Quel che resta di Freud
Settant’anni fa moriva il padre della psicoanalisi dopo aver cambiato per sempre non solo la cura della mente ma la nostra visione del mondo
Mentre scadono i diritti delle sue opere e c’è la corsa a ripubblicarle, Bollati Boringhieri rimanda in libreria i suoi capolavori curati dal grande Musatti
Ecco un bilancio di quanto dobbiamo all’uomo che disse che è il nostro inconscio a decidere per noi
La profezia del dottor F. saremo sempre nevrotici
Oggi la società della disciplina è diventata società dell’efficienza
La contrapposizione ben più lacerante è quella tra possibile e impossibile
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 03.01.2010)
A settant’anni dalla morte di Freud vien da chiedersi che cosa sopravvive della sua teoria e che cosa invece si è rivelato caduco. È questa una domanda legittima, ma che forse vale solo per le scienze esatte, dove verifiche oggettive e sperimentazioni sempre più approfondite consentono di validare o invalidare una teoria. La psicoanalisi non è una scienza "esatta", ma si iscrive nell’ambito delle scienze "storico-ermenutiche". E questo perché la psiche è così solidale con la storia da essere profondamente attraversata e modificata dallo spirito del tempo, che è possibile cogliere e descrivere solo con l’arte dell’interpretazione o, come oggi si preferisce dire, col lavoro ermeneutico.
Questo spiega perché, a partire da Freud, si sono sviluppati tanti percorsi interpretativi, approdati ad altrettante teorie psicoanalitiche, da cui hanno preso avvio le diverse scuole. In comune esse hanno il concetto di «nevrosi» che Freud, dopo aver rifiutato di considerare la nevrosi una malattia del sistema nervoso come voleva la medicina di stampo positivista in voga al suo tempo, ha trasferito dal piano "biologico" a quello "culturale".
Lo ha fatto definendo la nevrosi come un «conflitto» tra il mondo delle pulsioni (da lui denominato Es) e le esigenze della società (denominate Super-io) che ne chiedono il contenimento e il controllo. In questa dinamica è possibile scorgere il tragitto dell’umanità e il suo disagio che Freud condensa in queste rapide espressioni: «Di fatto l’uomo primordiale stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza». Questa interpretazione del disagio psichico, che sposta la lettura della sofferenza dal piano biologico a quello culturale, è la grande scoperta di Freud, tuttora alla base delle successive teorie psicoanalitiche che, per quanto differenti tra loro, rifiutano di reperire le spiegazioni della sofferenza psichica esclusivamente nel fondo biologico dell’organismo.
A questa intuizione Freud è giunto grazie alla sua assidua frequentazione della filosofia e in particolare di quella di Schopenhauer, che Freud considera suo «precursore»: «Molti filosofi possono essere citati come precursori, e sopra tutti Schopenhauer, la cui "volontà inconscia" può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi». Secondo Schopenhauer, infatti, ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la «soggettività della specie» che impiega gli individui per i suoi interessi che sono poi quelli della propria conservazione, e la «soggettività dell’individuo» che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti, che altro non sono se non illusioni per vivere, senza vedere che a cadenzare il ritmo della vita sono le immodificabili esigenze della specie.
Questa doppia soggettività viene codificata dalla psicoanalisi con le parole «io» e «inconscio». Nell’inconscio occorre distinguere un inconscio «pulsionale» dove trovano espressione le esigenze della specie, e un inconscio «superegoico» dove si depositano e si interiorizzano le esigenze della società. Sono esigenze della specie la sessualità, senza la quale la specie non vedrebbe garantita la sua perpetuazione, e l’aggressività che serve per la difesa della prole. Queste due pulsioni, proprio perché sono al servizio della specie, l’io le subisce, le patisce, e perciò diventano le sue «passioni», che la società, per salvaguardare se stessa, chiede di contenere, nella loro espressione, entro certi limiti.
Tra le esigenze della specie (Es o inconscio pulsionale) e le esigenze della società (Super-io o inconscio sociale) c’è il nostro io, la nostra parte cosciente, che raggiunge il suo equilibrio nel dare adeguata e limitata soddisfazione a queste esigenze contrastanti, la cui forza può incrinare l’equilibrio dell’io (e in questo caso abbiamo la nevrosi) o addirittura può dissolvere l’io sopprimendo ogni spazio di mediazione tra le due forze in conflitto, e allora abbiamo la psicosi o follia. La psicoanalisi, che per curare ha bisogno dell’alleanza dell’io, può operare solo con la nevrosi, aggiustando le incrinature dell’io, mentre è impotente con la psicosi, dove inconscio pulsionale e inconscio sociale confliggono corpo a corpo, senza uno spazio di mediazione.
Ma proprio perché la psiche è «storica» e perciò muta col tempo, non si può essere fedeli a questa grande intuizione di Freud, se non superando Freud, perché il suo concetto di nevrosi ben si attaglia a una «società della disciplina» dove la nevrosi è concepita come un «conflitto» tra il desiderio che vuole infrangere la norma e la norma che tende a inibire il desiderio. Oggi la società della disciplina è tramontata, sostituita dalla «società dell’efficienza» dove la contrapposizione tra «il permesso e il proibito» ha lasciato il posto a una contrapposizione ben più lacerante che è quella tra «il possibile e l’impossibile».
Che significa tutto questo agli effetti della sofferenza psichica? Significa, come opportunamente osserva il sociologo francese Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi (Einaudi), che nel rapporto tra individuo e società, la misura dell’individuo ideale non è più data dalla docilità e dall’obbedienza disciplinare, ma dall’iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L’individuo non è più regolato da un ordine esterno, da una conformità alla legge, la cui infrazione genera sensi di colpa, ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze mentali, per raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà valutato.
In questo modo, dagli anni Settanta in poi, il disagio psichico ha cambiato radicalmente forma: non più il «conflitto nevrotico tra norma e trasgressione» con conseguente senso di colpa ma, in uno scenario sociale dove non c’è più norma perché tutto è possibile, la sofferenza origina da un «senso di insufficienza» per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le attese altrui, a partire dalle quali, ciascuno misura il valore di se stesso. Per effetto di questo mutamento, scrive Eherenberg: «La figura del soggetto ne esce in gran parte modificata. Il problema dell’azione non è: "ho il diritto di compierla?" ma: "sono in grado di compierla?"». Dove un fallimento in questa competizione generalizzata, tipica della nostra società, equivale a una non tanto mascherata esclusione sociale.
Del resto già Freud, considerando le richieste che la società esigeva dai singoli individui, ne Il disagio della civiltà si chiedeva: «Non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, e magari tutto il genere umano, sono diventati "nevrotici" per effetto del loro stesso sforzo di civiltà? [...] Pertanto non provo indignazione quando sento chi, considerate le mete a cui tendono i nostri sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il gioco non valga la candela e che l’esito non possa essere per il singolo altro che intollerabile».
Alla domanda iniziale: cosa resta di Freud a settant’anni dalla sua morte? Rispondo: l’aver sottratto il disagio psichico alla semplice lettura biologica, l’averlo collocato sul piano culturale, l’aver intuito per effetto di questa collocazione che il disagio psichico si modifica di epoca in epoca, per cui compito della psicoanalisi, più che attorcigliarsi nelle diverse denominazioni delle nevrosi, è quello di individuare le modificazioni culturali che caratterizzano le diverse epoche, che tanta ripercussione hanno sulla modalità di ammalarsi «nervosamente».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KARL MARX E WALTER BENJAMIN: L’ "ODIO DI CLASSE" di EDOARDO SANGUINETI, oggi.
Freud, erede legittimo della propria epoca
Psicoanalisi. «Sigmund Fued nel suo tempo e nel nostro»: Elisabeth Roudinesco inverte la «leggenda» costruita da Ernest Jones
di Ivan Tassi (il manifesto - Alias, Domenica, 15.11.2015)
Un problema attende chiunque voglia tornare oggi a misurarsi con la vita di Sigmund Freud: nel corso dei decenni, una nutrita schiera di biografi non troppo scrupolosi si è ostinata a infrangere più volte il divieto con cui lo stesso Freud, prima di equiparare la pratica della biografia alla menzogna, si affrettò a negare al «pubblico» ogni «diritto» di parola sulla sua «persona». L’eccesso di commenti abusivi accumulati attorno alla carriera di Freud, per questi versi, avrebbe generato una moltiplicazione indebita e incontrollata di «fantasmi», che ci impedisce ormai di comprendere, come in un labirinto di specchi, «chi fosse veramente» il fondatore della psicoanalisi.
È su questi presupposti che Élisabeth Roudinesco apre l’ambiziosa biografia Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro (Einaudi, pp. XII-489,
Al contrario di quanto voleva farci credere Jones, Freud non coinciderebbe affatto con un «eroe della scienza», capace di voltare le spalle alla sua formazione positivista per poi «inventarsi tutto», dall’alto di uno «splendido isolamento» che nulla deve alla sua epoca. È stata invece quella stessa epoca a «costruire» e in qualche modo a guidare i passi di Freud; e per accorgersene basta imboccare il sentiero non battuto da Jones, inserendo «l’opera di Freud e la sua persona» nella «lunga durata della storia».
Non si può dire che l’applicazione di questa metodologia - ereditata dagli storici della scuola francese delle Annales, e già sperimentata da Henry Ellenberger fin dal 1970 - ci consegni risultati imprevedibili. Mentre ci invita a ripercorrere la carriera di Freud come una «saga» d’assalto, proiettata ad assoggettare le sfere della politica, della filosofia e della religione, Roudinesco ci restituisce l’immagine di un «conquistatore» refrattario ad ammettere i propri debiti intellettuali verso alcuni «nemici-amici» (come Josef Breuer e Wilhelm Fliess) e verso un «ambiente» che in definitiva avrebbe alimentato le scoperte della psicoanalisi, spesso accogliendole con benevolenza.
Ogni tappa della «rivoluzione terapeutica» freudiana si potrebbe per l’appunto giustificare, secondo Roudinesco, attraverso il ricorso al contesto storico. E se il pensiero di Freud, in questa prospettiva, troverebbe la propria matrice non nel più vicino positivismo, bensì nello spirito dei «lumi oscuri», dello Sturm und Drang e del «Romanticismo nero», l’origine della psicoanalisi andrebbe rintracciata nell’attenzione sociale rivolta fin dalla seconda metà del XIX secolo alla questione delle «donne isteriche» o della «masturbazione infantile»: persino l’invenzione dell’Edipo sarebbe da ancorare a un «ritorno ai tragici greci» che alla fine dell’Ottocento risultava «all’ordine del giorno».
Dal momento che simili connessioni sembrano in parte dettate dal desiderio di sabotare l’emblema di un Freud eroicamente isolato, e di imbrigliarlo a tutti i costi fra le maglie del suo tempo, conviene forse seguire il percorso biografico lungo le direttrici trascurate da Jones.
Autorizzata dalla tradizione delle Annales, che per bocca di March Bloch si raccomandava di coinvolgere nell’indagine storica ogni dettaglio della «vita quotidiana», Élisabeth Roudinesco si impegna sotto questo aspetto ad allargare a dismisura il campo d’analisi. Da una parte, la sua esplorazione ci introduce in casa Freud, per sfatare i pettegolezzi sull’entourage familiare, o per passare in rassegna la mobilia, le suppellettili e addirittura gli animali domestici che fecero da contorno alle grandi scoperte.
Dall’altra, l’itinerario si impegna ad aprire continue digressioni sull’inedito destino dei discepoli della psicoanalisi, dei suoi dissidenti e soprattutto dei pazienti che si sedettero sul divano di Freud, per registrare «i suicidi, gli errori, i resoconti delle cure» che Jones, nel tentativo di mettere in ombra gli «anti-eroi» dell’epopea freudiana, aveva passato sotto silenzio.
È in questo modo che il tragitto della biografia sembra andare incontro più alla dispersione che alla demistificazione. Sottoposta alla lunga durata della storia, e invasa dalla costante irruzione di personaggi gregari, l’avventura freudiana rischia di sfaldarsi ad ogni pagina in un reticolato policentrico di connessioni meccaniche, punti di fuga e percorsi paralleli. Non solo. Se da un lato il proposito di offrirci una immagine «meno aggrovigliata» porta Roudinesco ad allestire una biografia dove Freud, per la prima volta, viene spogliato del suo protagonismo, dall’altro quella stessa immagine, volta a sostituire la «leggenda eroica» fabbricata da Jones, non arriva ad appianare né a gettare sotto una luce davvero nuova le contraddizioni di cui continua a nutrirsi la «saga» del fondatore della psicoanalisi.
Restano infatti da sciogliere, sotto questo versante, soprattutto alcuni nodi cruciali del cammino di Freud, come il suo rapporto ambiguo e tormentato con l’ideologia della classe borghese, oppure la radice positivistica della sua formazione, qui neutralizzata a vantaggio di una componente più «faustiana» e romantica.
Al termine della ricognizione, vengono allora in mente le parole di Freud, che nel 1885, subito dopo aver distrutto la sua corrispondenza e i suoi manoscritti privati, proclamava alla fidanzata: «Che i biografi si arrovellino pure, noi non renderemo facile la loro fatica. Lascia pure che ciascuno di loro pensi che la sua ‘Concezione dell’Evoluzione dell’Eroe’ è quella giusta: già adesso mi diverto al pensiero di come se ne andranno tutti fuori strada».
Per ricostruire l’ambiente storico del fondatore della psicoanalisi mi ispirai a Le Goff
Intervista. "Insieme a Derrida organizzai nel 2000 gli Stati Generali della psicoanalisi: l’eco fu enorme, ma si spense presto"
di Fabrizio Palombi (il manifesto, Alias Domenica, 15.11.2015)
La sua biografia si aggiunge, oggi, ai numerosi studi già pubblicati in tutto il mondo su Sigmund Freud. Quale esigenza l’ha indotta a scriverla, e come riassumerebbe quel che differenzia il ‘suo’ Freud da quello di altri studiosi?
Avevo l’urgenza di studiare nuovamente Freud, in una prospettiva storica e perciò mi sono ispirata all’impostazione con la quale Jacques Le Goff ha scritto il suo libro su San Luigi, nel quale si mostra come il santo venisse pensato diversamente a seconda delle diverse epoche storiche. Volevo sottolineare la necessità e l’attualità di un nuovo «ritorno a Freud», che coinvolga, non tanto e non solo gli psicoanalisti, ma gli studiosi e il grande pubblico, oltrepassando sia le posizioni antifreudiane sia quelle idolatriche. Il mio lavoro intende evidenziare l’importanza della rivoluzione simbolica freudiana che ha inventato il soggetto moderno, il soggetto edipico.
Quando parla della necessità di un «ritorno a Freud», si richiama a una esortazione resa celebre da Jacques Lacan: in che modo la frequentazione dei testi dello psicoanalista francese ha influenzato i suoi studi su Freud?
Il ritorno di Lacan a Freud non riguardò la dimensione storica: il problema, piuttosto, era leggerlo in modo diverso da quello psicologizzante, in voga negli anni cinquanta. Non c’erano ancora, al tempo, studi approfonditi sull’ambiente viennese, mancavano circa vent’anni alla pubblicazione dello studio di Henri Ellenberger e non era disponibile il materiale conservato negli archivi della Biblioteca del Congresso di Washington, documenti che io invece ho potuto usare ampiamente e dei quali ho proposto un inventario. Un ritorno a Freud in chiave storica penso possa rappresentare anche una efficace risposta a quelle ricostruzioni diffamatorie che lo hanno descritto, di volta in volta, come cocainomane, dittatore, reazionario o filonazista.
Nella sua autobiografia, pubblicata nel 1994, lei descrive gli incontri con grandi intellettuali della seconda metà del Novecento: Lacan, Foucault, Althusser, Derrida. Quali sono i ricordi più significativi che associa a ciascuno di loro?
Lacan lo conoscevo benissimo sin da bambina, perché era un amico di mia madre, anche lei psicoanalista. Successivamente, la pubblicazione dei suoi Scritti mi permise di scoprire il clinico e l’intellettuale, che trovai straordinari. Non ho mai avuto una conoscenza personale di Foucault però ho seguito un suo seminario all’università di Vincennes: il suo duplice versante, di storico e di filosofo, gli trasmetteva un grande fascino. Althusser l’ho incontrato nel 1972: era un uomo adorabile, un amico che mi ha incoraggiato a scrivere e ha avuto un ruolo importantissimo nella mia vita. Derrida l’ho conosciuto più tardi, nel 1986, e l’ho stimato molto sebbene avessi inzialmente criticato severamente i suoi testi e il suo orientamento filosofico.
In dialogo con Jacques Derrida ha scritto un libro, intitolato «Quale domani?», il cui primo capitolo riprende la questione dell’eredità, molto cara al filosofo francese. Anche lei concepisce i suoi lavori storici, e dunque questa recente biografia di Freud, come un lascito necessario a orientare le nuove generazioni?
Derrida ci ha lasciato una grande eredità insegnandoci che il modo migliore per essere fedeli a un maestro è quello di essergli infedeli: bisogna essere capaci di ammirare e di criticare contemporaneamente un autore per scriverne qualcosa d’interessante. Una delle esperienze che più mi ha segnato, nel mio rapporto con Derrida, è stata l’organizzazione degli Stati Generali della psicoanalisi nel 2000. Ne risultò una formidabile discussione, con studiosi provenienti da trentacinque paesi: al momento l’eco fu enorme, ma poi, purtroppo, andò rapidamente ad affievolirsi.
Dopo, ho avuto la sensazione che gli psicoanalisti si siano ritirati dalla vita intellettuale e scientifica pubblica, rifugiandosi nelle proprie scuole, incapaci di rispondere, nel senso derridiano, alle grandi questioni poste dagli Stati Generali: è il sintomo di una più generale loro inadeguatezza a fronteggiare l’altezza delle trasformazioni del mondo contemporaneo. Hanno condotto battaglie molto giuste contro gli eccessi della psichiatrizzazione e quelli dei trattamenti farmacologici senza però riuscire a rilanciare un confronto culturale con i nuovi problemi e saperi che sono andati affermandosi negli ultimi decenni. Alcuni hanno pensato di trovare conforto nelle neuroscienze: una scorciatoia teorica alla quale non sono favorevole perché dissolve l’autonomia e la specificità della psicoanalisi. Altri hanno attuato una sorta di ripiegamento estetizzante e apolitico, dedicandosi soprattutto agli studi letterari. Oggi si accontentano di essere psicoterapeuti senza interessarsi più alle questioni storiche e teoriche.
Lei racconta di aver seguito le lezioni tenute da Gilles Deleuze, di cui ricorre quest’anno il ventennale della morte, poco prima dell’uscita dell’Anti-Edipo nel 1972: come lo ricorda?
Sì, sono stata un’allieva di Deleuze all’università di Vincennes: era un insegnante straordinario, che riusciva a far saltare ogni forma di dogmatismo. Non ero d’accordo con lui su molte cose e, in particolare, sulla sua proposta di interpretare l’inconscio come fabbrica e non come tragedia. Le tesi dell’Anti-Edipo, ferma restando la grandezza del libro e il valore della sua scrittura, sono secondo me piuttosto insostenibili.
La ricerca storica sul passato recente si avvale dell’analisi dei documenti ma anche della voce dei testimoni diretti. Quanto hanno contato per lei le fonti, e quanto i testimoni? E come pensa si potrà andare avanti nella ricostruzione storica, per esempio della Shoah, ma non solo, ora che la generazione dei testimoni si va estinguendo?
Oggi, in tutto il mondo, sono rimaste poche le persone che hanno potuto conoscere Freud nella loro infanzia. Nella mia biografia, le testimonianze dirette hanno contato pochissimo anche se mi sono avvalsa del grande lavoro fatto da Kurt Eissler che ne ha trascritte tante. Al contrario, nel lavoro che ho dedicato a Lacan, ho potuto contare su duecento testimonianze di persone che l’avevano conosciuto. Si teme che la scomparsa degli ultimi sopravvissuti alla Shoah possa provocare un indebolimento della memoria collettiva di questa immane tragedia. Credo si tratti di una paura infondata perché i testimoni hanno già raccontato le loro dolorose vicende, che sono state trascritte. Non credo assolutamente che la morte degli ultimi sopravvissuti ai campi di sterminio potrà agevolare l’antisemitismo.
Lei torna sulla sua avversione a ogni forma di discriminazione e, in particolare, all’antisemitismo, anche nel capitolo della sua biografia dedicata a Freud intitolato «Di fronte a Hitler». La recente pubblicazione dei «Quaderni neri» di Heidegger ha ridimensionato la sua considerazione del filosofo tedesco?
Sono serena di fronte a questa questione, forse perché non sono mai stata heideggeriana. Il nazismo di Heidegger era già conosciuto fin dal 1933 e questo ha provocato un dramma imponendo subito a Karl Jaspers, Hannah Arendt e ai contemporanei di Heidegger un’inquietante domanda: in che modo l’autore di Essere e tempo ha potuto trovare nel nazismo una consonanza con il suo pensiero? Nel secondo dopoguerra tentò di presentarsi come una vittima mentendo sul suo passato nazista, ciò che ne fa ai miei occhi una persona esecrabile: si atteggiava a vittima senza aver mai speso una sola parola sullo sterminio degli ebrei. Ma è grottesco che in Francia si debba affrontare un affaire Heidegger, ogni dieci anni. -Ciclicamente si sostiene che è stata nascosta la compromissione di Heidegger con il nazismo; ma è una mistificazione. Il brutto libro di Victor Farias, pubblicato nel 1987 e dedicato a questo problema, non deve essere letto solo come un attacco contro il filosofo tedesco ma anche contro Derrida, considerato come uno dei massimi esponenti dello heideggerismo francese.
I Quaderni neri aggravano la posizione di Heidegger non solo per il loro contenuto antisemita ma per la loro collocazione nella successione dei volumi delle sue opere complete. Facendoli stampare nell’ultima parte delle Gesamtausgabe Heidegger stesso ha contribuito a nazificare per la posterità la sua opera che, invece, può essere letta in un’altra luce.
Ho toccato questo problema in alcune pagine del mio libro riguardanti l’antisemitismo di Heidegger che, tra l’altro, detestava Freud, perché sosteneva fosse il fondatore di un modo di pensiero, incompatibile con quello dell’essere, che tendeva a spiegare ogni cosa in termini puramente istintuali. Non credo che la filosofia di Heidegger sia completamente indenne dalle sue scelte politiche, anche se, come ha detto Derrida, la si può leggere in un altro modo: a condizione farsi carico di questo problema spaventoso.
Sta per terminare il 2015, l’anno in cui il saggio freudiano sull’«inconscio» ha compiuto un secolo, segnando una svolta fondamentale nel sapere sull’uomo. A suo parere, esistono ancora, da un punto di vista teorico, margini di lavoro sul concetto di ‘inconscio’?
Sicuramente ce ne sono molti anche se non condivido alcuni di quelli al centro dell’attuale dibattito psicoanalitico. Penso, innanzitutto, alla questione dell’inconscio originario, un ‘oltre’ l’inconscio, che sarebbe all’origine della psicosi; è una prospettiva di ricerca che riconduce il dibattito sul trauma e la seduzione infantile a un’interpretazione giustamente abbandonata da Freud. Credo si tratti di una china pericolosa che ha condotto alcuni, come Jeffrey M. Masson negli Stati Uniti, a interpretare tutti i traumi infantili come effetti di abusi di tipo sessuale. Un altro tipo di ricerca sull’inconscio, molto attuale, lo interpreta in senso neurologico e cognitivo tentando di trovare nei neuroni la conferma di alcune ipotesi di Freud. Non credo sia una strada giusta perché si confrontano indebitamente oggetti di studio appartenenti a ambiti completamente diversi: di certo non è possibile trovare la sede dell’inconscio psicoanalitico nei neuroni.
SE L’IO CATTIVO ORDINA LA STRAGE
La doppia personalità esiste, e si scatena quando la coscienza perde il controllo. La passione per le armi, come nel caso di Napoli, è un sintomo che deve allarmare
di Umberto Galimberti (la Repubblica D, n. 941, 30 maggio 2015)
Condivido la diagnosi della neuropsichiatra, che mi pare corretta. Troppo spesso siamo sicuri della nostra identità, e questa sicurezza è tanto più solida quanto più rimossa è l’altra parte di noi stessi.
Il motivo della doppia personalità è presente nel mito, nella letteratura, nei flm, nella psicoanalisi, nell’immaginazione infantile (si pensi al "compagno immaginario" che i bambini inventano per dialogarci nei momenti di solitudine), in un gioco vertiginoso di ombre e specchi.
Come scrive Wendy Doniger in La differenza sdoppiata (Adelphi): «Le mitologie indù e greca abbondano di sdoppiamenti incentrati sull’identità di persone che in vario modo hanno subito una scissione. Queste storie affrontano problemi che interessano molte culture, compresa la nostra: quale risposta dare?». Questa domanda è ripresa da Massimo Fusillo in L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio (Mucchi Editore), secondo il quale: «Si parla di doppio quando l’identità di un personaggio si duplica: uno diventa due. A questo punto sorge l’interrogativo: come si fa a essere ciò che si è?».
È quanto accade per esempio in La prodigiosa storia di Peter Schlemihl di Adelbert von Chamisso (1814), La principessa Brambilla di Ernst Hoffmann (1820-1821), Il sosia di Fëdor Dostoevskij (1846), Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde di Robert Louis Stevenson (1885), Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891), La metamorfosi di Franz Kafka (1915). In questi romanzi è in gioco l’identità dell’Io, a proposito del quale Jacques Derrida scrive: «L’Io è sempre in certo qual modo uno pseudonimo», dietro il quale si agitano le più radicali domande su quel labile confine che delimita l’Io e l’altro da sé.
Si tratta di un confine che la psicoanalisi di Freud ha cercato di precisare distinguendo l’Io dall’Es e dal Super-io, mentre la psicologia analitica di Jung in qualche modo vi allude delimitando l’Io quale cerchio minore nel cerchio maggiore del Sé. Sempre in ambito psicoanalitico, lo studio più approfondito su questo tema è stato condotto da Otto Rank (Il doppio, Edizioni SE), per il quale il doppio è l’immagine rimossa di se stessi che, quando appare al soggetto, da un lato genera angoscia fino a incrinare la sicurezza della propria soggettività, dall’altro consente al soggetto di realizzare surrettiziamente i propri desideri più nascosti e rimossi, come il soggetto non oserebbe mai e come la sua coscienza non gli permetterebbe mai di agire. Ma quando la coscienza cala le sue difese, l’altra parte di noi stessi, con cui non facciamo mai i conti e mai ci rapportiamo, irrompe producendosi in gesti che noi tutti conosciamo nei nostri momenti d’ira, devastanti, quando non sono più controllati.
Quanto a coloro che detengono armi o si esercitano nei poligoni di tiro, ovviamente non è escluso che sia sottesa a questa passione, neppure troppo nascosta, la possibilità di uccidere. La stessa che anima i cacciatori che, per il piacer loro, privano noi tutti della gioia di vedere gli uccelli volare nel cielo e non consentono agli animali di abitare quei pochi boschi e foreste risparmiati dalla cementificazione. L’io cattivo, come lei lo chiama, già governa indisturbato l’io buono in molti di noi, e di volta in volta se ne vedono gli effetti devastanti, perché chi si rifornisce di armi o non rispetta la natura che ci circonda ha già di suo una natura governata dalla tentazione omicida. Che prima o poi può esplodere. La doppia personalità esiste, e si scatena quando la coscienza perde il controllo.
Il senso dell’uomo per l’infelicità
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 16 giugno 2010)
Se so che devo morire non capisco perché devo essere felice. La differenza tra l’uomo e l’animale sta tutta in questa consapevolezza, per cui l’infelicità è l’elemento costitutivo della condizione umana, che un tempo le religioni e oggi le psicoterapie o i ritrovati farmacologici cercano inutilmente di narcotizzare. Ma si può davvero pensare di reperire la felicità attraverso la negazione del tratto caratteristico della condizione umana? E allora, come scrive opportunamente Edoardo Boncinelli in Perché siamo infelici (Einaudi, pagg. 184, euro 14): "L’infelicità non è un accidente, è un destino".
Oltre a Boncinelli, che affronta il problema dal punto di vista genetico, il libro ospita gli interventi di eminenti psichiatri e psicoanalisti quali Maurizio Andolfi, Vittorino Andreoli, Eugenio Borgna, Bruno Callieri e Paolo Crepet che cura questa raccolta dei saggi, il cui intento è di smascherare i falsi rimedi che ogni giorno ci vengono proposti da quanti traggono profitto dall’infelicità diffusa, per vendere quelle che già Eschilo chiamava "cieche speranze (thuphlás elpídas)".
Con la chiarezza dello scienziato che non si fa incantare dalle cieche speranze, Boncinelli ci avverte che la natura ci genera per la continuità della specie e non per la felicità dell’individuo. Ma affinché gli individui non si demotivino una volta raggiunta questa consapevolezza, la natura provvede a quella serie di inganni che sono i desideri dell’individuo, i suoi progetti, i suoi investimenti, i suoi entusiasmi, particolarmente vividi nell’età giovanile che è poi la stagione più feconda per la generazione. "Resisteremmo infatti fino all’età riproduttiva - il traguardo che interessa alla natura - se non avessimo questa sorta di imbroglio da bambini, che non ci fa vedere perfettamente le asperità del mondo?" - si domanda Boncinelli e risponde: "Sono sicuro di no. Abbiamo una fase transitoria, ma lunga, di minore lucidità e ringraziamo Iddio. Altrimenti sono convinto che molta gente abbandonerebbe questo mondo ben prima della morte naturale"
A questa infelicità di base, che possiamo chiamare "biologica" se ne aggiunge una "culturale", determinata dal fatto che l’individuo promuove desideri, progetti, investimenti che, scrive sempre Boncinelli, sono "una molla alla base di tutta la civiltà e di tutta l’evoluzione culturale, ma anche una palla al piede, uno sconforto, uno sconcerto, un amplificare l’infelicità su tutta la vita", perché i nostri desideri sono quasi sempre sproporzionati alla nostra capacità di realizzazione, e lo scarto tra il desiderio e la sua realizzazione è la fonte di una nuova infelicità.
Su questo tema ritornano le bellissime pagine di Eugenio Borgna che, dopo aver esaminato tutte le forme patologiche di felicità e di infelicità, e i rimedi farmacologici che attutiscono i sintomi ma non danno un orizzonte di senso, affonda radicalmente lo sguardo sulla condizione tragica dell’uomo che non può vivere senza una produzione di senso, in vista della morte che è l’implosione di ogni senso. Colta nella sua dimensione abissale, questa infelicità non è curabile con i farmaci, ma è possibile attenuarla attraverso un’intensificazione delle relazioni interpersonali, da quelle affettive a quelle di cura, recuperando quel tratto costitutivo dell’essenza dell’uomo che la natura prevede come "animale sociale".
Ma che tipo di società è quella che ci circonda? Una società che ci riempie di oggetti da consumare, scrive Paolo Crepet, che stanno al posto di relazioni mancate. Una società che misura la felicità sui redditi invece che sulla circolazione dei sentimenti, fino al punto, sempre in nome dei redditi, di fare dell’infelicità un businnes. Infatti, scrive Crepet: "assistenti sociali, religiosi, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, filosofi, organizzazioni di volontariato, farmacologi, perfino le prostitute vedrebbero i loro ricavi ridursi se, d’un colpo o per magia, la maggior parte degli infelici cessassero di esserlo". Per non parlare poi del controllo sociale che trae un indiscutibile vantaggio dall’infelicità: "perché è più facile controllare persone rassegnate e impotenti, piuttosto che vitali e ideative".
Sull’infelicità collettiva vivono anche le religioni che "promettono una felicità post mortem", garantendosi in tal modo la sopportazione dell’infelicità su questa terra, fino a indurre a vivere i momenti di felicità con un mal celato senso di colpa, perché assaporare la felicità su questa terra potrebbe ridurre la fede nell’al di là. Ma, osserva opportunamente Crepet, non meno insidioso è il messaggio sotteso a ogni forma di pubblicità che, per invitarci a consumare, ci dice Life is now (la vita è adesso). E se la religione si alimenta di infelicità proiettando la felicità in un altro mondo, la cultura del nostra società, concentrandosi sul presente, esclude che il futuro della vita individuale e sociale possa essere migliore di quello attuale.
Ma se questa è la condizione umana, non è che per vivere bisogna frequentare e almeno in parte corteggiare la nostra follia? Questo è il messaggio dello psichiatra Vittorino Andreoli secondo il quale: "Per vivere bisogna essere fuori dalla realtà, essere dunque come i folli che l’hanno dimenticata, per poter sopportare di stare al mondo e di continuare a essere uomini, uomini senza senso, perché di fatto la condizione umana non ne ha alcuno".
Il congresso si svolge a bordo di una nave, da Savona a Palma di Maiorca
E ora la psicanalisi se ne va in crociera
Umberto Galimberti: "Sembra un viaggio in quella terra confusa che oggi è
la psicoterapia, in balìa dell’instabilità di cui il mare è una bella metafora"
di Luciana Sica (la Repubblica, 16.04.2010)
Il nostro mare affettivo: la psicoterapia come viaggio: titolo brillante per un congresso. Tanto più se si tiene in crociera. E parlare degli itinerari dell’anima e nel frattempo andare per mare sarà anche vista come un’idea mediatica, ma non sembra neppure così malvagia. Perché l’impressione è un’altra, se diversi terapeuti escono da cenacoli ristretti, e si mostrano per quello che sono: "veri" e variamente attrezzati ad affrontare il dolore, senza disdegnare la dimensione del piacere. È su una nave - da oggi a martedì prossimo - che la Federazione italiana delle associazioni di psicoterapia ha scelto di tenere il quarto appuntamento congressuale. Salpa da Savona, per attraccare a Barcellona, Palma di Maiorca, Ajaccio: alla fine le adesioni sono state circa 400 (familiari compresi).
L’idea è venuta alla presidente della Federazione, Patrizia Moselli, che difende la metafora legata al mare, assai più del possibile effetto di risonanza che neppure la fa inorridire: «Il viaggio rappresenta il "percorso" della psicoterapia, un’avventura interiore dalle rotte imprevedibili, l’apertura di nuovi orizzonti mentali». Nessun sopracciglio sollevato, nessun timore di facili battute? No, dice la Moselli: «La nostra è un’associazione di associazioni, con una visione non unica ma unitaria della psicoterapia. Tutti hanno trovato interessante creare uno spazio vitale per un confronto aperto tra modelli teorici e clinici diversi. E poi, perché dovremmo infastidirci, se si parla di noi?».
È vero che qui non si tratta di psicoanalisti più o meno "classici", anzi per la maggior parte dei loro diretti concorrenti: post-cognitivisti, o anche terapeuti della famiglia e della bioenergetica, comunque rappresentanti di approcci ben riconoscibili (cognitivo, corporeo, integrato, analitico-dinamico, sistemico, umanistico). In più si è sempre coltivato il sospetto che anche tra queste scuole ci sia una certa competizione - visto che il mercato della psiche non è poi un’astrazione. Ora invece si ritrovano a navigare nelle acque del Mediterraneo. Umberto Galimberti, outsider del congresso anche se ospite di gran fama, ha un suo punto di vista di segno comunque problematico: «La crociera a me sembra un viaggio in quella terra confusa che è oggi la psicoterapia, in balia dell’instabilità di cui il mare è una bella metafora. Approderà su qualche terra sicura? Penso di no perché, come già ci avvertiva Eraclito: "Per quanto tu cammini e percorra ogni strada, non raggiungerai mai i confini dell’anima, tanto è profondo il suo logos"». Domattina Galimberti terrà una relazione su «Il viaggio della psicoanalisi-psicoterapia: dalle origini romantiche all’età della tecnica», estranea all’intonazione delle solite litanie: «Nello scenario contemporaneo, dominato dall’efficienza e dalla funzionalità, l’anima - che si alimenta anche di ciò che razionale non è - soffre. E allora: o il ricorso agli psicofarmaci, o il cammino più arduo della conoscenza di sé che avviene anche attraverso una rivisitazione delle proprie idee. Senza un loro vaglio critico, non è consentito comprendere il mondo in cui viviamo e i suoi rapidi cambiamenti... Ad esempio, non è il caso di pensare che oltre all’"inconscio pulsionale" di cui ci ha parlato Freud si sia formato un "inconscio tecnologico", che a nostra insaputa ci governa e di cui le varie scuole di psicoterapia ancora non si occupano?».
Cinque giorni di interventi, workshop, lectures, sessioni parallele. Con un finale a sorpresa: una video intervista con Zygmunt Bauman (a cura di Rodolfo De Bernart), legata al dibattito conclusivo sul tema del narcisismo nell’era post-moderna della liquidità dov’è proprio la dimensione dell’intimità - il "reciproco coinvolgimento" - a rischiare il naufragio.
PAROLE COME PIETRE
LA VERGOGNA DI PARLARE SENZA VERGOGNA
di Tullio De Mauro (l’Unità, 03.01.2010)
Nella simpatica trasmissione di Corrado Augias, gli ospiti finiscono col parlare delle cose più varie. Nella puntata più recente Umberto Galimberti, già valente studioso di psicologia, è apparso ancora su un terreno suo quando ha cominciato a parlare di vergogna. In effetti si legge ancora utilmente l’articolo “vergogna” che scrisse molti anni fa nel suo bel «Dizionario di psicologia». C’è ancora il sentimento della vergogna? Conduttore e ospite sono scivolati verso la sociologia d’arrembaggio e hanno detto concordi che quel sentimento va scomparendo.
Del vero ci deve essere se in questi anni il francese ha avuto fortuna una nuova parola, riecheggiata in altre lingue: “extimitè”, il contrario di “intimità”, per indicare la propensione a esibire sfacciatamente momenti e atti della propria intimità fisica e sentimentale. E tuttavia vien fatto di osservare che l’esibizione sfacciata ha senso solo perché sfida un persistente senso comune di discrezione. Se l’intero pubblico fosse fatto da svergognati abituali non avrebbero audience trasmissioni che illustrano le recondite fattezze e assai private movenze di qualche grande fratello o sorella (i ladri, diceva Chesterton, sono i più convinti assertori del diritto di proprietà). E colpisce che personalità inclini all’esibizione del loro privato si segnalino per la loro abitudine, quasi un tic irrefrenabile, di gridare ripetutamente in pubblico fino allo spasimo «Vergogna! Vergogna! Vergogna» a interlocutori con cui non concordino. Dunque anche per loro il senso della vergogna non è ancora morto.
Nella trasmissione di Augias lo psicologo e ora filosofo
della storia si è avventurato a dire con aria grave:
«Del resto, l’etimologia della parola vergogna è “vereo
gognam”, temo la gogna». E qui le cose da ricordare
sono parecchie.
La prima, nota anche a studenti di
latino diligenti, è che in latino si dice “vereor” e non
“vereo” (il verbo è cioè un “deponente”).
La seconda è
che “gogna” non è parola latina, ma italiana moderna.
La terza osservazione è che “vergogna” (diversamente
da “gogna”) appartiene alle parole di più sicura
etimologia ed è la continuazione popolare del vocabolo
“verecundia”, un sostantivo latino tratto da
“vereri” (come “facundia” era tratto da “fari”, parlare).
Queste sono cose che si dicono con (appunto) un po’ di vergogna a causa della ovvietà che hanno per chiunque tenga a portata di mano, non diciamo un vocabolario etimologico (chiaro, accessibile, aggiornato è quello di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli), ma un qualsiasi buon vocabolario italiano. Sono cose banali e non è un peccato mortale ignorarle. Ma forse è una piccola vergogna, se si impiega e si dissipa l’autorità guadagnata in altri campi per spacciare notizie etimologiche senza fondamento.
Linea di confine
Non basta una strada
Craxi, tema ineludibile
di Mario Pirani (la Repubblica, 4 gennaio 2010, p. 23)
La diatriba toponomastica a dieci anni dalla morte di Craxi andrebbe messa da parte. Svilisce un dibattito ineludibile perché grava ancora sulle nostre attuali vicende e seguiterà a pesare fino a quando le reciproche accuse non saranno metabolizzate.
Basterebbe por mente al fatto, ai limiti di un paradosso mai davvero esplorato, che l’ultima scissione all’interno della sinistra, a partire da quella del 1921, è stata quella che ha visto una grossa aliquota di dirigenti e di elettorato socialista passare in blocco nelle file di Forza Italia.
Per chi, come il sottoscritto, ha da sempre giudicato del tutto stravolgente e inaccettabile l’entrata nell’arena politica del padrone delle Tv, sarebbe fin troppo facile unirsi al coro e bollare la deriva socialista come l’esito di una propensione antropologica al tradimento di classe, ad una conversione al berlusconismo, ad un mutamento genetico derivante per naturale ascendenza dal craxismo, E chiuderla ancora una volta qui. Senza mai fare i conti con l’altrettanto naturale e permanente antisocialismo che i comunisti e i post comunisti, si portano dentro la pancia da sempre, con zoologica continuità: da quando disprezzavano Turati e appellavano Pietro Nenni di social-fascista , fino alle recenti trasformazioni (Cosa uno e due, Pds e Pd) che ha visto svalutato e irriso ogni apporto socialista restato fedele alla sinistra, impersonato, per ricordare qualche nome, da Giuliano Amato e Giorgio Ruffolo, da Rino Formica e Giorgio Benvenuto, fino ai sindacalisti della Uil che aderirono al Pds, e così via. Sprezzati e messi da canto per una ragione di fondo: la permanenza di una scelta che respingeva il nome stesso di socialismo , (passaporto per l’Europa poi, smarrito per strada) ma impronunciabile per denominare il "nuovo" partito in Italia.
La spiegazione esiste: la scelta, da Berlinguer ad oggi, è rimasta sempre quella di privilegiare l’alleanza, fino alla fusione, con la sinistra cattolica e respingere l’unità con il socialismo democratico. Questo ha portato ad un riformismo azzoppato, timoroso di ogni ostilità sulla sinistra, da quella di Di Pietro a quella della Fiom, e, soprattutto, lo ha amputato della sua indispensabile funzione a difesa del laicismo, nello Stato e nella società. Come non capire che anche tutto questo ha contribuito alla deriva di milioni di socialisti verso la sponda d’approdo berlusconiana?
La questione di Craxi s’intreccia con tutto ciò . Non ho spazio per approfondirla qui. Annoto solo l’intuizione storica di una riconquista di uno spazio autonomo del Psi, succubo fino al 76 della preminenza comunista, avvalorata dal consociativismo berlingueriano con la sinistra Dc, era una necessità per l’Italia. Anche la dilatazione del deficit pubblico fu spinta dal consociativismo e dalla invadenza sindacale che ne derivava.
Senza autonomia e peso autonomo del Psi nel governo di centro-sinistra, non ci sarebbe stata la svolta storica della scala mobile e l’inversione di una inflazione devastante, così come non ci sarebbe stata una scelta europeista epocale, quando Craxi, al Vertice di Milano dell’85 impose il voto a maggioranza contro la Thatcher per passare al Mercato unico; così come fu decisivo il suo intervento per permettere contro il Pci, l’installazione degli euromissli in Italia a fronte di quelli installati da Breznev, puntati sull’Europa per ricattarla.
Per far questo occorreva un partito dotato anche di autonomia economica. Di qui la scelta rovinosa delle tangenti, gli arricchimenti, gli scandali nel clima di cinismo real politik inalberato dal Capo. il giudizio, però, si è squilibrato da una parte sola: tutta la vita italiana era condizionata dai costi impropri della democrazia: la Dc inponeva tangenti pubbliche, il Pci riceveva i soldi prima dall’Urss e poi delle cooperative. Ma il marchio dell’immoralità è finito solo su Craxi. Il codardo insulto sfiorò persino i miglioristi del Pci, accusati di filocraxismo. Una ingiustizia storica che duole ancora.