di un racconto che forse troppo pochi conoscono.
(...) «Se uno dei nomi del vostro bambino fosse stato Napoleone, o Giuseppe, o anche Gioacchino, avrei potuto congratularmi con te per il lieto evento con più cuore. Siccome hai stimato bene di dargli i nomi di Charles, Henri, Armand, io rimango confermato nella mia convinzione che tu non hai mai amato l’Imperatore.
Il pensiero di quel sublime eroe incatenato a una roccia nel mezzo dell’Oceano selvaggio rende per me la vita così scarsa di valore che con vera gioia riceverei il tuo ordine di bruciarmi le cervella.
Il suicidio, ritengo, mi è vietato dall’onore. Ma tengo la pistola carica nel cassetto.».
Madame la Générale D’Hubert alzò le mani al cielo disperata, dopo la lettura di quella risposta.
« Vedi? Non vorrà mai riconciliarsi,- disse il marito - Bisogna che mai, a nessun costo, riesca a sapere da chi gli arriva il danaro. Sarebbe terribile. Non reggerebbe.»
« Sei un brave homme, Armand » - disse Madame la Générale, con ammirazione.
«Mia cara, io avevo il diritto di bruciargli le cervella; ma non avendolo fatto, non possiamo lasciarlo morire di fame. Ha perduto la pensione ed è assolutamente incapace qualsiasi cosa al mondo per se stesso. Dobbiamo prenderci cura di lui, in segreto, sino alla fine dei suoi giorni. Non devo forse a lui il momento più estasiato della mia vita?...............Senza la sua stupida ferocia, mi sarebbero occorsi degli anni per scoprirti. E’ straordinario come quell’uomo in un modo o nell’altro è riuscito a legarsi a miei sentimenti più profondi.».
Sigmund Freud
Un drammaturgo erede di Shakespeare
La biografia di Freud di Élisabeth Roudinesco
L’uso della cocaina, le sfide feroci con i colleghi, le lettere alla moglie
Il mito dello psicoanalista oggi sopravvive ancora in talent e serie tv
di Giancarlo Dimaggio (Corriere della Sera - La Lettura, 01.11.2015)
Leggo l’ultima biografia di Freud con una domanda che mi risuona nella testa: cosa ha permesso all’immagine di quest’uomo di sopravvivere con tanto successo alle sue stesse idee? Perché se a X-Factor Mika si improvvisa psicologo, neanche male, Fedez commenta: «Gli è stato infuso qualche gene di Freud durante la notte da qualche alieno»?
Lo osservo agire. Freud che scrive lettere alla futura moglie Martha, protestando perché non sente il suo amore casto ricambiato con la stessa intensità. Freud che sperimenta la cocaina confidando di stare per compiere una scoperta scientifica rilevante. Freud e l’avversario, il nemico-amico di cui sempre avrà bisogno, un doppio nel quale specchiarsi e un traditore dal quale difendersi. Lo stampo: il nipote John, compagno di giochi dell’infanzia. L’esempio più compiuto: Jung. Quasi li vedo a Brema, nel 1909, pronti ad imbarcarsi alla conquista dell’America. Al ristorante, Jung interrompe l’astinenza dal vino dopo anni. Freud lo interpreta come un atto di fedeltà a lui.
A cena Jung racconta di leggende: corpi mummificati di uomini preistorici. Freud per tutta risposta ha una sincope. Al risveglio, spiega a Jung e Ferenczi, uno dei suoi allievi più brillanti - la psicoanalisi di oggi gli somiglia - che il racconto indica come in Jung alberghi il desiderio di un figlio di uccidere il padre. Jung reagisce rabbiosamente: accusa Freud di delirare. Sulla nave continuano un gioco che mille volte ho visto fare nei primi anni della mia formazione: l’interpretazione reciproca. Non richiesta. Un modo raffinato di insultarsi. Jung racconta un sogno: due crani umani sul suolo di una grotta. Freud insiste: desideri la mia morte. Jung dissentiva. Si delineava la rottura. Freud che in quello stesso viaggio si diverte all’idea di come le sue idee sulla sessualità umana avrebbero scandalizzato gli americani, ai suoi occhi anime semplici e puritane. A Central Park Freud ha un problema urinario, cose che in viaggio succedono. Jung rintuzza e interpreta: desiderio di attirare l’attenzione.
Nella biografia scritta, con troppi dettagli, da Élisabeth Roudinesco, Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro , scene come queste si susseguono senza pause. La costruzione della «Società psicologica del mercoledì». Le battaglie intellettuali contro gli eretici: Adler, Reich. Il senso perenne della scoperta, il piacere della costruzione di un sistema di pensiero. La hybris del non volerla ricondurre ad altro: non psicologia, non neurologia, non semplice filosofia. Psicoanalisi. Aveva l’intelligenza e l’ambizione sufficienti, e il carattere testardo e tirannico lo aiutavano. La curiosità febbrile della scoperta di un mondo nascosto nei meandri dei lapsus e dei sogni delle sue pazienti isteriche. La convinzione di offrire una cura efficace, potente, inaudita.
Il ruolo di Freud nella psicoterapia moderna è diventato marginale. Molte correnti di psicoanalisi seguono pratiche lontane dal maestro. Le psicoterapie dinamiche, di matrice psicoanalitica, hanno riferimenti più freschi. Ero a Montreal il mese scorso, per il congresso sui disturbi di personalità - la diagnosi che riceverebbero oggi tanti dei pazienti da lui trattati. Nessun collega lo ha citato, neanche quelli che lavorano all’Anna Freud Centre. Per capire come curare l’animo si pesca in laghi diversi. La psicoanalisi è in crisi tremenda, di praticanti e di pazienti. Leggiamo i fenomeni clinici inforcando lenti differenti.
Roudinesco riporta una delle osservazioni di Freud più studiate, il gioco «Fort-Da». Protagonista il nipotino Ernst, diciotto mesi. Quando la madre si assentava giocava col rocchetto legato alla cordicella. Lo lanciava emettendo un «ÔÔÔÔÔ» che significava «Fort», partito. Poi lo richiamava a sé con un «Da», ecco. Secondo Freud era un modo di padroneggiare il dolore, esprimere sentimenti ostili e vendicarsi della madre.
Una spiegazione che ormai consideriamo contorta. Meglio leggerla nel linguaggio di John Bowlby, ideatore della teoria dell’attaccamento e psicoanalista mal tollerato dalla sua comunità quando emerse. Il bambino soffre, normalmente, per l’allontanamento della madre. Si arrabbia? Niente di strano se gli si toglie l’oggetto d’amore indispensabile. Il gioco del rocchetto simulava l’allontanamento della madre, la convinzione che la madre sarebbe tornata e la gioia anticipatoria. Poi la madre morirà. Il bambino ha bisogno di mantenere il legame simbolico. Allontana il rocchetto e lo recupera. Ha bisogno di farlo, il dolore della perdita è troppo intenso. E forse in famiglia non lo avevano aiutato a esprimerlo, ci chiederemmo con curiosità attuali.
Freud che si scontra con Pierre Janet, lo psicologo che prima di lui spiegò i sintomi isterici. Janet lo sfida nel 1913 a Londra: io ho formulato da anni i concetti di analisi psicologica e subconscio. E meglio. Janet è oscurato da Freud, diventa una nota a margine dei libri di psicologia per decenni. Bowlby faticò a restare nella società di psicoanalisi. Hanno avuto la loro rivalsa, la psicoterapia che pratichiamo è quella ispirata a Janet e Bowlby, molto più che a Freud.
A questo punto la domanda mi ritorna in mente. Come mai nessuno ha preso il suo posto nell’immaginario collettivo? Cosa ha permesso a Freud di sopravvivere alla messa in mora delle sue idee? Molte riposte possibili, nessuna decisiva. Una tra tante: Freud come erede di Sofocle e Shakespeare. La tragedia riscritta in forma di sistema di pensiero. Per dire, in linea ereditaria, dopo di lui c’è Il padrino . Ma il mondo dell’arte inizia a guardare altrove, anche se Woody Allen è produttivo, Bertolucci indimenticabile e Dalì contrabbanda sogni perturbanti negli studi professionali.
Freud sopravvive ne In treatment - versione americana, i consulenti italiani non sono all’altezza del compito - storie di uno psicoanalista aggiornato che riesegue alcuni canoni dell’analisi classica (la serie televisiva, con Sergio Castellitto, è trasmessa da Sky). Gli sceneggiatori aprono altri libri. Inside out, splendido: un trattato di psicologia cognitiva delle emozioni reso narrazione. Lie to me: le espressioni facciali tradiscono la verità, le emozioni non mentono. La teoria di Paul Ekman - e Darwin - diventata strumento investigativo. Criminal minds: analisi del comportamento psicopatico basato sulle scienze della personalità.
L’oscuro oggetto del desiderio e l’analista
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 31.10.2015)
Il controtransfert è la reazione dell’analista al “ transfert” del paziente. Il transfert è la tendenza universale a trasferire nelle relazioni significative della vita aspetti conflittuali rimossi della propria infanzia nella speranza che possano essere risolti. Anche il controtransfert ha carattere universale: ci relazioniamo con le persone a cui siamo affettivamente legate, accettando, inconsciamente, di abitare, in parte, la scena della loro storia obliata.
L’analisi è impostata in modo da facilitare lo sviluppo di entrambe le correnti, che sono fatte della stessa materia del sogno, il luogo in cui i vissuti rimossi tornano alla vita. Attraverso la comprensione del posto che inconsciamente occupa, di volta in volta, nella storia del paziente, che torna al presente, l’analista può accedere alla natura più profonda della domanda che gli è rivolta. Ciò gli consente anche la riparazione delle aree di una propria cecità nei confronti della relazione, l’elaborazione della riluttanza ad affrontare questioni che attivano i propri conflitti inconsci.
L’analista è impegnato in modo più diretto quando incontra il paziente a partire dal proprio desiderio e mette in discussione il proprio modo di essere nel mondo. L’analisi riceve dalla madre del paziente in eredità il modo in cui lei l’ha accolto. La madre accoglie il bambino in due modi opposti. Per certi aspetti proietta su di lui parti irrisolte di sé e, affidandogli un ruolo messianico, rimanda al futuro, in modo consolatorio, l’incontro con l’inconsueto.
Nella direzione opposta, il nuovo arrivato attiva in lei il desiderio di rimettersi in gioco, accettando le perturbazioni necessarie di cui è foriero il cambiamento. Più la madre (sostenuta dal padre) riesce a mantenersi nella seconda prospettiva, più il bambino è vivo e desiderabile e la madre gode della riapertura dei propri confini con la vita.
L’analista deve farsi carico di situazioni in cui la madre non è riuscita a far sentire il figlio pienamente autorizzato a essere vivo per conto suo. Nelle condizioni più drammatiche il paziente lotta per evadere dalla prigionia di uno sguardo esterno alla sua soggettività, che ha preconfezionato la sua posizione nel mondo. Non può farlo se non destabilizza l’assetto dell’analista, obbligandolo a uscire dal suo centro di gravità, a esporsi, rischiare. L’analista è in difficoltà: la persona che cura si è posta fuori dall’obnubilamento della propria esistenza e non vuole essere interpretata, ma vista come se fosse arrivata al mondo per la prima volta.
La domanda del paziente, inevitabilmente contraddittoria e confusa, disorienta. L’analista rischia una crisi perturbante d’identità, la confusione dei propri interessi con quelli dell’altro (il caso di Jung con la Spielrein). Tuttavia, questa è per lui l’opportunità di andare oltre la paura che oscura il nostro oggetto di desiderio, al punto di fare dell’oscurità la cosa desiderata.
Scoprire che l’irriducibile differenza dell’altro, percepita come minaccia di destabilizzazione della propria identità (il fondamento della paura), è per costui l’unica possibilità di sentirsi vivo. Chi è veramente vivo non ci minaccia, il pericolo viene dalla non vita che invade la vita. Liberare la vita dalla morte, attraversando una crisi delle proprie vedute, è la vocazione di fondo dell’analista.
Le “geografie della psicoanalisi”
sabato alla Luiss
la Repubblica, 01.10.2015
ROMA. Si intitola Geografie della psicoanalisi (Psychoanalysis in the world - Crosses between cultures) il convegno che si terrà sabato 3 ottobre a Roma, nell’Aula Chiesa dell’Università Luiss “Guido Carli”, in Viale Romania.
Un incontro che intende affrontare la problematica delle interconnessioni tra la psicoanalisi e le varie culture del mondo. Tra i temi della discussione, il modo in cui culture lontane - Asia, paesi arabi e dell’Est Europa - rispetto a quella occidentale dove la psicoanalisi è nata e si è sviluppata possano portare nuovi apporti alla disciplina. E se, tramite le loro specifiche mitologie, siano in grado di dare una nuova e diversa visione dell’uomo proposta finora dalla psicoanalisi.
Ci si interrogherà, poi, sul fatto se ci siano o meno dei principi universali sui quali si basa la visione della mente che la psicoanalisi propone. La partecipazione è gratuita e aperta a tutti.
Domenico Comparetti
La disgrazia edipica
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04.01.2015)
L’oracolo predisse che Edipo avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre: per tale motivo fu abbandonato alla nascita (e poi salvato e adottato da Polibo, re di Corinto). Quel complesso che porta il suo nome, individuato da Freud nel 1910, è l’insieme degli affetti che il bambino prova verso i genitori. Domenico Comparetti (1835-1927), celebre per l’opera Virgilio nel Medioevo (reperibile soltanto in antiquariato), professore di letteratura greca a Pisa tra il 1859 e il 1872, tenne un corso sulla leggendaria figura: ora tali pagine rivedono la luce con il titolo Edipo e la mitologia comparata.
Questo studioso, straordinario conoscitore di lingue, analizzò sino alle possibili etimologie sanscrite il mito e si chiese se il fatale appuntamento con la Sfinge (in Egitto rappresentata con il corpo maschile e la testa leonina) fosse credibile, se Edipo rispose all’enigma che essa gli pose, se la stessa idea di Sfinge preesistesse o no al mito, se l’episodio del loro incontro è da considerarsi aggiunto o ne sostituì un altro. Codesto mostro, che per i Greci nacque da un’unione tra Echidna e suo figlio Ortro, divorava i passanti presso Tebe se i malcapitati non riuscivano a risolvere l’enigma che poneva.
Comparetti ricorda che nell’Odissea - nell’XI libro si trovano riassunte in pochi versi le disgraziate avventure di Edipo - non si fa parola della creatura mostruosa; allo stesso modo sottolinea come l’autorevole Esiodo, che li cita entrambi, nella Teogonia offra un catalogo di esseri dalle caratteristiche lontane dall’ordine naturale, dei quali è detto anche chi li vinse, «ma della Sfinge ciò si tace».
Edipo, etimologicamente «dai piedi gonfi», divenne immortale dopo le citazioni di Omero e con le tragedie di Sofocle e Euripide; Comparetti, riferendosi al libro di Michel Bréal, Le Mythe de Oedipe, pubblicato a Parigi nel 1863, ricorda che può essere collegato ai miti solari. Ma è un semplice dettaglio.
Le sue conclusioni sul significato di Edipo sono utili al mondo odierno più che ai filologi: «Una fatale combinazione può, indipendentemente dalla volontà, spingere a commettere delitti gravissimi. Può un uomo, senza volerlo e senza saperlo, essere delittuoso, e andare quindi soggetto a tutte le conseguenze del delitto» (pag. 46).
Di più. Per lo studioso il racconto esprime il concetto con un caso di ordine puramente umano, al quale la divinità non ha parte, se non come tutrice delle leggi morali. E afferma: «Male morale e danno, male che si fa e male che si soffre, si identificano per il greco e, identificati, si esprimono con un’unica parola: Ate, disgrazia».
Inseparabile compagna dell’umanità, spiega meglio di altri termini gli effetti delle nostre azioni, delle quali non sappiamo prevedere le conseguenze più o meno remote. Già, la dea Ate: Omero nell’Iliade (XIX, 91-94) la descrive: non tocca la terra e cammina leggera sui mortali e sugli dei inducendoli in errore. Fa loro commettere il peccato di hybris, ovvero tracotanza generata dall’assenza di misura.
Filosofia politica
L’ansia scientifica di Freud
di Sebastiano Maffettone (Il Sole Domenica, 07.12.2014)
Francesco Saverio Trincia, che insegna Filosofia Morale alla Sapienza (Roma), è l’autore di questa monumentale opera su "Freud". Non mancano di certo libri e articoli scientifici, come non mancano le polemiche spesso tanto virulente quanto superficiali, sulla psicoanalisi e il suo autore. Ma questo volume ha caratteristiche, che lo rendono particolarmente utile, del tutto diverse dal solito. Trincia ha deciso di presentare Freud nella sua integrità e complessità, e di farlo in maniera insolita in specie per un filosofo come lui che ha dedicato parecchi lavori alla psicoanalisi.
Il libro è diviso così in quattro parti, Biografia, Analisi delle opere, Concetti-chiave e Storia della ricezione, senza nulla concedere alle tesi filosofiche dell’autore che solo emergono indirettamente dalla lettura delle pagine dedicate a Freud, oggetto unico e incontrato dell’opera.
Le osservazioni di Trincia sulla biografia di Freud, e sull’importanza di discuterla alla luce di quanto la psicoanalisi ci dice sul rapporto tra persona e azione, sono pertinenti e acute. Anche la sua rilettura della ricezione di Freud è interessante e non manca di entrare nel vivo di dibattiti talvolta complessi e animati. Lo stesso si può dire della disanima dei concetti chiave del pensiero freudiano.
Ma la parte fondamentale di questo libro è senza dubbio costituita dalla analisi delle opere. Trincia ha infatti avuto l’ardire, non si può dire altrimenti, di presentarle al lettore una alla volta. Per chiunque abbia visto anche da lontano in una biblioteca il corpus delle opere freudiano è immediata la sensazione di stupore ammirato che un’impresa titanica del genere suscita. Si va così dai primi studi sull’isteria e il famoso (anche perché riletto da Lacan e Derrida) Progetto del 1895, ai grandi capolavori della psicoanalisi quali L’Interpretazione dei Sogni e La Psicopatologia della vita quotidiana, per andare infine sulle opere più direttamente culturali, quali Totem e Tabù e la Psicologia della masse. E così via.
La rilettura di Trincia è pacata, ma ovviamente non manca di esprimere una opinione di fondo. Freud è per lui un «romantico progressivo», volendo dire che le sue radici sono nel romancticismo anche se in Freud c’è un’ansia scientifica che lo trascende. Se non sbaglio, questa è all’incirca la tesi di Thomas Mann su Freud, ed è una tesi attendibile.
Dovessi dire la mia, proporrei una visione più a metà strada tra romanticismo e illuminismo, ma si tratta probabilmente di una mia idiosincrasia. Quello che è invece certo è che Trincia presenta, in maniera assieme simpatetica e neutrale, una psicoanalisi "culturale" e non solo clinica, che è davvero indispensabile far conoscere al lettore. In altre parole, Freud non è solo l’inventore di una tecnica psicoterapeutica ma anche il creatore di una rivoluzionaria visione del mondo.
In conclusione si tratta di un libro pregevole e utile. Se dovessi indicarne una sola mancanza, ma è evidentemente frutto di una scelta precisa dell’autore, direi che un capitolo sulla struttura filosofica della psicoanalisi sarebbe stato di qualche interesse. Anche se, devo ammetterlo, avrebbe tradito in parte la vocazione del volume nel suo complesso, che è quella di accompagnarci passo dopo passo alla comprensione di Freud.
Documenti ritrovati
La lettera
Le sue conquiste per tutti
«Sir: L’ottantesimo compleanno di Sigmund Freud ci dà la gradita opportunità di porgere le nostre congratulazioni e i nostri omaggi al Maestro le cui scoperte hanno aperto la via a una nuova e più profonda conoscenza del genere umano. Ha contribuito in maniera eminente alla medicina, alla psicologia, alla filosofia e all’arte ed è stato per due generazioni il pioniere nell’esplorazione di regioni finora sconosciute della mente. Intellettualmente indipendente, «ein Mann mit erzenem Blick» come Nietzsche disse di Schopenhauer, in grado di stare solo e attrarre a sé allievi, ha seguito il percorso da lui scelto e le sue avanzate verità, le quali, per il solo fatto di aver portato allo scoperto ciò che era nascosto e per aver illuminato ciò che era oscuro, sembravano pericolose e allarmanti. Ovunque egli ha proposto nuovi problemi e cambiato vecchi princìpi. I risultati del suo lavoro hanno ampliato il campo della ricerca, e lo stimolo che ha dato al pensiero creativo ha fatto sì che anche i suoi avversari divenissero suoi debitori. Gli anni a venire potranno ricostruire o limitare questa o quella conclusione, ma le sue domande non saranno mai taciute, né le sue conquiste oscurate in modo permanente. Le idee che formulò e i termini che coniò sono diventati parte della nostra vita quotidiana, e in ogni campo del sapere, in letteratura, arte, ricerca, storia delle religioni, preistoria, mitologia, folklore, pedagogia e, ultimo ma non meno importante, in poesia, siamo in grado di scovare tracce della sua influenza. I successi più memorabili della nostra generazione saranno, senza ombra di dubbio, le conquiste in ambito psicologico raggiunte da Sigmund Freud. Non possiamo immaginare il mondo intellettuale di oggi senza il suo lavoro, e gioire della sua presenza tra noi e della sua ininterrotta attività. Possa la nostra gratitudine accompagnare i suoi giorni.»
Thomas Mann, Romain Rolland, Jules Romains, H.G. Wells, Virginia Woolf, Stefan Zweig (traduzione di Eleonora Piacentini)
London, England
Damasio al congresso degli psicoterapeuti:
«E’ ora che psicanalisi e neuroscienze collaborino»
di Nicla Panciera (La Stampa TuttoScienze, 01.10.2014)
Indagando ogni aspetto della vita dell’uomo e dialogando con molte discipline diverse, le neuroscienze non potevano risparmiare la psicanalisi, che fornisce una spiegazione del comportamento umano, ma che con la ricerca delle sue basi biologiche condivide ben poco. Ora le prove di confronto tra i due approcci si sono intensificate, anche in seguito ai risultati di alcuni studi secondo i quali la psicoterapia provocherebbe significativi miglioramenti clinici e cambiamenti nella funzionalità del cervello. Un successo empirico che però non ne sancisce lo status di scienza.
Tra i neuroscienziati che si sono occupati e hanno provato a definire il Sé - concetto cardine in psicoterapia - c’è Antonio Damasio, celebre anche presso il grande pubblico per l’impegno come scrittore. E lo scienziato portoghese, alla guida del «Brain and Creativity Institute» della University of Southern California, è uno dei personaggi che interverranno domani a Riva del Garda, invitati proprio dalla Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia riunita in congresso dal 3 al 5 ottobre.
La psicoterapia, infatti, non può ignorare gli avanzamenti delle neuroscienze. Corpo, empatia, plasticità cerebrale, linguaggio: sono molti i punti di contatto e di disaccordo tra scienza e psicanalisi. Eppure «non vedo scontro, ma cooperazione. La maggior parte degli sviluppi della scienza della mente e del cervello influenzeranno il modo in cui gli interventi terapeutici verranno concepiti e messi in pratica», spiega Damasio a «Tuttoscienze». «Gli aspetti psicosomatici della mente dovrebbero essere parte di un resoconto scientifico globale del complesso mente-cervello». Che i tempi siano maturi per una svolta nel rapporto tra neuroscienze e psicanalisi?
Pierre Janet (1859-1947)
Un fantasma in casa Freud
di Vittorio Lingiardi (Il Sole Domenica, 23.03.2014)
L’opera di Pierre Janet può essere paragonata a una «grande città sepolta sotto le ceneri, come Pompei. Il destino di una città sepolta è incerto: può restare sepolta per sempre; può rimanere nascosta per essere saccheggiata dai predoni. Ma è anche possibile che un giorno sia dissotterrata e riportata in vita». La profezia di Ellenberger (La scoperta dell’inconscio, Boringheri) si è avverata: negli ultimi vent’anni i testi dello psicologo francese sono stati riportati in vita e molte delle sue idee alimentano le riflessioni di importanti clinici contemporanei.
Uno di questi, Philip Bromberg (Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina), arriva ad affermare che la posizione anti-Janet assunta da Freud «ci ha portato indietro di quasi cento anni», e paragona la «Janet renaissance» a un romanzo gotico a puntate dove il fantasma senza pace di Janet, scacciato dal castello da Freud cent’anni fa, oggi ritorna per tormentare i suoi discendenti.
Per quelli italiani, l’ultimo tormento, a pochi mesi dalla pubblicazione di L’automatismo psicologico del 1889 (Cortina, a cura di Francesca Ortu, postfazione di Giuseppe Craparo, recensito su queste pagine il 24 febbraio 2013 da Chiara Pasetti) è la traduzione della conferenza londinese dell’agosto del 1913 (pubblicata l’anno successivo sul Journal de Psychologie Normale et Pathologique). Si tratta di La psychoanalyse de Freud, in italiano semplicemente La psicoanalisi, che Bollati Boringhieri affida alla cura di Maurilio Orbecchi, che la introduce con un argomentato e combattivo j’accuse antifreudiano.
Se nei suoi primi scritti Freud fa riferimento ai lavori di Janet, riconoscendo l’importanza di alcune sue concettualizzazioni, successivamente gli muove critiche sempre più serrate, sottolineando le divergenze tra la sua «psicoanalisi» e l’«analisi psicologica» janetiana, fino a disconoscere ogni somiglianza tra i due approcci. E così, continua Ellenberger, «mentre su Janet cadeva il velo di Lesmosine, sul suo grande rivale, Sigmund Freud, si alzava il velo di Mnemosine».
Le belle pagine della conferenza di Janet ci restituiscono non solo le sue idee, ma anche le emozioni del suo conflitto col collega viennese. Parole a prima vista rispettose e cordiali si fanno ironiche e graffianti. Per tradire infine il dolente stupore di chi si è sentito privato non tanto, o non solo, del riconoscimento del proprio lavoro, ma di quel confronto che è al cuore di ogni percorso scientifico e intellettuale.
«Con mia grande vergogna», afferma nel commentare la natura apparentemente rivoluzionaria delle scoperte freudiane, «devo confessare che all’inizio non ho per nulla compreso l’importanza di questo sconvolgimento e, ingenuamente, ho pensato che i primi studi di Breuer e Freud altro non fossero che una conferma dei miei lavori più interessanti». E aggiunge: «Freud e i suoi allievi sono partiti dai miei primi studi sull’esistenza dei fenomeni subconsci nelle isteriche e sulle loro caratteristiche, senza criticarli: mi dispiace un po’, perché queste ricerche avrebbero bisogno di conferme e di critiche».
L’obiettivo della conferenza di Janet è mettere in luce le differenze tra la sua proposta e quella di Freud. Lo fa attraverso tre argomenti principali: i ricordi di avvenimenti traumatici (reali, non fantasmatici) e il loro ruolo nel determinare i sintomi; i meccanismi sottesi alla loro azione sul funzionamento mentale; la discussione sulla natura sessuale di queste memorie.
La sua lettura apre una finestra su un ambito di studio in costante evoluzione.
Le considerazioni di Janet sulla psicoanalisi vertono su tre punti fondamentali, a mio avviso ancora in grado di sfidare alcune posizioni e atteggiamenti contemporanei.
Primo, mette in dubbio l’originalità di Freud, il quale, più che aver «scoperto» l’inconscio, avrebbe rielaborato il sapere del tempo, attingendo in gran parte al collega francese: «Potei constatare con piacere che le loro osservazioni erano simili alle mie. (...) Questi autori si limitavano a cambiare qualche termine nella loro descrizione psicologica», ma allo stesso tempo accettando «tutti i concetti fondamentali, per quanto ancora al vaglio della discussione».
Secondo, mette in guardia dalla generalizzazione, dall’arbitrarietà e dalla semplificazione eccessiva dei metodi e dei principi tecnici analitici. Per non parlare dei limiti del linguaggio: «vago e metaforico». Molta psicoanalisi, afferma Janet, usa i pazienti per dimostrare le sue teorie: un caso eclatante è quello dell’interpretazione dei sogni, che l’analista metterebbe al servizio della dimostrazione delle sue teorie/dogmi.
Terzo, insinua che la psicoanalisi tende a vestirsi di misticismo e religiosità, tanto da praticare pratiche di scomunica o espulsione degli «eretici».
Le ultime battute di questo scritto ci colgono di sorpresa. Con un colpo di teatro Janet capovolge la prospettiva affermando che «saranno dimenticate le spavalde esagerazioni e i simbolismi rocamboleschi» della psicoanalisi e «soltanto una cosa sarà ricordata: la psicoanalisi ha reso enormi servizi all’analisi psicologica», giacché ha portato l’attenzione su temi ingiustamente trascurati dalla ricerca. La storia non gli ha dato ragione.
Dopo questo intervento, Janet sarà tacciato di eresia, emarginato e lentamente dimenticato. Alla sua morte, nota Orbecchi, dieci anni dopo quella di Freud, poteva essere considerato un sopravvissuto. Oggi, però, i più grandi esperti di trauma e dissociazione, da van der Kolk a van der Hart, da Nijenhuis a Liotti, non perdono occasione per ringraziarlo del suo lavoro e tributargli onori teorici e clinici. Janet, dicono, è il padre del disturbo da stress post-tramatico, il primo a studiare la dissociazione come processo psicologico fondamentale con cui l’organismo reagisce a esperienze soverchianti. Il primo a mostrare che le memorie traumatiche possono essere espresse come percezioni sensoriali, stati affettivi e ripetizioni di comportamenti. Il fantasma scacciato dal castello della psicoanalisi è tornato in circolazione e si sta togliendo qualche soddisfazione.
Casa Freud
Anna e Sigmund, ritratto di famiglia su un lettino
Esce in Francia la corrispondenza inedita tra i due, che rivela il lato intimo del rapporto
Sono quasi 300 missive: fino al 1938, un anno prima della morte del padre della psicoanalisi
di Anais Ginori (la Repubblica, 7.12.2012)
“Vedo adesso, guardandoti, quanto sono vecchio visto che hai esattamente l’età della psicoanalisi”. Così scrive il 6 dicembre 1920 Sigmund Freud nella lettera per Anna, figlia prediletta, ma anche paziente e poi discepola. Ultima dei sei figli, si chiama con il nome che ricorda il famoso caso clinico della “signorina Anna O.”, ed è nata nel 1895, proprio l’anno in cui esce Studi sull’isteria, testo fondante della teoria freudiana.
Non è solo la sovrapposizione di date e nomi che colpisce. Tra padre e figlia c’è una relazione unica, totalizzante, come dimostra ora la corrispondenza pubblicata da Fayard. Quasi trecento missive, dal 1904 quando Anna ha solo 9 anni fino al 1938, un anno prima della morte di Freud, che riprendono e integrano con un notevole apparato critico l’edizione tedesca del 2006 curata da Ingeborg Meyer-Palmedo.
Un carteggio tutto sommato limitato rispetto alla mole di lettere che Freud ha scritto nella sua vita (oltre ventimila, conservate in parte alla Library of Congress), ma che rivela la dimensione più intima del fondatore della psicoanalisi. Colui che così tanto ha fatto per destrutturare il ruolo paterno, appare come un genitore premuroso, attento alla salute cagionevole della figlia adolescente e al suo sviluppo intellettuale. E’ Freud che le presenta Lou Andreas-Salomé, diventata poi confidente e mediatrice nel loro rapporto, come si evince da Legami e libertà, la corrispondenza tra le due donne (uscito per La Tartaruga).
Anna è educata dal padre all’introspezione, confessa con candore le sue pulsioni, la rivalità con la sorella maggiore Sophie, racconta le sue fantasie. “Ho sognato che tu eri un re ed io una principessa. Qualcuno voleva aizzarci l’uno contro l’altra con degli intrighi politici”. Geloso e protettivo, Freud prima si preoccupa delle mire di altri uomini sulla giovane fanciulla, poi del suo disinteresse per il genere maschile. Cerca di “risvegliare la libido” di Anna prendendola in analisi per circa quattro anni, contravvenendo a regole deontologiche ancora non codificate.
“In quegli anni la psicoanalisi era un affare di famiglia” ricorda la storica Elisabeth Roudinesco nella prefazione all’edizione francese. Anna rimarrà fino alla fine accanto al padre, anche nella lunga malattia (“non vorrei che fossi la mia triste infermiera”, dice lui), seguendolo nell’esilio a Londra. Freud dovrà accettare che la brillante e tormentata ultimogenita non è attratta dagli uomini bensì dalle donne, come lei stessa confessa a Lou già in una lettera del 1922, proprio mentre prepara la prima relazione per la Wiener Psychoanalystiche Vereinigung, debuttando così nei suoi studi sull’infanzia, in rivalità con Melanie Klein. “Il vostro è un viaggio non ordinario, ma che corrisponde al vostro gusto individuale”, annota nel 1927 Freud a proposito della vacanza in Italia della figlia con Dorothy Burlingham, ereditiera della famiglia Tiffany che diventerà la sua compagna definitiva.
“Sigmund Freud-Anna Freud 1904-1938” Fayard
Anna Freud con il celebre padre
Quella lunga storia d’amore tra Anna e Dorothy
Il libro di Roberta Calandra sulla relazione tra la figlia di Freud e la sua amica
Oggi la presentazione
di Delia Vaccarello (l’Unità, 05.06.2013)
IN UNA CASA LONDINESE UNA DONNA ANZIANA MOLTO FAMOSA TRASCORRE LE SUE GIORNATE lottando con le forze che a poco a poco l’abbandonano. A riempire di «presente» le sue stanze saranno due ventenni con il loro carico di rabbie, dolori, segreti. Hanno bisogno di lei per trovarsi. Ad aiutarle sarà anche un’immagine. «A circa metà della sequenza scura di scaffali, troneggia una foto di Anna e Dorothy, ormai visibilmente anziane, entrambe vestite di chiaro e con un buffo cappello in testa». Sono Anna Freud e la sua amica.
Narrando gli ultimi giorni di vita della celebre figlia del padre della psicanalisi, Roberta Calandra nel suo romanzo L’eredità di Anna Freud (edizioni Controluce) indaga la relazione di oltre mezzo secolo che la unì ad una donna e legge in questo rapporto un lascito, un messaggio per le nuove generazioni che ognuna raccoglie a modo proprio come segnala il successo a Cannes del film La vie d’Adele.
«Un giorno mi è capitato in mano un link ad un assurdo pamphlet che parlava delle “dieci lesbiche che hanno cambiato il mondo" e mischiava grossolanamente Cristina di Svezia, Maria Antonietta e Anna Freud. Sapere che Anna ha vissuto 54 anni con la sua migliore amica e che accanto a lei ha voluto essere sepolta mi ha toccato: il padre di tutte le nostre presunte idee di normalità e anormalità aveva una figlia che viveva comunque in una situazione così particolare? Mi sono documentata e ho scoperto questa storia che ha risvolti commoventi e sorprendenti», dice l’autrice.
Il libro ripercorre la vita relazionale di Anna Freud, e lo fa attraverso il personaggio di una giovane studentessa di psicologia, Judith, tendente all’autolesionismo, a vivere l’amore come un assoluto, alla distruttività ma che con lucida determinazione vuole «salvarsi» e strappare ad Anna confidenze e racconti. Introducendosi con maniacale voracità nella vita di Anna, la studentessa altera l’equilibrio un po’ sonnolento che si era creato tra la psicoanalista e la giovane badante Sarah. Veniamo a sapere così che Sigmund Freud sostenne la relazione tra la figlia e Dorothy, arrivando a dire di Anna che con Dottie si era «sistemata».
Ancora: «Ho scoperto che Freud faceva trattenere a Budapest in analisi da Ferenczi Robert, il marito pazzo di Dorothy poi morto suicida, per lasciare tranquilla sua figlia e l’amica» aggiunge Calandra. Eppure Anna Freud considerava “anormale” l’omosessualità: «Anna non era tenera con gli omosessuali e non voleva essere confusa con loro, io però credo, come cito in un passo, che ne disprezzava soprattutto il vittimismo e l’autocommiserazione. Ma la sua amicizia con Dottie, la gelosia verso l’unico tentativo di un interesse al maschile, la richiesta di condivisione di un’urna mi fanno pensare all’amore, forse sì asessuato, perché una delle chiavi di Anna mi appare la sublimazione».
Il romanzo (sarà presentato oggi a Roma alle 19.30 alla Libreria del cinema in Trastevere) si muove tra realtà e finzione, ma resta fedele alla biografia di Anna, della quale Calandra ha già scritto traendone il monologo Anna Freud, un desiderio insaziabile di vacanze insignito del premio europeo Tragos. «Se per la storia di Anna mi rifaccio alle fonti, Judith e Sarah sono nate come contrappunto al tema del padre: Anna è stata molto dipendente da Sigmund Freud, Sarah ha un padre stupratore e Judith uno suicida: queste tre figlie dove si fanno ombra, dove si rispecchiano? Mi piaceva suggerire che se Anna avesse avuto l’età di Judith negli anni 80 sarebbe stata simile a lei. E anche che una qualsiasi Judith può applicarsi e diventare Anna Freu»”, aggiunge l’autrice.
Il libro calamita dentro camere segrete: nella biblioteca e nello studio di Freud i misteri delle due giovani donne affiorano e spingono all’azione. Judith e Sarah, prima acerrime rivali si espongono a un contatto con le proprie parti oscure che trasformerà il loro rapporto.
L’autrice riesce a farcele «vedere» grazie a un uso felice dei dialoghi che offre a chi legge l’illusione di stare insieme a loro. Passando al monologo, Roberta Calandra sa restituire la voce interiore di ciascuna, nonché il carattere forte e insieme debole, per l’età, la malattia, le fragilità di sempre, di Anna Freud.
C’è in questa tensione sapientemente resa un desiderio profondo dell’autrice: «È prima di tutto una storia di maestro e discepolo ma declinata al femminile. Queste dimensioni vengono sempre descritte tra uomini. A me le professoresse che amavo hanno quasi salvato la vita».
Due o tre cose (e qualche immagine) su Anna Freud, Google star del giorno
di Cristina Bolzani (Punctum.blog.raibews - December 3, 2014) (ripresa parziale).
Anna Freud è la Google star di oggi. Il doodle è dedicato ai suoi 119 anni. Ne approfittiamo per mostrarne qualche foto con il padre. Sono prova vivente, i due, di quel complesso di Edipo così ben teorizzato da Sigmund da ispirargliene una esempio esemplare nel rapporto con la figlia, come lui psicoanalista.
Presa nelle maglie e nelle reti
La metafora del lavoro a maglia è pregnante per la professione psicoanalitica dei fili interiori da intrecciare, dipanare o tagliare. Lavorare a maglia è una pratica sublimante e implicitamente autoerotica, e simbolo di stoica attesa, come il telaio per Penelope. anna sophia
Anna Freud lavora sempre a maglia. Anche durante le sedute analitiche. Anche durante la malattia del padre. “Anna accompagna la malattia di Freud, e controlla l’angoscia che da essa le deriva, lavorando forsennatamente a maglia e all’uncinetto molto spesso per Lou [Andreas-Salomé, ndr], la quale lamenterà scherzosamente di venir continuamente ‘presa nelle maglie e nelle reti’ della più giovane amica” (Bocci, Anna Freud e Andreas Lou Salomé più che sorellanza, p.23). “La maglia, il lavorare a maglia, che costituisce un po’ il filo visibile con cui lei intreccia le sue varie parti interne, le sue diverse età e storie, la segue nel percorso avviato con la scelta psicoanalitica, visto che lavorando a maglia assiste alle riunioni della società freudiana, per cui invitarla a intervenire nella discussione significa sollecitarla a posare almeno per un po’ i ferri”. (L. Bocci, ibid. p. 32).
Il ricordo della nipote Sophie. ” E quando le mandai un libro con modelli a maglia, mi scrisse: ‘Studio i modelli con la stessa brama con cui studierei una nuova pubblicazione psicoanalitica. Ogni nuovo filo e ogni nuovo modello è un’avventura’ “. (Sophie Freud, Le mie tre madri e altre passioni, Bompiani 1990).
Una grande ‘tessitrice’ anche nelle trame relazionali del rapporto con l’Altro, se pure in un contesto di assoluta devozione al padre (che coincide, ed è un caso raro - fa notare Ernest Jones - con la sua imago paterna). Affronta relazioni articolate e intense. Quella di una vita con Dorothy Burlingham, e poi molte amicizie femminili - che qualcuno vuole vedere come sostituti di una madre assente; e quella con la ‘nemica’ Melanie Klein.
Anna Freud è ‘gettata’ nella rete delle relazioni fin da ragazzina, quando il padre le fa assistere le conferenze della Società psicoanalitica. Dall’età di tredici anni ascolta dibattiti su sessualità anale, incesto, masochismo, onanismo. Freud stesso la sottopone all’analisi. Lei gli farà da infermiera. Il loro legame indissolubile e sfaccettato è la prima delle sue relazioni significative. Anna è, per ammissione di Freud-Edipo, la sua Antigone (con tutta la sua pregnanza simbolica, anche di sfida alla legge del Padre).
Questa giovane donna così precocemente avventuratasi nei meandri della psiche - e che a 29 anni dice: La mia vecchia tata è la più autentica e antica relazione della mia infanzia -, da quali traumi è ossessionata? Da quello di essere la figlia prediletta del padre della psicoanalisi? Certo il titolo della conferenza con cui esordisce alla Società psicoanalitica, Fantasie di percosse e sogno ad occhi aperti, con il suo contenuto edipico insito nella fantasia masturbatoria infantile dell’essere picchiati, fa pensare a un percorso evolutivo accidentato e originalissimo.
Della biografia di Anna Freud qui si vuole cogliere l’aspetto delle relazioni interpersonali, la loro ricchezza, gli snodi e le sovrapposizioni tra vita privata e pratica psicoanalitica nella sua fase germinale; intrico di affetti, relazioni professionali, sentimenti, teorie, nell’agorà disegnata una volta per tutte dall’autorevolezza paterna. Anna Freud emerge, come la psicoanalisi di quegli anni, dal caos relazionale. Basti ricordare questa catena (e infrazione deontologica peraltro diffusissima agli albori della psicoanalisi): Freud psicoanalizza la figlia, che psicoanalizza i figli (a un certo punto orfani di padre, morto suicida) di quella che sarà la sua compagna. Melanie Klein farà lo stesso con il figlio Eric.
Anche i più elementari dati biografici sembrano predestinarla all’analisi. Annerl, questo il soprannome familiare, nasce nello stesso anno in cui esce Studi sull’isteria (1895), la cui protagonista, Bertha Pappenheim, è rinominata Anna O. In comune hanno il sognare ‘ad occhi aperti’ , il disinteresse per il sesso e la filantropia.
Fosse stata maschio si sarebbe chiamata Wilhelm, come quel Fliess amico del padre, il mediocre otorinolaringoiatra per il quale Freud riconoscerà, nel trasporto della sua amicizia, un latente elemento omosessuale. Sesta e ultima figlia di Freud, Anna non si sente desiderata. Dirà che se i genitori avessero conosciuto degli efficaci contraccettivi, lei non sarebbe nata“. La bambina non è allattata dalla madre (provata in modo particolare da questa maternità, Martha Bernays non ne è in grado o non desidera farlo) e non viene nemmeno assunta una balia. Dal quinto giorno della sua vita Anna Freud è nutrita con il latte intero Gärtner.
Parte da questo sentimento depresso sulla sua nascita per affrontare poi il difficile rapporto con un padre reale/ideale che la opprime e però la stimola sulla strada che le porterà un gratificante riconoscimento da psicoanalista dell’infanzia, fondatrice a sua volta di una psicoanalisi; un padre che la allontana da altri uomini e la incoraggia alle amicizie femminili. Intellettuali e/o psicoanaliste, - “quelle bellissime donne narcisiste sulle quali Freud sembrava esercitare un fascino particolare”, (P. Roazen, Freud e i suoi seguaci, Einaudi). In particolare si racconta dell’amicizia affettuosa che la lega all’affascinante Lou Andreas-Salomé, amica intima di Nietzsche e Rilke. Tra loro ci sarà un ricco carteggio. Ma si parla anche di Marie Bonaparte, Eva Rosenfeld, Marianne Kris. Fino all’incontro di Anna Freud con la discendente della famiglia Tiffany.
La lunga e costruttiva relazione con Dorothy Burlingham (sulla cui biografia poco nota ci si soffermerà) è l’approdo per Anna Freud a una vita affettiva ‘tutta per sé’, incoraggiata con decisione dal padre, che favorisce la vicinanza tra la sua famiglia e la coppia.
Lo spazio dedicato a Anna Freud, nel Freud Museum di Londra, è dominato da un telaio, ed è quello di Dorothy Burlingham.
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AL DI LA’ DI EDIPO. Freud con Dante
La cosa più semplice a farsi è la più difficile: risalire la corrente come un SALoMONE e giungere alla Sorgente: l’Amore che muove il sole e le altre stelle!!!
Detto diversamnte, e più chiaramente: andare oltre "Maria e Giuseppe", "Adamo ed Eva", e scoprire che al di là di tutto non c’è Geova (un dio-zio "Paparone", con il suo minestrone faraonico), ma solo l’Amore ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8), l’Amore più forte di Morte!!!
Federico La Sala
La grandezza di Edipo alla fine del cammino
A Colono cala il sipario sulla tragedia classica
di Paolo Beltramin (Corriere della Sera, 28.06.2012)
«Sofocle compose tragedie fino a tarda età. Siccome per questa passione sembrava trascurare la gestione del patrimonio familiare, fu portato in tribunale dai figli: volevano che i giudici lo dichiarassero infermo di mente. Allora il vecchio recitò ai giudici la tragedia che aveva appena scritto, e chiese loro se poteva essere l’opera di un vecchio demente. Fu subito assolto».
La tragedia in questione è l’ultima di Sofocle, Edipo a Colono; e questo breve brano del De senectute - scritto da Cicerone oltre tre secoli dopo -, in qualche modo ne riassume i temi e la grandezza. La vita del grande tragediografo greco sembra intrecciarsi a quella del suo eroe per eccellenza, proprio nel momento in cui entrambi si trovano a un passo dalla morte.
Come l’episodio biografico del processo a Sofocle, anche l’Edipo a Colono racconta di un vecchio solitario e abbandonato da tutti, di figli che tradiscono il padre, di un mondo dove ormai dominano la brama di denaro e di potere. Ma alla fine, sulla scena come in tribunale, anche questa volta la grandezza del protagonista riuscirà a risplendere per l’ultima volta.
Edipo a Colono, domani in edicola con il «Corriere della Sera», non è affatto un sequel, una semplice prosecuzione degli avvenimenti rappresentati nell’Edipo re. La tragedia anteriore, e più celebre - modello a cui si rifà Aristotele nella Poetica per elaborare il canone della drammaturgia classica -, è la rappresentazione della forza del destino, della potenza divina capace di piegare l’eroe anche nel pieno delle sue forze.
Questa, oggi meno nota e molto meno rappresentata, è invece la tragedia della vecchiaia, e della fine di un’era. Messa in scena per la prima volta nel 401 a.C., è una tragedia postuma non solo al suo autore (morto alcuni mesi prima, appena terminata questa sua opera-testamento), ma anche all’ambiente culturale che rappresenta, l’Atene classica, sconfitta da Sparta nella guerra del Peloponneso e condannata a un inarrestabile declino. Anche il più giovane e moderno dei tragici greci, Euripide, ormai è morto, secondo una leggenda addirittura sbranato dai cani.
All’inizio della tragedia Edipo, vecchio e cieco, giunge a Colono accompagnato dalla figlia Antigone e presto raggiunto dall’altra figlia, Ismene. Il potente tiranno di Tebe ormai non è che un vagabondo, «straniero in terra straniera». Non è più un eroe perseguitato dagli dei, ma l’ultimo superstite di un mondo che non c’è più.
Nell’Edipo re il dolore era frutto del destino, della volontà divina; ora le cause della sofferenza sono tutte umane, troppo umane. E la battaglia fratricida tra i figli di Edipo non è affatto la conseguenza di una catena della colpa mitica, ma lo specchio del declino della polis greca, vittima della sua stessa mania di potenza.
Come il vecchio Edipo, il novantenne Sofocle guarda al nuovo mondo con totale distacco esteriore, e insieme con un profondo dolore interiore. La vecchiaia comporta sconfitte, tradimenti, umiliazioni, ma anche una straordinaria lucidità. Insomma, si può dire che nel demo di Colono - il borgo alle porte di Atene dove il drammaturgo era nato nel 496 a.C., prima ancora delle guerre persiane - è ambientato il Re Lear della Grecia classica.
Quando Edipo è ormai vicino alla fine del suo cammino, il coro sembra non lasciare alcuna speranza: «Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti. Quando passa la giovinezza con le sue lievi follie, quale affanno mai sta lontano, quale pena mai non è presente? Invidie, lotte, battaglie, contese, sangue; e infine, spregiata e odiosa a tutti, la vecchiaia».
Ma proprio nell’ultima scena, la figlia Antigone riesce a ribaltare questa prospettiva della morte (e della vita) come sofferenza senza scopo: «Perfino dei mali v’è rimpianto: ciò che non è affatto caro, pur mi era caro quando tenevo mio padre tra le braccia. O padre, o caro, o tu per sempre avvolto nelle tenebre sotterranee, neppure lontano ti mancherà mai l’amore mio e di mia sorella».
La morte dell’eroe non è rappresentata sulla scena. Edipo scompare misteriosamente, tra gli alberi del bosco sacro di Colono. Con questa dissolvenza termina la saga di un eroe sacer (termine con cui gli antichi indicavano non solo chi è sacro, ma anche chi è maledetto). Si chiude l’era in cui gli dei camminavano tra gli uomini. Si chiude l’opera dell’autore tragico più amato dagli ateniesi del tempo. Si chiude la brevissima e immortale storia della tragedia greca.
Così noi ebrei riscriviamo quel racconto della bibbia
di Safran Foer (la Repubblica, 7 aprile 2012)
Per tutta la mia vita i miei genitori hanno ospitato il Seder della prima notte della Pasqua ebraica. A mano a mano che la nostra famiglia si allargava - e con essa di pari passo anche la nostra definizione di famiglia - per la cena rituale ci siamo spostati dalla sala da pranzo al nostro scantinato, più spazioso, che puzzava di muffa. Da un tavolo siamo passati a più superfici goffamente accostate le une alle altre per formarne uno più grande. La richiesta di mio padre di togliere la rete dal tavolo da ping-pong mi ha sempre reso consapevole dell’approssimarsi della Pasqua. Poi, tutti i tavoli erano ricoperti da grandi tovaglie sbiadite e assortite.
Ogni volta c’era un’Haggadah che i miei genitori avevano messo insieme fotocopiando i brani preferiti presi da altre Haggadah, e quando finalmente i Foer ottennero la connessione a Internet la prepararono stampando ciò che trovavano online. Perché la sera di Pasqua è diversa da qualsiasi altra? Perché quella sera non si applica il copyright.
In mancanza di una terra loro e stabile, gli ebrei misero su casa nei loro libri e l’Haggadah - il cui nucleo centrale è il racconto dell’Esodo dall’Egitto - è stata tradotta innumerevoli volte, più di qualsiasi altro libro ebraico, ed è stata rivista più frequentemente di qualsiasi altro libro ebraico. Ovunque si siano recati gli ebrei ci sono sempre state Haggadah: dall’Haggadah di Sarajevo risalente al XIV secolo (che si dice sia sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale sotto le assi del pavimento di una moschea, e all’assedio di Sarajevo nel caveau di una banca) a quelle preparate dagli ebrei etiopi e fatte pervenire per via aerea in Israele durante l’Operazione Mosé.
Tuttavia, delle settemila versioni note - per non parlare delle incalcolabili edizioni fatte in casa - una sola è usata più di tutte le altre messe insieme: dal 1932 l’Haggadah della Maxwell House predomina nei rituali degli ebrei americani. Sì, proprio quella della marca di caffè Maxwell House. Avendo assodato negli anni Venti che il chicco di caffè non è un legume bensì una bacca, e di conseguenza è kosher per Pasqua, la Maxwell House diede all’agenzia pubblicitaria Joseph Jacobs l’incarico di fare del caffè e non del tè la bevanda eletta da bere dopo i Seder. Se tutto ciò vi sembra folle, tenete presente che il caffè Maxwell House è sempre stato particolarmente popolare nelle case ebraiche.
L’Haggadah che ne nacque costituisce una delle promozioni-vendita speciale che dura da più tempo in assoluto nella storia della pubblicità. Nei supermercati ne sono state distribuite gratuitamente almeno 50 milioni di copie, ispiranti quanto si può immaginare che siano i gadget di una marca di caffè. Nondimeno, molte persone provano un senso di attaccamento nei confronti dell’Haggadah della Maxwell House, per la gioiosa rassicurazione che essa evoca. Ci piace come ci piacciono le battute sugli ebrei. La versione della Maxwell House è di per sé una sorta di battuta ebraica - per averne la conferma provate un po’ a farne parola a un gruppo di ebrei senza provocare risate. Oltretutto, è gratis e - al pari della bevanda a base di caffeina e senza tanti fronzoli che reclamizza - appaga un bisogno molto primario.
Il più leggendario Seder di tutti - che, per un caso postmoderno, è raccontato nell’Haggadah stessa - si svolse intorno all’inizio del secondo secolo a Bene Beraq tra gli studiosi più importanti dell’antichità ebraica. Si concluse anticipatamente, quando gli studenti irruppero per annunciare cheera giunta l’ora della preghiera del mattino. Anche se lessero l’Haggadah dall’inizio alla fine, espletando ogni rito e cantando ogni verso di ogni singolo salmo, probabilmente trascorsero la maggior parte del loro tempo a fare altro. A estrapolare, sviscerare, discutere.
La storia dell’Esodo, infatti, non deve essere soltanto recitata, ma affrontata. Se l’Haggadah della Maxwell House non è mai riuscita a soddisfare appieno le esigenze intellettuali e spirituali, in ogni caso è servita in modo egregio e appropriato agli ebrei esperti conoscitori dei riti di una o due generazioni fa.
Gli attori però non conoscono più il copione. Gli ebrei americani, con una sorta di esodo ulteriore, sono passati dalla povertà all’agiatezza, dalla tradizione alla modernità, dalla familiarità nei confronti di una storia comune alla perdita della memoria collettiva. I nostri nonni erano immigrati in America, ma erano originari dell’ebraismo. Noi siamo l’esatto contrario: sappiamo tutto di American Idol, ma non conosciamo i grandi protagonisti dell’ebraismo. Di conseguenza, nei confronti dell’ebraismo ci comportiamo come immigrati: ci andiamo cauti, lo respingiamo, ne diventiamo consapevoli, e fingiamo (o raggiungiamo) indifferenza. In quel paese straniero che è la nostra fede, abbiamo urgentemente bisogno di una buona guida.
Anche se significa "il racconto", l’Haggadah non racconta semplicemente una storia: è il libro della nostra memoria vivente. Non basta ri-raccontare la storia: dobbiamo spiccare un salto più estremo ed empatico ed entrare dentro di esso. «A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall’Egitto» ci dice l’Haggadah. Questo salto è sempre stato una sfida in grado di intimorire, seppur carico di significato per la mia generazione in modo diverso rispetto ai disperati delle prime generazioni che si volevano assimilare - perché adesso, oltre alla mancanza di cultura e di conoscenza del sapere ebraico, c’è anche il vizio strutturale di un compiacimento collettivo.
L’integrazione degli ebrei e delle tematiche ebraiche nella nostra cultura pop è così preponderante che ormai siamo intossicati dalle immagini surrogate di noi stessi. Anche io adoro Seinfeld (sit-com americana, NdT), ma non credete che ci sia un problema nel momento in cui questa trasmissione è indicata quale riferimento dell’identità ebraica del singolo? Per molti di noi, essere ebrei è diventato, più di ogni altra cosa, strano. Tutto ciò che resta, nel vuoto della scioltezza e della profondità, sono le risate.
Circa cinque anni fa ho avvertito in me una certa malinconia. Forse era dovuta al fatto di essere diventato padre, o semplicemente al fatto di invecchiare. Malgrado io sia cresciuto in una famiglia ebraica intellettuale e consapevole, non sapevo pressoché nulla di ciò che si suppone che sia il mio sistema di pensiero. C’era anche di peggio: mi sentivo soddisfatto del poco che sapevo. Talvolta pensavo al mio modo di essere in termini di rifiuto, ma è impossibile respingere ciò che non si comprende e che non è mai stato davvero tuo. Talvolta ritenevo fosse un successo, ma non c’è successo alcuno nella perdita passiva.
Perché ho sottratto tempo alla mia attività di scrittore per pubblicare una nuova Haggadah? Perché volevo fare un passo avanti in direzione di quella conversazione che potevo udire soltanto a stento attraverso le porte chiuse della mia ignoranza; un passo avanti in direzione di un ebraismo fatto di punti di domanda, più che di citazioni; verso la storia del mio popolo, della mia famiglia e di me stesso.
Come ogni bambino, anche mio figlio di sei anni adora ascoltare storie - miti e saghe nordiche, Roald Dahl, racconti della mia infanzia - ma più di ogni altra cosa gli piacciono le storie della Bibbia. Così, tra quando ha terminato di fare il bagno e il momento in cui va a letto, mia moglie ed io gli leggiamo spesso alcune versioni per bambini delle storie del Vecchio Testamento. Lui adora ascoltarle, perché sono le storie più belle mai raccontate. E noi adoriamo raccontargliele per un motivo diverso. Lo abbiamo aiutato a imparare a dormire tutta la notte, a servirsi della forchetta, a leggere, ad andare in bicicletta, a salutarci. Ma non esiste insegnamento più importante di quello che non si apprende mai ma si studia sempre, il progetto collettivo più nobile di tutti, preso in prestito da una generazione e tramandato alla successiva: come trovare sé stessi.
Alcune sere, fa, dopo aver sentito raccontare la morte di Mosé per l’ennesima volta - e come esalò l’ultimo respiro avvistando una terra promessa nella quale non avrebbe mai messo piede - mio figlio ha appoggiato la testa dai capelli ancora umidi sulla mia spalla.
«C’è qualcosa che non va?» gli ho chiesto, chiudendo il libro.
Lui ha scosso la testa.
«Sei sicuro?».
Senza alzare il viso, ha domandato se Mosé è esistito davvero.
«Non lo so» gli ho risposto, « ma siamo imparentati con lui».
(Traduzione di Anna Bissanti)
Jonathan Safran Foer ha appena pubblicato la "New American Haggadah"
Una riflessione sul dibattito. Dal punto di vista dei genitori
La psicoanalisi e l’autismo
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 23.3.12)
Se fossi il padre di un bambino autistico mi sentirei un po’ estraneo rispetto al dibattito sui giornali di queste ultime settimane avviato dall’articolo di Corbellini sul Sole 24 Ore e che è stato successivamente ripreso dai Presidenti delle Società Psicoanalitiche Italiane proprio su questo giornale. Mi sentirei un po’ estraneo perché dopo il riferimento alle Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità sul trattamento dei bambini autistici, si è polemizzato in modo troppo liquidatorio con la psicoanalisi. E gli psicoanalisti chiamati a rispondere, seriamente, anche da Repubblica, su questo tema generale - la psicoanalisi deve accettare i criteri di verifica della scienza oppure si tratta di una disciplina " a statuto speciale", sottratta a qualsiasi verifica empirica - non hanno poi potuto affrontare la questione particolare. Che è questa: la psicoanalisi può dare una risposta efficace al trattamento dei bambini autistici?
Ma vorrei ritornare alle Linee Guida, queste privilegiano l’intervento comportamentale con i bambini autistici in modo da aiutarli ad acquisire determinate competenze, ad esempio raggiungere il controllo urinario oppure tenere sotto controllo movimenti stereotipati ed incontrollati oppure poter svolgere compiti collaborativi. Va sottolineato a questo proposito che se questo può valere per le forme più gravi in cui è presente anche un ritardo intellettivo, vale molto meno per le forme di autismo caratterizzate da un miglior funzionamento. In ogni caso queste acquisizioni quantunque parziali possono aiutare il bambino ad adattarsi meglio alla vita familiare e scolastica, riducendo reazioni di rifiuto e di insofferenza nei suoi confronti.
Ma come genitore mi sentirei preoccupato che il trattamento comportamentale possa focalizzare il rapporto con mio figlio sulle acquisizioni comportamentali perdendo di vista aspetti fondamentali come le capacità di relazione cogli altri, la sua capacità di provare emozioni e poter condividere con gli altri quello che sta provando.
E’ qui che la psicoanalisi può dare un suo contributo fondamentale, per intenderci non le teorie di Bettelheim che considerava l’autismo come una fortezza vuota e neppure quelle di Frances Tustin, che riteneva l’autismo la conseguenza del narcisismo delle madri incapaci di accettare il distacco del figlio al momento della nascita, che privilegiavano piuttosto un intervento basato sull’interpretazione verbale. Mi riferisco al contrario ad una psicoanalisi relazionale che sappia valorizzare la dimensione dello sviluppo del bambino, in modo da aiutarlo a costruire un legame di attaccamento e a riconoscere se stesso come individualità. Allo stesso tempo un intervento psicoanalitico con i genitori per aiutarli a sopportare l’ansia e il peso di un bambino che si ritira dalle relazioni e a volte mostra più interesse per gli oggetti che per le figure umane. I genitori vanno aiutati a sopportare questo scacco relazionale e a ricercare i segnali del bambino su cui costruire un rapporto con lui.
Pertanto l’intervento psicoanalitico quantunque non previsto dalle Linee Guida sarebbe fondamentale per sviluppare nel bambino le capacità empatiche e di mentalizzazione che sono particolarmente carenti nell’autismo. Ma non è sufficiente sottolineare la bontà della psicoanalisi per dimostrarne l’efficacia, servono prove empiriche che dimostrino quale intervento funziona meglio e con quale tipologia di bambini. Di nuovo come genitore vorrei sapere in modo documentato come devo aiutare mio figlio ed ottenere i migliori risultati.
Nel campo della ricerca è stato ampiamente dimostrato che l’autismo ha una base genetica consistente che si ripercuote sullo sviluppo cerebrale, tuttavia come l’epigenetica ha messo in luce la genetica non è un destino immutabile e può essere modificata e modulata con gli interventi ambientali e con la presenza attenta e sensibile dei genitori che sono i primi protagonisti di un intervento nei confronti del figlio, se opportunamente sostenuti e indirizzati.
Temple Grandin e la sua infanzia nell’autismo: così sono cresciuta, questi i miei consigli
I bambini del silenzio, artisti che verranno
La studiosa esplora per Adelphi un mondo che ben conosce
E in un testo per il Corriere avverte: insegnate tutte le abilità di base
di Temple Grandin (Corriere della Sera, 29.05.2014)
Quando avevo tre anni, non parlavo e manifestavo tutti i segni del comportamento autistico tipo dondolarsi, rovesciare le cose e agitare le braccia. Mia madre mi mandò a un corso intensivo di terapia del linguaggio e gioco didattico. Per farmi imparare a rispettare i turni quando giocavo con un altro bambino, veniva utilizzato un gioco da tavolo. Quando la logopedista mi insegnava le parole, mi parlava lentamente, in modo che per me fosse più facile sentirle.
La cosa peggiore che si possa fare con un bambino piccolo affetto da autismo è non fare niente. Se non avete a disposizione delle strutture d’appoggio, cercate delle nonne disposte a fare volontariato con i vostri bambini tra i due e i quattro anni. Per apprendere, i piccoli hanno un gran bisogno del rapporto uno-a-uno. Molte nonne che già hanno avuto dei nipoti sapranno come far interagire con il mondo dei bimbi incapaci di linguaggio. Potranno portarli al parco e proporre loro un sacco di attività.
Diagnosi di autismo
Lo spettro autistico comprende una casistica molto vasta, che va dal bambino che non imparerà mai a parlare all’individuo socialmente impacciato ma con piena padronanza del linguaggio. Einstein cominciò a parlare solo a tre anni e oggi forse lo bollerebbero come autistico. Molti tra gli esperti di informatica di Google e Microsoft probabilmente hanno dei lievi tratti autistici. Un pochino di autismo può generare un brillante artista, un musicista, un artigiano o uno scienziato, ma troppo autismo può porre il bambino in una condizione di grave svantaggio e impedirgli una vita autonoma.
Negli Stati Uniti la sindrome di Asperger è stata inserita nello Spettro Autistico. In Italia, l’Icd-10 (Decima revisione della Classifica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Correlati, a cura dell’Organizzazione mondiale della Sanità) la mantiene ancora come categoria separata. La diagnosi non è precisa e, dal punto di vista del trattamento, autismo ad alto funzionamento e Asperger sono uguali. La terapia è la stessa per i bambini piccoli che però, crescendo, si differenziano in gruppi con diversi livelli di abilità.
Sviluppare i punti di forza
Le mie doti artistiche divennero evidenti quando avevo otto anni. Adoravo disegnare teste di cavalli, ma mia madre e le mie insegnanti mi incoraggiarono a disegnare anche molte altre cose. Se a un bambino piacciono i treni, usate i treni per motivarlo ad affrontare la lettura e la matematica. Dategli dei problemi di matematica che riguardino i treni. Il concetto è quello di allargare i confini della «fissazione» e utilizzarla per stimolare il bambino a fare cose utili. Le mie doti artistiche e la mia bravura nel disegno divennero le basi della mia carriera di progettista di attrezzature per l’allevamento del bestiame. Se un bambino è bravo in matematica, dovete stimolarlo ad affrontare esercizi sempre più difficili.
Nel libro Il cervello autistico analizzo tre diversi tipi di pensiero. Di solito le abilità sono disomogenee. Il bambino fa bene una cosa e ne fa male un’altra.
1. I pensatori visivi fotorealistici in genere hanno difficoltà con la matematica. Queste persone possono fare delle buone carriere nell’ambito di design industriale, fotografia, moda, artigianato e arte. Io penso solo ed esclusivamente per immagini fotorealistiche.
2. I pensatori schematici sono menti matematiche. Pensano per schemi invece che per immagini fotorealistiche. I pensatori schematici sono spesso bravi in programmazione informatica, ingegneria, fisica, musica e matematica. Questi bambini hanno di frequente problemi con la lettura.
3. I pensatori verbali posseggono una quantità di informazioni sugli argomenti che prediligono. Potrebbero eccellere in professioni come giornalista sportivo, contabile, ragioniere, guida o curatore di museo.
Acquisire abilità per la vita
A tutti i bambini, indipendentemente dalle loro prestazioni cognitive, vanno insegnate delle abilità di base come stringere la mano, vestirsi, essere puntuali, fare la spesa, cucinare e così via. Tra i bambini dello spettro autistico ad alto funzionamento e con pieno sviluppo del linguaggio, ne vedo troppi che sono iperprotetti. Nessuno gli ha mai insegnato a stringere la mano o a fare da soli un’ordinazione al ristorante. C’è la tendenza a fare troppo per loro. Molti bambini affetti da autismo severo, che non sono capaci di parlare, sono invece in grado di eseguire numerosi compiti.
Nel mio libro ci sono una quantità di suggerimenti su come gestire i problemi legati all’ipersensibilità sensoriale. A volte il bambino può essere desensibilizzato. Se si rifiuta di infilare le scarpe, provate a massaggiargli prima i piedi. Procurategli inoltre scarpe e calzini morbidi. Se il bambino odia i rumori forti, talvolta lo si può desensibilizzare lasciando che sia lui a scatenare per primo il rumore. Il clacson della macchina è un buon esempio. Il bambino lo tollererà meglio se sarà lui a premerlo e a controllarlo.
Trasmettere abilità per il lavoro
I bambini, che siano normali o nello spettro autistico, hanno bisogno di acquisire il senso della disciplina e della responsabilità derivanti dall’avere un lavoretto fuori casa a partire dai dodici anni. Se cominciano prima, tanto meglio. Anche il volontariato va bene. Alcune buone mansioni, utili per insegnare ai bambini le abilità per il lavoro sono: consegnare i giornali, portare i cani a passeggio, seguire siti web, aiutare in una fattoria o in un negozio. Negli Stati Uniti vedo troppi bambini che non hanno mai appreso delle abilità per il lavoro. Se è una cosa negativa per i normali, lo è ancor di più per i bambini nello spettro autistico.
Bisogna limitare il tempo dedicato ai videogiochi. Vedo troppi bambini in gamba diventare schiavi dei videogiochi al punto da non voler più né studiare né lavorare. Il tempo per i videogiochi non dev’essere più di un’ora al giorno. In conclusione, l’autismo ha forme molto diversificate che vanno dall’Asperger lieve ai casi più severi. Osservate ciò che è capace di fare vostro figlio. Concentratevi sui suoi punti di forza, anziché sulla disabilità. (traduzione di Laura Lunardi)
Autismo. Deligny: i bambini e il silenzio
di Enrico Valtellina (DoppioZero, 02 aprile 2016)
Che il fare elimini l’agire - come la coscienza occulta il reale - è un’evidenza che ci pone un dilemma insolubile: voglio parlare di quel “noi” che vive vicino ai bambini autistici.
Fernand Deligny, I bambini i loro atti i loro gesti: Esistono bambini mutacici, autistici, afasici?
La recente proliferazione assordante dei discorsi sull’autismo si è costituita attraverso la disposizione di opposti binari che organizzano le posizioni dei soggetti coinvolti, sul fronte diagnostico psicogenesi vs. disturbo dello sviluppo, su quello degli interventi metodologie educative comportamentali vs. psicologia dinamica, su quello delle soggettività genitori di persone “con autismo” vs. autistici, medicalizzazione vs. empowerment, e così via; c’è poi una storia canonica dell’autismo, iniziata negli anni quaranta del secolo scorso in Nord America e in Austria, condivisa da tutti quanti, con i suoi personaggi, di volta in volta buoni o cattivi, Kanner, Asperger, Bettelheim, Rimland, la Grandin, Lovaas, Rain Man, il cane ucciso a mezzanotte e infiniti altri. Ciascuno ha agio di dislocarsi rispetto all’oggetto culturale “autismo” secondo il proprio sentire. Poi ci sono i rimossi, i tentativi di pensare la stessa cosa in modo diverso. Tra questi un posto privilegiato va riconosciuto a Fernand Deligny.
Questa è la carta d’origine della nostra pratica che pone il tracciare agli antipodi dell’ascolto.
Per alcune settimane, uno di "noi" che viveva insieme con tre o quattro bambini mutacici ha trascritto scrupolosamente i loro "liberi" tragitti su fogli di carta trasparente posti su una carta del "territorio" senza confini.
Si trattava soltanto di trascrivere quei tragitti, per niente, per vedere, per non dover parlare di quei bambini, per eludere nome e cognome, per sventare gli artifici dell’“egli” che diventa di rigore non appena l’altro è parlato.
Fernand Deligny, I bambini e il silenzio.
Educatore di frontiera, si occupa di ragazzi problematici, psicotici e delinquenti, all’ospedale psichiatrico di Armentières, nel nord della Francia, prima e durante la seconda guerra. I suoi riferimenti teorici al tempo sono eterogenei, da Célestin Freinet ad Anton Semenovyč Makarenko; il suo primo libro, Graine de Crapule, è una manualistica dell’educatore attivo, già scritto nella forma poetica che contraddistinguerà tutta la sua produzione teorica successiva. Testo poi oggetto di autocritica, quando Deligny disconoscerà il ruolo dell’educatore, e quello catartico del lavoro.
Raccontando la sua vita, Deligny vanta l’arte dello schivare, del negarsi alla coartazione della posizione definita, dell’istituzionalizzazione delle pratiche, consuetudine dell’esquiver sistematico che ne ha determinato i percorsi nomadici attraverso una pluralità di situazioni di progettazione educativa, vagabondo efficace, come voleva i suoi ragazzi.
Negli anni asseconda molteplici progetti sulla gestione comunitaria delle marginalità, collabora con Henry Wallon, con cui dopo la guerra svilupperà il progetto della “Grande cordata”. Coltiva la passione per lo strumento cinema, è amico di Bazin, Marker e Truffaut, approda da Oury a La Borde. Ospite col suo gruppo, ma mai integrato nell’esperienza della pedagogia istituzionale.
Si trasferisce poi a metà degli anni sessanta nella proprietà di Guattari a Monoblet nelle Cevennes, sul massiccio Centrale, sud della Francia, progressivamente concentrando la propria attenzione su una specifica condizione, l’autismo grave con assenza di parola. Là rimarrà per il resto della vita, dando seguito ulteriore al progetto del lieu de vie, spazio di esistenza conforme alle necessità delle persone gravemente problematiche.
La vita rurale, quasi monastica, a Monoblet è rappresentata nella sua quotidianità in Ce gamin, là (sta su youtube), due livelli di vita distinti, il fare degli adulti e l’agire dei ragazzi, che si integrano e si schivano. Il fare orientato a un fine degli operatori coinvolti nella rete comunitaria, pastori, operai, non educatori, è interrogato dall’agire spontaneo dei ragazzi autistici in un ambiente. La distinzione tra fare e agire è centrale nell’elaborazione di Deligny, l’agire individua lo specifico della relazione al mondo dei piccoli autistici, svincolato da un orizzonte di finalità che organizza la vita, senza che ciò implichi un giudizio, piuttosto un’interrogazione sul fare.
Nella pratica di accudimento di Deligny non c’è spazio per il linguaggio né per l’emotività affettiva. Scrittore con stile, Deligny crede nelle risorse del linguaggio, e ne fa ottimo uso, ma mette in guardia dalla sua natura totalitaria, la lingua è fascista, secondo Roland Barthes (“La langue, comme performance de tout langage, n’est ni réactionnaire ni progressiste; elle est tout simplement fasciste; car le fascisme, ce n’est pas d’empêcher de dire, c’est d’obliger à dire”, Lezione inaugurale al Collège de France), prescrive, impone. Nella rete di Monoblet si usa poco. Prima o oltre la lingua, le tracce, la mappatura dei movimenti nell’ambiente. L’attenzione ai bambini mutacici si riprende in disposizione etica che si trasforma in interrogazione sull’umano, non sull’umanità dei piccoli autistici, ma sul fare finalizzato che occulta il loro agire, vi si sovrappone.
Il metodo non c’è (“Il ne s’agit pas de méthode, je n’en n’ai jamais eu”, in un’intervista apparsa nel 1967 nel numero 39 della rivista Partisans), la pratica si concreta in una fenomenologia selvaggia, rimozione dallo sguardo di quanto ecceda la volizione di un bambino in un ambiente di vita, e tracciatura di mappe che ne sedimentino i percorsi. Lignes d’erre, flussi e contrazioni, tracce e nodi: una semiologia non interpretativa. Deleuze e Guattari richiamano Deligny in relazione al rizoma, e in effetti il suo lavoro sulle mappe ne è diretta ispirazione. Riferimenti a Deligny ricorrono nelle opere proprie o congiute dei due autori, Critica e clinica, Dialogues, Mille plateaux. Così Guattari caratterizza il lavoro di Deligny in La révolution moléculaire:
Francoise Dolto e Maud Mannoni erano tra i clinici che inviavano i ragazzi a Monoblet, ma il rapporto di Deligny con la psichiatria e con la psicoanalisi è stato decisamente problematico. Il suo lavoro è a monte dell’intervento clinico, di cui criticava lo spirito individualista, è una disposizione all’osservazione non giudicante. Nulla di più distante dalle pretese riparative della Ego-psychology (ricorre nei suoi testi successivi agli anni sessanta il riferimento critico a Bruno Bettelheim, al tempo alfiere dell’intervento psicoanalitico sull’autismo). Distante è anche da Lacan, dalla omnipervasività del linguaggio (la formula lacaniana, ripetuta come mantra dai discepoli, secondo cui l’autistico è nel linguaggio ma non nel discorso). Sta poi agli antipodi delle ginnastiche educative comportamentiste e dello sguardo psichiatrico, che aveva conosciuto fin troppo bene negli anni ad Armentières.
All’asile come istituzione totale, quello di Asylums di Erwing Goffman, contrappone la disposizione a concedere asilo, nella risignificazione del termine è inscritto un ribaltamento dello sguardo. Benché venga considerato un ispiratore dell’antipsichiatria, il suo rapporto con gli spazi chiusi resta comunque ambivalente, il fastidio per le ondate di giovani studiosi, artisti, alternativi invitati a Monoblet da Guattari, è stato motivo di dissapori tra i due. Di fatto i lieu de vie sono luoghi separati, sia pure al fine di creare le condizioni per un’esistenza conforme alla natura dei suoi ragazzi, una rete di nicchie ecologiche per piccoli autistici. Comunista e libertario, diffida di qualunque mandato all’educazione, all’intervento “terapeutico” o alla redenzione attraverso il lavoro.
Negli ultimi testi si rileva una rarefazione progressiva dei riferimenti ai teorici dell’educazione, ai clinici, ai filosofi, mentre vi ricorrono quelli agli antropologi, in particolare Levi-Strauss e il suo allievo libertario Pierre Clastres. Il percorso teorico di Deligny si può sintetizzare come un allontanamento progressivo dall’intervento pedagogico verso una apertura non invasiva all’alterità, dall’educazione all’etnologia.
Rispetto all’autismo contemporaneo, di cui ho detto all’inizio, Deligny è la settima faccia del dado (titolo delizioso di un suo libro), un tentativo rimosso di definire la premessa etica su cui ogni intervento pensabile dovrebbe articolarsi. Ciò rende il suo progetto e la sua disposizione riguardo ai ragazzi autistici ancora oggi assolutamente interessanti, infinitamente più delle metodiche riparative attualmente egemoni. Liquidato troppo in fretta come poeta dell’educazione, Deligny merita di essere ripreso e riproposto come possibilità altra dalle tecnologie ortogenetiche di ogni scuola, potenzialmente iatrogene e sicuramente avvilenti, come sfondo etico ad ogni intervento, come vettore di innovazione reale nelle pratiche.
Sta di fatto che innovare non ha niente a che vedere con il trovare una soluzione. È forse semplicemente cambiare progetto, lasciar perdere il pedagogico o il terapeutico. Ed è proprio perché si tratta d’altro che l’innovazione può avvenire.
Chi ha paura della psicoanalisi
Quella "cura speciale" contro le terapie brevi
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 08.03.2012)
Dopo il "Manifesto" dei quattro autorevoli esponenti delle scuole principali, ecco un’altra riflessione sul tema Si parla di uno statuto diverso, ma non si invoca una sorta di riserva indiana per chi è incapace di "essere scientifico" È vero però che c’è un rischio di declino e di emarginazione culturale dovuti a certi irrigidimenti dottrinali Le accuse non considerano come la disciplina abbia una sua specificità rispetto al soggetto
Da diverso tempo si insiste nel voler riporre la psicoanalisi come teoria dell’uomo e come pratica della cura nel museo delle cere dell’Ottocento denunciando senza peli sulla lingua l’impostura del suo padre fondatore. Freud stesso fu il bersaglio di pesanti diffamazioni e non gli sfuggiva affatto che questi attacchi erano la diretta conseguenza del fatto che con la sua invenzione aveva portato la "peste" nella cultura e nella società occidentali.
Quale "peste"? La peste di una disciplina che dà parola a ciò che solitamente viene confinato, esiliato, rimosso dalla nostra esperienza comune del mondo: alla dimensione singolare e irripetibile del desiderio, alla sua forza sovversiva, a ciò che sfugge al governo della coscienza, a ciò che ci parla in una lingua straniera (nei sogni come nei nostri sintomi), alla fragilità delle nostre certezze, prima fra tutte quella di crederci degli Io solidi e compatti.
Recentemente, in un articolo di qualche settimana fa apparso sul Sole 24 Ore, titolato emblematicamente L’autismo dei lacaniani, Gilberto Corbellini si era fatto interprete di un nuovo attacco rivolto alla psicoanalisi in generale e a quella lacaniana in particolare. Quale l’accusa? Niente di meno di quella di abuso di professione: non avete i mezzi per curare l’autismo! Le vostre teorie sono bislacche e, soprattutto, non curano! In un altro articolo più recente, apparso domenica scorsa sempre sulle pagine del Sole 24 Ore, Lacan viene definito senza mezze misure un "impostore", attraverso il ritratto (forse un po’ semplificato?) che ne offriva Alan Sokal.
Strano modo di procedere quello di Corbellini; invoca la serietà dello spirito scientifico, la necessità per la psicoanalisi di sottoporsi alla prova e al rigore della valutazione, ma per liquidare Lacan come un impostore, egli si limita ad invocare un solo studio che evidenzia certe incongruenze nell’uso che Lacan ha fatto degli strumenti della topologia di fronte ad una bibliografia immensa ed in continua crescita dedicata alla sua opera.
In gioco, beninteso, non è solo la clinica dell’autismo (che è stato il movente di questo recente attacco); si tratta, più radicalmente, della proscrizione della psicoanalisi come possibilità di cura. Un esercito composito sembra esigerlo: la psicologia cosiddetta scientifica, le terapie cognitivo-comportamentali, l’industria dello psicofarmaco, la deriva iperpositivista delle neuroscienze, la psichiatria organicista, e, soprattutto, il "discorso del capitalista" che esige terapie le più brevi ed efficaci possibili per ripristinare il funzionamento dei suoi consumatori.
In risposta a questa ennesima aggressione quattro autorevoli psicoanalisti - rappresentanti delle correnti maggiori della psicoanalisi contemporanea - hanno firmato un testo a sostegno della nostra disciplina (come è accaduto su Repubblica il 22 febbraio scorso), definita giustamente a "statuto speciale". Non si tratta dell’invocazione di una specie di riserva indiana dove gli psicoanalisti - incapaci di dimostrare l’efficacia dei loro mezzi di fronte al rigore della validazione scientifica -, chiederebbero, alla pari di "omeopati, astrologhi, erboristi, eccetera", diritto di cittadinanza (Corbellini dixit). Questo Manifesto rivendica qualcosa di assai più profondo. La psicoanalisi è una scienza e una pratica a statuto speciale perché vuole essere una cura del soggetto nella sua particolarità. La cura offerta della psicoanalisi non è una cura tra le altre.
La cura psicoanalitica non è finalizzata ad aggiustare la macchina del corpo o del pensiero come avviene nella cura medica tradizionale. Nei sintomi in gioco non è un semplice disfunzionamento della macchina del corpo o del pensiero, ma la verità scabrosa, infima, bizzarra, deviante del desiderio inconscio del soggetto. Lo psicoanalista accoglie innanzitutto la parola del soggetto senza censure, senza pregiudizi o giudizi morali, senza aspettative, senza pretese normalizzanti, e, soprattutto, senza imporre ad essa la propria.
Dove si trova oggi qualcosa del genere? Il beneficio terapeutico di una cura analitica avviene solo in "sovrappiù", come si esprimeva Lacan, a questo riconoscimento del valore della parola del soggetto dell’inconscio. Non è già solo questo principio di fondo sufficiente per distinguere la cura psicoanalitica da qualunque altra forma di cura dove il curante tende fatalmente a porsi come padrone di un sapere già costituito che verrà applicato al paziente secondo schemi oggi sempre più protocollari? Dove ciò che cura è spesso il potere suggestivo di un padrone? Non è questo principio sufficiente a mostrare come la cura psicoanalitica sia ispirata dall’esigenza etica di a